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Disastro privatizzazioni, il caso dell'ENEL

di Leonardo Mazzei

Mentre le nuove privatizzazioni affannano, ricominciamo a parlare di nazionalizzazioni. Per capire quanto sia necessario diamo uno sguardo alle privatizzazioni del passato, a partire dal caso da manuale del settore elettrico

svendesi aziende italiaNel governo qualcuno si è svegliato?

Su La Stampa di ieri campeggiava un titolo all'apparenza bislacco: «Orfini avvisa il governo: “Fiducia sullo ius soli e basta privatizzazioni”». La novità, che segnala pure una divisione nel governo, è tutta in quel «basta privatizzazioni». Ora, Matteo Orfini è un personaggio assolutamente modesto, ma dopo quarant'anni di «viva le privatizzazioni!» a reti unificate anche quel «basta» del neo-reggente del Pd qualcosa ci dice.

Insomma, la crisi del modello e delle politiche neoliberiste è ormai evidente a tutti. Perfino a chi quelle politiche le ha sempre sostenute fino ad oggi. Si pensi alla fallimentare idea renziana sulla «soluzione di mercato» in materia bancaria.

Ma cosa dice esattamente Orfini? Leggiamo:

«Prima di tutto, dobbiamo fare una discussione seria sull’economia. Purtroppo siamo tutti più vecchi e gli anni ’90 sono finiti: riproporre oggi come soluzione a un debito pubblico di oltre 2000 miliardi le privatizzazioni è sbagliato. Abbiamo piuttosto bisogno di rilanciare la funzione delle grandi imprese pubbliche e di capire come usare meglio in questo senso anche Cassa depositi e prestiti. Su questo dobbiamo discutere prima di procedere».

Fin troppo facile rilevare come questo primo segnale di ravvedimento sia del tutto tardivo. A poco serve chiudere la stalla quando i buoi sono scappati. Orfini forse non ne è informato, ma le «grandi imprese pubbliche» di cui parla non esistono più da un pezzo. E anche quando lo Stato mantiene ancora consistenti pacchetti azionari, come nel caso di Eni (30%) e di Enel (23,50%), parlare di «aziende pubbliche» è del tutto improprio. Queste sono ormai delle Spa da un quarto di secolo, operano prevalentemente all'estero e, non avendo più una mission pubblica, agiscono come qualunque altra multinazionale in base agli obiettivi del profitto e dei dividendi da distribuire agli azionisti.

Al netto della scelta tattica di smarcarsi un po' dalla linea Padoan, l'affermazione di Orfini va letta in rapporto alla discussione nel governo sulle privatizzazioni previste (e promesse all'Unione Europea) nel 2017: l'ultima tranche di Poste Italiane e quella delle "Frecce" di Ferrovie dello Stato. Inutile dire che per invertire la disastrosa rotta degli ultimi decenni serve ben altro: un deciso piano di nuove nazionalizzazioni nei settori del credito, dell'energia, delle telecomunicazioni, dei trasporti, nonché nei campi strategici di un'industria nazionale da rilanciare anche per questa via.  Ma questo è il nostro programma. Meglio, questo sarà necessariamente il programma di una nuova Italia che voglia risorgere sulle attuali macerie. La qual cosa va decisamente assai oltre l'orizzonte del luogotenente di Renzi.

Tuttavia, le sue parole critiche non sono le uniche sfuggite in queste settimane da quella congrega di liberisti ad oltranza che si ritrova alle riunioni di Palazzo Chigi. Segno che qualcosa scricchiola nei dogmi che hanno retto la politica degli ultimi decenni.

Il 9 febbraio, con un'intervista a la Repubblica, il sottosegretario Giacomelli iniziava a porre il problema della privatizzazione totale di Poste Italiane:

«È il momento di una riflessione approfondita sulla privatizzazione della seconda tranche di Poste». E ancora: «Le mie obiezioni sono note, già ai tempi del primo pacchetto. Ma ora siamo di fronte a uno scenario impegnativo: privatizzare un altro 30% entro l'anno. È giusto richiamare l'attenzione su rischi e implicazioni».

Dichiarazioni che contrastano con la linea ufficiale dell'esecutivo (leggi ad esempio QUI), ma che hanno trovato altre sponde nella compagine governativa.

Dieci giorni fa è stata infatti la volta del ministro Delrio a proposito di FS:

«Io ho dei problemi a privatizzare le Frecce con dentro il trasporto pubblico regionale dei pendolari».

Vedremo cosa seguirà a queste parole, ma è assai curioso che ci si ricordi solo ora di quel che significa per gli utenti di certi servizi il ritrovarseli privatizzati. Se, giustamente, più che giustamente, Delrio si preoccupa oggi delle decine di migliaia di pendolari che utilizzano le "Frecce", che dire degli oltre 30 milioni di utenti (oggi, si badi, "clienti"!) del servizio elettrico liberalizzato?

Apriamo dunque il capitolo delle conseguenze della privatizzazione dell'Enel e della liberalizzazione del sistema elettrico. Conseguenze che ritroviamo anche nel settore delle telecomunicazioni, dove si è verificata addirittura una cosa ancora più grave, dato che la privatizzazione del 1997 (governo Prodi) ha alla fine portato Telecom Italia (oggi Tim) sotto il controllo del gruppo francese Vivendi, con il brillante risultato di mettere un "monopolio naturale" nazionale come la rete telefonica nelle mani di un grande gruppo straniero.

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IDEOLOGIA NEOLIBERISTA
Come essi giustificavano le privatizzazioni: leggere per credere!

Ma torniamo al caso del settore elettrico, anche perché le cronache del terremoto e delle nevicate del gennaio scorso nel Centro Italia, molte cose ci hanno detto.

 

Speculazioni, bollette più care, peggioramento del servizio: il caso della liberalizzazione del settore elettrico e della privatizzazione dell'Enel

Per descrivere il disastro dell'accoppiata privatizzazioni-liberalizzazioni il caso dell'energia elettrica è probabilmente il più appropriato. Un vero esempio da manuale.

Per un trentennio, dal 1962 al 1992, dire energia elettrica era come dire Enel. Questa azienda - pubblica al 100% - aveva il compito di far fronte al fabbisogno energetico, assicurare il servizio, completare l'elettrificazione delle zone rurali. Nel luglio 1992, quaranta giorni dopo il celebre meeting clandestino sul panfilo reale Britannia* (gran cerimoniere l'ineffabile Mario Draghi), il governo Amato (insediatosi da pochi giorni) decideva la trasformazione in Spa di Enel così come di Eni ed Iri. Era questo il primo passo per arrivare alle successive privatizzazioni.

Ma per privatizzare bisognava operare in due direzioni: obbligare per legge l'Enel alla vendita di un consistente numero di centrali di produzione; liberalizzare il sistema elettrico, sia nel campo della produzione che in quello della distribuzione e vendita dell'energia. Diverso il caso della "trasmissione" (in pratica le linee e le stazioni ad alta tensione) la cui privatizzazione sembrò troppo anche ai folli liberalizzatori dell'epoca. Nacque perciò Terna, azienda rimasta sostanzialmente pubblica, grazie al controllo di Cassa depositi e prestiti, attraverso Cdp Reti. Tuttavia, siccome non bisogna farci mancar niente dell'attuale follia finanziaria, il 35% di Cdp reti (che possiede anche il 30% di Snam) appartiene adesso a State Grid Corporation of China, la più grande azienda di servizi elettrici del mondo, di proprietà dello stato cinese. Abbiamo così che, almeno dal punto di vista della proprietà, nel settore strategico delle infrastrutture per il trasporto dell'energia elettrica e del gas, il governo di Pechino conta quasi quanto quello di Roma...

Ma torniamo ad Enel. Nel 1999 il governo D'Alema concretizzava, con l'apposito decreto Bersani, il progetto di liberalizzazione. Esso includeva i criteri per la cessione delle centrali, imponendo la soglia massima del 50% per ciascun produttore, operazione necessaria affinché il monopolista pubblico non si trasformasse in monopolista privato. I soldi di quelle vendite non vennero perciò reinvestiti in Italia, bensì all'estero, con acquisizioni in ogni parte del mondo. Oggi Enel è attiva in oltre 30 paesi di 4 continenti, con una presenza particolarmente significativa in Spagna ed in America Latina. Realizza più del 50% del suo fatturato all'estero, mentre l'occupazione in Italia è scesa dai 118mila dipendenti dei primi anni '90 ai poco più di 30mila di oggi.

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Ci sarebbe molto da dire sulle modalità del percorso di liberalizzazione-privatizzazione, ma qui dobbiamo stare all'essenziale. E l'essenziale è presto detto. Tutte le promesse che furono alla base di quella scelta sono state puntualmente smentite dai fatti dei successivi 18 anni.

Si disse allora che avremmo avuto un servizio più efficiente, mentre tutti gli utenti (pardon, clienti!) sanno che si è verificato esattamente il contrario. Si disse che avremmo avuto bollette più leggere, mentre le cose sono andate in maniera del tutto opposta. Si volle far credere che "privato" avrebbe significato "trasparenza", mentre invece è ormai assodato come la Borsa elettrica sia il luogo privilegiato di speculazioni miliardarie a danno delle famiglie italiane.

Vediamo con ordine questi tre aspetti.

In primo luogo il peggioramento del servizio, un aspetto particolarmente sentito nelle zone rurali e di montagna, quelle che maggiormente risentono degli eventi calamitosi, dal maltempo ai terremoti. Il caso di quanto avvenuto a gennaio nelle Marche ed in Abruzzo è di per se illuminante. Certo che ci si è trovati di fronte ad una nevicata "storica", per giunta abbinata ad un significativo evento sismico. Questo è vero, ma è altrettanto innegabile che gli incredibili ritardi nel ripristino del servizio siano stati legati a due precisi fattori, entrambi riconducibili alle logiche della privatizzazione: la drastica riduzione del personale, i tagli draconiani alle spese di manutenzione delle linee.

Chi nega questo rapporto di causa-effetto o è disonesto al 100% o è del tutto fuori dalla realtà. La manutenzione delle linee (qui parliamo di quelle in media e bassa tensione gestite da Enel Distribuzione) è quella cosa che serve appunto a prevenire i guasti nelle condizioni più avverse, inutile lamentarsene solo dopo quando ormai è tardi per rimediare. Sull'insufficienza del numero degli addetti, poi, è inutile insistere, visto che quelli di oggi sono solo un quarto di quelli dell'Enel pubblica.

In secondo luogo le bollette, illeggibili e care. Se le bollette elettriche italiane sono tra le più care d'Europa, c'è un aspetto che grida semplicemente vendetta: la loro illeggibilità. Un fatto, evidentemente voluto, che consente di prosperare ai tanti operatori del "libero mercato", con le loro offerte (telefoniche e non) più che truffaldine. Già, il libero mercato! Come milioni di italiani hanno già avuto modo di sperimentare, le bollette liberalizzate sono sistematicamente più alte (minimo del 20%, ma si arriva a percentuali anche doppie) di quelle non ancora liberalizzate del Servizio di maggior tutela riservato ancora alle utenze domestiche ed alle piccole imprese, i cui prezzi sono fissati dall'Autorithy dell'energia.

Quando, nel 2015, la liberalizzazione delle bollette elettriche, così come di quelle del gas, avrebbe dovuto essere estesa a tutti, il governo fu costretto a rinviarla di tre anni al giugno 2018. Ufficialmente si ammise che un aumento secco del 20% (una stima semmai da rivedere verso l'alto) sarebbe stata troppo violenta, ed avrebbe posto evidenti problemi di consenso. Ma come, non avevano detto che il libero mercato avrebbe portato a ridurre i prezzi?

E invece, dopo lunghi anni di liberalizzazione tariffaria, e dopo quasi un ventennio di liberalizzazione della produzione e della vendita all'ingrosso, la conseguenza del libero mercato è un forte aumento dei prezzi! Adesso si cerca di traghettare gli utenti (oltre il 60% è ancora nel Servizio di maggior tutela, dove molti sono rientrati dopo aver sperimentato le delizie del mercato libero) al passaggio del 2018, attraverso il "pacchetto sconto" di Tutela simile. Una trovata pubblicitaria che, dopo quaranta giorni dal via, ha ottenuto poco più di mille (1.000) adesioni su oltre venti milioni di utenze interessate, segno che ormai ai vantaggi del libero mercato proprio non crede più nessuno!

In terzo luogo le speculazioni effettuate dai principali produttori grazie alla Borsa elettrica. Di questo vero e proprio furto si sono occupati diversi organi di stampa. Tra questi Il Fatto Quotidiano e Business Insider. Si calcola che nel solo 2016 queste speculazioni abbiano fruttato almeno un miliardo di euro, poi riversato ovviamente sulle bollette degli ignari consumatori.

Come avviene questa autentica truffa? Poiché l'energia elettrica non può essere immagazzinata, occorre che produzione e consumi siano costantemente bilanciati sulla rete nazionale. Finché l'Enel agiva come monopolista pubblico questo non aveva influenza alcuna sui prezzi. A quel tempo il problema era solo tecnico - quali centrali dovevano funzionare e con quale potenza nelle diverse ore della giornata. Adesso no, dato che la pluralità di soggetti impone un vero e proprio mercato dell'energia all'ingrosso, la cosiddetta Borsa elettrica.

In questa borsa, il bilanciamento - che non è più solo di potenza elettrica ma di prezzi in euro -  avviene in due fasi: il "mercato del giorno prima", che serve a disegnare all'ingrosso la curva della produzione del giorno dopo; ed il "servizio di dispacciamento" che serve ad equilibrare domanda ed offerta in tempo reale. E' qui, in questa seconda fase, che scatta il trucco dei produttori.

Leggiamo dall'articolo già citato:

«Proprio sul mercato del dispacciamento, tra aprile e giugno del 2016 si sono registrati picchi anomali di costi, con prezzi medi di 70 euro/MWh, contro i 40 euro/MWh del Mercato del giorno prima. Ma le punte massime di speculazione hanno toccato anche i 600 Euro/MWh! Solo ad aprile, per capirci, i maggiori costi del dispacciamento hanno superato i 300 milioni. Come ciò sia stato possibile è facilmente spiegabile: la gran parte dei produttori e dei trader hanno modificato le loro strategie nel Mercato del giorno prima, in modo da potenziare il loro potere di mercato (e la loro redditività) su quello secondario. Inoltre, hanno individuato i momenti nei quali, statisticamente, il Mercato di “riserva” registrava i suoi picchi. E ne hanno approfittato. Parliamo di decine di operatori, grandi e piccoli, che si sono seduti a un banchetto durato almeno tre mesi e hanno mangiato per oltre un miliardo! Tutti costi scaricati sulle bollette degli utenti finali. Cioè, noi consumatori».

Se i consumatori hanno pagato, chi sono invece gli speculatori che ci hanno guadagnato? Probabilmente un po' tutti i maggiori produttori, dato che in un settore come quello elettrico era inevitabile che al monopolista pubblico succedesse un ristretto oligopolio privato, formato da soggetti che possono mettersi d'accordo tra loro nel creare le condizioni su cui speculare, accordandosi poi anche sul prezzo del megawattora all'ingrosso. In ogni caso, riguardo alle vicende del 2016, l'Autorità per la Concorrenza (più nota come antitrust) ha aperto un procedimento nei confronti di Enel e Sorgenia. Nessuno pensi però che queste aziende rischino qualcosa di sostanziale. Al massimo una piccola multa, più probabilmente un inutile richiamo. Lorsignori lo sanno, ed i fatti del 2016 non sono certo stati un'eccezione, visto che simili speculazioni sono iniziate immediatamente dopo l'avvio della liberalizzazione e la relativa istituzione della Borsa elettrica.

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Conclusioni

Siamo partiti dalle modeste convulsioni dei modesti personaggi che calcano la scena politica attuale, per allargare il discorso sugli effetti delle privatizzazioni più importanti realizzate negli anni '90. Questo per farne comprendere la portata antisociale, ma anche il loro carattere prettamente speculativo. Credo che il caso del settore elettrico, sul quale sono stato costretto ad un minimo di discorso tecnico che può forse essere risultato pesante, sia assolutamente illuminante.

Ma enormi sono stati i guasti provocati un po' in tutti i settori interessati ai processi di privatizzazione-liberalizzazione. Si è già accennato al settore del gas, ai disastri compiuti con Telecom, ma potremmo continuare con Poste Italiane, dove il servizio è già peggiorato e rischia di peggiorare ancora se l'ultima tranche verrà davvero venduta dallo Stato. Un atto che, anche se non immediatamente, rischierebbe di mettere i risparmi di milioni di famiglie italiane nelle mani dei grandi fondi d'investimento stranieri con esiti facilmente immaginabili. Del resto, già con la vicenda dei fondi immobiliari, anche in Poste Italiane si sono visti da tempo gli effetti del dominio della finanza speculativa.

Che dire poi dei trasporti? Tutti sanno quel che ha significato per i pendolari la trasformazione in Spa di FS. Ma, sempre in questo settore - e senza dimenticarsi i disastri del Trasporto pubblico locale e dei costi autostradali -, come non ricordare l'emblematico caso di Alitalia?

Proprio oggi i lavoratori del trasporto aereo sono in sciopero. A fronte di un aumento costante del traffico aereo, negli ultimi 10 anni sono stati 22mila i licenziamenti nel comparto aereo-aeroportuale. Di questi oltre 12mila solo in Alitalia. Ma nonostante questi tagli, ovviamente presentati come il prezzo da pagare ai "salvatori privati" per ottenere il risanamento della società, l'ex compagnia di bandiera è ad un passo dal terzo fallimento in nove anni. E le perdite registrate dalle varie gestioni private, che si sono succedute in questo periodo, sono superiori a quelle della vecchia compagnia di Stato.

Un disastro che dovrebbe insegnare qualcosa. «E’ ora che il Governo decida di rilanciare il comparto, rimettendo in discussione le privatizzazioni», ha scritto in maniera più che opportuna la Cub Trasporti.

Bene, è davvero ora che si cominci a parlare seriamente del nuovo piano di nazionalizzazioni necessario al Paese. Necessario non solo per difendere lavoratori e consumatori, ma per porre le basi di un rilancio economico effettivo. Ovvio che lo si potrà fare solo uscendo dall'euro e riacquisendo la sovranità monetaria. Altrettanto ovvio che sarà questo uno dei terreni decisivi di una ricostruzione economica che ha nell'uscita dalla moneta unica solo la prima indispensabile premessa.


NOTE
* Alla riunione sul Britannia parteciparono, insieme ad un bel po' di pescecani della finanza internazionale, diversi big del mondo bancario e di quello imprenditoriale del nostro Paese. Naturalmente non fu l'unico luogo dove si discussero i termini delle privatizzazioni italiane. Di certo però - la tempistica è lì a dimostrarlo - fu quello che dette il via a quell'enorme processo di svendita: negli anni novanta l'Italia ebbe infatti il poco invidiabile record mondiale delle privatizzazioni.
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