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Sinistra plurale contro il moderatismo

di Alberto Burgio

Il blocco di forze che ha vinto nel 2008 si è dissolto ma il quadro politico è sospeso in un falso movimento. Berlusconi e Bossi difendono il governo, il Pd e le forze maggiori del nuovo centro (Fli e Udc) lavorano per un esecutivo "tecnico" ma temono che questa ipotesi si allontanerebbe se fossero loro a staccare la spina. Tutto ciò blocca lo sviluppo della crisi.

Al di là del braccio di ferro tra i partiti, il problema però è un altro. Anche se il piano di Bersani, Fini e Casini andasse in porto, la partita la vincerebbe ugualmente la destra. Di che si tratta infatti quando si immagina una riedizione del governo Ciampi? Che cosa sarebbe la «scossa all'economia» invocata da D'Alema, se non il ritorno alle politiche "modernizzatrici" degli ultimi vent'anni (privatizzazioni, soldi alle imprese, precarizzazione) grazie alla rinnovata unità sindacale sulla linea Bonanni-Marchionne? In sostanza, berlusconismo senza Berlusconi. Tenuto conto della situazione attuale (livelli di disoccupazione e di povertà), pura macelleria sociale. Visto che sono in voga i paragoni storici, la sintesi è che l'Italia è a rischio di franchismo: sepolto il duce, la destra conserverebbe a lungo l'egemonia sociale, politica e culturale.


È un paradosso che sia il Pd a sponsorizzare questo esito? Forse no, se si considera la cultura politica del gruppo dirigente democratico, in particolare della sua componente post-comunista.

Facciamo un passo indietro, agli anni a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta. In quel periodo avviene in tutto il mondo capitalistico un fatto di primaria importanza: cade (per diversi fattori: dal salto tecnologico all'aumento del prezzo del petrolio, alle conquiste salariali ottenute dalle lotte operaie) il saggio di profitto del capitale industriale. È questa, in ultima istanza, la causa strutturale della brusca fine del compromesso socialdemocratico e della vittoria della rivoluzione reazionaria di Reagan e Thatcher, importata in Italia con la "marcia dei quarantamila".

Che succede nella sinistra politica e sindacale in tutto l'Occidente capitalistico quando matura questo scenario? Questo è il punto. I gruppi dirigenti del movimento operaio, della socialdemocrazia e del partito comunista italiano non imboccano la strada del conflitto ma quella delle «compatibilità». Il capitale attacca (riducendo i salari e la base produttiva e smantellando le conquiste dei lavoratori) e la sinistra risponde introiettandone le ragioni. Sacrifici, responsabilità, concertazione sono la «modernità». E il passaporto per il governo. Questo è l'orizzonte storico dentro il quale si forma la soggettività dei gruppi dirigenti che decidono la politica della sinistra politica e sindacale in Europa negli ultimi trent'anni. La coazione a ripetere sottesa alla proposta del governo tecnico non è che lo sviluppo lineare di questa mutazione genetica.

Vedere le cose in prospettiva storica aiuta a capire il presente e a non sorprendersi di ciò che è del tutto comprensibile. Forse serve anche a impostare correttamente il problema del che fare per uscire da questa fase storica.

La questione della rinascita della sinistra si pone oggi in termini opposti (molto più complicati) rispetto agli anni Sessanta e Settanta. Allora, a spingere per la trasformazione c'era una vasta base sociale, nata nel fuoco di conflitti che procuravano reddito, welfare e conquiste democratiche. La formazione della dirigenza politico-sindacale e intellettuale del movimento di classe fu il risultato di questa dinamica e del circolo virtuoso tra conflitto sociale e conflitto politico. Ai giorni nostri questa base sociale manca. Lo sfondamento capitalistico è passato come un rullo compressore sulla soggettività operaia. Prima ha sterminato le avanguardie di classe, poi ha consolidato il potere dell'impresa liberalizzando i movimenti di capitale, delocalizzando le produzioni e generalizzando la precarietà. Ne segue che oggi la dirigenza politica deve, per così dire, nascere da sé. Ed è necessario che nasca, perché dopo trent'anni di cosiddetto neoliberismo c'è una conflittualità diffusa ma - a dispetto delle illusioni negriane - debole e dispersa («passiva» nel senso di Gramsci). Ha pienamente ragione il segretario generale della Fiom quando dice che la piazza del 16 ottobre ha bisogno di rappresentanza politica. Ne ha bisogno e la chiede con forza.

Da tutto questo è possibile trarre due conseguenze per quanto riguarda la questione politica cruciale dei rapporti a sinistra.

Le «due sinistre» esistono eccome. Il dialogo tra loro è più che mai necessario, ma implica chiarezza e conoscenza delle rispettive posizioni. Ignorare o sottovalutare differenze radicate nei vissuti e nelle culture politiche varrebbe soltanto a trasformare un dialogo difficile in un dialogo tra sordi che non servirebbe a nessuno. L'altra conseguenza riguarda quanto resta della sinistra di alternativa e investe la responsabilità dei gruppi dirigenti. Per stare allo scenario italiano, è necessario che le forze anticapitaliste siano consapevoli della propria autonomia strategica e, per ciò stesso, della necessità assoluta di riguadagnare massa critica per far pesare le proprie istanze nel confronto con la sinistra moderata. È questa la ragione per cui non ci sono alternative al percorso unitario: alla costruzione di una sinistra plurale che nulla tolga all'autonomia dei diversi soggetti. Altrimenti Berlusconi potrà anche cadere, ma la musica di certo non cambierà. E allora entrare nuovamente nell'orchestra sarebbe solo un'ultima e forse definitiva sconfitta.

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