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La piazza e la politica

di Angelo d’Orsi

Possibile che in questo Paese le contestazioni, a un singolo, a un partito, a un governo, si possano fare solo nei salotti televisivi? Che la sola dialettica consentita sia quella di “Porta a Porta”? Che due uova o qualche urlo scagliati contro un dirigente sindacale o un ministro siano da considerarsi alla stregua di un’azione terroristica? Possiamo accettare una reductio della democrazia all’aula parlamentare? Ma non è nell’agorà che essa nacque, nell’antica Grecia? Agorà: piazza, il luogo dove i cittadini si riunivano per discutere e deliberare.

Certo, oggi la democrazia diretta, assembleare, è stata soppiantata da quella rappresentativa, parlamentare; ma nella stessa forma di governo democratica, come ricorda anche la nostra bella Costituzione, i cittadini concorrono a determinare la vita pubblica, attraverso i partiti, ma anche i sindacati, le associazioni e le libere unioni tra singoli in vista di determinati obiettivi, e manifestano liberamente le loro idee in tutti i luoghi idonei (nei limiti della legge): ed è difficile negare che una piazza sia inidonea.


Quale luogo migliore dello spazio pubblico per eccellenza, la piazza, appunto? Piazza, naturalmente, è parola che indica un luogo fisico, ma anche una metafora: piazza è via, strada, corso, giardino. Indica la città, che a sua volta è un luogo fisico ma è altresì un luogo politico: è la polis, appunto. Il luogo dove è nata la politica, circa 2.600 anni or sono. Dove si è cittadini in quanto si discute di come sia meglio convivere in una comunità, di quali siano le scelte più giuste per fare stare meglio le persone che vi vivono, di quali possano essere le soluzioni ai problemi che vengono via via ravvisati; si discute di pace e di guerra, di riposo e di lavoro, di costruzioni e distruzioni, di edifici e di alberi e quant’altro costituisce la fisionomia e la vita di una comunità.

Meditavo a tutto questo leggendo e ascoltando i commenti alle manifestazioni di ieri, a Roma e un po’ dappertutto. Ovviamente, e fermamente, dissento da ogni gesto di violenza contro persone e cose, e chiunque lo commetta non avrà il mio plauso, ma la mia riprovazione. Presentare tuttavia quelle manifestazioni, specie quella nella capitale, come un attacco condotto da un esercito di Black Block, mi pare una scempiaggine. E che lo faccia anche “il maggior partito d’opposizione” è un segno di debolezza: si deve cercare di capire, più e prima di condannare, le manifestazioni “di piazza”, anche quando in essa si scateni la violenza; che, pur essendo del tutto al di fuori dal mio universo morale e politico, è, direi, persino ovvia, in determinate situazioni politico-sociali e dunque lecita sul piano politico.

Anche il popolo parigino che prese d’assalto la Bastiglia il 14 luglio 1789 fu violento; violenza c’è stata in migliaia di circostanze un po’ ovunque nei secoli. E sempre questa violenza è reattiva, non tanto o non solo perché di fronte a chi la mette in atto vi siano soldati o poliziotti (che, lo sappiamo, sono spesso “proletari in divisa”, ai quali si cerca di non far giungere la verità sulle classi dominanti che essi sono obbligati a proteggere; ma anche nella polizia esistono le strategie della provocazione, come ci ha insegnato Cossiga buonanima, e non manca, ahinoi in troppi agenti, una vera libidine di colpire chi manifesta in piazza); ma la violenza reagisce altresì a una violenza diffusa, molecolare, che si realizza giorno dopo giorno, specie in quest’ultimo governo Berlusconi, nell’attacco ai ceti più deboli, cercando di eliminare garanzie, tutele, diritti conquistati con lotte secolari, con lacrime sudore e sangue; o creando nuovi poveri di fronte a “vecchi ricchi” che aumentano le loro ricchezze.

Reagisce, la piazza, anche magari ricorrendo a qualche gesto violento, a due altre piazze: quella parlamentare, che in Italia è particolarmente screditata, come si è visto ieri l’altro nella penosa esibizione della Camera e del Senato; ma anche alla piazza che oggi conta di più, quella mediatica, l’agorà televisiva, dove ci tocca, quotidianamente, rivedere gli stessi figuri che blaterano in Parlamento, poi rilasciano dichiarazioni davanti a telecamere compiacenti per tg di regime e, la sera, appunto, ce li ritroviamo, altercanti, ululanti, reciprocamente ingiuriosi, ripetere luoghi comuni.

Del resto, non abbiamo assistito a scene pietose nelle auguste aule delle due Camere? Non soltanto scambi di epiteti pesanti, ma veri e propri assalti fisici, che gli addetti spesso fanno fatica a contenere. Non ci è ancora scappato il morto, forse, soltanto perché, in definitiva, le armi sono proibite.

E allora, può giungere da codesti signori la reprimenda sulla violenza di piazza? No. Che poi nella piazza, come in ogni luogo e momento di tensione sociale, dalle partite di calcio agli scioperi, fino alle rivoluzioni, si infilino i cultori del gesto esemplare, i confusionisti che scambiano una filiale di banca per il cuore del potere capitalistico, quelli che ritengono di risolvere problemi personali distruggendo una fermata d’autobus, o semplici teppisti, è del tutto normale. E’ sempre accaduto. Ma questo non può portarci a guardare con diffidenza alla piazza, o a criminalizzare le manifestazioni, anche quelle in cui si alza la voce o si arriva al confronto duro. Se aspro è lo scontro sociale, se i subalterni - dai cassintegrati o i licenziati delle tante fabbriche chiuse da “fallimentatori” di professione, ai troppi precari della ricerca, dai migranti ridotti in semischiavitù ai pensionati che hanno ricevuto l’umiliante beffa della “social card”… -, si ribellano nelle piazze, ci si può poi stupire? Anzi, la mia impressione è che questo non sia che l’inizio. Ce n’est qu’un début…

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