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Trasformare i gilet gialli in una scommessa politica

Appunti di inchiesta di un intervento all'interno dei nascenti gilet gialli italiani

di ***

foto 756933 908x5600. A due mesi dall'inizio della mobilitazione dei Gilet Jaunes francesi, l'intensità e i numeri scesi in piazza sembrano tenere, scavalcando le vacanze natalizie senza particolari ansie e rispondendo colpo su colpo ai tentativi di repressione da una parte e agli ammiccamenti governativi in cambio di qualche briciola dall’altra; anzi la percezione dal di qua delle Alpi è che si viva un costante sviluppo e articolazione della lotta. La forza che il movimento dei Gilet Jaunes ha espresso e sta tuttora esprimendo in Francia, ha suscitato interesse anche nel nostro paese, facendosi catalizzatore del malcontento sociale latente.

Malcontento, frustrazione e rabbia che per ora, con crescenti difficoltà, il governo gialloverde sta riuscendo a trattenere, lasciando però già intravedere le prime crepe.

Il largo ventaglio di protesta che il gilet rappresenta ha posto al centro una critica radicale al modello di sviluppo economico, di gestione del potere decisionale “democratico” statale e alla qualità della vita. Questioni che soprattutto dall'inizio della crisi a oggi attraversano trasversalmente buona parte del continente europeo e del mondo, incarnandosi di volta in volta, di paese in paese, in alternative politiche anche di segno opposto, ma attingenti da un comune bacino.

Questa casacca, divenuta segno distintivo di appartenenza nel suo carattere inter-generazionale, post-ideologico e socialmente ricompositivo in termini di composizione di classe, incarna e supera quello che la maschera di Anonymous avrebbe voluto rappresentare.

Guardando all’esplosività che sta esprimendo il gilet giallo, senza lasciarci ammaliare da scorciatoie rettilinee, riteniamo che scommettere sulle possibili faglie di rottura sia comunque opportuno. Tentare un intervento politico e di costruzione materiale ci sembra tanto arduo quanto produttivo, quantomeno sul livello di preziosa inchiesta che questo spazio ci permette.

1. Sull’onda delle mobilitazioni francesi abbiamo visto un proliferare di pagine e spazi virtuali di aggregazione attorno al simbolo in giallo. Sfruttando prima il canale virtuale e iniziando poi a incontrarci fisicamente, abbiamo iniziato a stringere rapporti in assemblee territoriali nel contesto padano in cui siamo inseriti, sia a livello cittadino sia su quello provinciale. Al momento possiamo parlare solo di alcune “sezioni” e/o casi esemplari di una composizione sociale quantomai complessa. L’impressione è quella di trovarci di fronte ad una tensione che, gilet giallo o meno, cova e tenderà ad acuirsi costantemente. Le sfumature che già ora la compongono sono molteplici, diverse e a tratti contraddittorie, ma ci sembrano ben più interessanti i tratti comuni che fanno emergere una radicalità intrinseca o cosciente. Su queste sollecitazioni ci soffermiamo e proviamo a ragionare.

Il nucleo (territoriale e nazionale) che ha dato il via all’aggregazione italiana è composto soprattutto da “ex forconi traditi”. Da una parte ci dimostra ancora una volta la rilevanza di quella mobilitazione - al di là di sterili e schizzinosi etichettamenti - in termini di composizione sociale scesa in piazza e di istanze di rottura netta che, con forze e a livelli alterni, avevano attraversato la penisola. Dall’altra ci parla di una certa sedimentazione di soggettività che lontana dai nostri sguardi ha continuato a germinare ampliando la forbice tra un noi (riconosciuto tra chi si è mobilitato) e un loro.

La questione che abbiamo spesso definito antipolitica qui esplode in tutta la sua forza in punte di radicalità profonde, traducendosi in termini anti-istituzionali, di crisi e critica della democrazia liberale, della rappresentanza e del sistema partitico, fino al sistema più in generale. Si tratta di elementi spesso agitati politicamente (e ideologicamente) all'interno dei nostri ambienti che qui si incarnano in dimensioni reali. La democrazia rappresentativa diventa sinonimo di potere privato e interesse particolare in mano ai soliti noti(e qui sentiamo giàl’irritazione sdegnatadel sincero democratico, peggio per lui); ma non sorprende guardando l’andamento politico/parlamentare degli ultimi anni, le storie di corruzione, la lineare razionalità tra destra e sinistra. Sebbene si oscilli a tratti in modo confuso, si aprono scenari interessanti in quanto non ricomponibili con il sistema di potere attuale.

Quella dei gilet gialli, per il potenziale ricompositivo emobilitativo (e per alcuni di voti) che esprime, è certamente una preda appetibile per i gruppuscoli neofascisti pronti a cavalcare l’onda; vien da sé. Succede in Francia dove la mobilitazione c’è, succede qui dove si vorrebbe che ci fosse. “Contendere spazio e terreno sociale ai fascisti” rimane l’imperativo; con quali strumenti è la domanda. Riuscire ad arrivare prima di loro, conquistarsi fiducia e rapporti, sapersi porre al livello della composizione e dialogare con essa per non essere obbligati a rincorrere. Riporto un breve esempio con cui abbiamo dovuto fare i conti: in una riunione a cui abbiamo partecipato ci siamo trovati a condividere la sala con alcuni militanti di FN. Inutile sottolineare il disagio, più utile capire come sovrastarli, renderli inoffensivi e cacciarli in un contesto dove non era possibile utilizzare altre pratiche antifasciste. Allo stesso tempo se avessimo fatto un discorso sull’antifascismo in una sala con una platea estremamente eterogenea avremmo arenato la discussione su un piano di scontro ideologico che pochi avrebbero potuto comprendere fino in fondo e che, ci piaccia o meno, avrebbe annoiato i più, se non addirittura infastidito. O ancora spezzato l'assemblea (probabilmente a nostro sfavore?). Fare leva sull’incompatibilità del “movimento” dei gg con partiti politici di ogni sorta è stata la mossa più efficace per cacciarli (e soprattutto farli cacciare). In altre parole rendere politica quell’antipolitica di cui prima. Ciò non significa che il problema non si riproporrà, ma ci dà chiavi di lettura e di azione capaci di dialogare, farsi capire, costruire rapporti di fiducia, a seconda delle situazioni. Il problema del “come porsi”, e quello successivo di “quale direzione dare”. È nel processo di lotta poi che si gioca la posta in palio.

Il punto su cui ci siamo interrogati maggiormente è quello che potremmo definire pragmatismo post-ideologico della composizione sociale. In altre parole quei comportamenti spesso ridicolizzati su internet e fuori che, per sintetizzare al massimo, esprime la medietà dei cosiddetti “webeti” (altra presa di posizione elitaria di cui disfarci al più presto).

A comporre le riunioni sono presenti le anime più diverse. Destra e sinistra, seppur compongano certamente il retroterra culturale e politico di molti dei presenti, sono categorie che a ben vedere non riescono a dipingere il quadro, spesso rigettate in nome di “un'unità di popolo/popolare”, “uniti siamo più forti”, ecc. Piuttosto è interessante vedere come in questa fase venga costruita l'individuazione del nemico e la giustificazione del proprio essere contro: no Europa, no Banche, no Vax, no signoraggio, no finanza, arrivando a Rothschild e si potrebbe continuare per ore.

Sorprendente assente in più di un mese di contatti continui, virtuali e fisici, il discorso sull'immigrazione, se non molto marginalmente e in termini meno beceri di quanto ci si potrebbe aspettare (“le migrazioni sono causate dallo sfruttamento delle risorse di quei posti” afferma uno quando la questione viene portata nella discussione). Naturalmente questo non ci indica la fine del problema razzista (e ci mancherebbe!) che scorre profondamente nelle vene della società, ma ci pone di fronte a un ordine di priorità certamente confuso, disorientato e che non sempre centra il problema strutturale, diverso da quello dipinto dai titoli dei media mainstream tutti giocati esclusivamente in una polarizzazione tra pro e contro immigrazione.

In queste istanze culturalmente spurie si nasconde probabilmente il tentativo di dare un volto ad un responsabile, la mancanza totale di fiducia dell’informazione mainstream, e dunque la ricerca di informazioni “indipendenti”, ecc. Trattandosi di una critica generale al sistema, per molti è difficile capire da dove partire, e alcuni temi si sono nel tempo sedimentati e hanno un appeal maggiore. Si cela, in altre parole, una coscienza anti-sistema che utilizza definizioni sbagliate o parzialmente sbagliate nella forma, ma capaci di rompere nella sostanza. Il NoVax è anche una ricerca di spazi di libertà (vi tremano i polsi, eh?), la riconquista di una decisionalità autonoma, una messa in discussione della subalternità scientifica al sistema capitalistico e della speculazione dell’industria farmaceutica sulla salute. Rothschild (si fa per dire) è solo un modo dalle caratteristiche più umane e definite per chiamare la sig.ra Finanza quando Unione Europea non basta più. Signoraggio un’idea più semplice per leggere speculazione bancaria.

Scavando un po’ sotto la superficie spesso non si tratta di ignoranti sempliciotti: è gente che paradossalmente si informa quotidianamente, studia e analizza, privata di quegli strumenti che un po’ elitariamente a volte custodiamo o non siamo stati in grado di trasmettere - e che chiaramente nel contesto culturale generale della società, l’istruzione e l’informazione hanno smesso di agire come campo di battaglia, pure in forme minoritarie.

Ancora una volta sarebbe ingenuo sorprendersi della merda, dopo anni di merda. (Nel frattempo continuiamo ad aspettare speranzosi notizie da chi sta cercando il quorum tra i lettori del Capitale.)

O ancora, e questo ci sembra paradigmatico, il discorso sul sovranismo assume contorni che sciolgono il nodo con quel razzismo al quale sembra indissolubilmente legato. Sovranismo significainnanzitutto potere di decidere, riappropriazione della politica e delle nostre vite, strappare alla finanza e alla politica economica dell’UE la direzionalità politica. Ritorniamo quindi alla lira? Istituiamo monete territoriali? Fa così ridere? E tutti quei discorsi su economie autosufficienti, comunità più o meno agricole con un proprio sistema di scambio, ecc, che spesso sentiamo teorizzare e propagandare anche nei nostri ambienti? Oppure pensiamo che l’Euro sia una grande conquista dell’internazionalismo proletario? Quello che ci insegnano davvero questi potenziali gilet gialli italiani è che ognuno utilizza le parole che conosce. Noi siamo soliti usare “autodeterminazione”, ma l’intuizione di fondo non ci sembra così diversa. La spocchia la lasciamo all’accademia.

Chi tende a semplificare emettendo patentini di “fusarità”, rischia di etichettare e perdersi la complessità del discorso; a noi interessa la materia viva, quella che si può spostare e cambiare, non l’assunzionedi una “sconfitta” e l’abbandono morale di alcuni livelli del discorso. Come si contende spazio e terreno, si contendono anche linguaggio, significati e significanti.

C’è infine il nodo sulla violenza e sulla legalità che nell’organizzazione delle iniziative naturalmente viene posto. Anche qui si oscilla tra un battagliero “la misura è colma!” e un pacato “la Costituzione è con noi!”. Ancora una volta, prenderlo ideologicamente di petto sarebbe assurdo, possiamo provare a scioglierlo nei fatti. Ma alla fine è nato prima il riot o la gallina?

2. Apprestandoci a concludere, stiamo dunque sostenendo che il “popolo”, sotto la polvere, abbia già implcitamente in mano la verità? Ci sembra una domanda riduttiva, ma anche inutile. Così come lo è il tentativo di rincorrere in questa fase una verità più vera, più pulita e levigata.

Tanto la verità non esiste. Tanto meno in questa epoca. Specularmente inutile è affannarsi a svelare la menzogna. Il mercato delle verità e delle menzogne ci pare piuttosto saturo, e lo strillone-bottegaio è un lavoro tanto faticoso quanto poco remunerativo, al massimo funzionale per qualche litigio all’ultimo commento sui social network.

Piuttosto assecondare lo spontaneismo produttivo che l’attraversa, evitare e rifiutare le istintive enclosures di movimento nascoste dietro una supposta maschera organizzativa rigida. Al più veicolare il conflitto; non iniettarlo artificiosamente.

Fare attecchire le radici, raddrizzare la crescita della pianta; irrorarla d’acqua la farebbe soltanto morire in questa fase.

Per farlo conosciamo solo una strada: starci dentro - per davvero -, possedere un metodo e tradurre in pratica un’analisi.

Nessuno ha intenzione di fare la lezioncina o sbandierare risultati che al momento non esistono. Cerchiamo tracce: alcune sembrano sì buone piste, altre vanno approfondite. Sappiamo solo che in questi dieci anni di crisi (economica, sociale, politica, ideologica, culturale, di soggettività,…) queste persone sono scese in piazza, anche a migliaia, in più occasioni; quali? Forconi, NoVax, a sostegno dei terremotati, ecc.Lo hanno sempre fatto senza di noi, ignorando la nostra presenza, le nostre strutture, la nostra esistenza. Alla domanda: non hai mai partecipato a *appuntamento nazionale di movimento*, oppure a *altro appuntamento nazionale di movimento* in questi anni? La risposta è stata un secco No. Il motivo è semplice: “non ne ho mai sentito parlare”, “anche se ne condividevo i motivi, non mi piace che ci debba essere la bandiera rossa, come non mi piace quella nera”, “non voglio essere etichettato”, “ci sono gli infiltrati (lol)”.

Se si vuole dunque scommettere davvero su questa fascia di composizione sociale, gilet giallo o meno, dobbiamo svestirci delle nostre parole d’ordine, dei nostri schemini organizzativi, delle nostre sicurezze e dotarci di qualche centimentro di pelo sullo stomaco, resistenza al mal di mare e pazienza. Altrimenti si può sempre decidere di lasciar perdere.

Il leit motiv, per altro inconfutabile, degli spazi vuoti in politica qui si gioca prepotentemente. Ma è in questi embrionali processi che si mettono in moto le spiazzanti dinamiche di rottura. A partire dalla rottura con la solitudine e con la gabbia dell’individualismo. Questo si spiega da sé, dal momento in cui si mette in moto un processo di socializzazione di problemi e di speranze. La mistificata ricerca di libertà personale di pensiero e di azione tanto rincorsa da questi soggetti,incontra la consapevolezza del potere collettivo e della complicità e ne cambia la sostanza.

Insomma, di fronte a un fenomeno di lotta come quello francese bisogna sapere innanzitutto che non fare. Certamente non si può pensare a una lineare traduzione in altri contesti, ma qua siamo ai limiti dell’ovvietà. La cosa da evitare è, da un lato, credere che la circolazione delle lotte sia un fattore di identità cromatica, evitare quindi che un gruppo di compagni che si mette i gilet gialli si fingano un movimento, oppure un esempio simbolico che verrà seguito. Dall'altro lato, non bisogna cadere nell'errore di pensare che la ricomposizione sia una sommatoria di gruppi e non invece un processo sociale e politico. Un'avanguardia che non sta dentro un processo, semplicemente non è un'avanguardia.

Come già si accennava non coviamo fiducia cieca in una riproposizione lineare di ciò che è successo in Francia. Ci sembra però che le tracce di insofferenza e rabbia, esplose in Francia e intraviste il #9D in Italia, siano ancora ben presenti sotto il primo strato di cenere anche qui da noi. L'interesse creatosi attorno al fenomeno Gilet Gialli ci può permettere innanzitutto di fare inchiesta, e perché no di tentare di costruire percorsi di lotta ricompositivi e contro-soggettivazione. Giochiamoci la partita consapevoli che i campi di battaglia vanno occupati e praticati.

Abbiamo timore di essere guardarti male da qualcuno?

 

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