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Correvo pensando ad Anna, di Pasquale Abatangelo

Consigli (o sconsigli) per gli acquisti

di Militant

abatangeloDal letame di molta memorialistica sugli anni Settanta, capita ad un certo punto di scovare il fiore più bello. E’ la vita onesta e tragica di Pasquale Abatangelo a restituire il significato di una vicenda collettiva sepolta dalla rancorosa storia dei vincitori, di destra e di sinistra. Da troppo tempo si è cambiato nome alle cose, ma rimane brutalmente vero il verso di Gertrude Stein: una rosa è una rosa è una rosa. Questa autobiografia restituisce senso ad un nome ormai prosciugato di significati materiali: il comunismo. La vita di Pasquale Abatangelo è il comunismo italiano degli anni Settanta. La sua vita come sineddoche di una generazione di militanti rivoluzionari che, sprovvisti di tutto tranne che della loro disciplina e del proprio sacrificio, seppero mettere paura al potere. E’ questo un privilegio che pagarono duramente: tanti non ressero, altri conservarono intatta la propria dignità. Pasquale fu uno di questi.

La vita di Pasquale racchiude simbolicamente il senso del lungo decennio delle lotte di classe in Italia tra il 1968 e la fine degli anni Settanta. Una vita di scarto come tante all’epoca, dal collegio alla strada, alle prime rapine al carcere. Ma la rinascita al comunismo avvenne all’interno di quella vicenda collettiva che sconvolse le sorti di una generazione. L’impolitico Pasquale dovette fare i conti con l’urgenza rivoluzionaria di una generazione che travolse i destini individuali: «Qui si crearono le basi della particolarità italiana. Anche in Francia, anche in Germania, in Inghilterra, negli USA il Sessantotto trovò le parole per capire, descrivere e rifiutare le istituzioni totali. Ma solo in Italia si generò una dinamica paritaria, orizzontale e osmotica, fra banditi e rivoluzionari. Anni dopo, nei libri di filosofia ho trovato le parole adatte per descrivere il significato di questo incontro: reciproco riconoscimento». Il reciproco riconoscimento di cui parla Pasquale non è “solo” quello tra detenuti comuni e militanti politici.

E’ quello tra un pezzo delle classi subalterne e le avanguardie rivoluzionarie. E’ questa la relazione che spiega la durata anormale e la durezza dello scontro che trascinò il paese in una vera e propria guerra civile – seppure a “bassa intensità”. E’ questa l’eccezionalità italiana, che permise la nascita di un movimento rivoluzionario di massa e, contestualmente, alla crescita della lotta armata:

«I giovani contestatori incarcerati contribuivano ad allargare gli orizzonti politici e culturali delle avanguardie del movimento dei detenuti. Ma anche i rapinatori e i ladri arricchivano il bagaglio politico e umano dei militanti dell’estrema sinistra. L’influenza si sviluppava nei due sensi. I galeotti si appropriavano della cultura e dell’esperienza politica dei sessantottini, indispensabili per dare senso a un sussulto collettivo altrimenti destinato a bruciarsi in una specie di jaquerie. Gli extraparlamentari, per la maggior parte studenti di estrazione sociale piccolo borghese, inghiottivano a rapide sorsate il sapere concreto dei detenuti, frutto delle acide esperienze fatte ai margini della società».

Ma all’interno di questa storia collettiva si inserisce la specifica vicenda di Pasquale, comprensibile solo se inserita negli anni Settanta ma – al contempo – pienamente degna dei caratteri dell’eccezionalità dell’uomo. Pasquale viene arrestato l’ultima e definitiva volta nel 1974. Da poco politicizzato, fonda insieme ad altri compagni i Nap di Firenze, e durante un esproprio proletario finito tragicamente viene catturato e tradotto in carcere per uscirne solo nel 1993 in libertà condizionata, a cui seguirono altri dieci anni di semilibertà e libertà vigilata. Vent’anni ininterrotti di carceri speciali, di rivolte, di lotte di classe dentro le strutture repressive, di pestaggi subiti e, quando possibile, ridati, senza vittimismo. Non c’è spazio per il piagnisteo durante la lotta di classe, ma un conto è dirlo o anche solo “pensarlo” a mente fredda, un altro è praticarlo per venti lunghi anni, lontano dagli affetti, dalla vita normale, o anche solo dalla militanza in condizioni di libertà.

Il comunismo in Italia e negli anni Settanta ha significato anche questo: non solo “convertire” un proletario ribelle in disciplinato militante della lotta di classe, ma aprire il mondo della “cultura” a chi ne aveva sempre rifiutato i suoi dispositivi di classe:

«I libri mi diedero sicurezza, consegnandomi verità che non avrei più dimenticato lungo tutta la mia vita di militante comunista. Ma mi insegnarono anche che odiare non bastava, ed era facile ammetterlo se il mondo da ereditare era quello di Fabrizio del Dongo o di Pierre Bezuchov, più difficile se la lettura era interrotta dalle urla provenienti dai corridoi, in quel carcere di merda dove picchiare i detenuti era come giocare a tresette».

Il ribelle Abatangelo era una macchina costruita dalla società per odiare. Il carcere era il luogo dove questo odio moltiplicava la sua forza e scorreva nelle vene dei detenuti. Ma la rinascita al comunismo implicava anche la messa in discussione della propria natura ribelle: l’odio di classe era la molla inaggirabile, ma la propria militanza rivoluzionaria non si sarebbe risolta nel solo odio, pena il ritorno al ribellismo fine a se stesso dal quale ci si era faticosamente, e radicalmente, emancipati. Anche qui: facile scriverlo, maledettamente difficile farlo nel circuito delle carceri speciali dove l’annientamento della propria personalità costituiva il primo obiettivo della repressione. Ancora di più: facile per qualche “politico” rapidamente educato alle durezze del carcere; molto meno per un ribelle proletario politicizzato successivamente, proprio in quel carcere che favoriva la cattiveria e l’odio quale unico orizzonte esistenziale.

Ma la “potenza” del libro sta altrove rispetto alla mera rievocazione della propria esperienza personale, sebbene notevole e, in molti passaggi, commovente proprio per la sua sincerità scevra da qualsiasi ricerca di legittimazione postuma. Il libro non è solo memoria e testimonianza, ma anche analisi politica. Non è oggetto relegabile alla sola memorialistica, di per sé quindi operazione dignitosa ma in qualche modo “minore”. I ricordi di Pasquale s’intrecciano con la riflessione politica sulla lotta armata, sulla sua fine, sulle strade possibili che non seppe prendere e che segnarono la fine del comunismo in Italia inteso come movimento reale che abbatte lo stato di cose presenti:

«Le BR non erano mai state una “sigla”, un brand, come si dice oggi. Le BR erano un corpo organizzato di uomini e donne che aveva dato fondo alle proprie energie combattendo, e che si era estinto facendo la lotta armata, perché, nelle scelte strategiche e tattiche, non era riuscito a guardare oltre il ciclo di lotte sociali che lo aveva prodotto come avanguardia politico-militare».

Come abbiamo detto varie volte, gli anni Ottanta – intesi come riflusso generalizzato della società dalla politica, intesi come definitiva scomparsa del comunismo come orizzonte delle lotte di classe nel paese – non erano inevitabili in Italia. Nonostante la durezza e la lunghezza dello scontro avvenuto nel decennio precedente, erano possibili evoluzioni politiche in grado di cambiare le forme della lotta senza abbandonarne la sostanza. Altrove – in contesti parimenti marchiati dalla violenza repressiva – questo passaggio è avvenuto, sedimentando nei movimenti antagonisti una relazione tra esigenze di sopravvivenza e strategie politiche anticapitaliste. Pur nell’obiettivo riflusso, si è mantenuto un legame, storico e ideale. In Italia no. In Italia, come scrivevamo in un’altra occasione, «con gli anni Settanta scompare il comunismo, cioè la possibilità di organizzare lotte di classe per il potere che contengano, certamente nelle forme e nei contenuti nuovi che l’attualità impone, un’alternativa politica al capitalismo, e che sappiano attraverso questa instaurare rapporti con la maggioranza del proletariato italiano. Chi l’ha saputo fare (come il movimento che portò a Genova), l’ha fatto a scapito del comunismo stesso, riducendosi ad un riformismo radicale a-comunista e vertenziale. Chi invece è rimasto comunista, non ha saputo più intrecciare la propria esperienza politica con quella della maggioranza (e quindi del consenso) del proletariato nazionale, riducendosi allo stato di minorità esistenziale dal quale non sa come uscirne (sia nelle sue versioni conflittualiste che in quelle micro-partitiche)».

E’ ancora Pasquale a rilevarlo nel migliore dei modi e con le parole opportune in uno dei passaggi conclusivi del libro:

«La lotta armata era nata in un contesto storico preciso. Incarnava una sfida politica che presupponeva una società impregnata di comunismo e una forte radicalizzazione delle masse. Queste condizioni risultavano scomparse. Riattivarle era un dovere. Ma non si poteva surrogare un simile lavoro con il ricorso ad azioni isolate, in un Italia dove, semmai, il problema era quello di una nuova alfabetizzazione marxista dei movimenti che, genericamente, si dichiaravano contro la globalizzazione».

E’ ancora da qui che dobbiamo oggi ripartire. E’ ancora questo il senso della riflessione ancora tutta da fare nei movimenti anticapitalisti italiani. Quello di riattivare un ciclo di lotte di classe in grado di legarsi alle necessità del proletariato, che sappia instaurare con esso una lingua e dei comportamenti comuni e condivisi, ma che – al tempo stesso – non sacrifichi sull’altare di questa relazione il comunismo. E’ una riflessione, d’altronde, che molti dei compagni di Pasquale fecero negli anni Novanta, inascoltati da un movimento sedotto dalle sirene post-moderne della fine della storia. Sbagliarono in primo luogo le Br, che non seppero tenere unito un ragionamento perso nei rivoli della frammentazione a cui andarono incontro negli anni Ottanta. Sbagliò un movimento che abbandonò ogni strategia rivoluzionaria, pur nel giusto compito di rimanere agganciato con ogni mezzo necessario alle correnti vive di una società in fase di progressiva atomizzazione. Ma il ragionamento proposto da Pasquale ci sembra reggere per intero, e per questo ne riportiamo un ampio stralcio:

«Se uccido Biagi e D’Antona senza alcun retroterra sociale, solo perché la guerra di lunga durata deve scintillare ogni dieci-quindici anni nel deserto della storia, me ne assumo le responsabilità. Se vado a Genova a contestare il G8 con un happening che, davanti alla ferocia della polizia, lascia solo costernazione e vittimismo, me ne assumo le responsabilità. Questo è il gioco a cui giochiamo quando proviamo a cambiare il mondo. Essere coerenti è fondamentale. Essere rivoluzionari, però, significa qualcosa in più. Significa non farsi illusioni sul nemico. Significa avere l’umiltà di ricominciare dal basso quando le sconfitte hanno sradicato le avanguardie dalle masse. Significa capire che non si può essere sempre simpatici e che, se la contraddizione fra i mezzi e i fini della lotta è sempre affiorata nella storia, una ragione deve esserci. Strategia e tattica, si diceva una volta. Sono parole di cui ci si è disfatti troppo presto. Parole che io ho cercato steso sui letti di contenzione, e che dovranno essere ricomprese daccapo, se si vorrà tornare a far paura al potere».

Questo libro è un oggetto attuale. Non è museale rivendicazione di un’esperienza politica, sebbene eccezionale. Sono, in qualche modo, le confessioni di un rivoluzionario, importanti proprio perché non vogliono in alcun modo esserlo esplicitamente. L’unica pecca è la prevedibile assenza del libro stesso dai circuiti della grande distribuzione libraria. In questo senso, dovrà essere compito dei compagni far emergere questo lavoro dall’oscurità nella quale purtroppo potrebbe venire relegato senza opportuno sostegno e promozione. Sarebbe un’occasione sprecata.

Difficile “tirare le somme” del lungo ragionamento di Pasquale Abatangelo. Prendiamo in prestito le sue parole, che facciamo nostre in ogni loro sfumatura, perché in qualche modo guidano i ragionamenti dei rivoluzionari di ogni epoca:

«Come si vince? Questo non è facile. La prima cosa è abbandonare le illusioni. La seconda è comprendere che bisogna organizzarsi. I ribelli ci mettono un po’ di tempo a capire queste cose. Si attaccano a sogni di rivalsa individuale. Disprezzano la disciplina, perché pensano che sia un segno di debolezza. Ma, a certe condizioni, un ribelle può diventare un rivoluzionario. E’ già una vittoria. Non perché qualcuno, uno studente o un operaio, lo abbia fatto entrare in una casa pulita e ordinata. Ma perché la sua rabbia ha trovato un orizzonte. E questo orizzonte diventa la sua vita».

D’altronde, come conclude Pasquale, «le storie come le mie ricominciano sempre». E’ il bello e il tragico del comunismo.

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