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la citta futura

La scuola delle competenze?

di Alessandro Pascale

Si è svolto il 14/11/2019 alla Casa della Cultura di Milano un incontro sul tema “Una scuola senza cultura e senza conoscenza? Dalla cancellazione del tema di storia a quella delle discipline”, relatori i docenti Giovanni Carosotti, Vittorio Perego, Marco Cuzzi (UNIMI, Milano), Lucio Russo (Uni Tor Vergata, Roma)

baaf5d6d38e5d33511540930e16b192b XLLa storia sotto attacco e i progetti ministeriali

Mentre inizia a parlare, Carosotti mostra una dichiarazione dell'Associazione Nazionale Presidi (ANP): “Scuola senza materie, la sfida della scuola del futuro”. Una follia, eppure Andrea Gavosto, presidente della Fondazione Agnelli sulla Stampa porta avanti periodicamente questa campagna, senza contraddittorio. Secondo Carosotti l'abolizione del tema di storia non è parte di una politica disciplinare ma rientra nell'ambito di un progetto sistematico che va avanti da 25 anni e la cui ultima tappa è la modifica dell'esame di Stato che fa sparire di fatto l'interrogazione sui contenuti disciplinari. I dirigenti ora tendono a imporre ai dipartimenti le programmazioni per macro-argomenti (UDA), che insistono nell'indicazione delle “competenze” più che sui contenuti, suggerendo di ridurre al minimo le lezioni frontali in classe da parte del docente. È la trasformazione delle discipline in discipline trasversali. Che dire poi dell'ultima uscita del ministro Fioramonti che propone di introdurre la “educazione ambientale”? Carosotti spiega che è una cosa che si fa già di fatto, a partire dalle materie coinvolte. Riguardo all'insegnamento di storia e filosofia le indicazioni ministeriali sono portate a vederle come qualcosa che fornisce “pillole”, “spunti per gli studenti”. Quali sono le conseguenze sul lungo periodo per studenti che non conoscono argomenti non trattati dal docente perché non inseribili nelle UDA?

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carmilla

La barricata mobile delle resistenze urbane

di Fabio Ciabatti

Il campo di battaglia urbano. Trasformazioni e conflitti dentro, contro e oltre la metropoli, a cura del Laboratorio Crash, Red Star Press 2019, pp. 297, € 17,00

8275582470 96e4f3a88a z“Il cittadino e l’abitante della città sono stati dissociati”, sostiene Henri Lefebvre in uno dei suoi ultimi scritti. Di fronte a questo fenomeno bisogna rilanciare il diritto alla città e cioè una “concezione rivoluzionaria della cittadinanza politica”. Sebbene le analisi di Lefebvre rimangano imprescindibili per comprendere il nostro presente, possiamo ancora oggi fare nostra la sua prospettiva di un nuovo incontro tra cittadino e abitante urbano o dobbiamo fare un passo oltre? Si può partire da questa domanda per esporre i contenuti del libro Il campo di battaglia urbano, volume che presenta una selezione di testi, compreso l’articolo da cui abbiamo tratto le citazioni di Lefebvre1 e un’intervista a David Harvey, emersi da un percorso di elaborazione teorica sull’urbano articolato in convegni, dibattiti e produzione di scritti, promosso tra il 2017 e il 2018 dal Laboratorio Crash di Bologna.

Come possiamo concettualizzare le dinamiche che investono oggi la città? Secondo il Laboratorio Crash il territorio non va ridotto a un ambiente ostile alle classi subalterne come se esso fosse meramente funzionale alla produzione capitalistica e alla vita degli abitanti più ricchi. Allo stesso tempo nelle città facciamo fatica a trovare ancora i vecchi quartieri proletari, solidali e pronti alla lotta, perché in assenza di intervento politico spesso prevalgono l’anomia, la solitudine, la disgregazione, la rabbia cieca. Prodotto di una relazione antagonistica il territorio non esiste come forma predefinita e unitaria: non è un background ma un battleground.

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linterferenza

Marx e la maternità surrogata

di Gabriele Pastrello

Condivido completamente questo articolo dell’amico Gabriele Pastrello, docente universitario e rigoroso studioso e intellettuale marxista.

Mi permetto solo una sola ma importante nota. Gabriele analizza (e stigmatizza) giustamente la pratica della “maternità surrogata” (leggi utero in affitto) e l’ideologia (capitalista), cioè il processo di mercificazione ideologica e pratica che gli sta alle spalle. La sua analisi si concentra però “solo” sugli effetti subiti dalle donne, sulla mercificazione (di fatto spesso coatta) del loro corpo e delle loro vite.

Non fa cenno però delle altre vittime di tale processo, e cioè i figli concepiti con tale pratica, di fatto ridotti a oggetti che possono essere venduti e comprati, con tutti i (devastanti) risvolti psicologici e umani che tutto ciò comporterà sulle loro vite.

Ma sono certo che non si tratti di una omissione e che Gabriele sia ben consapevole della questione che sicuramente non tarderà ad affrontare. [Fabrizio Marchi]

utero affitto 1 large 300x2191) Premessa (un ripasso di Marx)

Ovviamente Marx non si è mai sognato di scriverne. Né negli scritti filosofici giovanili (anche se qualche eco di quegli scritti risuonerà qui sotto), né tantomeno in quell’opera il cui titolo potrebbe farlo sospettare: La Sacra Famiglia. Ma un ripassino di Marx può aiutare.

Già prima del Capitale Marx insiste sul fatto che la propria novità teorica rispetto agli economisti Classici (Smith e Ricardo) consiste nella scoperta che il lavoratore non vende ‘lavoro’ come si diceva e si dice, superficialmente, ancora oggi, bensì vende ‘forza-lavoro’. Nel linguaggio corrente, e anche di molti marxisti, purtroppo, ‘forza-lavoro’ equivale a ‘lavoratore’; abbaglio gigantesco.

Prima del Capitale Marx aveva usato un’altra espressione, ‘capacità-lavorativa’ (Arbeit-Vermögen), per sottolineare che ciò di cui si trattava la vendita era una ‘possibilità’ (Vermögen, δυναμις: capacità). Poi, dopo, forse temendo che l’espressione Arbeit-Vermögen fosse troppo filosofica (idealistica?), o forse non di comprensione immediata, la cambiò in Arbeit-Kraft (forza-lavoro).

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tempofertile

Nick Srnicek, “Capitalismo digitale”

di Alessandro Visalli

malpasoIl libro del 2017 di Nick Srnicek, autore con Alex Williams una quindicina di anni prima del “Manifesto accelerazionista[1], svolge un’analisi della nuova economia del web, le cui potenzialità erano state esaltate implicitamente nel manifesto.

Anche ora, quattordici anni dopo, mentre l’accelerazione non è più citata (dati i fraintendimenti ricevuti) l’era di trasformazione in corso è vista come qualcosa di potenzialmente positivo pervertito dal capitalismo. Si tratta di condivisione, flessibilità, imprenditorialità, liberazione dei lavoratori dalle costrizioni e dalle gerarchie, interconnessione e on-demand per i consumatori. O, almeno, potrebbe, perché tutto ciò nasce dentro una logica di generazione di profitti ed ampliamento della concorrenza che è tipica del capitalismo. La tesi del libro è che, “a causa di un lungo declino della redditività del settore manifatturiero, il capitalismo abbia iniziato a occuparsi dei dati come un mezzo per mantenere crescita economica e vitalità in presenza di un settore produttivo altrimenti pigro”. I dati, cioè, hanno assunto un ruolo sempre più centrale per le aziende ed i loro rapporti.

La lettura che viene compiuta tenta quindi di “storicizzare le tecnologie emergenti come risultato di più profonde tendenze del capitalismo, mostrando come esse siano parte di un sistema di sfruttamento, esclusione e concorrenza”. Ovvero, che, in qualche misura sono l’opposto di ciò che dicono di essere o, in altri termini, l’opposto di ciò che potrebbero essere.

Per capite l’emergenza della “economia delle piattaforme”[2] bisogna quindi inquadrarla negli eventi globali del sistema economico, almeno nella risposta alla recessione degli anni settanta, al boom e successiva piccola recessione degli anni novanta, ed alla risposta alla crisi del 2008. Questi movimenti hanno creato le condizioni per la nuova economia digitale e hanno determinato i modi in cui essa si è sviluppata.

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figurerivista

Il sogno di Achille

Cosa resterà di questi anni ottanta

di Figure

Ciò che dà spinta al mondo non è il crollo ma il sorgere ovunque di realtà nuove. Tutto nasce dal muro di Berlino. Dietro quell’evento reale e simbolico si intravede il movimento della storia, ad Est come ad Ovest, che è destinato a cambiare gli assetti mondiali e il modo stesso di fare politica

Avvertenza: Tutte le parti scritte in corsivo sono parole di Achille Occhetto tratte variamente da: il Comitato Centrale del PCI tenutosi tra il 20 e il 24 Novembre 1989 a Roma, il XIX Congresso straordinario del PCI tenutosi tra il 7 e il 11 Marzo 1990 a Roma e il XX Congresso del PCI – PDS tenutosi tra il 31 Gennaio e il 3 Febbraio 1991 a Rimini

occhettodalIl 9 Novembre 1989 cade il Muro di Berlino. Tre giorni dopo, il 12 Novembre, a Bologna il segretario del Partito Comunista Italiano, Achille Occhetto, dichiara di voler proporre al partito – e di fatto con quel gesto propone – di concludere l’esperienza del PCI e costituire una nuova forza politica. Il 3 Febbraio 1991 a Rimini si scioglie il PCI e nasce il Partito Democratico della Sinistra; qualche mese dopo, il 12 Dicembre, i contrari alla liquidazione del PCI fondano il Partito della Rifondazione Comunista. Il 26 Dicembre dello stesso anno ufficialmente l’Unione Sovietica smette di esistere. Un mondo l’ordine delle cose per come era stato conosciuto dopo la fine della seconda guerra mondiale finisce. La configurazione internazionale definita al tavolo di Jalta da Churchill, Stalin e Roosevelt e caratterizzata dalla divisione del globo in due blocchi ideologicamente contrapposti, finisce. Finisce la conformazione del sistema politico italiano per come si era stabilizzata dopo la costituente a rispecchiamento della situazione internazionale: un governo a trainante democristiana di volta in volta appoggiato dal centro sinistra o dalla destra, e il PCI all’opposizione. Non è solo una questione di alte sfere della politica, in Italia sono le identità individuali di almeno tre generazioni di comunisti cresciuti tra le braccia del partito che vedono la realtà e la loro posizione in questa diventare incomprensibili; e non è solo una questione di comunisti: sull’anticomunismo sulla paura dei rossi e della loro incapacità a governare la DC ha costruito durante tutta la Prima Repubblica la sua legittimità, malgrado il marcio e gli scandali, malgrado le bombe, i tentativi di golpe e la mafia; malgrado tutto. È la fine di un mondo e, come al solito, l’inizio di uno nuovo.

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figure

Anticapitalismo

di Figure

mustoOrmai da decenni il concetto di lotta di classe appare insufficiente per le pratiche politiche che si vogliono anticapitaliste. I discorsi più diffusi negli studi accademici e nella sinistra anticapitalista – che si tratti di partiti, sindacati o movimenti – attribuiscono questa insufficienza principalmente a due ragioni. La prima riguarda un cambiamento del sistema produttivo; la seconda l’emersione di nuovi soggetti politici.

Iniziamo dalla prima. Si narra che da quando ha avuto inizio la fase post-fordista l’operaio abbia perso la sua centralità nel sistema produttivo. Esagerando possiamo dire che non ci sono più abbastanza operai sufficientemente concentrati in grandi complessi industriali da poter creare conflitto nei luoghi di lavoro, anche in virtù di una diminuzione del loro potere all’interno della produzione capitalistica.

Di certo questa è un’esagerazione. Fine della fabbrica fordista non significa fine del lavoro operario. Fine del lavoro operaio non significa fine del lavoro. Inoltre, quello di classe è sempre stato un concetto sfuggente e variamente interpretato, ma non si è mai trattato di una semplice constatazione sociologica, dire classe non ha mai solo voluto dire; operai, impiegati, ingegneri, architetti, insegnanti, imprenditori, precari, garantiti e via dicendo. La classe è piuttosto l’indicatore di un rapporto di potere: sfruttati e sfruttatori; padroni e servi; lavoratori e capitalisti.

Il concetto di lotta di classe appare insufficiente per le pratiche politiche che si vogliono anticapitaliste

Tale rapporto evidentemente non si è esaurito nemmeno con il passaggio al post-fordismo, ma sicuramente è mutato.

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paginauno

Smart city

Sorveglianza, mercificazione, alienazione, ricatto, tecnocrazia

di Elisabetta Groppo

Chinas Big Brother smart cities 1Ciao cittadino. Sono la tua Smart City. Abbandona i bigliettini appesi al frigo, le biglietterie, le code. Dimentica gli sportelli del Comune, le sale di attesa. Scarica la app e dammi accesso a tutti i tuoi dati e permettimi di geolocalizzarti. Penserò a rilevare l’inquinamento atmosferico nel tuo giardino, a calibrare l’energia della tua casa, a controllare chi si aggira nel tuo quartiere e quante car sharing vi transitano. Controllerò anche se fai bene la raccolta differenziata dei tuoi rifiuti. Segui le notifiche che ti trasmetto: stai pagando le bollette, mentre il cardiologo sta visitando per via telematica i tuoi anziani genitori; i tuoi figli sono arrivati a scuola. La tua idea è già start up. Ho appena integrato il tuo fascicolo sanitario elettronico alla nuova polizza che hai stipulato. Hai raggiunto l’obiettivo green di questo mese: hai usato mille volte la ciclabile.

Non è Black Mirror, è la Smart City: efficiente, alla moda, coinvolgente, amicale, ambientalista, ricca di opportunità. Un’idea e una narrazione positiva divenute dominanti. Ma che cos’è davvero una Smart City? Chi, come, quando, perché?

* * * *

Il quadro programmatico

Nel 2013 la Cassa Depositi e Prestiti (CDP) redige un report monografico: “Smart City. Progetti di sviluppo e strumenti di finanziamento”. La Smart City è descritta come “una proiezione astratta di comunità del futuro”, un perimetro “applicativo e concettuale” all’interno del quale i “bisogni trovano risposte in tecnologie, servizi e applicazioni”. Una sfida, secondo la CDP, dove al centro è posta “la costruzione di un nuovo genere di bene comune, una grande infrastruttura tecnologica e immateriale che faccia dialogare persone e oggetti, integrando informazioni e generando intelligenza, producendo inclusione e migliorando il nostro vivere quotidiano”.

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jacobin

Una risata vi seppellirà

di Olimpia Malatesta

Il Joker di Todd Phillips è la rappresentazione perfetta della degenerazione di una rabbia giusta, la manifestazione dei sintomi morbosi del pericoloso interregno in cui viviamo [Allerta, contiene spoiler]

02joker jacobin italia 1320x481Bruciando tutte le tappe che consegnano un film alla storia del cinema il Joker di Todd Phillips è già diventato un cult: campione assoluto di incassi, film d’uscita in ottobre più redditizio di tutti i tempi, vincitore del Leone d’oro a Venezia, Joker è ormai oggetto di accesa discussione tra cinefili e comuni spettatori di tutto il mondo. A quasi un mese dalla sua uscita in Italia e a due negli Stati uniti occorre interrogarsi sulle ragioni di questo successo planetario che non può dipendere semplicemente da una pellicola eccellente sotto il profilo tecnico e impeccabile sotto quello stilistico. Joker è una lama conficcata nel ventre di un neoliberismo agonizzante. È un film profondamente politico che parla del mondo atroce in cui viviamo. Per questo non può che suscitare un vivissimo interesse.

Pur essendo ambientato negli anni Ottanta Joker restituisce una fotografia talmente realistica dei nostri tempi disperati, da non poter non sortire un effetto di immediata identificazione con il protagonista, magistralmente interpretato da Joaquin Phoenix. Accompagnato dalle musiche angoscianti della compositrice Hildur Guðnadóttir, Joker rievoca le tonalità cupe di Shining (1980), mentre Gotham City restituisce la stessa atmosfera claustrofobica della Manhattan trasformata in penitenziario a cielo aperto di 1997: Fuga da New York (1981). I riferimenti agli anni Ottanta in questo film si sprecano: forse a voler sottolineare che è proprio in quel periodo che si afferma il neoliberismo. L’inizio del film svela subito la cifra politica (o sociologica) della storia che sta per essere raccontata. Rivolgendosi alla sua assistente sociale il protagonista domanda: «Is it just me, or is it getting crazier out there?». E lei risponde: «It is certainly tense. People are upset, they’re struggling, looking for work. These are though times». Il film interroga l’intera epoca storica del neoliberalismo e ne annuncia i possibili esiti mostruosi.

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doppiozero

Kodoku-shi, la morte solitaria

di Yosuke Taki

image8Un settore di grande successo

Nell’estate del 2018 si è registrato in Giappone un caldo record, con temperature di oltre 40 gradi in diverse città. Mai così caldo da quando la nazione nipponica ha cominciato a farne statistiche nel 1946. Sotto quel clima rovente, però, c’è stato un settore che non si è mai fermato in tutta l’estate.

Questa professione si chiama in giapponese tokushu-seisō-gyōsha, detta per brevità tokusō, ovvero impresa di pulizia speciale. Si tratta di ripulire luoghi che sono stati teatro di incidenti o persino di omicidi. Ultimamente però la tokusō è molto richiesta per pulire case e appartamenti dove è avvenuta la cosiddetta kodoku-shi, la morte solitaria: i cadaveri vengono trovati, in genere molto tempo dopo il decesso, in condizioni inenarrabili e spesso all’interno di ambienti pieni zeppi di immondizia accumulata a volte fino ad altezza d’uomo. Immagino che rimaniate esterrefatti, ma addirittura nel vocabolario contemporaneo giapponese esiste già un termine specifico per designare queste case riempite di rifiuti: gomi-yashiki, letteralmente “dimora di immondizie”. Sembra che i poveri abitanti di quelle case vivessero barricati dietro pareti di barattoli e di spazzatura senza più avere alcuna relazione con gli altri esseri umani. Insomma, una versione adulta degli hikikomori, gli auto-reclusi giovanili. Queste persone vivono nella trascuratezza totale, quello che in inglese si definisce self-neglect, e muoiono in completa solitudine. È per questo che i loro cadaveri vengono trovati dopo giorni, a volte persino dopo settimane, in molti casi solo per via degli odori prodotti dalla loro decomposizione. Sono di solito i padroni di casa o i vicini a chiamare la polizia, e dopo il ritrovamento del cadavere tocca alla tokusō il compito di ripulire e risanare l’ambiente, spesso in tutta fretta, perché la situazione è insopportabile per la vita e il benessere dei vicini.

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carmilla

Nemico (e) immaginario. L’Intelligenza artificiale tra timori e utopie

di Gioacchino Toni

metalhead 0001Nel saggio L’algoritmo della post-produzione. Come rinunciare al lavoro e vivere felici – contenuto nel volume D. Astrologo, A. Surbone, P. Terna, Il lavoro e il valore all’epoca dei robot. Intelligenza artificiale e non-occupazione (Meltemi, 2019) –, Dunia Astrologo apre significativamente  la sua analisi circa l’incidenza dell’Intelligenza artificiale sul mondo del lavoro riportando una celebre affermazione del Moro di Treviri: “La storia di ogni società sinora esistita è storia di lotte di classi. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in una parola oppressi e oppressori sono sempre stati in contrasto fra di loro, hanno sostenuto una lotta ininterrotta, a volte nascosta, a volte palese: una lotta che finì sempre o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la rovina comune delle classi in lotta.” Karl Marx

La storia, di tanto in tanto, opera dei veri e propri salti di paradigma e ogni rivoluzione, continua Astrologo in apertura di analisi, ha determinato una modificazione degli stili di vita, delle condizioni economiche e dei modelli culturali. Visto che in molti casi la portata dei cambiamenti non è stata prevista, nel momento in cui ci si occupa dei mutamenti delle tecnologie, risulterebbe utile tentare di comprendere quali saranno le evoluzioni che avranno successo e quali i loro effetti sul modo di produzione, dove si concentrerà il potere economico e quale direzione politica prenderà la società nei prossimi decenni.

Sin da quando, a partire dalla metà degli anni Cinquanta, si è iniziato a parlare di Intelligenza artificiale, si è sempre palesata una certa dose d’inquietudine derivata dal timore che un prodotto dell’attività cognitiva umana possa prendere il sopravvento su chi l’ha prodotto.

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micromega

La libertà al tempo dell’Intelligenza Artificiale

di Nicolò Bellanca

liberta intelligenza artificialeHa ancora senso trarre ispirazione, nelle nostre azioni etiche e politiche, dall’idea della libertà umana? Ha ancora senso, nell’epoca delle macchine intelligenti e dell’analisi biochimica dei nostri processi decisionali? Iniziamo evocando alcune semplici definizioni e alcuni punti del dibattito in corso di svolgimento. L’Intelligenza Artificiale (IA) esiste quando una macchina si comporta in modi che chiameremmo intelligenti se a comportarsi così fosse un essere umano.[1] Su uno degli aspetti più importanti dell’intelligenza umana, la capacità di apprendere, i computer si stanno rivelando, negli ultimi anni, altrettanto validi, o migliori, di noi in compiti come il riconoscimento vocale, la traduzione linguistica o l’identificazione delle malattie dalle analisi radiografiche.[2]

Queste formidabili prestazioni sono consentite dall’affermarsi del machine learning. A lungo i computer sono stati programmati unicamente mediante algoritmi: sequenze di istruzioni che indicano come risolvere un problema. Tuttavia, per molti dei problemi che contano nella vita – camminare, nuotare, andare in bicicletta, riconoscere un viso o capire una parola detta o scritta – non siamo in grado di scrivere un preciso algoritmo. L’IA sta superando questa difficoltà mediante un approccio basato su esempi. Esaminando molti casi di risposta ad una certa classe di problemi, il computer procede ad una generalizzazione che gli permette di affrontare anche situazioni parzialmente nuove e differenti: esso impara ad imparare sotto la supervisione di un umano, effettuando una fase di “allenamento” al termine della quale manifesta intelligenza, intesa come capacità di realizzare fini complessi, ovvero di risolvere problemi.[3]

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paginauno

Nuova destra e populismo: laboratorio Italia

di Matteo Luca Andriola

51fKclSXClLNessuno si sarebbe mai aspettato – almeno con certa repentinità e con certe dinamiche – la caduta del governo Conte che aveva unito in maniera ‘idilliaca’, o almeno era questa la narrazione corrente, la Lega di Matteo Salvini e il Movimento 5 stelle di Luigi Di Maio. Un governo controverso, che pareva unire istanze di una destra identitaria e conservatrice con quelle di un certo movimentismo dalle vaghe venature sociali, un’unione fortemente contrastata dal grosso dell’establishment politico e giornalistico (quello che veniva definito come la ‘casta’) e che sembrava andare – è questo il messaggio passato in certi ambienti intellettuali di destra – al di là della destra e della sinistra.

La nascita del governo giallo-verde aveva acceso le speranze di vasti settori dell’intellettualità ‘non-conforme’, dalla nouvelle droite francese ai settori dell’ambiente eurasiatista condizionati dalle riflessioni di Aleksandr Dugin. La motivazione era semplice: per la prima volta nella storia, un movimento esplicitamente di destra e su posizioni populiste e identitarie si alleava per governare un Paese assieme a una forza antisistema che raccoglieva senz’altro un elettorato misto, ma che si caratterizzava per temi come l’ecologia sostenibile, la democrazia diretta elettronica (o e-democracy), temi che possono avere una vaga connotazione di sinistra assieme alla critica a trattati come il TTIP – duramente contestato da Alain de Benoist in un libro edito in Italia da Arianna Editrice (1) – e il Ceta che, va detto, in Francia è stato votato da buona parte dell’esecutivo macroniano, a scapito dell’allevamento e dell’agricoltura locale (2). La convergenza di due forze così differenti è stata così salutata nell’area anticonformista europea ed eurasiatica, elevando l’Italia a laboratorio privilegiato per lo sviluppo di nuove sintesi, ora non più culturali e metapolitiche, ma addirittura politiche.

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Coordinamenta2

Autovalorizzazione, etica della devozione, profilazione

di Margherita Croce

Intervento alla presentazione del libro “Quattro passi” del 5 ottobre 2019 al Nido di Vespe

donna in rosa 1 300x248Uno dei nodi che abbiamo voluto mettere a fuoco con questo libro riguarda il processo in atto di femminilizzazione di tutta la società. Con questo termine intendo riferirmi al fatto che i meccanismi di oppressione specificamente patriarcali informano oggi le dinamiche relazionali tra individui e tra individui e istituzioni e sono usati per disciplinare tutto il corpo sociale, a prescindere dalle differenze di genere.

Per affrontare i vari singoli aspetti di questo processo occorre partire da una domanda e chiedersi cosa sia il patriarcato e in che rapporti esso sia con il capitalismo neoliberista.

Molto sinteticamente, il patriarcato, per come è stato definito negli anni ’70 del Novecento – quando anche le femministe hanno impostato l’analisi dell’esistente in prospettiva materialista, cioè guardando all’effettivo funzionamento dei rapporti di produzione e riproduzione che strutturano l’economia e la società – è un modello economico che prevede un nucleo produttivo gerarchizzato, in cui il maschile e il femminile vengono definiti e ordinati in vista di una produttività ottimale. Con la nascita del capitalismo si può parlare di una accumulazione della differenza sessuale come selezione della capacità lavorativa interna al corpo sociale tale per cui si separa la forza lavoro adatta e destinata alla produzione di merci dalla forza lavoro adatta e destinata alla riproduzione di forza lavoro (lavoro di cura complessivamente inteso). Così vengono attribuite una serie di qualità e caratteri al maschile e una serie di altre qualità e caratteri al femminile (su questo processo di accumulazione primaria è sempre fondamentale la lettura di “Calibano e la strega”).

Su questa configurazione di base, il neoliberismo ha innestato delle variazioni.

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badialetringali

Educazione e istruzione

di Paolo Di Remigio

Riceviamo e volentieri pubblichiamo (M.B.)

page 1 thumb largeEducazione e istruzione, da sempre necessarie per lo sviluppo della libera personalità, sembrano essere diventate opposte e incompatibili da quando i pedagogisti pretendono che l’insegnante non debba istruire gli allievi tenendo lezioni e verificandone lo studio, ma debba educarli senza nulla aggiungere a quanto già sanno, limitandosi a stimolarne gli interessi e la creatività, così che la scuola, finora un carcere per la ‘trasmissione’ di inutili e comunque evanescenti conoscenze teoriche, si trasfiguri in un giardino gioioso in cui fioriscono flessibilità mentale e competenze pratiche. Non è la prima volta che la pedagogia polemizza con l’istruzione; già Rousseau, che nel suo «Emilio» proclamò di odiare i libri, progettava un’educazione che eludesse le astrattezze della teoria e condizionasse il fanciullo con la segreta manipolazione del suo ambiente; già in lui il rigetto della civiltà diventò divieto di istruire e l’educazione assunse accenti totalitari[1]. In ogni caso è un segno di estrema decadenza che, entro la civiltà ai cui inizi è sbocciata la libera filosofia, si diffami la conoscenza teorica come fonte di corruzione dei giovani. Un simile rovesciamento di valori suggerisce l’opportunità di qualche considerazione altrimenti scontata sul senso dei due concetti.

Educazione si riferisce in genere all’ambito morale, all’acquisire le abitudini che consentono alle persone una convivenza senza troppi attriti. La prima convivenza degli individui è la famiglia. Diretta ai bambini dalla loro nascita, l’educazione familiare procede per lo più muta, per lo più grazie all’imitazione; e quando prende la parola è per lo più proibitiva. Poiché il suo lato positivo consiste nell’imitazione e il suo lato negativo nella proibizione, essa non è più spontanea e creativa dell’istruzione; al contrario, essa limita in silenzio l’ambito dell’esperienza possibile e la spontaneità per proteggerle dalle conseguenze lesive.

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commonware

La morte degli eroi: per agire al di là del bene e del male

Considerazioni a partire da Joker

di Gigi Roggero

51870 JOKER Actor Joaquin Phoenix 4 Credit Nico Tavernise knTE U3140223057880iFD 1224x916Corriere Web Sezioni 593x443“Per il momento viviamo ancora estranei e celati a noi stessi. Per molte altre ragioni ci sarà necessario vivere da solitari e anche portare maschere – ci troveremo quindi male nella ricerca dei nostri simili. Vivremo soli, conosceremo probabilmente tutte le torture delle sette solitudini.”

(F. Nietzsche, 1885)

Questa non è una recensione. La lasciamo a chi è più competente, a chi può parlare correttamente di cinema, a chi può analizzare la fotografia e il montaggio, a chi coglie i particolari e i dettagli, i riferimenti e i collegamenti con altri film. Se diciamo che questa non è una recensione non lo facciamo per abbassare l’asticella delle pretese nel campo della cultura, ma per alzare l’asticella delle pretese nel campo che ci interessa, quello centrale: il campo politico. Non per modestia individuale, ma per ambizione collettiva.

Di che parliamo? Ma di Joker, ovvio. Che palle, ecco che anche quelli di Commonware dicono la loro. Ok, probabilmente avete ragione. Però sappiate che non ce ne frega niente di dire la nostra sul film. A noi interessa utilizzare il film. Senza rispetto per la supposta correttezza interpretativa. Allora liquidiamo ciò che riguarda strettamente i commenti sul film, sul suo regista, sui suoi attori, o meglio sull’unico attore: Phoenix è straordinario, ma non è questo il punto. Non lo è qui per noi, sia chiaro.

E perché vi interessa così tanto utilizzare questo ennesimo prodotto hollywoodiano? Perché come altri grandi prodotti hollywoodiani, e probabilmente più della maggior parte dei grandi prodotti hollywoodiani, ci parla di quella maledetta cosa che si chiama società capitalistica, o ancor meglio civiltà capitalistica. Più precisamente, ci parla della crisi di questa civiltà. La crisi non è lo stadio prima del crollo, niente affatto. La crisi è la verità della civiltà capitalistica. È la civiltà capitalistica nella sua forma esplicita, senza veli e senza fronzoli.

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ilpedante

Problemi falsi, soluzioni vere

di Il Pedante

bosh pietra follia.630x360For a problem can only be solved by a principle.
(G. K. Chesterton)

Esiste una percezione diffusa, che la politica oggi sarebbe incapace di offrire soluzioni ai «problemi dei cittadini» perché troppo lontana dalla «gente». È una percezione che anch'io condivido ma in cui si annida un rischio, di credere che esista davvero un «bene del Paese» indistinto e non invece un sovrapporsi di interessi e bisogni che si limitano a vicenda, in certi casi si escludono. Si negherebbe altrimenti la possibilità di esistere di una politica come scelta di campo possibile tra le tante possibili, di un equilibrio più o meno sbilanciato tra le forze sociali secondo visioni, convinzioni e condizioni diverse.

L'idea di considerare il politico come il luogo di risoluzione o lenimento dei problemi «dei cittadini» produce la convinzione che i suoi fallimenti coincidano con il fallimento delle sue soluzioni. Ma è il contrario. L'elaborazione politica si distingue in modo fondamentale dall'amministrazione perché è chiamata a formulare i problemi, non a risolverli, a stabilire cioè un progetto da affidare all'esecuzione dei tecnici. Quel progetto può essere espresso implicitamente indicando, appunto, i problemi che occorre risolvere per realizzarlo progressivamente. L'approccio di dichiarare i problemi e non direttamente gli obiettivi sottesi ha un vantaggio pragmatico: i primi (ad es. i salari bassi, la disoccupazione, la denutrizione, la mancanza di servizi ecc.) sono concreti e presenti, i secondi (ad es. un livello di vita dignitoso per tutti) sono astratti e lontani e devono in ogni caso scomporsi in una visione problematica che fornisca stimoli all'azione.

La formulazione del problema implica anche la sua collocazione all'interno di una rete di relazioni causali che, a sua volta, disegna sullo sfondo una certa visione della realtà tra le tante possibili.

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paroleecose2

Il suicidio come forma negativa del conflitto sociale

di Carmelo Buscema

[Pubblichiamo un estratto dal cap. 9 del saggio di Carmelo Buscema, Contro il suicidio. Contro il terrore. Saggio sul neoliberalismo letale, recentemente uscito per Mimesis]

tommynease 2Le parole che hanno
un senso e un contenuto
non sono parole assassine.
[Simone Weil, Non ricominciamo la guerra di Troia].

[…] il successo e l’insuccesso non sono che due impostori.
Occorre smettere di scontrarsi con essi,
non hanno alcuna importanza:
nessuno fallisce per davvero
e nessuno ha così tanto successo.
[Jorge Luis Borges, Non c’è nessuno allo specchio].
 
Ho cercato di essere una brava persona, ho commesso molti errori, ho fatto molti tentativi,
ho cercato di darmi un senso e uno scopo usando le mie risorse, di fare del malessere un’arte.
[…] Sono stufo di fare sforzi senza ottenere risultati, stufo di critiche,
stufo di colloqui di lavoro come grafico inutili, stufo di sprecare sentimenti e desideri […], stufo di invidiare,
stufo di chiedermi cosa si prova a vincere, di dover giustificare la mia esistenza senza averla determinata,
stufo di dover rispondere alle aspettative di tutti senza aver mai visto soddisfatte le mie,
stufo di fare buon viso a pessima sorte, di fingere interesse, di illudermi, di essere preso in giro,
di essere messo da parte e di sentirmi dire che la sensibilità è una grande qualità.
Tutte balle […] Da questa realtà non si può pretendere niente. Non si può pretendere un lavoro,
non si può pretendere di essere amati, non si possono pretendere riconoscimenti,
non si può pretendere di pretendere la sicurezza, non si può pretendere un ambiente stabile. […]
È un incubo di problemi, privo di identità, privo di garanzie,
privo di punti di riferimento, e privo ormai anche di prospettive.
Non ci sono le condizioni per impormi, e io non ho i poteri o i mezzi per crearle. […]
Non posso passare la vita a combattere solo per sopravvivere,
per avere lo spazio che sarebbe dovuto, o quello che spetta di diritto,
cercando di cavare il meglio dal peggio che si sia mai visto per avere il minimo possibile.
Io non me ne faccio niente del minimo, volevo il massimo, ma il massimo non è a mia disposizione.
Di no come risposta non si vive, di no si muore.
[Michele (2017)].

Nel saggio intitolato “Non ricominciamo la guerra di Troia” – scritto negli anni tra i due conflitti mondiali, e con sullo sfondo il tragico clamore della guerra civile spagnola –, Simone Weil si faceva beffe del modo in cui il campo progressista pretendeva spiegare quel copioso tributo di vita che intere generazioni hanno ostinatamente continuato a offrire alla morte attraverso la loro partecipazione in massa alle guerre.

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figure

Mondi della differenza

di Figure

figure1111. Nel mondo anglosassone sono conosciute come identity politics e i gruppi cui sono rivolte sono detti identity groups. In Italia non c’è un vero e proprio corrispettivo: a volte si usa “politiche dell’identità”, altre volte “politiche della differenza”. Esse identificano tutti quei discorsi politici che ragionano attorno alla disuguaglianza degli individui o di alcuni gruppi, nel momento in cui questa disuguaglianza deriva da una loro differenza propria. Le due differenze che storicamente hanno fornito il modello apripista per le altre, e per le rispettive politiche, sono quella di genere e di razza.

La necessità di un fronte politico che faccia perno sulle questioni della differenza è figlia delle lotte di liberazione delle colonie, delle lotte per i diritti dei neri e delle lotte femministe degli anni Sessanta e Settanta. Attraverso questa nuova conflittualità sono andati in frantumi i modelli e le norme che si volevano universalistici nella modernità. Diventa palese come l’Uomo, la Libertà, l’Uguaglianza e tutti i valori cardine della migliore cultura occidentale fossero costruiti anche sull’esclusione. A destra come a sinistra, tutti hanno dovuto fare i conti con le questioni che sono state poste da soggetti storicamente esclusi e discriminati nell’esercizio del potere non solamente per una differenza strettamente socio-economica – come vuole la vulgata comunista – ma per elementi che si posizionano su piani diversi.

Fra i due valori cardine di liberté ed égalité, le politiche della differenza aprono alcune contraddizioni: è davvero possibile coniugare l’uguaglianza dei soggetti alla rivendicazione della libertà di essere differenti? Se è possibile, come lo si realizza nella pratica? La complessa portata dei soggetti in campo e dei loro rapporti con la società pone infatti le politiche della differenza in perenne oscillazione tra due alternative: la volontà di essere ricondotti alla norma combattendo per politiche di non discriminazione e di pari opportunità, e un rifiuto della norma escludente unito alla rivendicazione di uno spazio altro e di un diritto differenziale.

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losguardo

Post-democrazia e Gamification ai tempi del “Dataismo”

Alcune considerazioni a partire dal caso Cambridge Analytica

di Lorenzo De Stefano

Una premessa

iStock uomo frammenti 620x372Il 17 marzo 2018 il Guardian, il New York Times e Channel Four hanno reso pubblici gli esiti di un’inchiesta durata circa un anno che ha scosso le fondamenta e la percezione comune del sistema politico statunitense e di quelli che sono ad oggi le principali tecnologie di informazione e di comunicazione: gli OSN1, segnatamente Facebook. Il caso riguardava Cambridge Analytica2, la società finita alla ribalta delle cronache mondiali perché rea di aver influenzato, attraverso un’opera di profiling e screening capillare su 50 milioni di utenti, le elezioni americane, il referendum sulla Brexit e non solo.

Sebbene per i ricercatori che studiano le dinamiche social e per le grosse aziende che detengono le chiavi di accesso e la capacità di gestione di quel meta-spazio, luogo-non luogo che è l’infosfera3, i meccanismi emersi non sono affatto qualcosa di nuovo, ma l’esito di un disegno di controllo biopolitico che ha coinvolto la società americana prima, e globale poi, sin dalla metà degli anni Ottanta4, il ‘caso Cambridge Analytica’ ha esplicitato i rischi e la vulnerabilità del nostro sistema democratico nell’epoca dei big data. La Datacrazia5 e la cultura algoritmica a essa sottesa, epifenomeno di quella che Colin Crouch ha definito Postdemocrazia6 inaugura una nuova frontiera per l’analisi filosofica, politica e sociologica. L’avvento delle nuove tecnologie digitali della comunicazione (ICT) ha posto fine al verticalismo ontologico dei mass media di seconda e terza ondata del secolo scorso, la radio e la televisione, per inaugurare una nuova forma di diffusione disintermediata della notizia in cui ciascun utente è un prosumer7, a un tempo fruitore e produttore di informazione sotto forma di dati e metadati. Tale complesso è comunemente identificato dal termine Big data.

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petiteplaisance

Populismo pedagogico e scuola senza concetto

Cancellare il volto della scuola

di Salvatore Bravo

La scuola facile non libera, ipostatizza il presente, necrotizza la prassi e la trasformazione. La scuola difficile educa alla domanda. La scuola facile non permette al pensiero di configurarsi, ma lo destruttura in chiacchiera. La scuola dell’impegno è la scuola che forma alla costanza, ai tempi del concetto. Non vi è sapere critico se non nella gradualità dell’apprendimento dei contenuti. Il sapere critico deve conoscere la temporalità distesa e densa di contenuti Nell’antiumanesimo programmato il fine è cancellare ogni disponibilità all’umana comprensione

4 paolo e francesca 1 768x972Populismo pedagogico

Il populismo pedagogico è il volto operativo della cattiva politica. Per populismo pedagogico si intende l’esemplificazione fine a se stessa: il semplicismo privo di concetto. In nome dell’esemplificazione si educa alla formazione del suddito, si forgiano le catene dorate dell’ignoranza con la pedagogia del disimpegno, della promozione sociale con contenuti minimi. Ma ciò che maggiormente rende nefasta tale struttura operativa è la formazione di caratteri dalla fragile resistenza alla frustrazione, pronti a rinunciare, a demordere, a svicolare dalle difficoltà. Si rafforza solo l’atomismo narcisistico da cui il mercato attingerà per promuovere i consumi. La comunità è dissolta nell’individualismo. Le azioni pedagogiche personalizzate – in nome della cosiddetta inclusione – sono finalizzate ad assottigliare, fino a divenire programmi e contenuti inconsistenti. In tal modo si ottiene il successo formativo da utilizzare nella campagna acquisti alunni della scuola azienda: la deprivazione culturale è presentata come un’eccellenza della didattica. Tutto dev’essere liscio quanto il desktop di uno smartphone:

«La vera contrapposizione è oggi tra “saperi difficili” e “saperi facili” o, meglio, saperi apparenti, fatti di scorciatoie, semplificazioni, impoverimenti linguistici ed argomentativi, saperi di superficie, saperi di formule. Questa è la vera alternativa per una scuola del futuro, una scuola che insegni a padroneggiare realmente Internet, non solo a saper battere i tasti e a essere schiavi di tutto ciò che passa per questa via».[1]

Il sapere apparente diventa parte fondante dell’industria del falso e del dominio globale. Il populismo pedagogico ha inventato «il docente facilitatore dell’apprendimento». Ovvero, il docente deve essere il regista silenzioso dell’apprendimento, non più educatore, non più punto di riferimento per i contenuti, ma solo un mediatore del lavoro dei discenti, i quali indirettamente stabiliscono contenuti, obiettivi, competenze che naturalmente sono minimi, semplici.

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resistenzealnanomondo

Paradossi delle politiche d’identità

di Silvia Guerini

finestra5“La politica dell’identità non è liberatoria, ma riformista. Non è altro che un terreno fertile per aspiranti politici dell’identità borghese. La loro visione a lungo termine è la piena integrazione dei gruppi tradizionalmente oppressi nel sistema sociale gerarchico e competitivo che è il capitalismo, piuttosto che la distruzione di quel sistema. Il risultato finale è Rainbow Capitalism – una forma più efficiente e sofisticata di controllo sociale in cui ognuno ha la possibilità di recitare una parte!” [1]

Le categorie di razza, genere, nazionalità, sessualità sono servite come giustificazioni per schiavizzare, reprimere, escludere, normalizzare, psichiatrizzare, incarcerare ed è comprensibile che coloro che hanno subito tali discriminazioni e violenze si siano uniti con il desiderio di sradicarle. Ma su cosa si fonda questa unità? Non sulla volontà di combattere il sistema, ma sull’identità categoriale che è servita a giustificare queste discriminazioni. Si sceglie di unirsi non come nemici di un sistema che si vorrebbe distruggere, ma come vittime di un sistema al quale si chiede riconoscimento e diritti andando a omologarsi ai suoi stessi valori.

“Il personale è politico” originariamente indicava la necessità di politicizzare la sfera della vita privata, con il passare del tempo e la fine di una diffusa politica militante, questo approccio si è incancrenito. L’individuo si è chiuso in sè stesso e ha soffocato il proprio agire in una dimensione personale credendo che il cambiamento sociale si possa raggiungere attraverso un cambiamento individuale. Di fatto è più facile avere uno sguardo che si chiude all’interno identificando il problema in sè stesse/i, invece che allargarlo al di fuori e identificando il problema nel sistema, con una conseguente azione verso l’esterno e contro di esso.

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roars

Scuola e cittadinanza sotto i colpi di autonomia e mercato

di Rossella Latempa e Giuseppe De Nicolao

0a4409fd7de9904a5f786d566e19e14d XLNon c’è bisogno di citare Calamandrei per ricordare che cittadini non consapevoli si trasformano facilmente in sudditi. […] L’abdicazione dello Stato dal compito dell’istruzione tramite la sua trasformazione in servizio-merce, offerto sempre più tramite forme privatistiche, da parte di soggetti in competizione tra loro, in concorrenza per risorse sempre più scarse, si disvela allora nella sua essenza: un’incredibile miopia, un gesto autolesionistico di un padre che, avendo affamato i suoi figli viene da questi ucciso, uno scenario da Inferno dantesco cui non vorremmo certo dover assistere.

R. Calvano, “Scuola e Costituzione, tra autonomie e mercato

Scuola e Costituzione, tra autonomie e mercato” (Ediesse, 2019) è un prezioso libro di Roberta Calvano, costituzionalista presso l’Università Unitelma Sapienza, che affronta con la prosa rigorosa del diritto e lo sguardo attento al mondo della scuola, il nesso istruzione – costituzione – cittadinanza, alla luce delle vicende politiche degli ultimi decenni.

Lo spirito del libro è chiaro fin dal titolo: descrivere cosa ne è della scuola italiana e quale sembra essere il suo destino, tra i continui smottamenti di un riformismo permanente, dall’autonomia scolastica di Berlinguer alle recenti spinte del regionalismo differenziato, tutt’ora in corso[1].

Lungo i diversi capitoli, protagonista è il diritto all’istruzione, presupposto di quell’uguaglianza sostanziale che rende effettiva la dimensione politica e rappresentativa di una democrazia. A partire dal quadro costituzionale, il diritto all’istruzione è scandagliato nell’evolvere dei dispositivi legislativi nazionali e sotto le pressioni di politiche sovranazionali sempre più pervasive; infine, messo “allo specchio”, in chiusura del libro, con il suo profilo apparentemente antinomico di dovere all’istruzione, previsto dalla stessa Costituzione.

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labottegadelbarbieri

Vi ricordate di Piazza Fontana? Fu «Strage di stato»

di db – cioè Daniele Barbieri

Propongo una lettura (30 minuti circa) da portare in scena

16512033619Brevissima premessa

Per i 50 anni dalla strage di Piazza Fontana i megafoni dei Palazzi ci sommergeranno di vecchie e nuove bugie. A me pare importante ri-dire le verità scomode. Per questo ho preparato una lettura cercando in 30 minuti di riassumere i perché delle bombe e accennando alle lezioni da trarne sull’oggi. Soltanto 30 minuti perché spero che poi venga voglia di discuterne… Domenica ho fatto la “prima” a Imola: chi c’era dice che funziona e mi incoraggia a replicare. Dunque se la cosa interessa… e se esistono un contesto e un luogo e un adatti… contattatemi: in coda trovate le info utili. Se qualcuna/o fosse interessato ma dicesse «a che titolo ‘sto tipo vuol parlare di una storia così complessa?» rispondo: feci parte del collettivo che scrisse la controinchiesta «La strage di Stato» e poi da solo, nel ’75 , pubblicai «Agenda nera» cioè una breve storia del neofascismo italiano; per questo mi sento se non un “esperto” (bah) comunque un testimone.

Attenzione: qui sotto dove trovate […] significa che sto ancora ritoccando il testo, in cerca di una migliore sintesi.

* * * *

Il 12 dicembre 1969 è un venerdì, giorno in cui le banche sono più affollate del solito.

A Milano nella Banca dell’Agricoltura di piazza Fontana la bomba scoppia alle 16,37: ci sono 17 morti (14 sul colpo) ma anche 87 feriti. Alcuni resteranno mutilati per sempre: vite distrutte eppure di loro non si è parlato quasi mai.

Ma c’è una diciottesima vittima legata a quell’infame strage. Morirà in questura a Milano pochi minuti prima della mezzanotte del 15 dicembre (o forse pochi minuti dopo la mezzanotte… sono versioni differenti ma importanti per giustificare che se ne occupi un altro giudice, quello che entra in turno alle ore 24).

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eticaeconomia

Scissioni e declino dei partiti politici: un problema di exit e voice?

di Eugenio Levi e Maurizio Franzini

740x360photo2L’uscita dal PD di Matteo Renzi e di un consistente drappello di parlamentari per far nascere Italia Viva ha, inevitabilmente, catturato nelle scorse settimane una speciale attenzione. Le caratteristiche personali dell’ex-presidente del Consiglio sono state spesso invocate per spiegare questa scelta scissionista. Non è certo il caso di negare che le caratteristiche personali contano, ma il fenomeno non è certo originale e, soprattutto, le sue cause sono complesse ed è difficile comprenderle senza affrontare il tema del declino dei partiti come organizzazioni politiche. Scopo di queste note è fornire una chiave di lettura del declino dei partiti e delle loro sempre più frequenti scissioni utilizzando le categorie di exit e voice, introdotte da Albert Hirschman e utilizzate proprio per spiegare il declino delle organizzazioni (A. Hirschman, Exit, voice and Loyalty, 1971).

Come è ben noto, secondo Hirschman se l’organizzazione non funziona in modo soddisfacente chi ne fa parte o utilizza i suoi servizi ha sostanzialmente due opzioni per manifestare la propria insoddisfazione. La prima è l’exit, cioè uscire dall’organizzazione cercando altrove quello che l’organizzazione non è in grado di offrire. Nei partiti politici, l’exit si traduce, anzitutto, nella riduzione del numero degli iscritti e dei voti, ma anche in vere e proprie scissioni come quella di Italia Viva, che rappresentano forme più organizzate di exit. L’altra opzione, la voice, racchiude tutte le possibili forme di protesta propositiva indirizzate a segnalare uno stato di insoddisfazione e a suggerire ai dirigenti come ritornare sulla “retta via”. Fra queste annoveriamo la dialettica fra maggioranza e minoranza negli organismi dirigenti del partito e la protesta degli iscritti veicolata attraverso le strutture locali.

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badialetringali

Noi vogliamo l'uguaglianza

di Marino Badiale

IMG 7752I. Introduzione

Nella stagione politica appena trascorsa, un tema di acceso dibattito è stato quello della riforma delle norme relative a separazioni e affidi, riforma proposta col DDL 735, poi divenuto mediaticamente noto come “DDL Pillon” dal nome del Sen. Simone Pillon, il personaggio politico più noto fra i sostenitori del DDL. La caduta del governo Lega-M5S ha cancellato questo tema dall’agenda politica. Può darsi che, appunto per questo, sia possibile adesso una riflessione più serena su questi temi, una riflessione che si distacchi dall’urgenza di attaccare questo o quel partito, questo o quell’esponente politico, e cerchi di andare alla radice dei problemi.

Non è facile discutere di questo tema. Uno degli elementi di difficoltà sta nel fatto che il problema è piuttosto serio e in certi casi anche drammatico, ma è in sostanza ignoto all’opinione pubblica, principalmente perché esso non gode di molto spazio sui media, che ne parlano solo in riferimento a casi particolarmente drammatici. Cerchiamo allora di riassumere i punti fondamentali.

È noto che, a partire dall’introduzione in Italia dell’istituto del divorzio, negli anni Settanta, le cause di separazione, in presenza di figli, sono state risolte, nella stragrande maggioranza dei casi, secondo lo schema per cui i figli venivano “affidati” alla madre, mentre il padre versava un contributo economico (i cosiddetti “alimenti”) e vedeva i figli a intervalli variabili a seconda dei casi ma, nella grande maggioranza dei casi, senza continuità. Questa organizzazione rifletteva naturalmente l’organizzazione famigliare tradizionale, secondo la quale la madre si occupa dei figli e il padre porta i soldi a casa: si tratta, con ogni evidenza, della traduzione di quest’ultimo schema nella nuova situazione della separazione/divorzio. Si tratta di una organizzazione che era sempre meno adeguata alla direzione verso la quale si stava evolvendo la famiglia, segnata dalla tendenza ad una maggiore uguaglianza fra i genitori nell’ambito della gestione della vita domestica e in particolare dei figli.