Print Friendly, PDF & Email
Print Friendly, PDF & Email

ilpedante

Problemi falsi, soluzioni vere

di Il Pedante

bosh pietra follia.630x360For a problem can only be solved by a principle.
(G. K. Chesterton)

Esiste una percezione diffusa, che la politica oggi sarebbe incapace di offrire soluzioni ai «problemi dei cittadini» perché troppo lontana dalla «gente». È una percezione che anch'io condivido ma in cui si annida un rischio, di credere che esista davvero un «bene del Paese» indistinto e non invece un sovrapporsi di interessi e bisogni che si limitano a vicenda, in certi casi si escludono. Si negherebbe altrimenti la possibilità di esistere di una politica come scelta di campo possibile tra le tante possibili, di un equilibrio più o meno sbilanciato tra le forze sociali secondo visioni, convinzioni e condizioni diverse.

L'idea di considerare il politico come il luogo di risoluzione o lenimento dei problemi «dei cittadini» produce la convinzione che i suoi fallimenti coincidano con il fallimento delle sue soluzioni. Ma è il contrario. L'elaborazione politica si distingue in modo fondamentale dall'amministrazione perché è chiamata a formulare i problemi, non a risolverli, a stabilire cioè un progetto da affidare all'esecuzione dei tecnici. Quel progetto può essere espresso implicitamente indicando, appunto, i problemi che occorre risolvere per realizzarlo progressivamente. L'approccio di dichiarare i problemi e non direttamente gli obiettivi sottesi ha un vantaggio pragmatico: i primi (ad es. i salari bassi, la disoccupazione, la denutrizione, la mancanza di servizi ecc.) sono concreti e presenti, i secondi (ad es. un livello di vita dignitoso per tutti) sono astratti e lontani e devono in ogni caso scomporsi in una visione problematica che fornisca stimoli all'azione.

La formulazione del problema implica anche la sua collocazione all'interno di una rete di relazioni causali che, a sua volta, disegna sullo sfondo una certa visione della realtà tra le tante possibili.

Print Friendly, PDF & Email

paroleecose2

Il suicidio come forma negativa del conflitto sociale

di Carmelo Buscema

[Pubblichiamo un estratto dal cap. 9 del saggio di Carmelo Buscema, Contro il suicidio. Contro il terrore. Saggio sul neoliberalismo letale, recentemente uscito per Mimesis]

tommynease 2Le parole che hanno
un senso e un contenuto
non sono parole assassine.
[Simone Weil, Non ricominciamo la guerra di Troia].

[…] il successo e l’insuccesso non sono che due impostori.
Occorre smettere di scontrarsi con essi,
non hanno alcuna importanza:
nessuno fallisce per davvero
e nessuno ha così tanto successo.
[Jorge Luis Borges, Non c’è nessuno allo specchio].
 
Ho cercato di essere una brava persona, ho commesso molti errori, ho fatto molti tentativi,
ho cercato di darmi un senso e uno scopo usando le mie risorse, di fare del malessere un’arte.
[…] Sono stufo di fare sforzi senza ottenere risultati, stufo di critiche,
stufo di colloqui di lavoro come grafico inutili, stufo di sprecare sentimenti e desideri […], stufo di invidiare,
stufo di chiedermi cosa si prova a vincere, di dover giustificare la mia esistenza senza averla determinata,
stufo di dover rispondere alle aspettative di tutti senza aver mai visto soddisfatte le mie,
stufo di fare buon viso a pessima sorte, di fingere interesse, di illudermi, di essere preso in giro,
di essere messo da parte e di sentirmi dire che la sensibilità è una grande qualità.
Tutte balle […] Da questa realtà non si può pretendere niente. Non si può pretendere un lavoro,
non si può pretendere di essere amati, non si possono pretendere riconoscimenti,
non si può pretendere di pretendere la sicurezza, non si può pretendere un ambiente stabile. […]
È un incubo di problemi, privo di identità, privo di garanzie,
privo di punti di riferimento, e privo ormai anche di prospettive.
Non ci sono le condizioni per impormi, e io non ho i poteri o i mezzi per crearle. […]
Non posso passare la vita a combattere solo per sopravvivere,
per avere lo spazio che sarebbe dovuto, o quello che spetta di diritto,
cercando di cavare il meglio dal peggio che si sia mai visto per avere il minimo possibile.
Io non me ne faccio niente del minimo, volevo il massimo, ma il massimo non è a mia disposizione.
Di no come risposta non si vive, di no si muore.
[Michele (2017)].

Nel saggio intitolato “Non ricominciamo la guerra di Troia” – scritto negli anni tra i due conflitti mondiali, e con sullo sfondo il tragico clamore della guerra civile spagnola –, Simone Weil si faceva beffe del modo in cui il campo progressista pretendeva spiegare quel copioso tributo di vita che intere generazioni hanno ostinatamente continuato a offrire alla morte attraverso la loro partecipazione in massa alle guerre.

Print Friendly, PDF & Email

figure

Mondi della differenza

di Figure

figure1111. Nel mondo anglosassone sono conosciute come identity politics e i gruppi cui sono rivolte sono detti identity groups. In Italia non c’è un vero e proprio corrispettivo: a volte si usa “politiche dell’identità”, altre volte “politiche della differenza”. Esse identificano tutti quei discorsi politici che ragionano attorno alla disuguaglianza degli individui o di alcuni gruppi, nel momento in cui questa disuguaglianza deriva da una loro differenza propria. Le due differenze che storicamente hanno fornito il modello apripista per le altre, e per le rispettive politiche, sono quella di genere e di razza.

La necessità di un fronte politico che faccia perno sulle questioni della differenza è figlia delle lotte di liberazione delle colonie, delle lotte per i diritti dei neri e delle lotte femministe degli anni Sessanta e Settanta. Attraverso questa nuova conflittualità sono andati in frantumi i modelli e le norme che si volevano universalistici nella modernità. Diventa palese come l’Uomo, la Libertà, l’Uguaglianza e tutti i valori cardine della migliore cultura occidentale fossero costruiti anche sull’esclusione. A destra come a sinistra, tutti hanno dovuto fare i conti con le questioni che sono state poste da soggetti storicamente esclusi e discriminati nell’esercizio del potere non solamente per una differenza strettamente socio-economica – come vuole la vulgata comunista – ma per elementi che si posizionano su piani diversi.

Fra i due valori cardine di liberté ed égalité, le politiche della differenza aprono alcune contraddizioni: è davvero possibile coniugare l’uguaglianza dei soggetti alla rivendicazione della libertà di essere differenti? Se è possibile, come lo si realizza nella pratica? La complessa portata dei soggetti in campo e dei loro rapporti con la società pone infatti le politiche della differenza in perenne oscillazione tra due alternative: la volontà di essere ricondotti alla norma combattendo per politiche di non discriminazione e di pari opportunità, e un rifiuto della norma escludente unito alla rivendicazione di uno spazio altro e di un diritto differenziale.

Print Friendly, PDF & Email

losguardo

Post-democrazia e Gamification ai tempi del “Dataismo”

Alcune considerazioni a partire dal caso Cambridge Analytica

di Lorenzo De Stefano

Una premessa

iStock uomo frammenti 620x372Il 17 marzo 2018 il Guardian, il New York Times e Channel Four hanno reso pubblici gli esiti di un’inchiesta durata circa un anno che ha scosso le fondamenta e la percezione comune del sistema politico statunitense e di quelli che sono ad oggi le principali tecnologie di informazione e di comunicazione: gli OSN1, segnatamente Facebook. Il caso riguardava Cambridge Analytica2, la società finita alla ribalta delle cronache mondiali perché rea di aver influenzato, attraverso un’opera di profiling e screening capillare su 50 milioni di utenti, le elezioni americane, il referendum sulla Brexit e non solo.

Sebbene per i ricercatori che studiano le dinamiche social e per le grosse aziende che detengono le chiavi di accesso e la capacità di gestione di quel meta-spazio, luogo-non luogo che è l’infosfera3, i meccanismi emersi non sono affatto qualcosa di nuovo, ma l’esito di un disegno di controllo biopolitico che ha coinvolto la società americana prima, e globale poi, sin dalla metà degli anni Ottanta4, il ‘caso Cambridge Analytica’ ha esplicitato i rischi e la vulnerabilità del nostro sistema democratico nell’epoca dei big data. La Datacrazia5 e la cultura algoritmica a essa sottesa, epifenomeno di quella che Colin Crouch ha definito Postdemocrazia6 inaugura una nuova frontiera per l’analisi filosofica, politica e sociologica. L’avvento delle nuove tecnologie digitali della comunicazione (ICT) ha posto fine al verticalismo ontologico dei mass media di seconda e terza ondata del secolo scorso, la radio e la televisione, per inaugurare una nuova forma di diffusione disintermediata della notizia in cui ciascun utente è un prosumer7, a un tempo fruitore e produttore di informazione sotto forma di dati e metadati. Tale complesso è comunemente identificato dal termine Big data.

Print Friendly, PDF & Email

petiteplaisance

Populismo pedagogico e scuola senza concetto

Cancellare il volto della scuola

di Salvatore Bravo

La scuola facile non libera, ipostatizza il presente, necrotizza la prassi e la trasformazione. La scuola difficile educa alla domanda. La scuola facile non permette al pensiero di configurarsi, ma lo destruttura in chiacchiera. La scuola dell’impegno è la scuola che forma alla costanza, ai tempi del concetto. Non vi è sapere critico se non nella gradualità dell’apprendimento dei contenuti. Il sapere critico deve conoscere la temporalità distesa e densa di contenuti Nell’antiumanesimo programmato il fine è cancellare ogni disponibilità all’umana comprensione

4 paolo e francesca 1 768x972Populismo pedagogico

Il populismo pedagogico è il volto operativo della cattiva politica. Per populismo pedagogico si intende l’esemplificazione fine a se stessa: il semplicismo privo di concetto. In nome dell’esemplificazione si educa alla formazione del suddito, si forgiano le catene dorate dell’ignoranza con la pedagogia del disimpegno, della promozione sociale con contenuti minimi. Ma ciò che maggiormente rende nefasta tale struttura operativa è la formazione di caratteri dalla fragile resistenza alla frustrazione, pronti a rinunciare, a demordere, a svicolare dalle difficoltà. Si rafforza solo l’atomismo narcisistico da cui il mercato attingerà per promuovere i consumi. La comunità è dissolta nell’individualismo. Le azioni pedagogiche personalizzate – in nome della cosiddetta inclusione – sono finalizzate ad assottigliare, fino a divenire programmi e contenuti inconsistenti. In tal modo si ottiene il successo formativo da utilizzare nella campagna acquisti alunni della scuola azienda: la deprivazione culturale è presentata come un’eccellenza della didattica. Tutto dev’essere liscio quanto il desktop di uno smartphone:

«La vera contrapposizione è oggi tra “saperi difficili” e “saperi facili” o, meglio, saperi apparenti, fatti di scorciatoie, semplificazioni, impoverimenti linguistici ed argomentativi, saperi di superficie, saperi di formule. Questa è la vera alternativa per una scuola del futuro, una scuola che insegni a padroneggiare realmente Internet, non solo a saper battere i tasti e a essere schiavi di tutto ciò che passa per questa via».[1]

Il sapere apparente diventa parte fondante dell’industria del falso e del dominio globale. Il populismo pedagogico ha inventato «il docente facilitatore dell’apprendimento». Ovvero, il docente deve essere il regista silenzioso dell’apprendimento, non più educatore, non più punto di riferimento per i contenuti, ma solo un mediatore del lavoro dei discenti, i quali indirettamente stabiliscono contenuti, obiettivi, competenze che naturalmente sono minimi, semplici.

Print Friendly, PDF & Email

resistenzealnanomondo

Paradossi delle politiche d’identità

di Silvia Guerini

finestra5“La politica dell’identità non è liberatoria, ma riformista. Non è altro che un terreno fertile per aspiranti politici dell’identità borghese. La loro visione a lungo termine è la piena integrazione dei gruppi tradizionalmente oppressi nel sistema sociale gerarchico e competitivo che è il capitalismo, piuttosto che la distruzione di quel sistema. Il risultato finale è Rainbow Capitalism – una forma più efficiente e sofisticata di controllo sociale in cui ognuno ha la possibilità di recitare una parte!” [1]

Le categorie di razza, genere, nazionalità, sessualità sono servite come giustificazioni per schiavizzare, reprimere, escludere, normalizzare, psichiatrizzare, incarcerare ed è comprensibile che coloro che hanno subito tali discriminazioni e violenze si siano uniti con il desiderio di sradicarle. Ma su cosa si fonda questa unità? Non sulla volontà di combattere il sistema, ma sull’identità categoriale che è servita a giustificare queste discriminazioni. Si sceglie di unirsi non come nemici di un sistema che si vorrebbe distruggere, ma come vittime di un sistema al quale si chiede riconoscimento e diritti andando a omologarsi ai suoi stessi valori.

“Il personale è politico” originariamente indicava la necessità di politicizzare la sfera della vita privata, con il passare del tempo e la fine di una diffusa politica militante, questo approccio si è incancrenito. L’individuo si è chiuso in sè stesso e ha soffocato il proprio agire in una dimensione personale credendo che il cambiamento sociale si possa raggiungere attraverso un cambiamento individuale. Di fatto è più facile avere uno sguardo che si chiude all’interno identificando il problema in sè stesse/i, invece che allargarlo al di fuori e identificando il problema nel sistema, con una conseguente azione verso l’esterno e contro di esso.

Print Friendly, PDF & Email

roars

Scuola e cittadinanza sotto i colpi di autonomia e mercato

di Rossella Latempa e Giuseppe De Nicolao

0a4409fd7de9904a5f786d566e19e14d XLNon c’è bisogno di citare Calamandrei per ricordare che cittadini non consapevoli si trasformano facilmente in sudditi. […] L’abdicazione dello Stato dal compito dell’istruzione tramite la sua trasformazione in servizio-merce, offerto sempre più tramite forme privatistiche, da parte di soggetti in competizione tra loro, in concorrenza per risorse sempre più scarse, si disvela allora nella sua essenza: un’incredibile miopia, un gesto autolesionistico di un padre che, avendo affamato i suoi figli viene da questi ucciso, uno scenario da Inferno dantesco cui non vorremmo certo dover assistere.

R. Calvano, “Scuola e Costituzione, tra autonomie e mercato

Scuola e Costituzione, tra autonomie e mercato” (Ediesse, 2019) è un prezioso libro di Roberta Calvano, costituzionalista presso l’Università Unitelma Sapienza, che affronta con la prosa rigorosa del diritto e lo sguardo attento al mondo della scuola, il nesso istruzione – costituzione – cittadinanza, alla luce delle vicende politiche degli ultimi decenni.

Lo spirito del libro è chiaro fin dal titolo: descrivere cosa ne è della scuola italiana e quale sembra essere il suo destino, tra i continui smottamenti di un riformismo permanente, dall’autonomia scolastica di Berlinguer alle recenti spinte del regionalismo differenziato, tutt’ora in corso[1].

Lungo i diversi capitoli, protagonista è il diritto all’istruzione, presupposto di quell’uguaglianza sostanziale che rende effettiva la dimensione politica e rappresentativa di una democrazia. A partire dal quadro costituzionale, il diritto all’istruzione è scandagliato nell’evolvere dei dispositivi legislativi nazionali e sotto le pressioni di politiche sovranazionali sempre più pervasive; infine, messo “allo specchio”, in chiusura del libro, con il suo profilo apparentemente antinomico di dovere all’istruzione, previsto dalla stessa Costituzione.

Print Friendly, PDF & Email

labottegadelbarbieri

Vi ricordate di Piazza Fontana? Fu «Strage di stato»

di db – cioè Daniele Barbieri

Propongo una lettura (30 minuti circa) da portare in scena

16512033619Brevissima premessa

Per i 50 anni dalla strage di Piazza Fontana i megafoni dei Palazzi ci sommergeranno di vecchie e nuove bugie. A me pare importante ri-dire le verità scomode. Per questo ho preparato una lettura cercando in 30 minuti di riassumere i perché delle bombe e accennando alle lezioni da trarne sull’oggi. Soltanto 30 minuti perché spero che poi venga voglia di discuterne… Domenica ho fatto la “prima” a Imola: chi c’era dice che funziona e mi incoraggia a replicare. Dunque se la cosa interessa… e se esistono un contesto e un luogo e un adatti… contattatemi: in coda trovate le info utili. Se qualcuna/o fosse interessato ma dicesse «a che titolo ‘sto tipo vuol parlare di una storia così complessa?» rispondo: feci parte del collettivo che scrisse la controinchiesta «La strage di Stato» e poi da solo, nel ’75 , pubblicai «Agenda nera» cioè una breve storia del neofascismo italiano; per questo mi sento se non un “esperto” (bah) comunque un testimone.

Attenzione: qui sotto dove trovate […] significa che sto ancora ritoccando il testo, in cerca di una migliore sintesi.

* * * *

Il 12 dicembre 1969 è un venerdì, giorno in cui le banche sono più affollate del solito.

A Milano nella Banca dell’Agricoltura di piazza Fontana la bomba scoppia alle 16,37: ci sono 17 morti (14 sul colpo) ma anche 87 feriti. Alcuni resteranno mutilati per sempre: vite distrutte eppure di loro non si è parlato quasi mai.

Ma c’è una diciottesima vittima legata a quell’infame strage. Morirà in questura a Milano pochi minuti prima della mezzanotte del 15 dicembre (o forse pochi minuti dopo la mezzanotte… sono versioni differenti ma importanti per giustificare che se ne occupi un altro giudice, quello che entra in turno alle ore 24).

Print Friendly, PDF & Email

eticaeconomia

Scissioni e declino dei partiti politici: un problema di exit e voice?

di Eugenio Levi e Maurizio Franzini

740x360photo2L’uscita dal PD di Matteo Renzi e di un consistente drappello di parlamentari per far nascere Italia Viva ha, inevitabilmente, catturato nelle scorse settimane una speciale attenzione. Le caratteristiche personali dell’ex-presidente del Consiglio sono state spesso invocate per spiegare questa scelta scissionista. Non è certo il caso di negare che le caratteristiche personali contano, ma il fenomeno non è certo originale e, soprattutto, le sue cause sono complesse ed è difficile comprenderle senza affrontare il tema del declino dei partiti come organizzazioni politiche. Scopo di queste note è fornire una chiave di lettura del declino dei partiti e delle loro sempre più frequenti scissioni utilizzando le categorie di exit e voice, introdotte da Albert Hirschman e utilizzate proprio per spiegare il declino delle organizzazioni (A. Hirschman, Exit, voice and Loyalty, 1971).

Come è ben noto, secondo Hirschman se l’organizzazione non funziona in modo soddisfacente chi ne fa parte o utilizza i suoi servizi ha sostanzialmente due opzioni per manifestare la propria insoddisfazione. La prima è l’exit, cioè uscire dall’organizzazione cercando altrove quello che l’organizzazione non è in grado di offrire. Nei partiti politici, l’exit si traduce, anzitutto, nella riduzione del numero degli iscritti e dei voti, ma anche in vere e proprie scissioni come quella di Italia Viva, che rappresentano forme più organizzate di exit. L’altra opzione, la voice, racchiude tutte le possibili forme di protesta propositiva indirizzate a segnalare uno stato di insoddisfazione e a suggerire ai dirigenti come ritornare sulla “retta via”. Fra queste annoveriamo la dialettica fra maggioranza e minoranza negli organismi dirigenti del partito e la protesta degli iscritti veicolata attraverso le strutture locali.

Print Friendly, PDF & Email

badialetringali

Noi vogliamo l'uguaglianza

di Marino Badiale

IMG 7752I. Introduzione

Nella stagione politica appena trascorsa, un tema di acceso dibattito è stato quello della riforma delle norme relative a separazioni e affidi, riforma proposta col DDL 735, poi divenuto mediaticamente noto come “DDL Pillon” dal nome del Sen. Simone Pillon, il personaggio politico più noto fra i sostenitori del DDL. La caduta del governo Lega-M5S ha cancellato questo tema dall’agenda politica. Può darsi che, appunto per questo, sia possibile adesso una riflessione più serena su questi temi, una riflessione che si distacchi dall’urgenza di attaccare questo o quel partito, questo o quell’esponente politico, e cerchi di andare alla radice dei problemi.

Non è facile discutere di questo tema. Uno degli elementi di difficoltà sta nel fatto che il problema è piuttosto serio e in certi casi anche drammatico, ma è in sostanza ignoto all’opinione pubblica, principalmente perché esso non gode di molto spazio sui media, che ne parlano solo in riferimento a casi particolarmente drammatici. Cerchiamo allora di riassumere i punti fondamentali.

È noto che, a partire dall’introduzione in Italia dell’istituto del divorzio, negli anni Settanta, le cause di separazione, in presenza di figli, sono state risolte, nella stragrande maggioranza dei casi, secondo lo schema per cui i figli venivano “affidati” alla madre, mentre il padre versava un contributo economico (i cosiddetti “alimenti”) e vedeva i figli a intervalli variabili a seconda dei casi ma, nella grande maggioranza dei casi, senza continuità. Questa organizzazione rifletteva naturalmente l’organizzazione famigliare tradizionale, secondo la quale la madre si occupa dei figli e il padre porta i soldi a casa: si tratta, con ogni evidenza, della traduzione di quest’ultimo schema nella nuova situazione della separazione/divorzio. Si tratta di una organizzazione che era sempre meno adeguata alla direzione verso la quale si stava evolvendo la famiglia, segnata dalla tendenza ad una maggiore uguaglianza fra i genitori nell’ambito della gestione della vita domestica e in particolare dei figli.

Print Friendly, PDF & Email

roars

Scuola: un tema nelle mani di un gruppetto di “specialisti”?

di Lucio Russo

Ripubblichiamo di seguito la recensione di Lucio Russo al volume di Ernesto Galli Della Loggia, L’aula vuota. Come l’Italia ha distrutto la sua scuola. Il titolo con il quale pubblichiamo lo scritto è stato scelto dalla Redazione di Roars. Il testo è originariamente apparso su Anticitera. [NdR]

men in black maxw 824Il dibattito sulla scuola, che attrae di solito molta meno attenzione di quanto meriterebbe, si è arricchito di recente di questo interessante contributo di Ernesto Galli della Loggia, che è allo stesso tempo un saggio abbastanza documentato sulla storia della crisi della scuola italiana e un pamphlet in cui le idee dell’autore sul tema (ma anche sulla politica italiana e sulla cultura in generale) sono esposte con il consueto vigore.

Tra le tesi esposte in questo libro condivido innanzitutto l’affermazione del ruolo centrale svolto dalla scuola nella vita degli Stati in generale e, in particolare, nell’Italia postunitaria. Scrive Galli della Loggia (p.14):

[…] nei decenni successivi all’Unità, mentre l’analfabetismo veniva sia pur lentamente riducendosi, furono essenzialmente l’istruzione superiore e l’università a fornire alla giovane nazione le élite necessarie alla sua crescita. E fu così che, già dalla fine dell’Ottocento, l’Italia poté contare su ottimi ingegneri, matematici illustri, filologi, medici ed economisti di vaglia. Le prime reti moderne che si videro nella Penisola – quella ferroviaria e quella dell’elettricità – furono realizzate in larghissima misura da persone formatesi nella scuola italiana.

In questo brano sono implicitamente individuati due fini della scuola: l’elaborazione e trasmissione di competenze tecniche utili nel lavoro e la formazione delle élite. Galli della Loggia sottolinea però giustamente che la scuola deve innanzitutto e soprattutto avere un altro fine: preparare alla vita, dotando i giovani (tutti i giovani per i quali è possibile farlo) di una cultura generale che permetta loro di uscire dalla propria particolarità e di mettersi in relazione con il mondo passato e presente, con tutti i suoi pensieri, i suoi protagonisti e i suoi fatti, raggiungendo così una pienezza di vita altrimenti impossibile (p. 12).

Print Friendly, PDF & Email

militant

L’impossibile cambiamento

di Militant

albero cade macchina romaQuando nel giugno 2016 Il Movimento Grillino riuscì a conquistare il Campidoglio con Virginia Raggi, grazie al massiccio consenso registrato nelle periferie della città, si pensò, con molti se, che la debacle del Pd e di quel sistema di potere pervasivo che aveva governato per alcuni decenni, si fosse scomposto, disarticolato. Non certo il partito degli affari ma almeno il referente politico bipartisan che aveva diligentemente portato avanti le politiche liberiste nella città. Sappiamo tutti com’è andata e nessuno nel nostro campo, nonostante l’evidente soddisfazione per la rovinosa sconfitta del PD, considerava la nuova giunta dell’onestà e della trasparenza”, una giunta che sarebbe stata amica dei movimenti e risolutrice di alcune grandi questioni sociali che affliggevano in particolare la metropoli romana.

Tanta acqua è passata sotto i ponti da quel 2016: abbiamo visto il Renzismo cadere nel giro di un anno, le elezioni del 4 marzo 2018, l’alleanza giallo verde, l’ascesa del Salvinismo (ancora in corso) in consistenti settori delle masse popolari e l’avvento dell’inedita alleanza di sistema Grillo Renzi. A tre anni di distanza occorre tracciare un bilancio di questo tempo trascorso, partendo da alcune premesse necessarie e non scontate che riguardano il governo della città liberista.

La prima riguarda il contesto, la cornice politica della crisi generale, che è in primis economica e sociale, senza cui è impossibile comprendere la crisi del governo della città. Questa premessa è necessaria per capire la sostanziale ingovernabilità del regime metropolitano, in assenza di una politica espansiva, in cui il diktat, mai messo in discussione, del pareggio di bilancio, è un totem intoccabile. Contro questo macigno posto sull’unica strada percorribile, nessuno, neanche la forza più popolare e di sinistra, sarebbe in grado di segnare quella famosa discontinuità o cambiamento.

Print Friendly, PDF & Email

carmilla

Città per turisti

di Alessandro Barile

Sarah Gainsforth, Airbnb città merce, DeriveApprodi, 2019, pp. 191, € 18,00

Gainsforth ritaglio 1024x576Bisognerebbe riflettere sul ritardo che l’Italia – e Roma in particolare – sconta riguardo ai temi della gentrificazione, della “turistificazione” dei centri urbani, degli stravolgimenti che in questi decenni recenti hanno sconvolto la morfologia delle sue principali città d’arte. Un paese pioniere della riflessione urbanistica si è trovato improvvisamente impreparato di fronte alle tormentate sfide che distinguono il volto di città e metropoli dei nostri giorni. A dire il vero gli ultimi anni hanno visto un inevitabile recupero: la trasformazione della città si è imposta quale motivo di analisi di un nuovo modello estrattivo, al tempo stesso produttivo, finanziario e parassitario. Il libro di Sarah Gainsforth si inserisce precisamente in questo movimento di attivismo politico-culturale: recuperare il tempo perduto, aggiornando interpretazioni sfocate, ormai incapaci di comprendere i fenomeni sociali che investono l’ambiente urbano. Come ogni lavoro di questo tipo, si presenta immediatamente interessante e inevitabilmente parziale. Interessante perché l’autrice coglie il motivo decisivo: smascherare le retoriche del capitalismo parassitario che travolge i centri urbani e li trasforma in qualcos’altro (ma cos’altro? Questa rimane la domanda inevasa); parziale perché, per l’appunto, pioneristico – almeno, come detto, nel nostro paese – e che quindi non può servirsi di una mole dignitosa e condivisa di studi italiani rilevanti sull’argomento. Si presenta dunque come lavoro dal quale partire, ed è la sua inequivocabile importanza.

Proviamo a centrare subito il tema, liberandoci dalle pastoie sociologiche o urbanistiche che ingarbugliano il problema dentro punti di vista troppo ristretti per svelare pienamente la complessità della vicenda: la città attuale è il prodotto della crisi economica.

Print Friendly, PDF & Email

petiteplaisance

Gilles Lipovetsky e la società della seduzione

di Salvatore Bravo

Se il capitalismo immateriale avanza senza limiti, ciò è possibile perché mancano le narrazioni veritative. Se la Filosofia si limita ad una critica sociologica e non propone la verità come centro di un processo rivoluzionario, la sua critica è solo puro parlare senza effetti

piacere e colpire 2954Capitalismo immateriale

Il capitalismo si autofeconda mediante un movimento perennemente innovativo. Non solo è capace di adattarsi alle circostanze storiche, ma fagocita i movimenti di emancipazione e di liberazione riducendoli a merce, e abbattendo persino le frontiere che esso stesso ha creato. Siamo dinanzi ad una nuova fase che rende il capitalismo certamente non diverso dalla sua essenza, ma con effetti amplificati dai mezzi utilizzati. Le fasi del capitalismo rivelano, in modo sempre più esponenziale, la sua intrinseca natura: si installa nelle relazioni umane, entra nella vita degli uomini per trasformarla in plusvalore, sostituisce il concetto con la gestualità seduttiva. La fase attuale è “rivoluzionaria”, perché accelera tale automatismo. Il capitalismo immateriale utilizza il digitale e gli algoritmi non solo per produrre, ma per orientare le scelte e la vita dei soggetti sussunti al suo invisibile potere.

 

L’incanto

L’incanto del capitalismo immateriale è nella narrazione che esso fa di se stesso: promette la pienezza, producendo a ciclo continuo – con sogni di onnipotenza narcisistica – una nuova percezione del tempo incentrata sul bisogno-desiderio. I bisogni-desideri sono l’incanto della speranza mondana, il tempo dura quanto è necessario per desiderare e consumare, il disincanto è subito compensato da un nuovo sogno. È l’eterno ritorno nella prospettiva dell’homo consumericus. La forza dell’incanto del capitalismo immateriale è nel non lasciare tempo al consumatore; non vi devono essere archi temporali vuoti, in cui il pensiero può concettualizzare con profondità, giustapporre i sogni ed i disincanti in modo sempre più veloce consente il radicamento dell’incantatore e lo sradicamento da se stesso, dal logos e dalla comunità del soggetto.

Print Friendly, PDF & Email

osservatorioglobalizzazione

Alain de Benoist e la polemica coi cattolici

di Matteo Luca Andriola

alain de benoist moment populiste1Lo storico Massimo Capra Casadio, nel suo libro Storia della Nuova Destra La rivoluzione metapolitica dalla Francia all’Italia (1974-2000) (Clueb, 2013), documentava il dibattito – e la differenza ontologica – fra “Nuova Destra” italiana e “Nouvelle Droite” francese sul tema cruciale dell’anticristianesimo. «Facemmo finta di niente», afferma Solinas nel libro; e questo per una serie di ragioni basilari: in Italia uno scontro frontale con la Chiesa Cattolica era impensabile, specie in un’area come quella della destra che, anche se al suo interno vi erano posizioni diverse sul tema, cercava di intercettare voti da quell’area. Ora Alain de Benoist, a proposito dell’idea dei suoi amici italiani che «si potevano accogliere molto bene in Italia le idee della Nouvelle Droite senza abbordare dei temi così ‘inutilmente’ scioccanti», afferma: «Io non sono convinto della sensatezza di questo modo di procedere». Denuncia una «incomprensione» degli italiani, che hanno considerato l’anticristianesimo e il paganesimo di de Benoist come qualche cosa che «dipend[esse] da un hobby, se non addirittura da una mania».

Mentre si tratta dell’architrave di tutto il pensiero di de Benoist: «fare a meno della mia critica al Cristianesimo è, ai miei occhi, intellettualmente impossibile». «Per chi considera con Nietzsche che la cristianizzazione dell’Europa […] fu uno degli avvenimenti più disastrosi di tutta la storia fino ai nostri giorni — una catastrofe nel senso proprio del termine — che può significare oggi la parola “paganesimo”?», scriveva De Benoist nel libro Comment peut-on être païen?[1] Anche se l’Autore sottolinea che «ritorno all’anteriore» è «impraticabile» e ne consegue che «un nuovo paganesimo deve essere veramente nuovo».[2] Per de Benoist ormai «non v’è bisogno di “credere” in Giove o in Wotan — […] — per essere pagani. Il paganesimo oggi non consiste nell’innalzare altari ad Apollo o nel resuscitare il culto di Odino.

Print Friendly, PDF & Email

micromega

Gli insegnanti, la rivoluzione digitale e un recente libro di Alessandro Baricco

di Carlo Scognamiglio

scuola istruzione digitalePoiché vita reale e comunicazione digitale sono oggi inscindibili e nel digitale vive una parte importante del nostro sistema simbolico, gli insegnanti dovrebbero superare tanto la visione “apocalittica” quanto quella “integrata” riguardo all’uso della tecnologia nella didattica. Tra i compiti della scuola, quindi, anche quello di una vera e propria alfabetizzazione digitale per decifrare il nuovo orizzonte d’esistenza.

 

1. C’è una questione, nel dibattito culturale italiano, che necessita di ulteriori approfondimenti. Non certo orfana della giusta attenzione da parte degli studiosi, credo tuttavia che vada interrogata con un approccio meno tecnico. Mi riferisco al rapporto tra istruzione e tecnologie digitali. Non ho esordito evocando la necessità di un supplemento d’inchiesta in ambito esclusivamente pedagogico, perché mi vado sempre più persuadendo dell’impatto sociale della questione, che quindi pretende un più ampio ambiente di osservazione. Ci sono livelli di indagine stratificati, in questo caso. Ci sono le aspettative delle famiglie, delle aziende, degli studenti stessi. Ci sono poi le relazioni mediche e le programmazioni didattiche. Esiste il tema politico e la questione psicologica. Come dire? L’assoluta pervasività della tecnologia digitale nel nostro esistere è tale da aver terremotato l’intero impianto culturale degli stili di vita, e in generale della nostra civiltà.

Alcune precisazioni sono obbligatorie. Se parliamo di tecno-logia non ci riferiamo soltanto allo strumento e ai diversi mediatori elettronici di cui ci siamo circondati. Intendiamo infatti per “tecnologia” il sistema degli strumenti (hardware e software) che anno dopo anno semplificano le nostre azioni, ma anche il ragionamento – o discorso (λόγος) – sulla tecnica. Ciò significa che non possiamo scindere i mezzi dal loro impatto (simbolico, pratico e valoriale) sulla cultura. Le cose cambiano. Bisogna capire come, e anche perché.

Print Friendly, PDF & Email

quadernidaltritempi

Interpretare il futuro? Non basta, va trasformato

di Roberto Paura

Martin Rees: Il nostro futuro, Traduzione di Luigi Civalleri Treccani, Roma, 2019 pp. 180, € 21,00

mosaico futuro 01Tra le letture preferite del piccolo Martin Rees nell’Inghilterra degli anni Cinquanta c’era Eagle, una serie a fumetti che raccontava le gesta di Dan Dare, “pilota del futuro”. “C’erano bellissime illustrazioni di città in orbita, gente che volava con i jetpack e invasori alieni”. Non c’è da meravigliarsi se la generazione di Rees “seguì con entusiasmo le imprese eroiche dei pionieri”, dal momento che “le tute degli astronauti della Nasa (e dei cosmonauti sovietici) mi erano familiari, tanto quanto le procedure di lancio e rientro”. Oggi Martin Rees è dal 1995 Astronomo reale britannico, dal 2005 membro della Camera dei Lord e fino al 2010 presidente della Royal Society. Ma è anche e soprattutto un attento studioso del futuro. Nel 2003 pubblica Il secolo finale, testo che tra i primi introduce il concetto di “rischio esistenziale” e associa l’accelerazione del progresso tecno-scientifico a possibili scenari estintivi per la civiltà umana entro questo secolo. Il nostro futuro, pubblicato quest’anno e subito portato in Italia dalla nuova collana Visioni della Treccani, condensa le visioni del futuro di Rees “in qualità di scienziato, di cittadino e di membro preoccupato della specie umana”. Dopo questo titolo, la collana ha proposto La terra, la storia e noi, denso trattato sull’evento Antropocene degli storici francesi Christopher Bonneuil e Jean-Baptiste Fressoz, e il testo-manifesto di Peter Frase, Quattro modelli di futuro, pubblicato nel 2016 dalla casa editrice Verso con il titolo Four Futures. Insieme, questi tre titoli ci offrono un itinerario privilegiato per addentrarci tra i nostri futuri possibili.

 

Il futurismo ben temperato

Partiamo da Rees. Il suo è un testo classico di futurologia (o futurismo: in Italia si sta affermando questa traduzione dell’anglosassone futurism per cercare di sottrarla al suo pesante retaggio ideologico del primo Novecento).

Print Friendly, PDF & Email

contropiano2

Le università e i giovani nel tritacarne della crisi e dei diktat europei

di Leonardo Bargigli*

Una recensione del volume “Giovani a Sud della Crisi”, basata sulla relazione presentata durante il dibattito sul libro tenutosi a Firenze l’8 maggio 2019 nell’ambito del festival Unifight organizzato dal Collettivo Politico di Scienze Politiche

test medicina ftg 620x360Dopo l’approvazione della riforma Gelmini nel 2010, l’attenzione per le sorti del sistema universitario italiano è calata paurosamente. Il disinteresse sociale è andato di pari passo con il drastico ridimensionamento dell’istruzione universitaria. Dopo gli anni della “bolla formativa” gonfiata dalla propaganda sugli “obiettivi di Lisbona”[1] e sull’ “economia della conoscenza”, crisi e austerità hanno tolto sostanza a molti appetiti baronali e padronali, ed è rimasta nuda e cruda sul terreno una realtà fatta di precarietà, sfruttamento e salari da fame. Una realtà che, per chi l’ha voluta vedere, è sempre stata il pane quotidiano delle generazioni che hanno frequentato le aule universitarie negli ultimi decenni.

Il corpo docente ha continuato, tranne rare eccezioni, a tacere, mentre l’Università italiana si asserviva agli imperativi dell’accumulazione capitalistica su scala europea. E senza dubbio è venuto calando, sotto i colpi della repressione, anche il livello di conflittualità studentesca[2]. Se questo è lo stato dell’arte, il lavoro di Noi Restiamo è meritorio, prima di ogni altra considerazione, perché nasce in un contesto culturale difficile, che si è reso sempre più sordo se non ostile ad ogni forma di riflessione collettiva. I suoi meriti però non si limitano affatto a questo. Il libro è prezioso perché affronta in modo organico il nesso tra tre processi che sono di fondamentale importanza:

  1. la ristrutturazione del sistema formativo universitario
  2. l’accumulazione del capitale su scala europea
  3. le ricadute di tale accumulazione sui territori e sulle sovrastrutture politiche e giuridiche

Nel seguito cercherò di chiarire l’articolazione e i legami reciproci di questi processi partendo proprio dall’angolo di osservazione offerto dalla realtà universitaria – quella che conosco meglio[3].

Print Friendly, PDF & Email

vocidallestero

Contro la felicità

Intervista di David Broder a Edgar Cabanas e Eva Illouz

Un mondo che vuole mantenere lo status quo cerca di imporci la felicità come supremo dovere individuale, forse per paura di cosa potrebbe fare una società che accettasse di essere arrabbiata. Jacobin Mag intervista Edgar Cabanas ed Eva Illouz, autori di un saggio che critica il pervasivo movimento ideologico noto da vent’anni come “psicologia positiva” ed “economia della felicità”: ammantato di pretese scientifiche, è il solito vecchio puntello culturale al pensiero unico neo-liberale, che vuole convincerci di essere tutti imprenditori di noi stessi. Ma se la felicità diventa un opprimente dovere da perseguire individualmente, le implicazioni di questo sono profonde quanto già note: i grandi cambiamenti socioeconomici non sono possibili e comunque non servono, mentre i sentimenti negativi (paura, rabbia) vengono denigrati prima e poi criminalizzati

Screenshot from 2019 09 08 15 01 11La felicità suona come una bella cosa. Non per nulla c’è un sacco di gente nel mondo che è pronta a vendercela. C’è un’industria con un giro di 12 miliardi di dollari all’anno che produce libri di auto-aiuto, conferenze, materiale audiovisivo, tutta roba che ci spiega quali sono i piccoli cambiamenti che tutti noi possiamo fare per raggiungere questa elusiva esistenza felice: dal visualizzare i nostri successi futuri al perdere peso o riordinare la nostra stanza.

Fino dalla fine degli anni ’90 questa industria è sostenuta da un bastione di scientificità, ovvero dalla “psicologia positiva”, promossa dall’ex presidente della American Psychological Association, Martin Seligman. La sua idea di “ottimismo appreso”, assieme a concetti come la “mindfulness”, è diventata parte delle idee che il buon senso ci suggerisce per migliorare la nostra esistenza.

Alcuni di questi discorsi sembrano voler creare un “culto”, e assomigliano piuttosto a invocazioni a digerire una realtà della quale siamo scontenti. Viene suggerito che i nostri problemi siano tutti nelle nostre teste, così come il sentiero per trasformarci in persone migliori. Non sorprende che tutto questo venga usato nei posti di lavoro per farci restare belli sorridenti mentre facciamo quello che ci dicono di fare.

Print Friendly, PDF & Email

jacobin

Il femminismo è uno dei fronti della lotta di classe

Rebeca Martinez intervista Nancy Fraser

Gente come Hillary Clinton ha macchiato il nome del femminismo, associandolo al neoliberismo e alle politiche contro la working class. Per Nancy Fraser, femminismo vuol dire rovesciare il potere delle corporation, non dare loro un volto femminile

99 jacobin italia 1320x481Negli ultimi anni abbiamo assistito alla crescita di un movimento femminista working class, dalle proteste globali contro la violenza domestica e le molestie sul luogo di lavoro fino agli scioperi di massa che hanno caratterizzato l’8 marzo in Spagna, Polonia e oltre. Eventi che ci parlano di un femminismo anti-sistemico, capace di andare oltre la variante liberale e individualistica promossa da gente come Hillary Clinton.

Un’espressione di questa nuova ondata è il manifesto Femminismo per il 99% (Laterza, 2019). Le autrici insistono sul fatto che il femminismo non sia un’alternativa alla lotta di classe, ma rappresenti invece un fronte decisivo nella lotta per un mondo libero dal capitalismo e da tutte le forme di oppressione.

Nancy Fraser è co-autrice del manifesto, insieme a Cinzia Arruzza e Tithi Bhattacharya. Rebeca Martínez di Vientosur ha parlato con lei del libro, della sua critica al cosiddetto «liberalismo progressista», e della sua idea di un femminismo che metta la voce delle donne working class e razzializzate al centro della scena.

* * * *

Cos’è esattamente il Femminismo per il 99%, e perché scrivere oggi un manifesto del genere?

Un manifesto è uno scritto breve che si vorrebbe non accademico, ma popolare e accessibile. L’ho scritto insieme alla femminista italiana Cinzia Arruzza, che vive a New York, e a Tithi Bhattacharya, donna anglo-indiana che insegna negli Stati Uniti.

Questa è la prima volta dal ‘68 – sono stata un’attivista negli anni Sessanta e Settanta – che ho scritto un libro di vera propaganda politica. D’altra parte, sono soprattutto una professoressa di filosofia.

Print Friendly, PDF & Email

jacobin

Gli spazzini invisibili di internet

di Emily Drabinski

Un esercito nascosto di decine di migliaia di moderatori di contenuti è al lavoro ogni giorno – in condizioni spesso spaventose – per rendere Internet il pianeta abitabile che conosciamo. All’origine di tutto questo c’è la Silicon Valley

bpo jacobin italia 1320x481A Manila, nelle Filippine, nel cuore del grande centro commerciale di Eastwood del distretto di Quezon City, sorge un monumento «agli uomini e le donne che si sono impegnati con passione nel settore dell’outsourcing dei processi aziendali». Un uomo e una donna con cuffie e valigette 24 ore si rivolgono a un futuro radioso circondati da uccelli volanti d’acciaio. A pochi passi da lì c’è il bar Coffee Bean & Tea Leaf, dove Sarah T. Roberts ha intervistato un gruppo di moderatori di contenuti commerciali per il suo saggio intitolato Behind the Screen, il cui sottotitolo recita La moderazione dei contenuti all’ombra dei social media. La moderazione dei contenuti commerciali, o Ccm, è uno dei lavori più sporchi di questa stagione in cui internet è in mano alle grandi aziende tecnologiche. Il lavoro consiste nel rivedere, vagliare e rimuovere contenuti violenti, razzisti e inquietanti pubblicati sia su social network come Facebook e YouTube, sia nella sezione commenti dei siti web dei principali marchi. 

Roberts racconta come quegli stessi fattori economici e sociali che producono per noi esperienze digitali quotidiane relativamente sterilizzate, producono anche una classe globale di lavoratori della moderazione dei contenuti commerciali, legati l’uno all’altro da condizioni di lavoro fatte di contingenza, salari al ribasso, velocità, carichi di lavoro sempre più alti, e sulla continua esposizione ai peggiori elementi dell’umanità, a qualunque ora del giorno o della notte. Roberts ha intervistato lavoratori di diverse categorie: filippini che lavorano normalmente nel settore dell’outsourcing (chiamato tecnicamente Bpo, Business Process Outsourcing) e accettano lavori di Ccm quando non sono disponibili posizioni più competitive nei call-center; oppure giovani laureati di San Francisco i cui grandi sogni tecnologici si trasformano in realtà di precariato a tempo indeterminato; fino a dirigenti di aziende appaltatrici americane che promuovono l’americanità dei loro moderatori umani, secondo una xenofobia pienamente in sintonia con la politica americana contemporanea.

Print Friendly, PDF & Email

ilpedante

Sineddoche Bibbiano

di Il Pedante

14574290010 2cd27376c8 zUna patologia sociale?

Confesso che quando alcuni amici mi hanno chiesto un commento strutturato sull'inchiesta di Bibbiano, ho dubitato di potercela fare. Perché se fosse confermata anche solo una frazione di ciò che i magistrati contestano agli operatori sociali, alle famiglie affidatarie e agli amministratori della Val d’Enza, ci troveremmo di fronte alla più pura epifania del male. Da quei fatti emergerebbe una volontà sadica e più che bestiale di traumatizzare a vita i più innocenti e di gettare le loro famiglie in uno strazio senza fine e senza scampo – perché imposto dalla legge – spezzando in un sol colpo i vincoli sociali e della carne. Per un genitore è insopportabile il pensiero di quei piccoli che si addormentano tra le lacrime, lontani da casa, indotti a odiare chi li ama, in certi casi maltrattati, affidati a squilibrati o molestati sessualmente (!), mentre padri e madri inviano lettere e regali che non saranno mai recapitati e pregano di uscire da un incubo che non osano denunciare per non perdere l’ultima speranza di riabbracciare i loro figli. Con buona pace del codice penale, i reati qui ipotizzati superano per gravità l’omicidio: perché fanno morire l’anima, non il corpo. Svuotano le persone e le lasciano vivere nel dolore.

I presunti abusi della Val d’Enza sono, appunto, presunti fino a sentenza. Ma il loro modus operandi e il ricorrere di alcuni protagonisti hanno fatto riemergere il ricordo di altri allontanamenti famigliari poi rivelatisi, anche in giudizio, gravemente ingiustificati, e dell'irreparabile scia di dolore che hanno inciso nelle comunità colpite. Il clamore delle cronache ha inoltre ridato forza alla denuncia di poche voci finora isolate, di un sistema che anche quando resta nel perimetro di una legalità formale conferisce agli operatori sociali un potere senza effettivi contrappesi in grado di strappare i figli alle famiglie per anni con le più arbitrarie delle motivazioni: dalla «inadeguatezza educativa» all'indigenza, dalla conflittualità tra i coniugi al disordine domestico, dalla «ipostimolazione» dei figli alla «immaturità» dei genitori. Queste fattispecie non sarebbero residuali ma prevalenti, come si apprende da un'indagine parlamentare conclusasi nel 2018:

Print Friendly, PDF & Email

marx xxi

Come dare la colpa agli hacker nordcoreani

di Francesco Galofaro*

mano codicebinarioPerché è sempre colpa della Corea del Nord? O degli hacker russi? La risposta può venire, forse, dalla narratologia. Come sappiamo, non c’è giallo senza colpevole: se, giunto all’ultima pagina, il lettore viene lasciato in preda ai suoi dubbi, il romanzo cambia genere e diventa letteratura colta. Lo stesso dicasi per le inchieste giornalistiche sui crimini informatici: i colpi più efferati degli ultimi decenni devono avere un autore; dietro le maschere anonime di pseudonimi come Shadow Brokers, Lazarus, Guccifer 2.0 deve esserci un volto. Nell’impossibilità di individuare i reali responsabili, che probabilmente godono dei frutti delle proprie rapine in qualche isola tropicale, un vero e proprio sistema, composto da superpotenze, media e agenzie investigative, cerca di manipolare l’opinione pubblica e di accusare il nemico geopolitico.

In questi casi, la mossa più semplice è attribuire la responsabilità ai comunisti (Corea del Nord, Cina) o all’impero del male (Russia), proprio come accadeva durante la guerra fredda. In questo articolo vorrei mostrare come nasce questo genere di false notizie, che diventano presto verità incontestabili, note a tutti, impossibili da mettere in dubbio.

 

Finanziare i missili nucleari coi videogiochi

Spesso il punto di vista adottato sui conflitti tra Stati che coinvolgono la rete è improntato a un sensazionalismo acritico (ideologico, a pensar male). Ad esempio, nel 2018 l’agenzia Bloomberg pubblica un’intervista a un hacker coreano ‘dissidente’ [1]. Un giovane di talento, selezionato negli anni ‘90 per studiare in Cina, e in seguito destinato a piccole operazioni di hackeraggio e di violazione dei diritti d’autore, per conto di una sezione segreta del Partito dei lavoratori chiamata ‘Office 91’. Tra gli altri aneddoti, racconta di aver passato molto tempo giocando a giochi di ruolo fantasy on line: Lineage e Diablo. Una volta costruiti personaggi molto potenti, li rivendeva ad altri giocatori.

Una bella storia, che periodicamente torna ad affacciarsi nei media. L’8 agosto del 2011, la rivista PC gamer pubblicava la notizia dell’arresto di 30 hacker nordcoreani [2].

Print Friendly, PDF & Email

comuneinfo

Il Plan Condor vola anche in Sicilia

di Antonio Mazzeo

marieanneA differenza delle persone in cerca di un rifugio o un lavoro, la pista insanguinata del terrore valica da sempre con estrema facilità le frontiere. Una preziosa inchiesta di Antonio Mazzeo, pubblicata su Le Siciliane, ricostruisce il percorso che ha portato in Sicilia un ex tenente colonnello della dittatura argentina, responsabile del “personale” di custodia di uno dei centri di detenzione clandestini più orrendi di quel tempo. Un inferno dove il privilegio di stuprare prigioniere inermi veniva giocato a carte, quello in cui, tra gli altri, fu fatta scomparire Marie Anne Erize, ex modella poi diventata militante montonera nelle villas miserias della capitale argentina. Una storia sordida e feroce, che intreccia impunità e tortura, logge massoniche e servizi segreti, paramilitari, mafia e neofascisti, corruzione e disprezzo della dignità delle persone e delle istituzioni che dovrebbero tutelare il corso della giustizia. Fino a un villino con vista sulle Eolie in cui ammirare splendidi tramonti ricordando gli orrori del Plan Condor, l’internazionale dei regimi criminali latino-americani diretta da Washington, che ha pianificato il genocidio di un’intera generazione che non si poteva piegare senza sterminarla.

* * * *

Le sue colpe? Essere intelligente, sensibile, politicizzata, bellissima e credere in un mondo migliore nel posto e nel momento sbagliato. Marie Anne Erize aveva 24 anni in quel maledetto 1976 segnato dal sanguinoso golpe fascista in Argentina che aveva insediato ai vertici del paese la Junta del generale Jorge Rafael Videla ed un manipolo di militari con tanto di tessera della loggia massonica P2 del venerabile Licio Gelli. Adolescente aveva intrapreso con successo a Buenos Aires la professione di modella. Poi si era iscritta alla facoltà di antropologia e come tante sue coetanee di allora, chitarra in spalla, aveva percorso l’Europa in autostop e conosciuto e frequentato artisti, intellettuali, musicisti. Marie Anne fece pure un tour negli USA in compagnia del grande chitarrista andaluso Paco de Lucia. Come per tanti coetanei fu determinante il lungo viaggio in Sudamerica e l’impatto con le contraddizioni e le ingiustizie sociali ed economiche del Brasile e dei paesi andini.

Print Friendly, PDF & Email

resistenzealnanomondo

Sabotiamo il mondo macchina della rete 5G e la Smart city

di Collettivo Resistenze al Nanomondo

DSCN2224 768x576“Dovrei parlarti della Berenice nascosta, la città dei giusti, armeggianti con materiali di fortuna nell’ombra di retrobotteghe e sottoscale, allacciando una rete di fili e tubi e carrucole e stantuffi e contrappe si che s’infiltra come una pianta rampicante tra le grandi ruote dentate (quando queste s’incepperanno, un ticchettio sommesso avvertirà che un nuovo esatto meccanismo governa la città)”.

Italo Calvino, 1974

Anche in Italia a breve si procederà con l’introduzione della rete 5G, si sono infatti da poco concluse le aste per l’assegnazione dei lotti di frequenza. Hanno partecipato Fastweb, Iliad, Tim, Vodafone e Wind-Tre. Tim e Vodafone sono gli operatori che più stanno investendo nella sperimentazione e in progetti pilota, tali attività vedono Vodafone operante a Milano, il gruppo Telecom-Fastweb a Bari e Matera, Wind-Tre a Prato e l’Aquila. Sia Tim che Vodafone prevedono di lanciare un’offerta iniziale nel corso dell’estate di quest’anno, le vere e proprie offerte commerciali complete sono previste per il 2020. Vodafone assicura di aver coperto Milano per l’80%, le città che seguiranno sono Roma, Napoli, Torino e Bologna. La Tim ha annunciato di aver acceso la prima stazione 5G a Torino, in collaborazione ovviamente con il Politecnico di Torino, con l’Ericson e l’amministrazione comunale nell’ambito di un più vasto studio per la realizzazione di una smart city.

Tutto sembra già predisposto: Samsung, Huawei, Zte, Nokia ed Ericson, un ristretto gruppo di aziende operanti nel campo delle infrastrutture 5G, forniranno le stazioni base da cui partiranno tutti questi processi, con lo scopo di poter passare poi ad una vera e propria introduzione su vasta scala della tecnologia 5G. Questa sperimentazione inaugurata al momento dalla Vodafone che non sappiamo neanche quando è cominciata, di fatto non è mai finita: siamo nel pieno di un esperimento in corso dove tutti siamo potenziali cavie. Presto arriveranno i nuovi tapirulan per intrattenere i cittadini consumatori sotto forma di nuovi smartphon 5G, con cui sarà possibile gingillarsi a scaricare velocissimamente tutto dall’universo di internet e ovviamente sarà non solo desiderabile, ma assolutamente imprescindibile relazionarsi in maniera nuova con l’ambiente che abbiamo intorno, soprattutto nelle nuove città rinominate smart city.