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micromega

Gli insegnanti, la rivoluzione digitale e un recente libro di Alessandro Baricco

di Carlo Scognamiglio

scuola istruzione digitalePoiché vita reale e comunicazione digitale sono oggi inscindibili e nel digitale vive una parte importante del nostro sistema simbolico, gli insegnanti dovrebbero superare tanto la visione “apocalittica” quanto quella “integrata” riguardo all’uso della tecnologia nella didattica. Tra i compiti della scuola, quindi, anche quello di una vera e propria alfabetizzazione digitale per decifrare il nuovo orizzonte d’esistenza.

 

1. C’è una questione, nel dibattito culturale italiano, che necessita di ulteriori approfondimenti. Non certo orfana della giusta attenzione da parte degli studiosi, credo tuttavia che vada interrogata con un approccio meno tecnico. Mi riferisco al rapporto tra istruzione e tecnologie digitali. Non ho esordito evocando la necessità di un supplemento d’inchiesta in ambito esclusivamente pedagogico, perché mi vado sempre più persuadendo dell’impatto sociale della questione, che quindi pretende un più ampio ambiente di osservazione. Ci sono livelli di indagine stratificati, in questo caso. Ci sono le aspettative delle famiglie, delle aziende, degli studenti stessi. Ci sono poi le relazioni mediche e le programmazioni didattiche. Esiste il tema politico e la questione psicologica. Come dire? L’assoluta pervasività della tecnologia digitale nel nostro esistere è tale da aver terremotato l’intero impianto culturale degli stili di vita, e in generale della nostra civiltà.

Alcune precisazioni sono obbligatorie. Se parliamo di tecno-logia non ci riferiamo soltanto allo strumento e ai diversi mediatori elettronici di cui ci siamo circondati. Intendiamo infatti per “tecnologia” il sistema degli strumenti (hardware e software) che anno dopo anno semplificano le nostre azioni, ma anche il ragionamento – o discorso (λόγος) – sulla tecnica. Ciò significa che non possiamo scindere i mezzi dal loro impatto (simbolico, pratico e valoriale) sulla cultura. Le cose cambiano. Bisogna capire come, e anche perché.

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quadernidaltritempi

Interpretare il futuro? Non basta, va trasformato

di Roberto Paura

Martin Rees: Il nostro futuro, Traduzione di Luigi Civalleri Treccani, Roma, 2019 pp. 180, € 21,00

mosaico futuro 01Tra le letture preferite del piccolo Martin Rees nell’Inghilterra degli anni Cinquanta c’era Eagle, una serie a fumetti che raccontava le gesta di Dan Dare, “pilota del futuro”. “C’erano bellissime illustrazioni di città in orbita, gente che volava con i jetpack e invasori alieni”. Non c’è da meravigliarsi se la generazione di Rees “seguì con entusiasmo le imprese eroiche dei pionieri”, dal momento che “le tute degli astronauti della Nasa (e dei cosmonauti sovietici) mi erano familiari, tanto quanto le procedure di lancio e rientro”. Oggi Martin Rees è dal 1995 Astronomo reale britannico, dal 2005 membro della Camera dei Lord e fino al 2010 presidente della Royal Society. Ma è anche e soprattutto un attento studioso del futuro. Nel 2003 pubblica Il secolo finale, testo che tra i primi introduce il concetto di “rischio esistenziale” e associa l’accelerazione del progresso tecno-scientifico a possibili scenari estintivi per la civiltà umana entro questo secolo. Il nostro futuro, pubblicato quest’anno e subito portato in Italia dalla nuova collana Visioni della Treccani, condensa le visioni del futuro di Rees “in qualità di scienziato, di cittadino e di membro preoccupato della specie umana”. Dopo questo titolo, la collana ha proposto La terra, la storia e noi, denso trattato sull’evento Antropocene degli storici francesi Christopher Bonneuil e Jean-Baptiste Fressoz, e il testo-manifesto di Peter Frase, Quattro modelli di futuro, pubblicato nel 2016 dalla casa editrice Verso con il titolo Four Futures. Insieme, questi tre titoli ci offrono un itinerario privilegiato per addentrarci tra i nostri futuri possibili.

 

Il futurismo ben temperato

Partiamo da Rees. Il suo è un testo classico di futurologia (o futurismo: in Italia si sta affermando questa traduzione dell’anglosassone futurism per cercare di sottrarla al suo pesante retaggio ideologico del primo Novecento).

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Le università e i giovani nel tritacarne della crisi e dei diktat europei

di Leonardo Bargigli*

Una recensione del volume “Giovani a Sud della Crisi”, basata sulla relazione presentata durante il dibattito sul libro tenutosi a Firenze l’8 maggio 2019 nell’ambito del festival Unifight organizzato dal Collettivo Politico di Scienze Politiche

test medicina ftg 620x360Dopo l’approvazione della riforma Gelmini nel 2010, l’attenzione per le sorti del sistema universitario italiano è calata paurosamente. Il disinteresse sociale è andato di pari passo con il drastico ridimensionamento dell’istruzione universitaria. Dopo gli anni della “bolla formativa” gonfiata dalla propaganda sugli “obiettivi di Lisbona”[1] e sull’ “economia della conoscenza”, crisi e austerità hanno tolto sostanza a molti appetiti baronali e padronali, ed è rimasta nuda e cruda sul terreno una realtà fatta di precarietà, sfruttamento e salari da fame. Una realtà che, per chi l’ha voluta vedere, è sempre stata il pane quotidiano delle generazioni che hanno frequentato le aule universitarie negli ultimi decenni.

Il corpo docente ha continuato, tranne rare eccezioni, a tacere, mentre l’Università italiana si asserviva agli imperativi dell’accumulazione capitalistica su scala europea. E senza dubbio è venuto calando, sotto i colpi della repressione, anche il livello di conflittualità studentesca[2]. Se questo è lo stato dell’arte, il lavoro di Noi Restiamo è meritorio, prima di ogni altra considerazione, perché nasce in un contesto culturale difficile, che si è reso sempre più sordo se non ostile ad ogni forma di riflessione collettiva. I suoi meriti però non si limitano affatto a questo. Il libro è prezioso perché affronta in modo organico il nesso tra tre processi che sono di fondamentale importanza:

  1. la ristrutturazione del sistema formativo universitario
  2. l’accumulazione del capitale su scala europea
  3. le ricadute di tale accumulazione sui territori e sulle sovrastrutture politiche e giuridiche

Nel seguito cercherò di chiarire l’articolazione e i legami reciproci di questi processi partendo proprio dall’angolo di osservazione offerto dalla realtà universitaria – quella che conosco meglio[3].

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vocidallestero

Contro la felicità

Intervista di David Broder a Edgar Cabanas e Eva Illouz

Un mondo che vuole mantenere lo status quo cerca di imporci la felicità come supremo dovere individuale, forse per paura di cosa potrebbe fare una società che accettasse di essere arrabbiata. Jacobin Mag intervista Edgar Cabanas ed Eva Illouz, autori di un saggio che critica il pervasivo movimento ideologico noto da vent’anni come “psicologia positiva” ed “economia della felicità”: ammantato di pretese scientifiche, è il solito vecchio puntello culturale al pensiero unico neo-liberale, che vuole convincerci di essere tutti imprenditori di noi stessi. Ma se la felicità diventa un opprimente dovere da perseguire individualmente, le implicazioni di questo sono profonde quanto già note: i grandi cambiamenti socioeconomici non sono possibili e comunque non servono, mentre i sentimenti negativi (paura, rabbia) vengono denigrati prima e poi criminalizzati

Screenshot from 2019 09 08 15 01 11La felicità suona come una bella cosa. Non per nulla c’è un sacco di gente nel mondo che è pronta a vendercela. C’è un’industria con un giro di 12 miliardi di dollari all’anno che produce libri di auto-aiuto, conferenze, materiale audiovisivo, tutta roba che ci spiega quali sono i piccoli cambiamenti che tutti noi possiamo fare per raggiungere questa elusiva esistenza felice: dal visualizzare i nostri successi futuri al perdere peso o riordinare la nostra stanza.

Fino dalla fine degli anni ’90 questa industria è sostenuta da un bastione di scientificità, ovvero dalla “psicologia positiva”, promossa dall’ex presidente della American Psychological Association, Martin Seligman. La sua idea di “ottimismo appreso”, assieme a concetti come la “mindfulness”, è diventata parte delle idee che il buon senso ci suggerisce per migliorare la nostra esistenza.

Alcuni di questi discorsi sembrano voler creare un “culto”, e assomigliano piuttosto a invocazioni a digerire una realtà della quale siamo scontenti. Viene suggerito che i nostri problemi siano tutti nelle nostre teste, così come il sentiero per trasformarci in persone migliori. Non sorprende che tutto questo venga usato nei posti di lavoro per farci restare belli sorridenti mentre facciamo quello che ci dicono di fare.

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jacobin

Il femminismo è uno dei fronti della lotta di classe

Rebeca Martinez intervista Nancy Fraser

Gente come Hillary Clinton ha macchiato il nome del femminismo, associandolo al neoliberismo e alle politiche contro la working class. Per Nancy Fraser, femminismo vuol dire rovesciare il potere delle corporation, non dare loro un volto femminile

99 jacobin italia 1320x481Negli ultimi anni abbiamo assistito alla crescita di un movimento femminista working class, dalle proteste globali contro la violenza domestica e le molestie sul luogo di lavoro fino agli scioperi di massa che hanno caratterizzato l’8 marzo in Spagna, Polonia e oltre. Eventi che ci parlano di un femminismo anti-sistemico, capace di andare oltre la variante liberale e individualistica promossa da gente come Hillary Clinton.

Un’espressione di questa nuova ondata è il manifesto Femminismo per il 99% (Laterza, 2019). Le autrici insistono sul fatto che il femminismo non sia un’alternativa alla lotta di classe, ma rappresenti invece un fronte decisivo nella lotta per un mondo libero dal capitalismo e da tutte le forme di oppressione.

Nancy Fraser è co-autrice del manifesto, insieme a Cinzia Arruzza e Tithi Bhattacharya. Rebeca Martínez di Vientosur ha parlato con lei del libro, della sua critica al cosiddetto «liberalismo progressista», e della sua idea di un femminismo che metta la voce delle donne working class e razzializzate al centro della scena.

* * * *

Cos’è esattamente il Femminismo per il 99%, e perché scrivere oggi un manifesto del genere?

Un manifesto è uno scritto breve che si vorrebbe non accademico, ma popolare e accessibile. L’ho scritto insieme alla femminista italiana Cinzia Arruzza, che vive a New York, e a Tithi Bhattacharya, donna anglo-indiana che insegna negli Stati Uniti.

Questa è la prima volta dal ‘68 – sono stata un’attivista negli anni Sessanta e Settanta – che ho scritto un libro di vera propaganda politica. D’altra parte, sono soprattutto una professoressa di filosofia.

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jacobin

Gli spazzini invisibili di internet

di Emily Drabinski

Un esercito nascosto di decine di migliaia di moderatori di contenuti è al lavoro ogni giorno – in condizioni spesso spaventose – per rendere Internet il pianeta abitabile che conosciamo. All’origine di tutto questo c’è la Silicon Valley

bpo jacobin italia 1320x481A Manila, nelle Filippine, nel cuore del grande centro commerciale di Eastwood del distretto di Quezon City, sorge un monumento «agli uomini e le donne che si sono impegnati con passione nel settore dell’outsourcing dei processi aziendali». Un uomo e una donna con cuffie e valigette 24 ore si rivolgono a un futuro radioso circondati da uccelli volanti d’acciaio. A pochi passi da lì c’è il bar Coffee Bean & Tea Leaf, dove Sarah T. Roberts ha intervistato un gruppo di moderatori di contenuti commerciali per il suo saggio intitolato Behind the Screen, il cui sottotitolo recita La moderazione dei contenuti all’ombra dei social media. La moderazione dei contenuti commerciali, o Ccm, è uno dei lavori più sporchi di questa stagione in cui internet è in mano alle grandi aziende tecnologiche. Il lavoro consiste nel rivedere, vagliare e rimuovere contenuti violenti, razzisti e inquietanti pubblicati sia su social network come Facebook e YouTube, sia nella sezione commenti dei siti web dei principali marchi. 

Roberts racconta come quegli stessi fattori economici e sociali che producono per noi esperienze digitali quotidiane relativamente sterilizzate, producono anche una classe globale di lavoratori della moderazione dei contenuti commerciali, legati l’uno all’altro da condizioni di lavoro fatte di contingenza, salari al ribasso, velocità, carichi di lavoro sempre più alti, e sulla continua esposizione ai peggiori elementi dell’umanità, a qualunque ora del giorno o della notte. Roberts ha intervistato lavoratori di diverse categorie: filippini che lavorano normalmente nel settore dell’outsourcing (chiamato tecnicamente Bpo, Business Process Outsourcing) e accettano lavori di Ccm quando non sono disponibili posizioni più competitive nei call-center; oppure giovani laureati di San Francisco i cui grandi sogni tecnologici si trasformano in realtà di precariato a tempo indeterminato; fino a dirigenti di aziende appaltatrici americane che promuovono l’americanità dei loro moderatori umani, secondo una xenofobia pienamente in sintonia con la politica americana contemporanea.

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ilpedante

Sineddoche Bibbiano

di Il Pedante

14574290010 2cd27376c8 zUna patologia sociale?

Confesso che quando alcuni amici mi hanno chiesto un commento strutturato sull'inchiesta di Bibbiano, ho dubitato di potercela fare. Perché se fosse confermata anche solo una frazione di ciò che i magistrati contestano agli operatori sociali, alle famiglie affidatarie e agli amministratori della Val d’Enza, ci troveremmo di fronte alla più pura epifania del male. Da quei fatti emergerebbe una volontà sadica e più che bestiale di traumatizzare a vita i più innocenti e di gettare le loro famiglie in uno strazio senza fine e senza scampo – perché imposto dalla legge – spezzando in un sol colpo i vincoli sociali e della carne. Per un genitore è insopportabile il pensiero di quei piccoli che si addormentano tra le lacrime, lontani da casa, indotti a odiare chi li ama, in certi casi maltrattati, affidati a squilibrati o molestati sessualmente (!), mentre padri e madri inviano lettere e regali che non saranno mai recapitati e pregano di uscire da un incubo che non osano denunciare per non perdere l’ultima speranza di riabbracciare i loro figli. Con buona pace del codice penale, i reati qui ipotizzati superano per gravità l’omicidio: perché fanno morire l’anima, non il corpo. Svuotano le persone e le lasciano vivere nel dolore.

I presunti abusi della Val d’Enza sono, appunto, presunti fino a sentenza. Ma il loro modus operandi e il ricorrere di alcuni protagonisti hanno fatto riemergere il ricordo di altri allontanamenti famigliari poi rivelatisi, anche in giudizio, gravemente ingiustificati, e dell'irreparabile scia di dolore che hanno inciso nelle comunità colpite. Il clamore delle cronache ha inoltre ridato forza alla denuncia di poche voci finora isolate, di un sistema che anche quando resta nel perimetro di una legalità formale conferisce agli operatori sociali un potere senza effettivi contrappesi in grado di strappare i figli alle famiglie per anni con le più arbitrarie delle motivazioni: dalla «inadeguatezza educativa» all'indigenza, dalla conflittualità tra i coniugi al disordine domestico, dalla «ipostimolazione» dei figli alla «immaturità» dei genitori. Queste fattispecie non sarebbero residuali ma prevalenti, come si apprende da un'indagine parlamentare conclusasi nel 2018:

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marx xxi

Come dare la colpa agli hacker nordcoreani

di Francesco Galofaro*

mano codicebinarioPerché è sempre colpa della Corea del Nord? O degli hacker russi? La risposta può venire, forse, dalla narratologia. Come sappiamo, non c’è giallo senza colpevole: se, giunto all’ultima pagina, il lettore viene lasciato in preda ai suoi dubbi, il romanzo cambia genere e diventa letteratura colta. Lo stesso dicasi per le inchieste giornalistiche sui crimini informatici: i colpi più efferati degli ultimi decenni devono avere un autore; dietro le maschere anonime di pseudonimi come Shadow Brokers, Lazarus, Guccifer 2.0 deve esserci un volto. Nell’impossibilità di individuare i reali responsabili, che probabilmente godono dei frutti delle proprie rapine in qualche isola tropicale, un vero e proprio sistema, composto da superpotenze, media e agenzie investigative, cerca di manipolare l’opinione pubblica e di accusare il nemico geopolitico.

In questi casi, la mossa più semplice è attribuire la responsabilità ai comunisti (Corea del Nord, Cina) o all’impero del male (Russia), proprio come accadeva durante la guerra fredda. In questo articolo vorrei mostrare come nasce questo genere di false notizie, che diventano presto verità incontestabili, note a tutti, impossibili da mettere in dubbio.

 

Finanziare i missili nucleari coi videogiochi

Spesso il punto di vista adottato sui conflitti tra Stati che coinvolgono la rete è improntato a un sensazionalismo acritico (ideologico, a pensar male). Ad esempio, nel 2018 l’agenzia Bloomberg pubblica un’intervista a un hacker coreano ‘dissidente’ [1]. Un giovane di talento, selezionato negli anni ‘90 per studiare in Cina, e in seguito destinato a piccole operazioni di hackeraggio e di violazione dei diritti d’autore, per conto di una sezione segreta del Partito dei lavoratori chiamata ‘Office 91’. Tra gli altri aneddoti, racconta di aver passato molto tempo giocando a giochi di ruolo fantasy on line: Lineage e Diablo. Una volta costruiti personaggi molto potenti, li rivendeva ad altri giocatori.

Una bella storia, che periodicamente torna ad affacciarsi nei media. L’8 agosto del 2011, la rivista PC gamer pubblicava la notizia dell’arresto di 30 hacker nordcoreani [2].

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comuneinfo

Il Plan Condor vola anche in Sicilia

di Antonio Mazzeo

marieanneA differenza delle persone in cerca di un rifugio o un lavoro, la pista insanguinata del terrore valica da sempre con estrema facilità le frontiere. Una preziosa inchiesta di Antonio Mazzeo, pubblicata su Le Siciliane, ricostruisce il percorso che ha portato in Sicilia un ex tenente colonnello della dittatura argentina, responsabile del “personale” di custodia di uno dei centri di detenzione clandestini più orrendi di quel tempo. Un inferno dove il privilegio di stuprare prigioniere inermi veniva giocato a carte, quello in cui, tra gli altri, fu fatta scomparire Marie Anne Erize, ex modella poi diventata militante montonera nelle villas miserias della capitale argentina. Una storia sordida e feroce, che intreccia impunità e tortura, logge massoniche e servizi segreti, paramilitari, mafia e neofascisti, corruzione e disprezzo della dignità delle persone e delle istituzioni che dovrebbero tutelare il corso della giustizia. Fino a un villino con vista sulle Eolie in cui ammirare splendidi tramonti ricordando gli orrori del Plan Condor, l’internazionale dei regimi criminali latino-americani diretta da Washington, che ha pianificato il genocidio di un’intera generazione che non si poteva piegare senza sterminarla.

* * * *

Le sue colpe? Essere intelligente, sensibile, politicizzata, bellissima e credere in un mondo migliore nel posto e nel momento sbagliato. Marie Anne Erize aveva 24 anni in quel maledetto 1976 segnato dal sanguinoso golpe fascista in Argentina che aveva insediato ai vertici del paese la Junta del generale Jorge Rafael Videla ed un manipolo di militari con tanto di tessera della loggia massonica P2 del venerabile Licio Gelli. Adolescente aveva intrapreso con successo a Buenos Aires la professione di modella. Poi si era iscritta alla facoltà di antropologia e come tante sue coetanee di allora, chitarra in spalla, aveva percorso l’Europa in autostop e conosciuto e frequentato artisti, intellettuali, musicisti. Marie Anne fece pure un tour negli USA in compagnia del grande chitarrista andaluso Paco de Lucia. Come per tanti coetanei fu determinante il lungo viaggio in Sudamerica e l’impatto con le contraddizioni e le ingiustizie sociali ed economiche del Brasile e dei paesi andini.

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resistenzealnanomondo

Sabotiamo il mondo macchina della rete 5G e la Smart city

di Collettivo Resistenze al Nanomondo

DSCN2224 768x576“Dovrei parlarti della Berenice nascosta, la città dei giusti, armeggianti con materiali di fortuna nell’ombra di retrobotteghe e sottoscale, allacciando una rete di fili e tubi e carrucole e stantuffi e contrappe si che s’infiltra come una pianta rampicante tra le grandi ruote dentate (quando queste s’incepperanno, un ticchettio sommesso avvertirà che un nuovo esatto meccanismo governa la città)”.

Italo Calvino, 1974

Anche in Italia a breve si procederà con l’introduzione della rete 5G, si sono infatti da poco concluse le aste per l’assegnazione dei lotti di frequenza. Hanno partecipato Fastweb, Iliad, Tim, Vodafone e Wind-Tre. Tim e Vodafone sono gli operatori che più stanno investendo nella sperimentazione e in progetti pilota, tali attività vedono Vodafone operante a Milano, il gruppo Telecom-Fastweb a Bari e Matera, Wind-Tre a Prato e l’Aquila. Sia Tim che Vodafone prevedono di lanciare un’offerta iniziale nel corso dell’estate di quest’anno, le vere e proprie offerte commerciali complete sono previste per il 2020. Vodafone assicura di aver coperto Milano per l’80%, le città che seguiranno sono Roma, Napoli, Torino e Bologna. La Tim ha annunciato di aver acceso la prima stazione 5G a Torino, in collaborazione ovviamente con il Politecnico di Torino, con l’Ericson e l’amministrazione comunale nell’ambito di un più vasto studio per la realizzazione di una smart city.

Tutto sembra già predisposto: Samsung, Huawei, Zte, Nokia ed Ericson, un ristretto gruppo di aziende operanti nel campo delle infrastrutture 5G, forniranno le stazioni base da cui partiranno tutti questi processi, con lo scopo di poter passare poi ad una vera e propria introduzione su vasta scala della tecnologia 5G. Questa sperimentazione inaugurata al momento dalla Vodafone che non sappiamo neanche quando è cominciata, di fatto non è mai finita: siamo nel pieno di un esperimento in corso dove tutti siamo potenziali cavie. Presto arriveranno i nuovi tapirulan per intrattenere i cittadini consumatori sotto forma di nuovi smartphon 5G, con cui sarà possibile gingillarsi a scaricare velocissimamente tutto dall’universo di internet e ovviamente sarà non solo desiderabile, ma assolutamente imprescindibile relazionarsi in maniera nuova con l’ambiente che abbiamo intorno, soprattutto nelle nuove città rinominate smart city.

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blackblog

La società autofaga

intervista ad Anselm Jappe

«Nessun problema attuale richiede una soluzione tecnica. Si tratta sempre di problemi sociali». - Per il pensatore tedesco Anselm Jappe, il capitalismo narcisista nel quale ci troviamo inseriti ha dato luogo alla società «autofaga» che, come nel mito, quando non c'è più niente in grado di soddisfare il suo appetito, finisce per divorare sé stessa

Anselm JappeAnselm Jappe (Bonn, Germania, 1962) è un pensatore inclemente e vigoroso, allergico ad ogni argomento consolatorio e ai sotterfugi intellettuali. Da anni, insieme ad altri devianti da quella che è l'ortodossia marxista (Robert Kurz in Germania, Moishe Postone negli Stati Uniti, Luis Andrés Bredlow in Spagna) continua a mettere in discussione gli assiomi di una sinistra che negli ultimi decenni, secondo Jappe, è stata incapace di comprendere le trasformazioni del capitalismo . Per Jappe ed i suoi, il filo di Arianna che bisogna seguire, per poter decifrare lo spirito dell'epoca, è la cosiddetta "critica del valore": «Mentre il marxismo tradizionale si è sempre limitato a chiedere una diversa distribuzione dei frutti di questo modo di produzione, la critica del valore ha cominciato a mettere in discussione il modo stesso di produzione». [...] Il suo ultimo libro - "La Société autophage. Capitalisme, démesure et autodestruction", un esaustivo studio del meccanismo impazzito nel quale il sistema economico si è convertito, e su come il suo funzionamento ci stia portando a fare la fine di Erisittone. il re greco che finì per divorare sé stesso quanto arrivò al punto in cui non c'era più niente in grado di soddisfare il suo appetito - funziona come un'allegoria di una civiltà, la nostra, che, accecata dall'eccesso, si autodistrugge. Anselm Jappe, risponde qui alle domande che El Salto gli ha posto via e-mail.

* * * *

El Salto: Lei parte dall'idea secondo la quale la "critica del valore" permette di dare un senso a fenomeni sociali, culturali e politici differenti che, a priori, sembrano non avere alcuna relazione fra di loro. Potrebbe spiegare che cos'è la "critica del valore", e perché ritiene che possa essere lo strumento più accurato per poter comprendere la società capitalista?

Anselm Jappe: «La critica del valore è una tendenza internazionale, nata in Germania alla fine degli anni '80 intorno alla rivista Krisis e a Robert Kurz, che propone una critica radicale della società capitalista basata sulle teorie di Marx, ma che prende le distanze dal marxismo tradizionale. La critica del valore pone al centro le categorie della merce, del valore, del denaro e, soprattutto, quella del lavoro astratto, vale a dire, il lavoro considerato solo per la quantità di tempo speso, senza tener conto del suo contenuto.

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roars

Settis, Serianni e la catastrofe della scuola

di Marino Badiale, Università di Torino; Fausto Di Biase, Università di Chieti-Pescara; Paolo Di Remigio, Liceo Classico di Teramo; Lorella Pistocchi, Scuola Media di Villa Vomano

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

scuola sfasciataL’eliminazione della tradizionale traccia di storia dalla prima prova dell’esame di Stato ha sollecitato alcuni intellettuali a pubblicare sul quotidiano ‘Repubblica’ un appello preoccupato per la decadenza della cultura storica in Italia[1]. Ne è seguita un’audizione alla Commissione Istruzione Pubblica – Beni Culturali del Senato[2], nella quale il prof. Settis, sulla base dell’etica implicita nella Costituzione, ha pronunciato un’appassionata apologia degli studi storici come pilastri della sovranità della nazione e della libertà del cittadino, e il prof. Serianni, responsabile dell’ultima versione della prima prova dell’esame di Stato e quindi chiamato direttamente in causa dall’appello, ha smentito che la nuova formula dell’esame emarginasse la storia, sostenendo, al contrario, che ‘la storia è e resta fondamentale come dimensione culturale e anche come elemento di verifica di competenze e conoscenze degli studenti arrivati alla fine’, che ‘la storia, proprio come dimensione che innerva tutti gli altri saperi, è largamente presente’, anzi è addirittura ‘privilegiata’.

Il prof. Serianni, preoccupato soprattutto di difendere il nuovo esame di Stato e di assumere un atteggiamento complessivamente rassicurante, è molto lontano dal rilevare che il cambiamento subito dalla scuola italiana negli ultimi venti anni vi ha posto la cultura storica, come pure la cultura in generale, in una posizione di estrema precarietà; non evita però di menzionare due ‘criticità’: la prima che nel biennio degli istituti professionali l’insegnamento della storia è ridotto a un’ora alla settimana, la seconda che in futuro esso potrebbe essere ridotto in tutte le scuole affinché vi abbia spazio la nuova disciplina ‘Cittadinanza e Costituzione’, che il Parlamento non potrà non approvare(non si capisce se per deliberazione dello stesso prof. Serianni)[3]. Non emerge dal suo intervento, e invero neanche dagli altri, che queste ‘criticità’ sono gli ultimi episodi di una lunga vicenda di ostilità, i cui precedenti risalgono alla riforma Moratti del 2003 e alla riforma Gelmini del 2010. Mettendo fine alla tradizione che alle elementari affidava una prima esposizione di tutta la storia e alle medie una sua più approfondita riesposizione, la prima riformatrice destinò a quelle la storia dalle origini fino alla tarda antichità e a queste la storia dalla tarda antichità fino al presente, eliminò cioè la sua ripetizione, come se i bambini memorizzassero le conoscenze con un facile clic sul comando ‘Salva’; distribuì inoltre gli argomenti in modo che il tempo concesso alla terza elementare fosse dilapidato a favoleggiare dei dinosauri.

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economiaepolitica

Classi Sociali e Geometria del Governo Giallo-Verde

di Gianmarco Oro, Giorgio Gattei

yellow green line background 700x5251. Le classi sociali nell’emiciclo parlamentare.

La doppia ipotesi che muove questa indagine è che i partiti politici non sono altro che i “veicoli” con cui le classi sociali si contendono il potere politico nelle competizioni elettorali e che queste classi sono riconducibili, grossolanamente, alle denominazioni classiche di “borghesia”, “proletariato” e “ceti medi”. Naturalmente queste denominazioni andrebbero adattate al giorno d’oggi, così da distinguere la borghesia in industriale, agraria e finanziaria; il proletariato da chiamarsi meglio “salariato” o “classe operaia” (ma non certamente “classe subalterna”!); mentre i ceti medi risultano come un coacervo di strati sociali difformi in cui sono indistintamente compresi i “padroncini” (di fabbrica e di campagna), i lavoratori autonomi (artigiani, commercianti, e liberi professionisti) e gli impiegati sia privati che pubblici. E qui va ricordato lo sconcerto che ci prese quando, appena pochi anni dopo l’insorgenza operaia dell’autunno caldo, Paolo Sylos Labini osò documentare, statistiche alla mano, che l’Italia era un paese a maggioranza della “quasi classe” dei ceti medi invece che del proletariato: nel 1971 il 49,6% contro il 47,8% che nel 1983 era già passato al 54% contro il 42,7%[i].

Ora c’è anche una teoria, ignorata dai più, secondo la quale la classe borghese si è storicamente espressa sotto la forma di due partiti politici: in Gran Bretagna i liberali e i conservatori e negli Stati Uniti i democratici e i repubblicani, data la doppia specie del suo reddito: il profitto industriale oppure la rendita (agraria e finanziaria)[ii]. In Europa anche il proletariato ha preso politicamente forma doppia: il partito socialista dapprima e il partito comunista poi, riformista il primo, rivoluzionario il secondo. E i ceti medi? Data l’anomalia della loro ambigua composizione sociale, hanno solitamente mancato di presentarsi con una propria forma-partito, affidando la difesa dei propri interessi di classe al partito “dei padroni” oppure a quello “di parte operaia” che sentivano al momento più vicino. Ma valeva comunque l’ammonimento marxiano per cui «i ceti medi, il piccolo industriale, il piccolo negoziante, l’artigiano, il contadino [mancavano al tempo i liberi professionisti e gli impiegati], tutti costoro combattono la borghesia per salvare dalla rovina l’esistenza loro di ceti medi.

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poliscritture

Sulla violenza nella storia

di Ennio Abate

Moro ritrovamento corpoLa questione della violenza nella storia, ora anche in una dimensione “gobalizzata” (in passato affrontata su Poliscritture almeno qui, qui, qui e qui), resta irrisolta . Meglio insistere a interrogarsi sul fenomeno. Da tutti i possibili punti di vista. Senza mai arrendersi all'”evidente” e finire per sublimarla o esorcizzarla. Va bene anche partire da materiale “datato” o “passato” o riflettendo a distanza di anni da questo o quell’evento traumatico.All’indomani della discussione scaturita dal post di Donato Salzarulo sugli anni ’70 (soprattutto nella sua seconda parte: qui) e per continuare ad approfondire, pubblico dal mio “Riordinadiario 2005” le ben meditate e ancora lucidissime e attuali “Sette tesi sul terrorismo nel Ventunesimo secolo” di Peppino Ortoleva. Apparvero il 5 agosto di quell’anno sul sito della LUHMI (Libera Università di Milano e del suo hinterland, promossa da Sergio Bologna) e vale la pena rileggerle e rifletterci. Aggiungo il mio intervento e le conclusioni dello stesso Ortoleva (purtroppo non più accessibili on line a quanto vedo, ma di cui avevo conservato una copia). Chi volesse conoscere il resto della discussione lo trova qui (andando in ‘Archivio’ > ‘Sul terrorismo’). Un’ultima precisazione. Ad Ortoleva, che nella sua replica scriveva: «La mia posizione sulla violenza politica implica un corollario, su cui credo Ennio non sia d’accordo. In materia di violenza politica l’etica della convinzione (per rifarci al binomio weberiano rimesso in circolazione da Bobbio) non serve a nulla: se si agisce sul terreno della storia è su questo che si deve essere giudicati; se si coinvolgono altre vite non si può pretendere di essere giudicati solo sulla propria coscienza», rispondo sia pur a distanza di anni di concordare invece in pieno con lui: no, per me pure non è la coscienza individuale (o soggettiva) a misurare da sola il valore di un’azione. Lo può essere (forse) un “io/noi” capace di proporre e attuare – fosse solo per poco tempo (nella storia le rivoluzioni sono lampi) – un progetto razionale e condiviso evitando sia i deliri incontrollati dell’”io” sia quelli standardizzati dei “noi” eterodiretti. [E. A.]

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Sette tesi sul terrorismo nel Ventunesimo secolo

di Peppino Ortoleva

1. Il terrorismo è un’arma. E’ un’arma peculiare, certo, per il tipo di “combattente” che richiede e che crea, e soprattutto per il carattere indiretto della sua azione, che non mira a infliggere danni alle forze avversarie ma a disorientare l’opinione pubblica.

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sebastianoisaia

Libra. Ovvero la naturale smisuratezza del denaro

di Sebastiano Isaia

libraDieci anni fa Facebook contava 175 milioni di iscritti, «guadagnando altre due posizioni e scavalcando [quanto a popolazione] Pakistan e Bangladesh. “Se Facebook fosse un Paese – aveva scritto un mese fa il suo fondatore Mark Zuckerberg –, sarebbe quello con l’ottava popolazione mondiale, superando Giappone e Russia». Così scriveva Il Corriere della Sera il 9 febbraio del 2009. Con oltre 2,4 miliardi di utenti Facebook è oggi il Paese più popoloso del pianeta. Mi si obietterà che stiamo parlando pur sempre di un Paese virtuale, di un luogo che non esiste nella “concreta realtà”, di qualcosa che esiste solo in una dimensione algoritmica, tant’è vero che Facebook non è una Nazione, non ha uno Stato, non ha un esercito, non ha («e non deve avere!») una moneta sovrana. A questa legittima, sebbene un po’ ingenua e poco “dialettica” obiezione, mi permetto di rispondere con un’altra domanda: ma credete davvero che per il Capitale ha un senso porre la distinzione “ontologica” tra virtuale e reale? Perché dei rapporti sociali capitalistici, oggi dominanti su scala mondiale, qui stiamo parlando, e di nient’altro. E scrivendo rapporti sociali capitalistici non alludo solo a una dimensione “classicamente” economica, tutt’altro, tanto più che la stessa distinzione tra una sfera economica e una sfera esistenziale è sempre più evanescente, poco significativa, se non francamente inesistente. Per dirla con Massimo Troisi – e attraverso la mediazione di Marx, nella cui barba mi impiglio continuamente –, credevo fosse economia e invece era la vita. E viceversa.

Ciò che mi appare di gran lunga più significativo e degno di analisi (analisi che qui nemmeno tenterò) a proposito di Libra non è tanto l’intenzione che muove lo scabroso progetto (si tratta del vecchio e caro profitto, di cos’altro?) o la sua concreta realizzabilità nel medio o nel lungo periodo, quanto la sua “ontologia sociale”, il suo essere la perfetta espressione di tendenze economiche e sociali che rimontano molto indietro nel tempo e che sono intimamente legate al concetto stesso di capitale, oltre che, ovviamente, alla sua prassi. Dirompente non è l’idea imprenditoriale in sé, che a suo modo è anzi già vecchia (oggi le tecnologie hanno un grado di obsolescenza che tende alla velocità della luce), ma la scala, la dimensione sociale e geoeconomica che essa abbraccia: la globalizzazione capitalistica minaccia un nuovo scatto in avanti, e verso territori finora non esplorati fino in fondo. Di qui le preoccupazioni di diverso segno che hanno accompagnato il lancio mediatico di Libra.

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Dati INVALSI: “fotografia” o strumento di intimidazione matematica?

di Redazione ROARS

pinocchio 1Arriva l’estate e arriva l’ennesimo rapporto sui test INVALSI. Le metafore dei test come “fotografia” della realtà e del “termometro” si sprecano. La Presidente Ajello ha in una recente intervista radiofonica usato la metafora degli esami del sangue: i risultati dei test INVALSI somigliano alle percentuali di colesterolo nel sangue. Proprio quest’ultima analogia può essere utile per capire bene cosa misurano le prove INVALSI. Nel sangue il colesterolo c’è davvero e può essere osservato. Le prove INVALSI, oltre alle famigerate “competenze”, dal 2016 affermano di stimare statisticamente anche un’altra grandezza che non è direttamente osservabile: il “valore aggiunto”. I test servono alle scuole per migliorarsi, si dice. Devono essere svolti da tutti: è una questione di equità, si aggiunge. Ma lo sanno i commentatori che le scuole non hanno alcun accesso alle prove svolte dai loro studenti? Che da quanto le prove sono computer based ciò che viene loro restituito è solo un file che associa il punteggio x all’allievo y, senza nessun’informazione su come quel punteggio sia stato ottenuto? Cosa non ha saputo lo studente? Dove e cosa ha sbagliato? L’assenza di questa informazione essenziale per qualsiasi insegnante, per qualsiasi concreto miglioramento in classe svela la sola e vera funzione della prova. All’INVALSI interessa raccogliere dati relativi a ciascuno studente nel tempo. I punteggi dei test certificheranno le competenze di ognuno. E quelle certificazioni piano piano subentreranno ai titoli di studio rilasciati dalle scuole pubbliche. Ecco a cosa servono i test INVALSI ed ecco perché la rilevazione è censuaria e non, come accade nel resto del mondo, campionaria.

“Una fotografia disarmante”, la definisce Christian Raimo; “due Italie, una che legge e scrive e parla inglese e l’altra no”, scrive Rai news; “un’Italia che non ama il merito e non capisce che la sana competizione è vitale per la crescita”, chiosa il Corriere della Sera; “il 35% degli studenti in terza media non comprende un testo in italiano”, continua Repubblica; “sono la foto di un Paese non democratico” commenta eccentricamente Marco Rossi Doria sul Fatto quotidiano. E tanti altri.

La pubblicazione annuale del rapporto dei dati INVALSI produce ciclicamente, almeno dal 2008 in avanti, anno in cui le prove diventano censuarie – ovvero destinate a tutti gli studenti italiani delle classi testate – paginate di indignazione e sconcerto mediatico.

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minimamoralia

La guerra di tutti

Adriano Ercolani intervista Raffaele Alberto Ventura

170406783 528cbd0a d6ae 4a8d ba2f d0e535c162b5Pochi libri aiutano a comprendere il presente come La guerra di tutti di Raffaele Alberto Ventura.

Forse solo La società della performance di Maura Gancitano e Andrea Colamedici, affrontando la contemporaneità da un’angolazione diversa, offre la stessa mole di spunti e sentieri di riflessione.

Ventura, intellettuale da anni molto apprezzato per le sue riflessioni sul blog Eschaton, ha destato molto clamore col suo libro precedente, Teoria della classe disagiata (premiato anche da un ardito adattamento teatrale), un testo che ha mostrato le già note qualità dell’autore: una notevole erudizione, una spiccata capacità di analisi, una non comune libertà da schieramenti (post) ideologici.

Il primo libro era una fotografia, spietatamente realistica, della condizione paradossale della classe media intellettuale contemporanea, composta da intelligenze brillanti destinate a vivacchiare nell’assoluta negazione di ogni riconoscimento simbolico dei propri talenti e competenze.

Una critica ricorrente tra i numerosi lettori è stata la mancanza di una pars costruens.

Ecco, dunque, La guerra di tutti: già nel titolo la risposta appare beffardamente consapevole. Come il titolo del primo libro faceva il verso al testo ormai classico di Thorstein Veblen, La teoria della classe agiata (di cui rovesciava la prospettiva), nel secondo c’è un riferimento evidente a Thomas Hobbes che indicava lo stato di natura, antecedente a ogni legge, come “Bellum omnium contra omnes”.

Fin dal titolo, l’autore mette in scena la crisi delle istituzioni politiche attuali. Il sottotitolo indica i macrotemi della riflessione: “populismo, terrore e crisi della società liberale”.

Il libro, oltre a essere, come già detto, una miniera di spunti di approfondimento senza troppi riscontri nel panorama attuale, ha il grande pregio di conciliare un alto livello intellettuale con benedette concessioni alla cultura pop: ecco, quindi, Ventura usare intelligentemente Debbie Harry in Videodrome di Cronenberg, come metafora del contagio populista tramite i media,; Captain America e Iron Man per spiegare il dibattito di teoria del diritto tra Carl Schmitt e Hans Kelsen; l’invasione dei Borg in Star Trek come spunto di riflessione sulla Rivoluzione Francese; V for Vendetta sul concetto hobbesiano di Leviatano; Rihanna per comprendere Il pendolo di Foucault di Umberto Eco.

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badialetringali

Le scienze umane a Bibbiano

di Paolo Di Remigio

(Pubblichiamo volentieri questa riflessione dell'amico Paolo Di Remigio, che parte dai fatti di Bibbiano per discutere su ciò che sono oggi le scienze umane. M.B.)

shutterstock 92218387 small 770x5591.

A Bibbiano, ma in precedenza al ‘Forteto’ vicino Firenze e poi in provincia di Modena, i bambini sono stati strappati ai loro genitori tramite accuse infamanti in particolare nei confronti dei padri e, dopo un lavaggio del cervello perché si rassegnassero al trauma, ma anche senza che si rassegnassero, affidati a nuovi nuclei familiari o a istituti prezzolati. Psicologi, assistenti sociali, giudici hanno calunniato adulti e rubato bambini, per realizzarne le peggiori angosce, per sacrificare le vite di tutti sull'altare del denaro e degli appetiti perversi. L’ampiezza delle reti di complicità, di reticenza e di disattenzione che permette queste spaventose vicende e vi stende il velo dell’omertà dimostra l’esistenza di potenti forze destabilizzanti, animate da un’ideologia che razionalizza l’odio nei confronti dell’istituzione familiare e il cui terreno di coltura è in certi settori delle ‘scienze umane’ – le scienze delle intenzioni: psicologia, sociologia, antropologia.

Poiché rappresentano un costo sociale, le scienze devono giustificare la loro esistenza. Esse dimostrano di meritare i finanziamenti allargando il campo della conoscenza con scoperte utili. Mentre le scienze della natura fanno scoperte utili e non meno utili si mostrano gli strumenti che le hanno consentite, le scienze dell’uomo sono in una situazione molto più difficile. All'uomo l’uomo è molto più trasparente della natura ed è molto difficile aggiungere qualcosa di nuovo e insieme intelligente dopo l’etica di Platone e Aristotele. La ricerca del nuovo si è diretta innanzitutto verso popoli sconosciuti; ma questo campo è essenzialmente esaurito già nel rinascimento; in seguito saranno disponibili soltanto società sempre più piccole, sempre più semplici, e ormai non ce ne sono più da scoprire[1]. La possibilità di scoperta resta invece intatta nell'ambito dell’eccezione, dell’anormalità, della malattia; qui si apre un campo effettivamente sconfinato per la ricerca, perché nel campo dell’umano si danno infinite eccezioni. Le scienze umane più gravide di conseguenze hanno uno stretto legame con le terapie.

Ne deriva una situazione ambigua. La scienza è conoscenza universale: concerne, secondo la determinazione di Aristotele, ciò che accade sempre o per lo più.

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kelebek3

Ragioni e migrazioni

di Miguel Martinez

pulling dogLa polarizzazione comporta il rifiuto di immaginarsi che l’altro possa avere delle ragioni.

Eppure a volte mi sembra che abbiano tutti delle ragioni; o comunque accettare questa possibilità è l’unico modo possibile per iniziare una riflessione su cosa fare: io sono convinto che stiamo vivendo il momento più importante della storia dall’estinzione dei dinosauri, e perdere tempo a litigare è suicida e criminale, insieme.

Quando dico tutti, intendo innanzitutto i migranti stessi, cui di solito nessuno pensa; poi quelli che tifano per il Capitano Salvini che ci salva dagli immigrati e quelli che invece tifano per la Capitana Rackete che salva gli immigrati.

Cito un episodio di cronaca di cui nessuno si ricorderà tra qualche mese, ma che ha diviso gli italiani in due schieramenti urlanti e totalmente incapaci di ascoltarsi a vicenda (i migranti non li ascolta nessuno per principio).

Partiamo dalle ragioni dei migranti.

Quello che una volta chiamavano “Terzo Mondo” è un po’ a chiazze: in Nigeria c’è chi ordina la pizza in aereo da Londra.

Ma per non rendere troppo lungo il discorso, chiamerò Terzo Mondo quella parte del mondo da cui la gente tende a emigrare di corsa, se solo può.

E perché tende a farlo?

Dodici anni fa (mi sento un po’ Cassandra, pensando a cosa è successo poi nel 2011) scrissi qui:

Quando il sole arde forte sull’Egitto e fa salire verso il cielo l’odore onnipresente dei rifiuti, i giovani – ragazzi spesso di una straordinaria ma sprecata autodisciplina, curiosità e intelligenza – si trovano a milioni nei caffè, con un’unica certezza: ma fish mustaqbal, “non c’è futuro“. E hanno, ovviamente, ragione.

Esiste però una magra consolazione: tutti sanno che c’è un Egitto degli egiziani, un posto ancora più caldo, devastato, afflitto dalla miseria e ancora più privo di qualunque speranza.

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blackblog

La fine della «società del lavoro» e della «società del denaro»

di Boaventura Antunes

Introduzione al dibattito sul libro di  Yuval Noah Harari, "Sapiens. Da animali a dèi. Breve storia dell'umanità"

noahBuona sera a tutte le persone presenti. Prima di passare alla discussione circa le idee che si trovano alla base del libro di Harari, vorrei introdurre il tema. In tre parti. Per primo, una breve presentazione dell'autore. In secondo luogo, quelle che sono le linee essenziali dell'opera. E, per finire, un abbozzo di apprezzamento critico.

Yuval Noah Harari nasce nel 1976 in Israele, nei pressi di Haifa, in una famiglia di ebrei laici con ascendenti in Libano e nell'Europa orientale. Si è sposato a Toronto, in Canada, in quanto in Israele non è possibile sposarsi con una persona dello stesso sesso, sebbene poi lo Stato riconosca questi matrimoni che sono avvenuti all'estero. Vive insieme al marito nei pressi di Gerusalemme in un "Moshav" (comunità agricola e residenziale simile al Kibbutz, ma che ammette la proprietà privata della terra, in lotti uguali). Egli ritiene che il suo orientamento sessuale minoritario possa averlo aiutato a mettere in discussione le conoscenze e le idee circa la vita, il mondo e l'umanità che vengono date per scontate. Pratica la "Vipassana", medita due ore al giorno e compie un ritiro annuale di almeno un mese l'anno. Ha aderito al veganesimo, asserisce, in virtù dei suoi studi sui maltrattamenti inflitti dagli esseri umani agli animali. Dal mese di gennaio di quest'anno ha deciso di fare a meno dello smartphone. Del marito, e suo manager, dice che è il suo «Internet di tutte le cose».

Avendo iniziato i suoi studi di storia specializzandosi in storia militare e in storia medievale, si è poi dedicato alla storia mondiale ed ai processi di Macrostoria [N.d.T.: Per macrostoria si intende il lavoro di storiografia che analizza gli avvenimenti storici prendendo in considerazione gli elementi di un contesto più ampio, come l'ambiente geografico, l'economia, le ideologie e la cultura]. Ha conseguito il dottorato ad Oxford, ed è attualmente professore nell'Università Ebraica di Gerusalemme. Il suo libro "Sapiens. Da animali a dèi. Breve storia dell'umanità" ha avuto un seguito in "Homo Deus. Breve storia del futuro" ed in "21 lezioni per il XXI secolo" [N.d.T.: tutti editi in Italia da Bompiani].

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paroleecose2

Intersezionalità, identità e comunità: a che punto siamo a sinistra

di Mimmo Cangiano

abe9fcbd 865f 4edc b334 d261f60deed3 large“... anche quando tutto sembra perduto bisogna
mettersi tranquillamente all’opera
ricominciando dall’inizio” (Antonio Gramsci)

Identità

Poche settimane fa l’europarlamentare Eleonora Forenza (area di Rifondazione di Potere al Popolo) ha scatenato una piccola bagarre nel minuscolo stagno della sinistra italiana. Forenza ha bollato, su Twitter, la Brexit come “pasticcio di maschi”, non negando una certa solidarietà ‘femminista’ a Theresa May e alla gatta da pelare che i colleghi “maschi” le avrebbero rifilato. L’uscita infelice di Forenza non è cosa nuova (ma preoccupa che venga da una gramsciana). È parte integrante di un certo orientamento della sinistra diritto-civilista e culturalista, cioè di quella sinistra che, pur non escludendo le questioni legate al mondo del lavoro e della produzione, individua ormai nei diritti civili la principale chiave d’intervento sociale e, proprio a causa di tale scelta, si ritrova fatalmente irretita all’interno di un uso distorto del concetto di “identità”. Tale posizionamento (largamente maggioritario anche nel Partito Democratico) è stato spesso già portato a critica. Si è rilevato come si tratti di una soluzione da un lato assolutamente subalterna agli attuali vettori di organizzazione societaria (visto che ci è impossibile intervenire sulla struttura social-lavorativa ci rifugiamo nelle battaglie per i diritti civili e chiamiamo tale spostamento “rivoluzione”, come in una sorta di risarcimento psicologico), dall’altro pericolosa nel suo indiscriminato assegnare (è proprio il caso di Theresa May) patenti di “vittima” a figure sociali che solo mediante il misticismo delle identity politics possono apparire come tali, ché oggi, scriveva Natalia Ginzburg (aprile ’73), nessuno ama “essere nel numero dei privilegiati e tutti desiderano appartenere al numero degli oppressi”.

Si tratta infatti di un approccio che opera su due fronti di pensiero fra loro apparentemente in contraddizione: da un lato si dichiara nullo (anti-essenzialismo) il concetto di “identità” (abbiamo solo identità fluide, liquide, ecc.), dall’altro si ricorre ad un potenziamento di tale concetto, in questo caso il genere, per dare spiegazione ad alcuni fenomeni.

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jacobin

Il benessere è solo collettivo

di Marta Fana e Angelo Salento

L'"economia fondamentale" riguarda tutti i settori che costituiscono la base materiale della coesione sociale. Da anni è sotto attacco del capitale. Adesso è il momento di tutelarla, sostiene una rete internazionale di ricercatori e ricercatrici

jacobin italia 990x361I processi finanziari hanno ormai aggredito e assoggettato ai propri interessi anche ambiti storicamente rivolti a soddisfare i bisogni sociali, come la sanità, la cura, la previdenza, l’istruzione e le infrastrutture. A essere sotto attacco è la cosiddetta «economia fondamentale», costituita da tutti i beni e servizi necessari al benessere quotidiano della società che comprende ma non si riduce al concetto di welfare. In un recente saggio, Economia fondamentale – L’infrastruttura della vita quotidiana (Einaudi) un collettivo interdisciplinare di ricercatori e ricercatrici ripercorre i passaggi che hanno portato alla finanziarizzazione di questa parte dell’economia, che raccoglie in Europa circa il 40% della forza lavoro occupata, dalle esternalizzazioni alle privatizzazioni di infrastrutture come ferrovie e autostrade: «Seguiamo la pista dei soldi – dicono – Analizziamo i modi e gli strumenti con cui viene sviluppato il business». Gli autori evidenziano lo scontro politico, di classe, alla base di questi processi, provando a tracciare se non delle soluzioni almeno dei percorsi da seguire. «Suggeriamo di non coltivare l’idea che il reddito individuale sia la variabile decisiva per il benessere in quanto una gran parte delle infrastrutture e dei servizi indispensabili per il benessere sono necessariamente collettivi ma non possono spesso esser prodotti a livello ‘locale’, illudendosi che l’auto-organizzazione economica ‘dal basso’ possa in modo autosufficiente sostenere il benessere collettivo. Una parte consistente delle attività economiche fondamentali è di larga scala, e non è pensabile un’economia fondamentale robusta e sostenibile senza una regolazione di scala nazionale e internazionale».

* * * *

L’economia fondamentale e la sua centralità sono una questione politica, in che modo può essere compatibile con il capitalismo, sistema economico predatorio in cui pure i tentativi di «renderlo umano» vengono spiazzati ogni volta che le esigenze di accumulazione e profitto vengono messe a rischio?

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poliscritture

Noi e loro

Nota a margine de I dannati della terra di Frantz Fanon

di Giorgio Riolo

FanonPubblico la nota introduttiva a “I dannati della terra” di Frantz Fanon. argomento conclusivo del ciclo di incontri di letteratura che Giorgio Riolo tiene a Milano (qui), accogliendo in pieno – anche con un invito a guardare e ad ascoltare le voci di questo tremendo video (qui ) – l’esigenza di capire il dramma dell’Africa, liberandoci dai paraocchi del sovranismo nazionalista o eurocentrico. Non per “romanticismo rivoluzionario”, ma per obbligo a pensare tutta la realtà. Di fronte alla “tempesta” in corso, non possiamo metterci, come aveva capito Sartre citato da Giorgio, dalla parte dei “seminatori di vento” . Essi l’hanno alimentata e ora se ne lavano le mani. Dobbiamo impedirglielo o, se non fosse più possibile, almeno testimoniare la tragedia. [E. A.]

* * * *

I.

Periodicamente, dalla sua morte, si può parlare di una sorta di riscoperta di Frantz Fanon e del suo grande libro I dannati della terra. Un tempo, tra gli anni sessanta e gli anni settanta, per esempio, negli Stati Uniti a opera soprattutto del Black Panther Party. A fine anni settanta, negli Usa se ne erano vendute 750.000 copie della traduzione inglese del libro.

Oggi soprattutto a causa dei pericoli del razzismo, della chiusura identitaria, anche entro gli strati popolari occidentali, italiani nel nostro caso. A causa della bella guerra tra poveri, alimentata, manipolata, incoraggiata dalle classi dominanti, beneficiarie in primo luogo dello sfruttamento di quello che un tempo chiamavamo “proletariato esterno”. Gli esseri umani costretti a emigrare per vivere. Sempre da Sud a Nord. Un tempo dal Mezzogiorno d’Italia e oggi dalle periferie del mondo.

Frantz Fanon è figura storica, nel tempo e nello spazio, figlio del suo tempo, sicuramente. Ma la sua vita, recisa come un fiore nella sua piena fioritura, ne ha fatto un mito. Un essere umano che segna un destino, che segna un’epoca. Anche una generazione.

Figlio del mondo diviso tra metropoli e colonie, come si diceva allora, del mondo manicheicamente diviso tra colonizzatori e colonizzati, tra centri che prosperano e periferie che danno sangue e lavoro per quella prosperità, nel segno del dominio territoriale, economico, culturale, antropologico, psichico.

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Undici  tesi sul sistema di manipolazione mediatica

La scomparsa del giornalismo in Italia

di Alceste De Ambris

Un pregevole studio sul sistema mediatico del nostro collaboratore Alceste De Ambris. Abbiamo preferito non spezzarlo in due parti affinché il lettore interessato non perda il filo del suo discorso

reality tv1Pensa a uomini chiusi in una specie di caverna sotterranea, che abbia l'ingresso aperto alla luce per tutta la lunghezza dell'antro; essi vi stanno fin da bambini incatenati alle gambe e al collo, così da restare immobili e guardare solo in avanti, non potendo ruotare il capo per via della catena. Dietro di loro, alta e lontana, brilla la luce di un fuoco, e tra il fuoco e i prigionieri corre una strada in salita, lungo la quale immagina che sia stato costruito un muricciolo, come i paraventi sopra i quali i burattinai, celati al pubblico, mettono in scena i loro spettacoli” (Platone, Repubblica, VII)

I - C'era una volta

Un altro lutto funesta il nostro Paese, dopo che altre tipiche istituzioni di un certo modello sociale (l’economia mista, i diritti dei lavoratori, la democrazia sostanziale...) erano venute meno. Tutto si tiene.

L’arresto di Julian Assange, colpevole di aver svelato i segreti del Potere (ossia di aver svolto il compito di ogni giornalista coraggioso), accolto dall’indifferenza o addirittura dal consenso dell’intera stampa, segna simbolicamente la morte in Italia del giornalismo come professione.

È difficile stabilire esattamente la data del decesso. La televisione non è mai stata libera, e di radio libere ne sono sopravvissute poche. Il nostro requiem è dedicato alla carta stampata. In Italia l’impressione è che fino agli anni Novanta vigeva ancora una certo pluralismo di stampa, (quasi) tutte le posizioni erano rappresentate. Un cittadino volenteroso, recandosi in edicola ed acquistando tutti i giornali, poteva farsi un'idea dei fatti accaduti nel mondo, e soprattutto delle diverse interpretazioni. Poi l’omologazione si è imposta progressivamente, come se fosse entrata in vigore una legge censoria “occulta”; fino ad arrivare alla situazione attuale in cui tutti i quotidiani (sopravvissuti alla crisi), sia nazionali che locali, sono allineati sull’orientamento generale, che potremmo definire “conservatore” (nel senso di conservazione dello status quo e dei rapporti di forza economica).

Per fare un imbarazzante confronto, immaginiamo di tornare indietro all’inizio del secolo scorso; in circolazione troveremmo pubblicazioni di tutti gli orientamenti: monarchici, repubblicani, liberali, democratici, cattolici, anticlericali, nazionalisti, socialisti riformisti e rivoluzionari, anarchici ecc.

 

II - Del pensiero unico

Secondo la concezione liberale, la libertà di stampa e di espressione garantisce il pluralismo delle idee all’interno della società; una stampa indipendente fornisce un’informazione diversificata e quindi completa; inoltre la necessità di conservare il prestigio e l’etica professionale spingono i giornalisti a fornire notizie oggettive e verificate.

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iltascabile

C’è vita oltre il capitalismo?

di Tiziano Cancelli*

Una lettura di Quattro modelli di futuro (Treccani) condotta insieme al suo autore Peter Frase

prova coverPensare il futuro nell’epoca del realismo capitalista richiede la capacità di pensare la contraddizione. Il concetto di antropocene parla esattamente di questa difficoltà di vedere le cicatrici lasciate ogni giorno sulla superficie del pianeta e dei suoi abitanti, di questa difficoltà di capire come il presente si trasformi ogni giorno inevitabilmente nel futuro che abbiamo scelto. Nell’era della tecnica l’umanità sogna di terraformare Marte mentre si avvicina lentamente a una probabile estinzione; sogna l’avvento dei robot mentre in ogni parte del pianeta lascia morire di malnutrizione e di lavoro. Pensare il futuro non è un compito facile: per farlo è necessario sopportare il pensiero del paradosso, il peso di un mondo schivo che ha paura di guardarsi allo specchio e che per questo motivo sembra incapace di immaginarsi diverso.

Quattro modelli di futuro: c’è vita oltre il capitalismo di Peter Frase, appena uscito per Treccani [l’editore di questa rivista], è in questo senso un esercizio necessario di immaginazione e al contempo una filosofia dell’hic et nunc: partendo dall’impossibilità di un ritorno ai cari vecchi tempi della“tradizione”, frutto per la maggior parte di una visione idealizzata e mistificata del passato, bisogna fare i conti con la sfida del possibile, ritrovare la capacità di capire dove siamo, dove stiamo andando e dove vorremmo andare.

“Questo non è proprio un normale saggio, ma non è neanche un’opera narrativa, né ritengo che appartenga al genere futuristico. È piuttosto un tentativo di usare gli strumenti della scienza sociale insieme a quelli della narrativa speculativa per esplorare lo spazio di possibilità in cui andranno in scena i nostri futuri conflitti politici”, scrive l’autore.

Attraverso l’uso magistrale dell’ipotesi fantascientifica, condita da una dose significativa di interrogazione genuinamente politica, Frase riesce nel difficile compito di delineare quattro ipotesi di futuro possibili alla luce dei conflitti che abitano il presente, tutti segnati dalla consapevolezza di un dato fondamentale: volenti o nolenti il capitalismo per come lo conosciamo sta per finire, quello che verrà dopo dipenderà in larga parte dalle decisioni che prenderemo a livello collettivo, e quindi politico.