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economiaepolitica

Classi Sociali e Geometria del Governo Giallo-Verde

di Gianmarco Oro, Giorgio Gattei

yellow green line background 700x5251. Le classi sociali nell’emiciclo parlamentare.

La doppia ipotesi che muove questa indagine è che i partiti politici non sono altro che i “veicoli” con cui le classi sociali si contendono il potere politico nelle competizioni elettorali e che queste classi sono riconducibili, grossolanamente, alle denominazioni classiche di “borghesia”, “proletariato” e “ceti medi”. Naturalmente queste denominazioni andrebbero adattate al giorno d’oggi, così da distinguere la borghesia in industriale, agraria e finanziaria; il proletariato da chiamarsi meglio “salariato” o “classe operaia” (ma non certamente “classe subalterna”!); mentre i ceti medi risultano come un coacervo di strati sociali difformi in cui sono indistintamente compresi i “padroncini” (di fabbrica e di campagna), i lavoratori autonomi (artigiani, commercianti, e liberi professionisti) e gli impiegati sia privati che pubblici. E qui va ricordato lo sconcerto che ci prese quando, appena pochi anni dopo l’insorgenza operaia dell’autunno caldo, Paolo Sylos Labini osò documentare, statistiche alla mano, che l’Italia era un paese a maggioranza della “quasi classe” dei ceti medi invece che del proletariato: nel 1971 il 49,6% contro il 47,8% che nel 1983 era già passato al 54% contro il 42,7%[i].

Ora c’è anche una teoria, ignorata dai più, secondo la quale la classe borghese si è storicamente espressa sotto la forma di due partiti politici: in Gran Bretagna i liberali e i conservatori e negli Stati Uniti i democratici e i repubblicani, data la doppia specie del suo reddito: il profitto industriale oppure la rendita (agraria e finanziaria)[ii]. In Europa anche il proletariato ha preso politicamente forma doppia: il partito socialista dapprima e il partito comunista poi, riformista il primo, rivoluzionario il secondo. E i ceti medi? Data l’anomalia della loro ambigua composizione sociale, hanno solitamente mancato di presentarsi con una propria forma-partito, affidando la difesa dei propri interessi di classe al partito “dei padroni” oppure a quello “di parte operaia” che sentivano al momento più vicino. Ma valeva comunque l’ammonimento marxiano per cui «i ceti medi, il piccolo industriale, il piccolo negoziante, l’artigiano, il contadino [mancavano al tempo i liberi professionisti e gli impiegati], tutti costoro combattono la borghesia per salvare dalla rovina l’esistenza loro di ceti medi.

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poliscritture

Sulla violenza nella storia

di Ennio Abate

Moro ritrovamento corpoLa questione della violenza nella storia, ora anche in una dimensione “gobalizzata” (in passato affrontata su Poliscritture almeno qui, qui, qui e qui), resta irrisolta . Meglio insistere a interrogarsi sul fenomeno. Da tutti i possibili punti di vista. Senza mai arrendersi all'”evidente” e finire per sublimarla o esorcizzarla. Va bene anche partire da materiale “datato” o “passato” o riflettendo a distanza di anni da questo o quell’evento traumatico.All’indomani della discussione scaturita dal post di Donato Salzarulo sugli anni ’70 (soprattutto nella sua seconda parte: qui) e per continuare ad approfondire, pubblico dal mio “Riordinadiario 2005” le ben meditate e ancora lucidissime e attuali “Sette tesi sul terrorismo nel Ventunesimo secolo” di Peppino Ortoleva. Apparvero il 5 agosto di quell’anno sul sito della LUHMI (Libera Università di Milano e del suo hinterland, promossa da Sergio Bologna) e vale la pena rileggerle e rifletterci. Aggiungo il mio intervento e le conclusioni dello stesso Ortoleva (purtroppo non più accessibili on line a quanto vedo, ma di cui avevo conservato una copia). Chi volesse conoscere il resto della discussione lo trova qui (andando in ‘Archivio’ > ‘Sul terrorismo’). Un’ultima precisazione. Ad Ortoleva, che nella sua replica scriveva: «La mia posizione sulla violenza politica implica un corollario, su cui credo Ennio non sia d’accordo. In materia di violenza politica l’etica della convinzione (per rifarci al binomio weberiano rimesso in circolazione da Bobbio) non serve a nulla: se si agisce sul terreno della storia è su questo che si deve essere giudicati; se si coinvolgono altre vite non si può pretendere di essere giudicati solo sulla propria coscienza», rispondo sia pur a distanza di anni di concordare invece in pieno con lui: no, per me pure non è la coscienza individuale (o soggettiva) a misurare da sola il valore di un’azione. Lo può essere (forse) un “io/noi” capace di proporre e attuare – fosse solo per poco tempo (nella storia le rivoluzioni sono lampi) – un progetto razionale e condiviso evitando sia i deliri incontrollati dell’”io” sia quelli standardizzati dei “noi” eterodiretti. [E. A.]

* * * *

Sette tesi sul terrorismo nel Ventunesimo secolo

di Peppino Ortoleva

1. Il terrorismo è un’arma. E’ un’arma peculiare, certo, per il tipo di “combattente” che richiede e che crea, e soprattutto per il carattere indiretto della sua azione, che non mira a infliggere danni alle forze avversarie ma a disorientare l’opinione pubblica.

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sebastianoisaia

Libra. Ovvero la naturale smisuratezza del denaro

di Sebastiano Isaia

libraDieci anni fa Facebook contava 175 milioni di iscritti, «guadagnando altre due posizioni e scavalcando [quanto a popolazione] Pakistan e Bangladesh. “Se Facebook fosse un Paese – aveva scritto un mese fa il suo fondatore Mark Zuckerberg –, sarebbe quello con l’ottava popolazione mondiale, superando Giappone e Russia». Così scriveva Il Corriere della Sera il 9 febbraio del 2009. Con oltre 2,4 miliardi di utenti Facebook è oggi il Paese più popoloso del pianeta. Mi si obietterà che stiamo parlando pur sempre di un Paese virtuale, di un luogo che non esiste nella “concreta realtà”, di qualcosa che esiste solo in una dimensione algoritmica, tant’è vero che Facebook non è una Nazione, non ha uno Stato, non ha un esercito, non ha («e non deve avere!») una moneta sovrana. A questa legittima, sebbene un po’ ingenua e poco “dialettica” obiezione, mi permetto di rispondere con un’altra domanda: ma credete davvero che per il Capitale ha un senso porre la distinzione “ontologica” tra virtuale e reale? Perché dei rapporti sociali capitalistici, oggi dominanti su scala mondiale, qui stiamo parlando, e di nient’altro. E scrivendo rapporti sociali capitalistici non alludo solo a una dimensione “classicamente” economica, tutt’altro, tanto più che la stessa distinzione tra una sfera economica e una sfera esistenziale è sempre più evanescente, poco significativa, se non francamente inesistente. Per dirla con Massimo Troisi – e attraverso la mediazione di Marx, nella cui barba mi impiglio continuamente –, credevo fosse economia e invece era la vita. E viceversa.

Ciò che mi appare di gran lunga più significativo e degno di analisi (analisi che qui nemmeno tenterò) a proposito di Libra non è tanto l’intenzione che muove lo scabroso progetto (si tratta del vecchio e caro profitto, di cos’altro?) o la sua concreta realizzabilità nel medio o nel lungo periodo, quanto la sua “ontologia sociale”, il suo essere la perfetta espressione di tendenze economiche e sociali che rimontano molto indietro nel tempo e che sono intimamente legate al concetto stesso di capitale, oltre che, ovviamente, alla sua prassi. Dirompente non è l’idea imprenditoriale in sé, che a suo modo è anzi già vecchia (oggi le tecnologie hanno un grado di obsolescenza che tende alla velocità della luce), ma la scala, la dimensione sociale e geoeconomica che essa abbraccia: la globalizzazione capitalistica minaccia un nuovo scatto in avanti, e verso territori finora non esplorati fino in fondo. Di qui le preoccupazioni di diverso segno che hanno accompagnato il lancio mediatico di Libra.

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roars

Dati INVALSI: “fotografia” o strumento di intimidazione matematica?

di Redazione ROARS

pinocchio 1Arriva l’estate e arriva l’ennesimo rapporto sui test INVALSI. Le metafore dei test come “fotografia” della realtà e del “termometro” si sprecano. La Presidente Ajello ha in una recente intervista radiofonica usato la metafora degli esami del sangue: i risultati dei test INVALSI somigliano alle percentuali di colesterolo nel sangue. Proprio quest’ultima analogia può essere utile per capire bene cosa misurano le prove INVALSI. Nel sangue il colesterolo c’è davvero e può essere osservato. Le prove INVALSI, oltre alle famigerate “competenze”, dal 2016 affermano di stimare statisticamente anche un’altra grandezza che non è direttamente osservabile: il “valore aggiunto”. I test servono alle scuole per migliorarsi, si dice. Devono essere svolti da tutti: è una questione di equità, si aggiunge. Ma lo sanno i commentatori che le scuole non hanno alcun accesso alle prove svolte dai loro studenti? Che da quanto le prove sono computer based ciò che viene loro restituito è solo un file che associa il punteggio x all’allievo y, senza nessun’informazione su come quel punteggio sia stato ottenuto? Cosa non ha saputo lo studente? Dove e cosa ha sbagliato? L’assenza di questa informazione essenziale per qualsiasi insegnante, per qualsiasi concreto miglioramento in classe svela la sola e vera funzione della prova. All’INVALSI interessa raccogliere dati relativi a ciascuno studente nel tempo. I punteggi dei test certificheranno le competenze di ognuno. E quelle certificazioni piano piano subentreranno ai titoli di studio rilasciati dalle scuole pubbliche. Ecco a cosa servono i test INVALSI ed ecco perché la rilevazione è censuaria e non, come accade nel resto del mondo, campionaria.

“Una fotografia disarmante”, la definisce Christian Raimo; “due Italie, una che legge e scrive e parla inglese e l’altra no”, scrive Rai news; “un’Italia che non ama il merito e non capisce che la sana competizione è vitale per la crescita”, chiosa il Corriere della Sera; “il 35% degli studenti in terza media non comprende un testo in italiano”, continua Repubblica; “sono la foto di un Paese non democratico” commenta eccentricamente Marco Rossi Doria sul Fatto quotidiano. E tanti altri.

La pubblicazione annuale del rapporto dei dati INVALSI produce ciclicamente, almeno dal 2008 in avanti, anno in cui le prove diventano censuarie – ovvero destinate a tutti gli studenti italiani delle classi testate – paginate di indignazione e sconcerto mediatico.

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minimamoralia

La guerra di tutti

Adriano Ercolani intervista Raffaele Alberto Ventura

170406783 528cbd0a d6ae 4a8d ba2f d0e535c162b5Pochi libri aiutano a comprendere il presente come La guerra di tutti di Raffaele Alberto Ventura.

Forse solo La società della performance di Maura Gancitano e Andrea Colamedici, affrontando la contemporaneità da un’angolazione diversa, offre la stessa mole di spunti e sentieri di riflessione.

Ventura, intellettuale da anni molto apprezzato per le sue riflessioni sul blog Eschaton, ha destato molto clamore col suo libro precedente, Teoria della classe disagiata (premiato anche da un ardito adattamento teatrale), un testo che ha mostrato le già note qualità dell’autore: una notevole erudizione, una spiccata capacità di analisi, una non comune libertà da schieramenti (post) ideologici.

Il primo libro era una fotografia, spietatamente realistica, della condizione paradossale della classe media intellettuale contemporanea, composta da intelligenze brillanti destinate a vivacchiare nell’assoluta negazione di ogni riconoscimento simbolico dei propri talenti e competenze.

Una critica ricorrente tra i numerosi lettori è stata la mancanza di una pars costruens.

Ecco, dunque, La guerra di tutti: già nel titolo la risposta appare beffardamente consapevole. Come il titolo del primo libro faceva il verso al testo ormai classico di Thorstein Veblen, La teoria della classe agiata (di cui rovesciava la prospettiva), nel secondo c’è un riferimento evidente a Thomas Hobbes che indicava lo stato di natura, antecedente a ogni legge, come “Bellum omnium contra omnes”.

Fin dal titolo, l’autore mette in scena la crisi delle istituzioni politiche attuali. Il sottotitolo indica i macrotemi della riflessione: “populismo, terrore e crisi della società liberale”.

Il libro, oltre a essere, come già detto, una miniera di spunti di approfondimento senza troppi riscontri nel panorama attuale, ha il grande pregio di conciliare un alto livello intellettuale con benedette concessioni alla cultura pop: ecco, quindi, Ventura usare intelligentemente Debbie Harry in Videodrome di Cronenberg, come metafora del contagio populista tramite i media,; Captain America e Iron Man per spiegare il dibattito di teoria del diritto tra Carl Schmitt e Hans Kelsen; l’invasione dei Borg in Star Trek come spunto di riflessione sulla Rivoluzione Francese; V for Vendetta sul concetto hobbesiano di Leviatano; Rihanna per comprendere Il pendolo di Foucault di Umberto Eco.

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badialetringali

Le scienze umane a Bibbiano

di Paolo Di Remigio

(Pubblichiamo volentieri questa riflessione dell'amico Paolo Di Remigio, che parte dai fatti di Bibbiano per discutere su ciò che sono oggi le scienze umane. M.B.)

shutterstock 92218387 small 770x5591.

A Bibbiano, ma in precedenza al ‘Forteto’ vicino Firenze e poi in provincia di Modena, i bambini sono stati strappati ai loro genitori tramite accuse infamanti in particolare nei confronti dei padri e, dopo un lavaggio del cervello perché si rassegnassero al trauma, ma anche senza che si rassegnassero, affidati a nuovi nuclei familiari o a istituti prezzolati. Psicologi, assistenti sociali, giudici hanno calunniato adulti e rubato bambini, per realizzarne le peggiori angosce, per sacrificare le vite di tutti sull'altare del denaro e degli appetiti perversi. L’ampiezza delle reti di complicità, di reticenza e di disattenzione che permette queste spaventose vicende e vi stende il velo dell’omertà dimostra l’esistenza di potenti forze destabilizzanti, animate da un’ideologia che razionalizza l’odio nei confronti dell’istituzione familiare e il cui terreno di coltura è in certi settori delle ‘scienze umane’ – le scienze delle intenzioni: psicologia, sociologia, antropologia.

Poiché rappresentano un costo sociale, le scienze devono giustificare la loro esistenza. Esse dimostrano di meritare i finanziamenti allargando il campo della conoscenza con scoperte utili. Mentre le scienze della natura fanno scoperte utili e non meno utili si mostrano gli strumenti che le hanno consentite, le scienze dell’uomo sono in una situazione molto più difficile. All'uomo l’uomo è molto più trasparente della natura ed è molto difficile aggiungere qualcosa di nuovo e insieme intelligente dopo l’etica di Platone e Aristotele. La ricerca del nuovo si è diretta innanzitutto verso popoli sconosciuti; ma questo campo è essenzialmente esaurito già nel rinascimento; in seguito saranno disponibili soltanto società sempre più piccole, sempre più semplici, e ormai non ce ne sono più da scoprire[1]. La possibilità di scoperta resta invece intatta nell'ambito dell’eccezione, dell’anormalità, della malattia; qui si apre un campo effettivamente sconfinato per la ricerca, perché nel campo dell’umano si danno infinite eccezioni. Le scienze umane più gravide di conseguenze hanno uno stretto legame con le terapie.

Ne deriva una situazione ambigua. La scienza è conoscenza universale: concerne, secondo la determinazione di Aristotele, ciò che accade sempre o per lo più.

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kelebek3

Ragioni e migrazioni

di Miguel Martinez

pulling dogLa polarizzazione comporta il rifiuto di immaginarsi che l’altro possa avere delle ragioni.

Eppure a volte mi sembra che abbiano tutti delle ragioni; o comunque accettare questa possibilità è l’unico modo possibile per iniziare una riflessione su cosa fare: io sono convinto che stiamo vivendo il momento più importante della storia dall’estinzione dei dinosauri, e perdere tempo a litigare è suicida e criminale, insieme.

Quando dico tutti, intendo innanzitutto i migranti stessi, cui di solito nessuno pensa; poi quelli che tifano per il Capitano Salvini che ci salva dagli immigrati e quelli che invece tifano per la Capitana Rackete che salva gli immigrati.

Cito un episodio di cronaca di cui nessuno si ricorderà tra qualche mese, ma che ha diviso gli italiani in due schieramenti urlanti e totalmente incapaci di ascoltarsi a vicenda (i migranti non li ascolta nessuno per principio).

Partiamo dalle ragioni dei migranti.

Quello che una volta chiamavano “Terzo Mondo” è un po’ a chiazze: in Nigeria c’è chi ordina la pizza in aereo da Londra.

Ma per non rendere troppo lungo il discorso, chiamerò Terzo Mondo quella parte del mondo da cui la gente tende a emigrare di corsa, se solo può.

E perché tende a farlo?

Dodici anni fa (mi sento un po’ Cassandra, pensando a cosa è successo poi nel 2011) scrissi qui:

Quando il sole arde forte sull’Egitto e fa salire verso il cielo l’odore onnipresente dei rifiuti, i giovani – ragazzi spesso di una straordinaria ma sprecata autodisciplina, curiosità e intelligenza – si trovano a milioni nei caffè, con un’unica certezza: ma fish mustaqbal, “non c’è futuro“. E hanno, ovviamente, ragione.

Esiste però una magra consolazione: tutti sanno che c’è un Egitto degli egiziani, un posto ancora più caldo, devastato, afflitto dalla miseria e ancora più privo di qualunque speranza.

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blackblog

La fine della «società del lavoro» e della «società del denaro»

di Boaventura Antunes

Introduzione al dibattito sul libro di  Yuval Noah Harari, "Sapiens. Da animali a dèi. Breve storia dell'umanità"

noahBuona sera a tutte le persone presenti. Prima di passare alla discussione circa le idee che si trovano alla base del libro di Harari, vorrei introdurre il tema. In tre parti. Per primo, una breve presentazione dell'autore. In secondo luogo, quelle che sono le linee essenziali dell'opera. E, per finire, un abbozzo di apprezzamento critico.

Yuval Noah Harari nasce nel 1976 in Israele, nei pressi di Haifa, in una famiglia di ebrei laici con ascendenti in Libano e nell'Europa orientale. Si è sposato a Toronto, in Canada, in quanto in Israele non è possibile sposarsi con una persona dello stesso sesso, sebbene poi lo Stato riconosca questi matrimoni che sono avvenuti all'estero. Vive insieme al marito nei pressi di Gerusalemme in un "Moshav" (comunità agricola e residenziale simile al Kibbutz, ma che ammette la proprietà privata della terra, in lotti uguali). Egli ritiene che il suo orientamento sessuale minoritario possa averlo aiutato a mettere in discussione le conoscenze e le idee circa la vita, il mondo e l'umanità che vengono date per scontate. Pratica la "Vipassana", medita due ore al giorno e compie un ritiro annuale di almeno un mese l'anno. Ha aderito al veganesimo, asserisce, in virtù dei suoi studi sui maltrattamenti inflitti dagli esseri umani agli animali. Dal mese di gennaio di quest'anno ha deciso di fare a meno dello smartphone. Del marito, e suo manager, dice che è il suo «Internet di tutte le cose».

Avendo iniziato i suoi studi di storia specializzandosi in storia militare e in storia medievale, si è poi dedicato alla storia mondiale ed ai processi di Macrostoria [N.d.T.: Per macrostoria si intende il lavoro di storiografia che analizza gli avvenimenti storici prendendo in considerazione gli elementi di un contesto più ampio, come l'ambiente geografico, l'economia, le ideologie e la cultura]. Ha conseguito il dottorato ad Oxford, ed è attualmente professore nell'Università Ebraica di Gerusalemme. Il suo libro "Sapiens. Da animali a dèi. Breve storia dell'umanità" ha avuto un seguito in "Homo Deus. Breve storia del futuro" ed in "21 lezioni per il XXI secolo" [N.d.T.: tutti editi in Italia da Bompiani].

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paroleecose2

Intersezionalità, identità e comunità: a che punto siamo a sinistra

di Mimmo Cangiano

abe9fcbd 865f 4edc b334 d261f60deed3 large“... anche quando tutto sembra perduto bisogna
mettersi tranquillamente all’opera
ricominciando dall’inizio” (Antonio Gramsci)

Identità

Poche settimane fa l’europarlamentare Eleonora Forenza (area di Rifondazione di Potere al Popolo) ha scatenato una piccola bagarre nel minuscolo stagno della sinistra italiana. Forenza ha bollato, su Twitter, la Brexit come “pasticcio di maschi”, non negando una certa solidarietà ‘femminista’ a Theresa May e alla gatta da pelare che i colleghi “maschi” le avrebbero rifilato. L’uscita infelice di Forenza non è cosa nuova (ma preoccupa che venga da una gramsciana). È parte integrante di un certo orientamento della sinistra diritto-civilista e culturalista, cioè di quella sinistra che, pur non escludendo le questioni legate al mondo del lavoro e della produzione, individua ormai nei diritti civili la principale chiave d’intervento sociale e, proprio a causa di tale scelta, si ritrova fatalmente irretita all’interno di un uso distorto del concetto di “identità”. Tale posizionamento (largamente maggioritario anche nel Partito Democratico) è stato spesso già portato a critica. Si è rilevato come si tratti di una soluzione da un lato assolutamente subalterna agli attuali vettori di organizzazione societaria (visto che ci è impossibile intervenire sulla struttura social-lavorativa ci rifugiamo nelle battaglie per i diritti civili e chiamiamo tale spostamento “rivoluzione”, come in una sorta di risarcimento psicologico), dall’altro pericolosa nel suo indiscriminato assegnare (è proprio il caso di Theresa May) patenti di “vittima” a figure sociali che solo mediante il misticismo delle identity politics possono apparire come tali, ché oggi, scriveva Natalia Ginzburg (aprile ’73), nessuno ama “essere nel numero dei privilegiati e tutti desiderano appartenere al numero degli oppressi”.

Si tratta infatti di un approccio che opera su due fronti di pensiero fra loro apparentemente in contraddizione: da un lato si dichiara nullo (anti-essenzialismo) il concetto di “identità” (abbiamo solo identità fluide, liquide, ecc.), dall’altro si ricorre ad un potenziamento di tale concetto, in questo caso il genere, per dare spiegazione ad alcuni fenomeni.

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jacobin

Il benessere è solo collettivo

di Marta Fana e Angelo Salento

L'"economia fondamentale" riguarda tutti i settori che costituiscono la base materiale della coesione sociale. Da anni è sotto attacco del capitale. Adesso è il momento di tutelarla, sostiene una rete internazionale di ricercatori e ricercatrici

jacobin italia 990x361I processi finanziari hanno ormai aggredito e assoggettato ai propri interessi anche ambiti storicamente rivolti a soddisfare i bisogni sociali, come la sanità, la cura, la previdenza, l’istruzione e le infrastrutture. A essere sotto attacco è la cosiddetta «economia fondamentale», costituita da tutti i beni e servizi necessari al benessere quotidiano della società che comprende ma non si riduce al concetto di welfare. In un recente saggio, Economia fondamentale – L’infrastruttura della vita quotidiana (Einaudi) un collettivo interdisciplinare di ricercatori e ricercatrici ripercorre i passaggi che hanno portato alla finanziarizzazione di questa parte dell’economia, che raccoglie in Europa circa il 40% della forza lavoro occupata, dalle esternalizzazioni alle privatizzazioni di infrastrutture come ferrovie e autostrade: «Seguiamo la pista dei soldi – dicono – Analizziamo i modi e gli strumenti con cui viene sviluppato il business». Gli autori evidenziano lo scontro politico, di classe, alla base di questi processi, provando a tracciare se non delle soluzioni almeno dei percorsi da seguire. «Suggeriamo di non coltivare l’idea che il reddito individuale sia la variabile decisiva per il benessere in quanto una gran parte delle infrastrutture e dei servizi indispensabili per il benessere sono necessariamente collettivi ma non possono spesso esser prodotti a livello ‘locale’, illudendosi che l’auto-organizzazione economica ‘dal basso’ possa in modo autosufficiente sostenere il benessere collettivo. Una parte consistente delle attività economiche fondamentali è di larga scala, e non è pensabile un’economia fondamentale robusta e sostenibile senza una regolazione di scala nazionale e internazionale».

* * * *

L’economia fondamentale e la sua centralità sono una questione politica, in che modo può essere compatibile con il capitalismo, sistema economico predatorio in cui pure i tentativi di «renderlo umano» vengono spiazzati ogni volta che le esigenze di accumulazione e profitto vengono messe a rischio?

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poliscritture

Noi e loro

Nota a margine de I dannati della terra di Frantz Fanon

di Giorgio Riolo

FanonPubblico la nota introduttiva a “I dannati della terra” di Frantz Fanon. argomento conclusivo del ciclo di incontri di letteratura che Giorgio Riolo tiene a Milano (qui), accogliendo in pieno – anche con un invito a guardare e ad ascoltare le voci di questo tremendo video (qui ) – l’esigenza di capire il dramma dell’Africa, liberandoci dai paraocchi del sovranismo nazionalista o eurocentrico. Non per “romanticismo rivoluzionario”, ma per obbligo a pensare tutta la realtà. Di fronte alla “tempesta” in corso, non possiamo metterci, come aveva capito Sartre citato da Giorgio, dalla parte dei “seminatori di vento” . Essi l’hanno alimentata e ora se ne lavano le mani. Dobbiamo impedirglielo o, se non fosse più possibile, almeno testimoniare la tragedia. [E. A.]

* * * *

I.

Periodicamente, dalla sua morte, si può parlare di una sorta di riscoperta di Frantz Fanon e del suo grande libro I dannati della terra. Un tempo, tra gli anni sessanta e gli anni settanta, per esempio, negli Stati Uniti a opera soprattutto del Black Panther Party. A fine anni settanta, negli Usa se ne erano vendute 750.000 copie della traduzione inglese del libro.

Oggi soprattutto a causa dei pericoli del razzismo, della chiusura identitaria, anche entro gli strati popolari occidentali, italiani nel nostro caso. A causa della bella guerra tra poveri, alimentata, manipolata, incoraggiata dalle classi dominanti, beneficiarie in primo luogo dello sfruttamento di quello che un tempo chiamavamo “proletariato esterno”. Gli esseri umani costretti a emigrare per vivere. Sempre da Sud a Nord. Un tempo dal Mezzogiorno d’Italia e oggi dalle periferie del mondo.

Frantz Fanon è figura storica, nel tempo e nello spazio, figlio del suo tempo, sicuramente. Ma la sua vita, recisa come un fiore nella sua piena fioritura, ne ha fatto un mito. Un essere umano che segna un destino, che segna un’epoca. Anche una generazione.

Figlio del mondo diviso tra metropoli e colonie, come si diceva allora, del mondo manicheicamente diviso tra colonizzatori e colonizzati, tra centri che prosperano e periferie che danno sangue e lavoro per quella prosperità, nel segno del dominio territoriale, economico, culturale, antropologico, psichico.

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sollevazione2

Undici  tesi sul sistema di manipolazione mediatica

La scomparsa del giornalismo in Italia

di Alceste De Ambris

Un pregevole studio sul sistema mediatico del nostro collaboratore Alceste De Ambris. Abbiamo preferito non spezzarlo in due parti affinché il lettore interessato non perda il filo del suo discorso

reality tv1Pensa a uomini chiusi in una specie di caverna sotterranea, che abbia l'ingresso aperto alla luce per tutta la lunghezza dell'antro; essi vi stanno fin da bambini incatenati alle gambe e al collo, così da restare immobili e guardare solo in avanti, non potendo ruotare il capo per via della catena. Dietro di loro, alta e lontana, brilla la luce di un fuoco, e tra il fuoco e i prigionieri corre una strada in salita, lungo la quale immagina che sia stato costruito un muricciolo, come i paraventi sopra i quali i burattinai, celati al pubblico, mettono in scena i loro spettacoli” (Platone, Repubblica, VII)

I - C'era una volta

Un altro lutto funesta il nostro Paese, dopo che altre tipiche istituzioni di un certo modello sociale (l’economia mista, i diritti dei lavoratori, la democrazia sostanziale...) erano venute meno. Tutto si tiene.

L’arresto di Julian Assange, colpevole di aver svelato i segreti del Potere (ossia di aver svolto il compito di ogni giornalista coraggioso), accolto dall’indifferenza o addirittura dal consenso dell’intera stampa, segna simbolicamente la morte in Italia del giornalismo come professione.

È difficile stabilire esattamente la data del decesso. La televisione non è mai stata libera, e di radio libere ne sono sopravvissute poche. Il nostro requiem è dedicato alla carta stampata. In Italia l’impressione è che fino agli anni Novanta vigeva ancora una certo pluralismo di stampa, (quasi) tutte le posizioni erano rappresentate. Un cittadino volenteroso, recandosi in edicola ed acquistando tutti i giornali, poteva farsi un'idea dei fatti accaduti nel mondo, e soprattutto delle diverse interpretazioni. Poi l’omologazione si è imposta progressivamente, come se fosse entrata in vigore una legge censoria “occulta”; fino ad arrivare alla situazione attuale in cui tutti i quotidiani (sopravvissuti alla crisi), sia nazionali che locali, sono allineati sull’orientamento generale, che potremmo definire “conservatore” (nel senso di conservazione dello status quo e dei rapporti di forza economica).

Per fare un imbarazzante confronto, immaginiamo di tornare indietro all’inizio del secolo scorso; in circolazione troveremmo pubblicazioni di tutti gli orientamenti: monarchici, repubblicani, liberali, democratici, cattolici, anticlericali, nazionalisti, socialisti riformisti e rivoluzionari, anarchici ecc.

 

II - Del pensiero unico

Secondo la concezione liberale, la libertà di stampa e di espressione garantisce il pluralismo delle idee all’interno della società; una stampa indipendente fornisce un’informazione diversificata e quindi completa; inoltre la necessità di conservare il prestigio e l’etica professionale spingono i giornalisti a fornire notizie oggettive e verificate.

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iltascabile

C’è vita oltre il capitalismo?

di Tiziano Cancelli*

Una lettura di Quattro modelli di futuro (Treccani) condotta insieme al suo autore Peter Frase

prova coverPensare il futuro nell’epoca del realismo capitalista richiede la capacità di pensare la contraddizione. Il concetto di antropocene parla esattamente di questa difficoltà di vedere le cicatrici lasciate ogni giorno sulla superficie del pianeta e dei suoi abitanti, di questa difficoltà di capire come il presente si trasformi ogni giorno inevitabilmente nel futuro che abbiamo scelto. Nell’era della tecnica l’umanità sogna di terraformare Marte mentre si avvicina lentamente a una probabile estinzione; sogna l’avvento dei robot mentre in ogni parte del pianeta lascia morire di malnutrizione e di lavoro. Pensare il futuro non è un compito facile: per farlo è necessario sopportare il pensiero del paradosso, il peso di un mondo schivo che ha paura di guardarsi allo specchio e che per questo motivo sembra incapace di immaginarsi diverso.

Quattro modelli di futuro: c’è vita oltre il capitalismo di Peter Frase, appena uscito per Treccani [l’editore di questa rivista], è in questo senso un esercizio necessario di immaginazione e al contempo una filosofia dell’hic et nunc: partendo dall’impossibilità di un ritorno ai cari vecchi tempi della“tradizione”, frutto per la maggior parte di una visione idealizzata e mistificata del passato, bisogna fare i conti con la sfida del possibile, ritrovare la capacità di capire dove siamo, dove stiamo andando e dove vorremmo andare.

“Questo non è proprio un normale saggio, ma non è neanche un’opera narrativa, né ritengo che appartenga al genere futuristico. È piuttosto un tentativo di usare gli strumenti della scienza sociale insieme a quelli della narrativa speculativa per esplorare lo spazio di possibilità in cui andranno in scena i nostri futuri conflitti politici”, scrive l’autore.

Attraverso l’uso magistrale dell’ipotesi fantascientifica, condita da una dose significativa di interrogazione genuinamente politica, Frase riesce nel difficile compito di delineare quattro ipotesi di futuro possibili alla luce dei conflitti che abitano il presente, tutti segnati dalla consapevolezza di un dato fondamentale: volenti o nolenti il capitalismo per come lo conosciamo sta per finire, quello che verrà dopo dipenderà in larga parte dalle decisioni che prenderemo a livello collettivo, e quindi politico.

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comedonchisciotte.org

Il Naufragio dei Gilets Jaunes

di Michel Onfray

comedonchisciotte controinformazIl vantaggio con BHL (Bernard Henry-Levy ) [1] è che si sbaglia continuamente e basta pensare il contrario di quello che lui scrive o dice, per essere sicuri e certi di stare nel vero. È una vera performance intellettuale, un destino unico nella stessa storia delle idee, il fatto di essere la bussola che indefettibilmente indica il Sud! Promuovendo se stesso e il suo One Man Show in tutte le capitali d’Europa dove le sale si riempiono di invitati mondani come ce ne sono in ogni grande città, spiega che non si esibirà sulla scena di Parigi con il suo gobbo, senza dire che lì dalle sue parti l’inganno sarebbe più facilmente smascherato perché basterebbe filmare l’uscita dalla sua rappresentazione per vedervi tutta la gente in capannelli e capire che nessuno di quelli aveva pagato l’ingresso…

In una benevola intervista di Le Figaro del 20 maggio 2018, il nostro Sud-magnetico proclama che il movimento dei Gilets-Jaunes si è auto divorato. Ah che bel modo di dire! Dei Gilets-Jaunes cannibali, autofagi, che mangiano se stessi, ed ecco una tesi che è bella e profonda e non ha che un inconveniente: quello di essere falsa…

Si capisce che questa storia di un movimento che sarebbe la causa della sua propria morte possa essere la sua teoria perché da una parte gli permette di affermare fino alla fine che i Gilets-Jaunes sono dei cretini incapaci e che dunque essi sono all’origine della loro sfortuna – e si sa che la sfortuna dei Gilets-Jaunes é la fortuna di BHL.; d’altra parte questa balla da snob di St.Germain des Près gli permette di nascondere sotto il tappeto le vere ragioni non già di un banchetto di cannibali, ma di un’orgia di Stato.

Perché i Gilets-Jaunes non si sono divorati da soli, sono stati smembrati, spellati, sminuzzati, tagliati, rullati, appiattiti, privati degli occhi, battuti, pestati, pugnalati, frantumati e poi mangiati dall’apparato dello Stato, in questo aiutato contro ogni buon senso dai sindacati e dai partiti politici che apparentemente sono all’opposizione, ma che alla fine, come utili idioti, lavorano con e per questo Stato. E a questo bisogna aggiungere i giornalisti.

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coniarerivolta

Disciplinare le periferie: i fascisti a guardia dell’austerità

di coniarerivolta

mario sironi 009 periferia 1922Nel corso dell’ultimo mese a Roma si sono avvicendati tre episodi raccapriccianti di tentativo di ‘caccia allo straniero’ nell’ambito dei procedimenti di assegnazione delle case popolari. L’ultimo, più mediaticamente esposto, è stato quello del quartiere della periferia est di Casal Bruciato dove l’assegnazione di una casa popolare ad una famiglia di etnia rom e nazionalità bosniaca ha scatenato un indegno assedio organizzato dai fascisti di CasaPound che hanno tentato, peraltro con scarso successo, di impedire l’accesso all’abitazione della suddetta famiglia, strumentalizzando il malcontento dei residenti che, in quella periferia come in molte altre marginalità romane, versano in condizioni di pressoché totale abbandono.

Questi orribili episodi, oltre a dover mantenere sempre altissima l’attenzione sociale sul rischio di rigurgiti reazionari da parte gruppi organizzati di stampo neofascista, pronti a cavalcare le condizioni di immiserimento delle masse e proletarizzazione dei ceti medi, devono far riflettere anche e soprattutto sulle condizioni sociali da cui questa spaventosa brodaglia reazionaria trae linfa: le condizioni di territori flagellati dalle politiche di austerità che da molti anni devastano il già fragilissimo tessuto sociale delle periferie. Emblematico il caso di Roma, città ricattata da anni di procedure di rientro dal debito accumulato ed afflitta, oltre che da propri problemi di gestione atavici, da un decennio di durissime politiche incentrate su tagli draconiani dei servizi e aumento delle imposte locali.

In questo contesto, le sceneggiate della melma fascista sono il contrappunto di una partita che si gioca su altri tavoli, non troppo lontani da Casal Bruciato: proprio nelle ultime settimane, a causa di scaramucce all’interno della maggioranza gialloverde, si è infatti tornato a parlare del debito di Roma. Il luogo del contendere è stato il ‘Decreto Crescita’ entro cui si situano anche le misure relative al taglio del debito di Roma Capitale.

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resistenzealnanomondo

L’ascesa dell’Intelligenza Artificiale

di Anonimo

81BEK9g5nOL. RI Il 15 e 16 maggio 2019 si terrà a Berlino la fiera annuale “RISE OF AI“ (L’ascesa dell’intelligenza artificiale). Si tratta della più grande fiera per l’intelligenza artificiale (AI) in Europa. Oltre alle aziende che operano per la ricerca e lo sviluppo di AI, ci saranno anche rappresentanti politici che vogliono fare della Germania il luogo di sviluppo leader per AI. I politici hanno dichiarato quest’anno come “l’Anno del l’AI“ e Berlino svolge un ruolo importante in questo campo a livello mondiale. Questa è un’altra ragione per affrontare questo attacco tecnologico contro l’autodeterminazione, in opposizione alle idee e alle strutture di aziende leader, istituzioni e le loro masse sacre. Un punto focale per tutti coloro che vogliono interrompere il dominio, il controllo e l’eteronomia. Verso “RISE DI AI“ e oltre.

 

Comunque, cos’è l’AI?

Al giorno d’oggi, intelligenza artificiale è una parola d’ordine che attira l’attenzione di aziende start-up tecnologiche, investitori e simili. Nel corso degli anni è diventato una sorta di credenza magica proiettando i sogni e gli incubi sulle macchine che diventano intelligenti e sostituiscono le persone… In realtà, il termine “AI“ descrive molti modi diversi in cui i computer sono programmati (algoritmi) per produrre modelli e informazioni, fare scelte e decisioni.

Un particolare tipo di algoritmo “AI“ è diventato una delle nuove ammiraglie del capitalismo: gli algoritmi “Machine Learning“ (apprendimento automatico). Gli algoritmi di apprendimento automatico sono formati sulla base dei set di dati iniziali per determinare i modelli che saranno utilizzati ulteriormente per identificare e classificare oggetti, immagini, parole, comportamenti, ecc. Tali insiemi di dati di formazione di solito non sono oggetto di indagine e sono formati da persone in base ai loro pregiudizi esistenti. Ad esempio, le donne e le persone colpite dal razzismo sono molto meno presenti nei dati di formazione, in quanto sono spesso invisibili e privi di potere nella società.

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micromega

Perché la regionalizzazione della scuola è costituzionalmente borderline

di Carlo Scognamiglio

regionalizzazione scuola 510 21. Genesi e sostanza dell’autonomia differenziata

L’accelerazione politica del processo di decentramento amministrativo sollecita un ritorno alla discussione sul tema del federalismo, e solleva l’allarme sulla sua compatibilità costituzionale, poiché tra le tante materie su cui si intendono distribuire le competenze, c’è anche l’organizzazione del sistema di istruzione, tradizionalmente legato alla questione unitaria. Questo è un tema difficile, che non può essere affrontato con facili proclami. A poco serve urlare all’incostituzionalità o alla rottura dell’identità nazionale. Occorre ragionare con calma. Altri Stati hanno sistemi di istruzione organizzati regionalmente, e l’Italia stessa ha già delegato agli enti regionali molte funzioni. Bisogna capire, in questo caso, cosa significa e come si sviluppa la questione politica dell’autonomia differenziata. Proviamo a fare un passo indietro, per inquadrare correttamente il tema.

L’Italia ha una tradizione comunale, non regionale. Il Risorgimento aveva condotto all’agognato e difficile obiettivo del superamento di una frammentazione territoriale tradizionalmente percepita come il principale fattore di debolezza dell’Italia. Lo Stato unitario aveva certamente aggregato all’antica istituzione comunale l’amministrazione periferica prefettizia, le Province, con funzioni prevalentemente tecniche. Nel 1865 Minghetti propose la costituzione di Regioni amministrative, ma la proposta venne bocciata. Si trattava di un progetto che – si diceva – metteva a rischio il senso di unità nazionale già fragile. Don Luigi Sturzo e il Partito Popolare, nel primo dopoguerra, ripresero la questione, in vista di un’auspicata autonomia regionale. Ma poi ebbe inizio il ventennio fascista, contrario alle autonomie locali, subordinando anche gli istituti comunali alla tutela dello Stato centrale. Per questa ragione, secondo lo storico Claudio Pavone, “la Resistenza è stata pressoché unanime, nelle sue prese di posizione esplicite, nel rivendicare decentramento e autonomie locali”.

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ilcomunista

Vittoria del capitalismo?

di Hyman Minsky

"Il 25 ottobre 1990 il Centro culturale Progetto di Bergamo ha organizzato il convegno Vittoria del capitalismo?, relatore Hyman Minsky. Pochi mesi dopo la caduta del muro di Berlino, quando c’era chi preconizzava la fine della storia con la vittoria finale del capitalismo, Minsky contrapponeva una lucida lettura, anticipando le caratteristiche del nuovo fragile sviluppo capitalistico..."[Paolo Crivelli]

22008368 10213978637569797 7212813192968310495 nIl collasso delle economie di tipo Sovietico è stato salutato come una vittoria del Capitalismo e il crollo simultaneo dei regimi politici comunisti è stato usato per convalidare l’identificazione del Capitalismo con la democrazia.

Da alcune parti si avanza l’idea che questa vittoria segni la fine della Storia così come noi l’abbiamo conosciuta. Ma le vicende del Golfo, la fragilità della prosperità capitalistica e le pressioni nazionaliste risvegliate dal collasso dell’egemonia Sovietica nell’Europa orientale indicano che la Storia non finisce, ma fluisce come il Mississippi che nella canzone “...continua a scorrere”.

Non c’è dubbio che il Socialismo centralistico autoritario di tipo Sovietico è crollato. Ma questa forma di Socialismo non è la sola possibile. Il modello Sovietico ha sempre avuto la caratteristica di non consentire che le preferenze e i desideri della gente influenzassero la produzione. Segnali effettivi (decisioni) nel Socialismo di tipo Sovietico andavano dall’alto verso il basso, mai dal basso, dalla popolazione verso coloro che avevano il potere di decidere che cosa e come produrre. Esistono modelli teorici alternativi di Socialismo nei quali regna una sovranità del consumatore più ampia rispetto a quella delle economie di tipo capitalistico.

Questo modello autoritario di economia centralizzata non è cattivo quando i compiti assegnati all’economia sono semplici: quando si deve produrre solo pane o carri armati. Un’economia centralistica ha funzionato bene nella trasformazione da una società di tipo contadino ad una economia di produzione di massa limitata nella varietà di beni – quando acciaio, cemento e macchinari sono tutto ciò che deve essere prodotto: questo tipo di economia funziona altrettanto bene per la produzione di materiale bellico. Gli approvvigionamenti militari negli Stati Uniti e nel Regno Unito durante la Seconda Guerra Mondiale seguivano un modello di economia centralistica.

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Luoghi comuni. Smart city a chi?

di Giovanna Sissa e Giulio De Petra

Articolo pubblicato (pp. 59 – 66) sul primo numero di “Luoghi Comuni” (Castelvecchi Editore). Qui disponibile l’intero numero

architecture 3667871 960 720Smart

L’aggettivo smart è stato associato a qualunque sostantivo, dal frigorifero alle reti elettriche, per indicare un miglioramento, un superamento di qualche limite. Ma se il sostantivo che diventa smart non è più un oggetto fisico, il significato ammiccante dell’aggettivo qualificativo – paradigmatico dell’innovazione digitale – diviene rarefatto. Un telefono smart si può supporre che abbia più funzioni di uno normale, così come un termometro o un palo della luce, ma che cosa è il lavoro smart, e soprattutto, che cosa è una città smart? Nessuno si permetterebbe di dire che la Roma antica, la Firenze rinascimentale o la Parigi della Belle Époque fossero città stupide, dunque erano città intelligenti: così una smart city dovrebbe per definizione essere qualcosa di più. Ma cosa?

Se cercate una definizione di smart city ne troverete moltissime, nessuna precisa e dunque troppe. Si parla di smart city da molto tempo. Possiamo datare l’introduzione del termine alla fine degli anni Novanta ed attribuirla a IBM. Nei primissimi anni 2000 il termine smart city si afferma a partire dagli USA e si diffonde sia nel nord che nel sud del mondo, dove lo sviluppo di mega metropoli, in Cina come India, dà un forte impulso alla creazione, talvolta ex novo – di nuove città smart. In Europa si impone a cavallo dei primi due decenni del nuovo millennio. Nel report Mapping smart cities in the EU (2014) la smart city è definita «una città che cerca di affrontare le sue emergenze più significative attraverso l’utilizzo intenso e innovativo delle tecnologie digitali». La città smart, a seconda dell’ambito di utilizzo che si intende promuovere, diventa Knowledge city, sustainable city, talented City, wired city, digital city, eco-city. Le smart cities europee sono inizialmente identificate come città con almeno una iniziativa rivolta a una fra le seguenti sei caratteristiche: smart governance, smart people, smart living, smart mobility, smart economy e smart environment.

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micromega

L’insegnamento non è una missione, ma un compito sociale

di Carlo Scognamiglio

professore 1838319Nutro il sospetto che siano molti, moltissimi, gli insegnanti disorientati dall’imprevedibile dinamica trasformativa delle linee guida ministeriali o delle raccomandazioni europee, in merito al significato pubblico dell’istruzione. Uno smarrimento comprensibile, perché a tratti la nostra scuola appare resistente a ogni cambiamento, mentre in altre fasi tutto sembra correre, sebbene in modo scomposto. Mi interessa solo in parte, adesso, l’individuazione delle ragioni di un simile disorientamento. È però vero che sempre più, nella società a frammentazione attentiva in cui siamo immersi, è necessario fermarsi a riflettere, analizzare documenti e normative in costante aggiornamento, formarsi e confrontarsi e – come raccomanda Werner Herzog – bisogna leggere, leggere, leggere.

Sono importanti le connessioni tra passato e presente, tra politica e pedagogia, tra ragione ed emozione. Il lavoro dell’intellettuale è proprio quello di annodare i fili isolati, di approfondire e poi recuperare una visione d’insieme. E l’insegnante, mi piace ricordarlo, è – e deve rimanere – un intellettuale.

Giuseppe Benedetti e Donatella Coccoli, un docente e una giornalista, hanno recentemente deciso di riaprire un discorso pubblico sulla pedagogia gramsciana, con un libro intenso, edito da “L’asino d’oro” (Gramsci per la scuola. Conoscere è vivere, 2018), impreziosito da una breve ma bella prefazione di Marco Revelli.

Lavorare sui testi di Gramsci non è facile, e non è sbagliata l’idea di liberarsi dallo smarrimento di cui scrivevo in apertura, attraverso l’ancoraggio a un solido pilastro della tradizione culturale italiana, che fu egli stesso maestro, e molta cura dedicò al tema dell’educazione. È del tutto evidente l’intenzione dei due autori di ridefinire un orizzonte categoriale e ideale noto (sebbene dimenticato) per fronteggiare alcune superficialità del dibattito pedagogico contemporaneo. L’operazione, in tal senso, riesce e non riesce, nonostante la bellezza del libro. Proverò a soffermarmi su tre passaggi-chiave del testo, per poi provare a raccogliere in sintesi l’effetto.

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blackblog

Capitale e Fascismo

di Thomas Meyer

Editoriale [*1] del n°16 della rivista Exit!, maggio 2019

uomo appeso«Se, come è purtroppo possibile, noi dobbiamo perire, facciamo almeno in modo di non scomparire senza essere prima esistiti. Le forze considerevoli che dobbiamo combattere si apprestano ad annientarci; e certo esse possono impedirci di esistere pienamente, cioè di imprimere al mondo il suggello della nostra volontà. Ma c'è un settore in cui esse sono senz'altro impotenti. Esse infatti non possono impedirci di sforzarci a comprendere con chiarezza l'oggetto dei nostri sforzi. Se non ci sarà dato di realizzare ciò che vogliamo, potremo almeno averlo voluto, e non solo desiderato alla cieca. D'altra parte, la nostra debolezza può certo impedirci di vincere, ma non di comprendere la forza che ci schiaccia.»

(Simone Weil, da "Oppressione e Libertà", 1934) [*2])

«Chi non vuole parlare del capitale dovrebbe tacere sul fascismo». Oggi, questa frase di Horkheimer è ancora valida, e dovrebbe essere ampliata dell'altro: chi non vuole parlare della costituzione feticista della società della dissociazione-valore, dovrebbe tacere anche a proposito delle lotte sociali. Non c'è dubbio che la «costituzione sociale» si trova sempre più al centro dell'attenzione, soprattutto vista nel contesto della vittoria elettorale di Donald Trump avvenuta due anni fa. Sono molti quelli che, in questo processo, hanno criticato il fatto che la «classe operaia» avesse smesso da tempo d'occupare un posto centrale, e che ora ci fosse una classe media di sinistra concentrata sulla «politica identitaria» e sulle «questioni LGBT», ragion per cui i lavoratori e le lavoratrici avrebbero optato per Trump. Queste critiche possono essere corrette nella misura in cui la borghesia di sinistra si è, di fatto, poco interessata alla «sotto-classe sociale», ai lavoratori poveri, la cui miseria è diventata ormai da tempo innegabile (i senzatetto, gli anziani che raccolgono bottiglie per convertirle in pochi euro fanno ormai parte del quotidiano) ed ha raggiunto anche la classe media. Tuttavia, sono fuori strada coloro che pretendono che il razzismo abbia la sua vera causa nell'impoverimento di questi ultimi anni, come a più riprese ha sottolineato la nazional-sociale Sarah Wagenknecht.

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sinistra

Sull'alternanza scuola-lavoro

di Salvatore Bravo

masnada italia vecchiaLa verità del capitalismo assoluto

Il valore di scambio è la sostanza storica del capitalismo, il capitalismo eguaglia in nome del valore di scambio, demofobico per necessità, addestra all’uguaglianza astratta mediante il valore di scambio. L’alternanza scuola lavoro (ASL) è una delle modalità con cui formare al valore di scambio, ovvero attraverso l’addestramento al lavoro nell’istituzione scolastica, si favorisce la cultura dell’astratto sottesa al valore di scambio. In tal modo si struttura la categoria della quantità: non è fondamentale la qualità del lavoro, ma il lavoro in sé, come modalità acquisitiva di un ruolo sociale e di una imprecisa quantità di denaro, obolo per il consumo. La categoria dell’inclusione-gabbia d’acciaio opera fin all’interno della quotidianità scolastica per inibirne l’esodo. In questo frangente storico Marx ci è di aiuto per porre uno sguardo cognitivo nella caverna, sempre più simile ad un fondo di magazzino1 :

”Quello che particolarmente distingue il possessore di merce dalla merce, è il fatto che ogni altro corpo di merce si presenta alla merce stessa solo come forma fenomenica del suo proprio valore. Quindi la merce, cinica ed uguagliatrice dalla nascita, è sempre pronta a fare lo scambio a fare scambio non soltanto dell’anima ma anche del corpo come qualsiasi altra merce, fosse pur questa piena di aspetti sgraditi ancor più di Maritorne. Il possessore di merci con i suoi cinque e più sensi completa questa insensibilità della merce per la concretezza del corpo delle merci”.

L’opera al nero non potrebbe essere più chiara. Il valore di scambio è il paradigma all’interno del quale, si devono leggere le riforme neoliberiste degli ultimi decenni. E’ necessario deviare lo sguardo cognitivo dalle parole della propaganda (buona scuola, via della seta, missione di pace, bombardamento umanitario, riqualificazione urbana) che occultano la verità, per trascendere la certezza sensibile e cogliere la verità del fenomeno storico.

 

Formare alla plebe

L’integralismo economicistico nella sua corsa all’atomizzazione ed al consumo rende i popoli consumatori, migranti, accelera le disuguaglianze e favorisce la conflittualità orizzontale. La plebe è consegnata alle variazioni del mercato, è così un pulviscolo incapace di comprendere i fenomeni in atto ed ipostatizza il presente.

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coniarerivolta

Istruzione e disoccupazione: chi non è causa del suo mal non pianga se stesso

di coniarerivolta

tinderNon si fa mai in tempo ad indicare la Luna, che qualche editorialista de Il Sole 24 Ore si precipita a guardare il dito. Qui però non si tratta di stolti, ma di ben educati alfieri del liberismo proni e pronti a procurar sciagure ai diseredati. Il tema, nostro malgrado, è ben noto: l’atavico problema della disoccupazione che attanaglia l’economia italiana. La risposta della stampa padronale, con minime variazioni sul tema, è sempre la stessa: quella sbagliata.

Di recente Il Sole 24 Ore ha pubblicato l’ennesimo articolo in cui la colpa della disoccupazione giovanile ricadrebbe ancora una volta sui giovani stessi. Quale sarebbe la loro colpa, nello specifico? Avere scelto un percorso di studi non congruo alle richieste del mondo del lavoro. Ad un buon osservatore, potrebbe far già ridere così. Ma proviamo ad andare con ordine.

Qual è il paradigma che ispira l’autore del pezzo lo si capisce dalle prime righe: la domanda aggregata non ha alcuna importanza, nel determinare il livello d’occupazione. Detto altrimenti, secondo l’autore per le imprese non è rilevante quanta domanda di beni (e servizi) si trovino a dover fronteggiare, nel decidere quante persone assumere. Il problema vero, apparentemente, risiederebbe negli sbagli fatti dai ‘giovani’ al momento di scegliere quale scuola superiore frequentare o a quale facoltà iscriversi: abbiamo pochi studenti che frequentano i corsi di avviamento professionale e troppi che invece si accaniscono nelle inutili lauree umanistiche.

“L’Italia ha anche la più bassa percentuale di laureati in Europa”, afferma anche l’autore, e aggiunge: “questa scarsità però non si traduce in un vantaggio”. Pare di capire, quindi, che il problema sia che in pochi si iscrivono all’università e buona parte di quelli che lo fanno si iscrive alla facoltà sbagliata. Ad aggiungere la beffa al danno, tra i molti che invece all’università non ci vanno solamente pochi scelgono scuole utili, cioè quelle che idealmente dovrebbero trasformare lo studente in un precoce e spersonalizzato ingranaggio della catena produttiva.

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linterferenza

Senza democrazia non può esserci libera informazione (e viceversa)

di Norberto Fragiacomo

Totalitarismo portada 620x310Ho udito, non molto tempo fa, un giornalista affermare alla radio che senza l’Unione Europea non avremmo in Italia democrazia e diritti – e che comunque nessuno può fornire prove dell’asserto contrario (“non esiste controprova”, mi pare abbia detto).

Più che di una spudorata menzogna potremmo parlare di una smaccata contraffazione della realtà, che assieme all’onere probatorio viene bellamente capovolta: siamo di fronte ad una μυθοποίησις, cioè alla cosciente creazione di un mito – termine che non a caso in greco antico significa “favola”. Giornalisti che anziché descrivere l’esistente ci raccontano favole: ecco il punto di partenza di una breve riflessione dedicata al tema, oggi attualissimo, dei rapporti fra democrazia e comunicazione.

Visto che le astrazioni ci interessano fino a un certo punto, cominceremo la nostra analisi dal dato testuale, partendo non da un’opera qualsiasi, bensì dalla Costituzione del ’48. L’articolo 1 proclama che l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro, e già dalla scelta del participio possiamo desumere utili informazioni sul significato che i costituenti vollero assegnare ad un sostantivo di per sé ambiguo – o, per meglio dire, non di rado ambiguamente adoperato.

Democrazia non è sinonimo di suffragio universale né di multipartitismo, perché gli articoli 2, 3 e 4 trattano di tutt’altro: di diritti fondamentali, doveri civici, uguaglianza effettiva e promozione della piena occupazione. Secondo chi redasse la Costituzione repubblicana non ci può essere democrazia autentica senza diritti civili, sociali ed economici garantiti alla generalità dei cittadini.

Fra i diritti e doveri in ambito civile figurano quelli ricompresi nei primi due commi dell’articolo 21: la libertà di espressione (e comunicazione: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”) e la libertà di informazione (“La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”).

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resistenzealnanomondo

Riflessioni sparse leggendo il libro “Smagliature digitali”

di Silvia Guerini

In occasione dell’iniziativa “Gorgoni – corpi imprevisti” del 5 maggio al FOA Boccaccio a Monza [1].

vol scinti oste nanotec del 27 2 15Il libro “Smagliature digitali” contiene vari saggi. Uno di questi è il manifesto Xenofemminista, recente è la pubblicazione di “Xenofemminismo” di Helen Hester. È più semplice criticare questo estremo hi-tech dove tutto è riprogettabile [2], più difficile scorgere e mettere in luce che siamo già arrivate a un punto in cui l’attivismo e le analisi trans-femminista e queer sono portatrici delle stesse logiche neoliberali di mercificazione, di ingegnerizzazione del vivente e di superamento dei limiti di questo sistema tecno-scientifico. Tendenze figlie di questi tempi che si presentano come radicali e sovversive, ma che andranno solo a rafforzare le fondamenta su cui si regge questa società.

Senza giri di parole, quello che noi vorremmo distruggere per un mondo altro, chi porta avanti queste analisi lo vorrebbe mantenere. Ci troviamo davanti a un adesione entusiasta al tecno-mondo e a un’ammirazione delle tecnologie.

Già da tempo il personale ha fagocitato il politico, perché è certamente più facile essere in un continuo processo di cambiamento individuale, considerandolo come la chiave per cambiare la società, invece che guardare fuori da sé intraprendendo un percorso di lotta. Ma bisogna intendersi anche su questo. Perchè è di moda pensare che autoprodursi sex-toys sia una pratica sovversiva. Così nascono come funghi laboratori ludici di giocattoli sessuali e di mutande masturbatorie, come se davvero questo possa intaccare in qualche modo questo sistema.

Un saggio di “Smagliature digitali” ci illustra il “pornoattivismo accademico”, un’altro gioco, da chi può permettersi il lusso di giocare mentre tutto attorno precipita sempre di più. Così in questo teatro dell’assurdo basta calarsi le mutande in qualche performans trans-queer per destabilizzare e sovvertire… quanto è lontana e quando è profondamente altra cosa, la tensione che contraddistingue un lottare fino in fondo, fuori dalle stanze accademiche e fuori dai social network, correndo sotto le stelle fino all’ultimo respiro…