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sinistra

Sull'alternanza scuola-lavoro

di Salvatore Bravo

masnada italia vecchiaLa verità del capitalismo assoluto

Il valore di scambio è la sostanza storica del capitalismo, il capitalismo eguaglia in nome del valore di scambio, demofobico per necessità, addestra all’uguaglianza astratta mediante il valore di scambio. L’alternanza scuola lavoro (ASL) è una delle modalità con cui formare al valore di scambio, ovvero attraverso l’addestramento al lavoro nell’istituzione scolastica, si favorisce la cultura dell’astratto sottesa al valore di scambio. In tal modo si struttura la categoria della quantità: non è fondamentale la qualità del lavoro, ma il lavoro in sé, come modalità acquisitiva di un ruolo sociale e di una imprecisa quantità di denaro, obolo per il consumo. La categoria dell’inclusione-gabbia d’acciaio opera fin all’interno della quotidianità scolastica per inibirne l’esodo. In questo frangente storico Marx ci è di aiuto per porre uno sguardo cognitivo nella caverna, sempre più simile ad un fondo di magazzino1 :

”Quello che particolarmente distingue il possessore di merce dalla merce, è il fatto che ogni altro corpo di merce si presenta alla merce stessa solo come forma fenomenica del suo proprio valore. Quindi la merce, cinica ed uguagliatrice dalla nascita, è sempre pronta a fare lo scambio a fare scambio non soltanto dell’anima ma anche del corpo come qualsiasi altra merce, fosse pur questa piena di aspetti sgraditi ancor più di Maritorne. Il possessore di merci con i suoi cinque e più sensi completa questa insensibilità della merce per la concretezza del corpo delle merci”.

L’opera al nero non potrebbe essere più chiara. Il valore di scambio è il paradigma all’interno del quale, si devono leggere le riforme neoliberiste degli ultimi decenni. E’ necessario deviare lo sguardo cognitivo dalle parole della propaganda (buona scuola, via della seta, missione di pace, bombardamento umanitario, riqualificazione urbana) che occultano la verità, per trascendere la certezza sensibile e cogliere la verità del fenomeno storico.

 

Formare alla plebe

L’integralismo economicistico nella sua corsa all’atomizzazione ed al consumo rende i popoli consumatori, migranti, accelera le disuguaglianze e favorisce la conflittualità orizzontale. La plebe è consegnata alle variazioni del mercato, è così un pulviscolo incapace di comprendere i fenomeni in atto ed ipostatizza il presente.

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coniarerivolta

Istruzione e disoccupazione: chi non è causa del suo mal non pianga se stesso

di coniarerivolta

tinderNon si fa mai in tempo ad indicare la Luna, che qualche editorialista de Il Sole 24 Ore si precipita a guardare il dito. Qui però non si tratta di stolti, ma di ben educati alfieri del liberismo proni e pronti a procurar sciagure ai diseredati. Il tema, nostro malgrado, è ben noto: l’atavico problema della disoccupazione che attanaglia l’economia italiana. La risposta della stampa padronale, con minime variazioni sul tema, è sempre la stessa: quella sbagliata.

Di recente Il Sole 24 Ore ha pubblicato l’ennesimo articolo in cui la colpa della disoccupazione giovanile ricadrebbe ancora una volta sui giovani stessi. Quale sarebbe la loro colpa, nello specifico? Avere scelto un percorso di studi non congruo alle richieste del mondo del lavoro. Ad un buon osservatore, potrebbe far già ridere così. Ma proviamo ad andare con ordine.

Qual è il paradigma che ispira l’autore del pezzo lo si capisce dalle prime righe: la domanda aggregata non ha alcuna importanza, nel determinare il livello d’occupazione. Detto altrimenti, secondo l’autore per le imprese non è rilevante quanta domanda di beni (e servizi) si trovino a dover fronteggiare, nel decidere quante persone assumere. Il problema vero, apparentemente, risiederebbe negli sbagli fatti dai ‘giovani’ al momento di scegliere quale scuola superiore frequentare o a quale facoltà iscriversi: abbiamo pochi studenti che frequentano i corsi di avviamento professionale e troppi che invece si accaniscono nelle inutili lauree umanistiche.

“L’Italia ha anche la più bassa percentuale di laureati in Europa”, afferma anche l’autore, e aggiunge: “questa scarsità però non si traduce in un vantaggio”. Pare di capire, quindi, che il problema sia che in pochi si iscrivono all’università e buona parte di quelli che lo fanno si iscrive alla facoltà sbagliata. Ad aggiungere la beffa al danno, tra i molti che invece all’università non ci vanno solamente pochi scelgono scuole utili, cioè quelle che idealmente dovrebbero trasformare lo studente in un precoce e spersonalizzato ingranaggio della catena produttiva.

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linterferenza

Senza democrazia non può esserci libera informazione (e viceversa)

di Norberto Fragiacomo

Totalitarismo portada 620x310Ho udito, non molto tempo fa, un giornalista affermare alla radio che senza l’Unione Europea non avremmo in Italia democrazia e diritti – e che comunque nessuno può fornire prove dell’asserto contrario (“non esiste controprova”, mi pare abbia detto).

Più che di una spudorata menzogna potremmo parlare di una smaccata contraffazione della realtà, che assieme all’onere probatorio viene bellamente capovolta: siamo di fronte ad una μυθοποίησις, cioè alla cosciente creazione di un mito – termine che non a caso in greco antico significa “favola”. Giornalisti che anziché descrivere l’esistente ci raccontano favole: ecco il punto di partenza di una breve riflessione dedicata al tema, oggi attualissimo, dei rapporti fra democrazia e comunicazione.

Visto che le astrazioni ci interessano fino a un certo punto, cominceremo la nostra analisi dal dato testuale, partendo non da un’opera qualsiasi, bensì dalla Costituzione del ’48. L’articolo 1 proclama che l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro, e già dalla scelta del participio possiamo desumere utili informazioni sul significato che i costituenti vollero assegnare ad un sostantivo di per sé ambiguo – o, per meglio dire, non di rado ambiguamente adoperato.

Democrazia non è sinonimo di suffragio universale né di multipartitismo, perché gli articoli 2, 3 e 4 trattano di tutt’altro: di diritti fondamentali, doveri civici, uguaglianza effettiva e promozione della piena occupazione. Secondo chi redasse la Costituzione repubblicana non ci può essere democrazia autentica senza diritti civili, sociali ed economici garantiti alla generalità dei cittadini.

Fra i diritti e doveri in ambito civile figurano quelli ricompresi nei primi due commi dell’articolo 21: la libertà di espressione (e comunicazione: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”) e la libertà di informazione (“La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”).

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resistenzealnanomondo

Riflessioni sparse leggendo il libro “Smagliature digitali”

di Silvia Guerini

In occasione dell’iniziativa “Gorgoni – corpi imprevisti” del 5 maggio al FOA Boccaccio a Monza [1].

vol scinti oste nanotec del 27 2 15Il libro “Smagliature digitali” contiene vari saggi. Uno di questi è il manifesto Xenofemminista, recente è la pubblicazione di “Xenofemminismo” di Helen Hester. È più semplice criticare questo estremo hi-tech dove tutto è riprogettabile [2], più difficile scorgere e mettere in luce che siamo già arrivate a un punto in cui l’attivismo e le analisi trans-femminista e queer sono portatrici delle stesse logiche neoliberali di mercificazione, di ingegnerizzazione del vivente e di superamento dei limiti di questo sistema tecno-scientifico. Tendenze figlie di questi tempi che si presentano come radicali e sovversive, ma che andranno solo a rafforzare le fondamenta su cui si regge questa società.

Senza giri di parole, quello che noi vorremmo distruggere per un mondo altro, chi porta avanti queste analisi lo vorrebbe mantenere. Ci troviamo davanti a un adesione entusiasta al tecno-mondo e a un’ammirazione delle tecnologie.

Già da tempo il personale ha fagocitato il politico, perché è certamente più facile essere in un continuo processo di cambiamento individuale, considerandolo come la chiave per cambiare la società, invece che guardare fuori da sé intraprendendo un percorso di lotta. Ma bisogna intendersi anche su questo. Perchè è di moda pensare che autoprodursi sex-toys sia una pratica sovversiva. Così nascono come funghi laboratori ludici di giocattoli sessuali e di mutande masturbatorie, come se davvero questo possa intaccare in qualche modo questo sistema.

Un saggio di “Smagliature digitali” ci illustra il “pornoattivismo accademico”, un’altro gioco, da chi può permettersi il lusso di giocare mentre tutto attorno precipita sempre di più. Così in questo teatro dell’assurdo basta calarsi le mutande in qualche performans trans-queer per destabilizzare e sovvertire… quanto è lontana e quando è profondamente altra cosa, la tensione che contraddistingue un lottare fino in fondo, fuori dalle stanze accademiche e fuori dai social network, correndo sotto le stelle fino all’ultimo respiro…

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comidad

Che guerra sia!

Recensione di Gianfranco Marelli

Sandro Moiso, “La guerra che viene”, Mimesis, Milano-Udine 2019

manif usa laborridAvete presente lo sketch di Totò preso ripetutamente a schiaffi da una persona chiamandolo «Antonio sei un farabutto»,«Antonio sei un delinquente», «Antonio io t’ammazzo di sberle …» e Totò, nonostante i ripetuti improperi e strattoni, continua a ridere a crepapelle fino a che l’altro non gli chiede irritato il perché del suo atteggiamento: «Perché? Io non sono mica Antonio!»

Ecco, il libro di Sandro Moiso, “La guerra che viene”, che racchiude i trentacinque interventi (ventitre articoli di analisi e dodici recensioni) pubblicati dall’autore su “Carmillaonline” tra l’autunno del 2011 e l’autunno del 2018, sono i 35 schiaffi ripetutamente dati al lettore che come Totò crede di non chiamarsi Antonio, finché non gli viene il sospetto che lui si chiami proprio Antonio. Ma chi è Antonio?

È un nome comune, così tanto comune da rappresentare l’indifferenza, la superficialità, l’incredulità di chi sebbene ripetutamente chiamato in causa, stenta a credere che sia proprio lui, il soggetto-oggetto ad essere il bersaglio della “guerra che viene”; guerra che per la sua vastità e per la sua diramazione in ogni angolo del pianeta non può che essere definita Mondiale, al punto che succedendo alla 2ª guerra mondiale potrebbe chiamarsi 3ª guerra mondiale o addirittura 4ª guerra mondiale.

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militant

Storia dell’immigrazione straniera in Italia

Consigli (o sconsigli) per gli acquisti

di Militant

storia dellimmigrazioneUn libro da masticare con attenzione, rispettandone la complessità e l’articolazione. Riassunto in poche suggestioni, che non ne rendono merito del carattere esaustivo che offre e forse neanche della sua angolazione originale (rispetto all’approccio umanitario che solitamente ammanta la letteratura progressista sul tema), ci limitiamo a ricordare, come premessa logica, che le migrazioni siano state una costante, nel percorso dell’umanità, e che – dall’inizio dello sviluppo del capitalismo – non abbiano sempre conosciuto l’ostilità della classe politica, ma siano state addirittura incentivate nelle fasi economiche in cui era necessario disporre di manodopera a basso prezzo. In questi casi, addirittura, i flussi migratori “disinnescavano” delocalizzazione delle aziende e decentramento produttivo, quando questi risultavano meno profittevoli (come sta accadendo ai giorni nostri, per dire).

Nello specifico del nostro Paese, le migrazioni hanno sempre accompagnato la storia italiana, soprattutto se considerate nella loro complessità e non solo secondo la direttrice Maghreb-Italia, con le modalità inevitabilmente disperanti e disperate dei barconi. Le migrazioni interne dell’Italia del secondo dopoguerra, alla ricerca di opportunità di vita dopo le distruzioni del conflitto, gli ex soldati, i prigionieri di guerra, gli ebrei di passaggio verso la Palestina, gli “esuli” provenienti dalle aree restituite alla Jugoslavia dopo l’italianizzazione forzata del fascismo, i primi spostamenti all’estero per motivi di lavoro… delineano un quadro assai ricco e una estrema vivacità del contesto sociale, più secondo linee di qualità che non di quantità, comunque, dato che le statistiche ufficiali parlano solo dello 0,10% di stranieri sull’intera popolazione italiana ancora nel 1951, in una quota inferiore persino alla percentuale registrata durante l’autarchico fascismo (erano lo 0,20% nel 1930). Già alla metà del XX secolo, quindi, la questione immigrazione in Italia si poneva con una centralità non giustificata dai numeri, quanto da aspetti extra-statistici: la tipologia di chi giungeva nel Paese (con storie politiche spesso assai delicate, come nel caso del grumo di potere reazionario rappresentato dagli esuli giuliano-dalmati), la loro distribuzione sul territorio nazionale, l’incapacità italiana di predisporre un’accoglienza decente anche per gruppi di immigrati tutto sommati numericamente limitati.

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sinistra

Prefazione a "Il discorso del potere"

di Ernesto Screpanti

Giacomo Bracci - Emiliano Brancaccio: Il discorso del potere. Il premio Nobel per l’Economia tra scienza, ideologia e politica, Il Saggiatore, Milano 2019

uuu1 1Nel 1974 l’Accademia delle scienze di Svezia assegnò il premio Nobel per l’Economia a Friedrich von Hayek, per aver scoperto che i fenomeni economici, sociali e istituzionali sono interdipendenti. Nel 1976 il premio fu assegnato a Milton Friedman, il cui principale merito scientifico starebbe nell’aver compreso che, se si fa l’ipotesi eroica che un’economia di mercato si trovi in uno stato di piena occupazione permanente, si può dimostrare che una politica di espansione monetaria non può fare aumentare l’occupazione in modo permanente. Da Lucas a Sargent, passando per Prescott, negli anni successivi altri padri di analoghe scoperte hanno raggiunto la vetta del Nobel.

«Viene da chiedersi se la strada seguita dai più recenti sviluppi degli studi sociali, e avvalorata dall’orientamento dell’Accademia delle scienze, sia quella più adeguata alla comprensione del mondo in cui viviamo» scrivono Emiliano Brancaccio e Giacomo Bracci. Da qui la loro domanda: bisognerebbe abolire il premio Nobel per l’Economia? La risposta contenuta in questo libro è motivata, rigorosa, e niente affatto scontata.

Nonostante tutto, il più prestigioso premio per l’Economia non andrebbe abolito semplicemente perché è stato spesso attribuito a influenti consiglieri del principe che hanno prodotto fake science, cioè teoremi smentiti dalla ricerca empirica. Questo libro ne smaschera diversi: Friedman, Lucas, Sargent, Kydland, Prescott e altri. Ma al tempo stesso ci ricorda che il premio l’hanno ricevuto anche scienziati come Arrow, Samuelson, Sen, Stiglitz, Krugman, Romer, Ostrom, che hanno indubbiamente fatto avanzare la conoscenza in campo economico.

Neanche lo si dovrebbe abolire perché l’economia è una scienza «molle», cioè impregnata di valori e preferenze politiche. Brancaccio e Bracci argomentano che queste caratteristiche sono condivise in maggiore o minore misura anche dalle scienze relativamente «dure»: la fisica, la chimica, la medicina. Basti notare che ci sono fisici che interpretano il big bang come una prova dell’esistenza di Dio. Dunque, se fosse questo il criterio, si finirebbe per abolire tutti i premi Nobel.

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sinistra

La pedagogia del coding

di Salvatore Bravo

Coding 860x280Gli oratores sono al capezzale del capitalismo assoluto: la pedagogia ed i pedagogisti sono parte essenziale della sovrastruttura che contribuisce ad eternizzare il capitale. Il pensiero computazionale è l’ultima strategia per introdurre l’intelligenza di Stato attraverso una serie di pratiche metodologiche. Si vuole orientare l’intelligenza, che notoriamente è al plurale nelle sue forme, verso un modello organico al capitalismo. Il pensiero computazionale è molto più che una procedura di analisi, esso struttura, standardizza la personalità, la quale deve procedere e muoversi nel quotidiano secondo le procedure algoritmiche. L’introduzione-imposizione è organizzata con un artificio ideologico, ovvero si afferma di voler affinare la creatività, che il pensiero computazionale è imprescindibile per rivoluzionare in senso creativo la didattica e le personalità. Naturalmente è il cavallo di Troia, con cui riaffermare le pratiche del mercato all’interno della scuola e ridimensionare, fino a rendere complementare la formazione dell’essere umano, in sua vece vi è l’addestramento al mercato. Se fosse stato autentico l’intento di sollecitare la creatività, la scuola per tradizione ha innumerevoli potenzialità già in atto in tal senso: la lettura del classici, la traduzione, il dialogo quale buona pratica, le discipline artistiche.

 

Pensare come una macchina

Le macchine informatiche per risolvere problemi scompongono, analizzano le varie fasi, per individuare la soluzione finale. Si tratta di problemi empirici che presuppongono un orientamento lineare. L’azione della scomposizione, astrazione, generalizzazione sostanzializzano la logica del problem solving, per cui il soggetto macchina è interno alla realtà empirica, il suo l’orizzonte deve limitarsi ad una gittata limitata, deve agire all’interno di un cono poietico. L’essere e la macchina si avvicinano, la differenza qualitativa si assottiglia in favore della differenza quantitativa sempre più limitata.

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roars

INVALSI: adesso è il computer a giudicare gli studenti

Anche per i quesiti aperti!

di Anna Angelucci

YOU are a robotDal 2018, per effetto di un decreto delegato della Buona Scuola (62/2017), le prove, svolte dagli alunni di terza media al computer nelle scuole, sono corrette automaticamente, a livello centrale. Il computer dell’Invalsi riceve le prove appena svolte, poi corregge, misura e valuta, esprimendo un giudizio di merito in livelli che descrivono le prestazioni cognitive del singolo alunno, giudizio che viene restituito individualmente attraverso la Certificazione delle competenze di fine primo ciclo. Cosa significa in pratica? Per allontanare lo spettro della “copiatura” (cheating) gli alunni non rispondono alle stesse domande e l’equità del punteggio finale è affidata a un complesso modello statistico (i cui limiti e le cui falle sono note). Non solo, ma sulla base di questi punteggi il computer redige un esteso giudizio qualitativo sull’allievo che tocca valutazioni sulla sua capacità di comprendere il testo, cogliendone anche il tono, per esempio ironico o polemico. Che la correzione automatica sia estesa ai “Quesiti aperti a risposta articolata” non può che aumentare le perplessità. Ricordiampo che una analoga certificazione delle competenze è prevista pure per il secondo ciclo, come avevamo segnalato qui. Nel frattempo, Invalsi procede con la sperimentazione della misurazione delle soft skills delle creature piccole. Alla standardizzazione si stanno dunque accompagnando l’automazione e la profilazione. A quali principi educativi, a quale didattica, a quale pedagogia rispondono queste nuove, inaccettabili, misure?

Nelle pagine seguenti sono presentati i risultati campionari delle prove INVALSI condotte nella primavera di quest’anno. Mentre è consueta la modalità di presentazione e il periodo in cui questo avviene – il primo giovedì di luglio – quest’anno sono state introdotte e realizzate importanti novità così come previsto dal Decreto Legislativo 62/2017. Si tratta di innovazioni che hanno cambiato notevolmente la prassi delle prove e riguardano 4 aspetti:

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quotidianosanita

La sanità, il Movimento 5 Stelle e il rischio privatizzazione

di Ivan Cavicchi

02ee7ec60d0fb13de9d5619404f0c0f3 XLChi ha votato per questo movimento di certo non l’ha fatto per fare il gioco delle assicurazioni e degli speculatori e meno che mai per farsi rubare da costoro i propri diritti. Da nessuna parte del programma di governo sta scritto che bisogna far fuori il Ssn e sostituirlo con il sistema multi-pilastro di berlusconiana memoria. Eppure…

Non so se ricordate l’ultimo mio articolo, quello che, per rispondere al prof. Spandonaro, ho scritto la settimana scorsa, sulle mutue (QS 25 marzo 2019).

Sostenevo che sino ad ora la sinistra di governo (Letta, Renzi, Gentiloni) ha esitato a istituire la “seconda gamba” perché tra le varie cose che impedivano tale eventualità, c’era anche un “dilemma morale”, legato al fatto che fare un cambio di sistema avrebbe avuto pesanti conseguenze negative sulle persone più deboli, sull’acceso ai diritti, sulle diseguaglianze.

 

Una ingenua speranza

In cuor mio speravo, confesso la mia ingenuità, che con un ministro 5 stelle, la possibilità di un ribaltone del genere, fosse improbabile anche se, con un inciso nel mio articolo non escludevo la possibilità, proprio con questo governo, che ciò potesse avvenire:

“Non escludo tuttavia che a un certo punto il “dilemma morale” possa essere superato proprio per disperazione finanziaria. Il rischio a cui andiamo incontro, a causa delle politiche ordinarie di questo anodino ministero della salute, è quello di acuire i problemi di sostenibilità del sistema esponendolo a crescenti gradi di privatizzazione”.

Ebbene questa possibilità, di superare il “dilemma morale”, esattamente per “disperazione finanziaria” in questi giorni è stata messa nero su bianco, da un ministro 5 stelle, nella bozza di Patto per la salute (d’ora in avanti “patto”).

Egli ha di fatto proposto alle regioni una intesa per ridiscutere il sistema universale e istituire la “seconda gamba”.

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roars

A proposito di scuola e pedagogia

Risposta a un documento dell’UdS

Marino Badiale, Università di Torino
Fausto Di Biase, Università di Chieti-Pescara
Paolo Di Remigio, Liceo Classico di Teramo
Lorella Pistocchi, Scuola Media di Villa Vomano

Riceviamo e volentieri pubblichiamo la seguente lettera firmata dai professori Di Biase, Badiale, Di Remigio, Pistocchi. Si tratta di una replica a questo documento UdS.

Nota bene: la Redazione è ben lieta di ospitare il dibattito, e desidera precisare che in generale le lettere e i documenti pubblicati su Roars sono espressione del pensiero dei loro autori e non necessariamente degli orientamenti della redazione.

Schermata 2019 04 05 alle 10.28.49Un paio di anni fa l’Unione degli Studenti ha pubblicato un documento[1] dallo stile rudimentale e contraddittorio nei contenuti, che prima rifiuta la valutazione nella scuola, poi attenua il rifiuto e ne chiede soltanto forme diverse; prima considera la bocciatura crimen exceptum, poi boccia senza istruttoria e senza processo questa società – “Di questa società, noi, (sic) possiamo farne (sic) a meno in quanto (sic) essa serve solo a mantenere lo stato di cose presenti” -; prima esige esattamente il modello di scuola che le riforme dell’ultimo ventennio hanno già attuato, poi lancia contro la scuola attuale, benché esaudisca già ogni sua richiesta, addirittura l’appello alla rivoluzione socialista. A differenza dei rivoluzionari di un tempo che, avendo frequentato la scuola gentiliana, sapevano “esprimersi molto bene oralmente e per iscritto”[2], i loro attuali epigoni, educati da una scuola perfettamente armonizzata con le esigenze sessantottine, si esprimono con difficoltà; in compenso, proprio come è accaduto ai loro precursori, resta loro celato che proprio là dove si credono più rivoluzionari non fanno che obbedire ai più profondi imperativi dell’ideologia neoliberale.

Veniamo innanzitutto al tema della bocciatura, che tanto indigna gli studenti estensori del documento. Se se ne continua a parlare dopo che è stata praticamente abolita in gran parte delle scuole, ciò accade perché in questo tema l’antipedagogia neoliberale ha trovato, più che un suo punto di forza, un punto debole della vecchia pedagogia. La bocciatura come problema perturbante è un’eredità della scuola gentiliana.

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pandora

“Potere digitale” di Gabriele Giacomini

di Diego Ceccobelli

Recensione a: Gabriele Giacomini, Potere Digitale. Come internet sta cambiando la sfera pubblica e la democrazia, Meltemi Editore, Milano 2018, pp. 353, 24 euro (scheda libro)

Giacomini 1L’incontro tra internet e democrazia ha immediatamente stimolato una corposa produzione scientifica volta a carpirne i principali tratti, processi ed effetti concreti, così come le principali tensioni e conflitti. Sono moltissimi gli approcci scientifici, gli ambiti di applicazione e i disegni di ricerca che hanno e stanno tuttora investigando gli esiti di questo incontro. Tra i più recenti, l’ultimo libro di Gabriele Giacomini – Potere Digitale. Come internet sta cambiando la sfera pubblica e la democrazia – merita sicuramente una menzione. 

In questo volume, Giacomini si concentra sul rapporto tra democrazia e tecnologie digitali della comunicazione e lo fa in maniera molto innovativa, scientificamente accurata e compiuta. Il suo non è un libro per nulla banale, né una copia o un semplice riassunto di quanto già presente nella letteratura. Piuttosto, questo suo ultimo sforzo scientifico apporta un importante contributo alla nostra conoscenza del modo in cui internet sta co-rimodellando alle fondamenta i processi democratici, la formazione e costruzione dell’opinione pubblica, passando infine per le potenziali soluzioni proposte dagli studiosi e dagli attori politici per ovviare alle potenziali storture indotte dal rapporto tra tecnologie digitali e configurazioni profonde del potere.

Il principale punto di forza di questo volume è forse nella sua metodologia di ricerca. Il contributo di Giacomini prende infatti le mosse dalla realizzazione e analisi di 11 interviste ad esperti di 3 paesi differenti, i quali si occupano del rapporto tra internet e democrazia all’interno di differenti settori scientifico-disciplinari, come la scienza politica, la filosofia politica e la sociologia dei media. A partire da queste interviste, Giacomini struttura il suo ragionamento seguendo varie direttrici tematiche, spaziando da concetti quali neointermediazione, paradosso del pluralismo, “incastellamento” della sfera pubblica e democrazia dialogica imperfetta (Giacomini 2016).

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quadernidaltritempi

Disoccupazione e altri spettri tecnologici

di Valerio Pellegrini

Intelligenza artificiale: La forza-lavoro androide è la protagonista della serie televisiva britannica Humans

m67 bussole humans 01L’umanità è sotto attacco. Nella serie britannica Humans (due stagioni e una terza all’orizzonte), ideata da Sam Vincent e Jonathan Brackley, c’è un gruppo di robot atipici che cerca un’esistenza piena al di fuori degli schemi imposti dai creatori; Humans è stata tratta una precedente serie tv svedese, Real Humans (2012-2014), ideata da Lars Lundström. Il contesto è una società in cui la disponibilità di forza-lavoro androide (i synth) diventa un dato di fatto con notevoli conseguenze. L’attualità della serie deriva dalla vicinanza al mondo dei consumi reali, ai settori trainanti del mercato tecnologico odierno: domotica, assistenti a interfacce vocali, software e servizi basati su algoritmi predittivi, smartphone sempre più smart, sensori ovunque e l’internet delle cose che parlano tra loro senza disturbare gli umani. Ma l’incontro tra robot e umani oggi sembra davvero dietro l’angolo e non è più solo uno scenario narrativo. L’immaginario collettivo influenza il marketing così come il marketing influenza il design degli artefatti industriali. Tecnica e narrazione finiscono con l’associarsi non solo per rappresentare ma anche per creare. Si prenda ad esempio quella clamorosa convergenza tra fantascienza ed elettronica di consumo che è l’automobile a guida autonoma (cfr. Wikipedia): di “automobili fantasma” (cfr. Lafrance, 2016) si comincia a parlare negli anni Venti del secolo scorso; oggi appare evidente come la nostra percezione in materia si stia spostando lentamente ma inesorabilmente dalla finzione alla realtà. Categorie tecnico-economiche che diventano forme dell’immaginario. E viceversa. Allora se, con Erik Davis, possiamo dire che tecnologia e immaginario si riflettono e alimentano reciprocamente (cfr. Davis, 2001) la convivenza conflittuale tra synthe umani è l’ennesima mappa fantascientifica utile a mostrarci i punti in cui il mostro di Frankenstein potrebbe liberarsi generando una nuova umanità con nuovi patti sociali e nuove forme di convivenza civile. Bene patrimoniale da preservare o minaccia per la forza lavoro umana? E, ancora più in profondità sul versante antropologico, cosa implica il fatto di affidare mansioni sempre più importanti alle intelligenze artificiali?

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blackblog

Internet: una storia di evocazione, di bolle e di sussunzione del capitale

di humanaesfera

Internet: una forma che inizialmente ha impedito la proliferazione della materia bruta, selvaggia, e che ha richiesto decine di anni per poter essere domata, ed essere sussunta realmente al capitale

www1. Una forma che non era in grado di opporsi all'irruzione di un contenuto sociale indomabile (ma che si trovava ad essere contenuto all'interno dei suoi limiti)

L'iniziale apparizione pubblica di Internet (negli anni '90, con il World Wide Web [*1]) ha generato delle circostanze sociali inedite che il capitale, per decine d'anni, non è stato in grado di sussumere realmente all'interno della forma merce e della forma capitale. Per circa 20 anni, la pirateria (relativa al software, alla conoscenza e all'arte) è stata irreprimibile e generalizzata, e c'erano migliaia di ambiti (forum di discussioni, siti a tema ...) dove era possibile a chiunque - di solito, facendo uso di pseudonimi - appropriarsi, sviluppare, creare e condividere gratis ogni tipo di conoscenza e arte direttamente con qualsiasi altro essere umano sulla faccia della terra che frugasse su Internet. Uno degli aspetti era la potente comunità di software libero che spesso dettava quelli che erano i progressi di Internet e del software in opposizione alle imprese, contro la mercificazione e contro lo Stato.

L'iniziale struttura fisica di Internet era una forma materiale creata e foraggiata attraverso un afflusso di capitali provenienti da tutto il mondo, alla folle ricerca di opportunità che promettevano accumulazione. L'effetto collaterale è stato quello di creare condizioni tecniche selvagge, che a partire da una tale base, almeno sul piano intellettuale ed artistico, hanno portato ad una proliferazione di contenuto sociale libero, che nella pratica affermava senza troppe chiacchiere il principio: «da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni».

Di fronte ad un simile contenuto sociale, la proprietà privata ( e pertanto l'estrazione di plusvalore) era non solo inadeguata, ma impraticabile.

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tempofertile

Greta Thunberg: la posta egemonica e lo scontro per il mondo

di Alessandro Visalli

ragazzinioIn fondo è una storia come tante altre, banale. Una ragazzina di quindici anni che prende una idea semplice, in bianco e nero, e la sposa con l’entusiasmo dei suoi anni. Nasce in una famiglia di professionisti dello spettacolo (una cantante ed un attore) e traduce questa idea in performance. Queste performance, nativamente preordinate nel codice della società dello spettacolo, sono utilizzate da un sistema dei media sempre alla ricerca di eventi-mondo per costruire un prodotto efficace. Questo efficace prodotto viene ripreso e rilanciato, per i più diversi scopi, dalle più diverse forze ed organizzazioni.

Stiamo facendo un esercizio di complottismo? Un’aggressione alla simpatica ragazzina?

No. Tutt’altro, Greta Thunberg ha tutta la mia simpatia, è una ragazzina sveglia ed intelligente, piena di ottimi sentimenti e impegnata per una battaglia degna.

Semplicemente il mondo ha il suo modo di funzionare, ed usa tutto.

Ma il fatto che qualcosa sia usato significa che non sia fondato? No. Io credo fermamente che il sistema ambientale sia alterato dall’uomo, ad una profondità che è difficile da definire con precisione, e che il clima venga modificato anche da questi fattori di pressione antropogenetici.

Il fatto che qualcosa sia fondato significa che altro non lo sia? No. Io credo fermamente che la questione in campo sia il potere.

Il fatto che una cosa sia usata e fondata significa che non ci sia altro da dire? No. Io credo fermamente che buona parte del degrado dell’ambiente sia determinato dalla logica dello sfruttamento della natura per il profitto e dalla sua appropriazione da parte di pochi.

Il fatto è che, anche se Greta Thunberg può pensarlo[1], il mondo non è affatto “bianco o nero”.

Quando ad agosto 2018 il curioso “sciopero”[2] (dalla scuola) della ragazzina di Stoccolma, opportunamente spettacolarizzato, in vista delle elezioni generali di settembre, e subito rilanciato da qualche interessato sito come parte di una strategia di autopromozione commerciale/ambientale[3], sfonda il muro della irrilevanza prende avvio un processo autorafforzante imponente.

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filosofiainmov

Potere digitale. Come Internet sta cambiando la sfera pubblica e la democrazia?

Luigi Somma intervista Gabriele Giacomini

motus meltemi giacomini potere digitaleInternet sta cambiando la sfera pubblica e la democrazia? Il web è il luogo dell’informazione libera e autonoma o le informazioni si stanno organizzando attorno a inediti centri di potere? Internet promuove un pluralismo dialogico o rischia di nutrire una crescente polarizzazione? La democrazia rappresentativa è da superare oppure rimane la soluzione migliore per governare? La democrazia è certamente un sistema aperto (quindi sempre imperfetto e in evoluzione), ma è anche responsabilizzante: è compito dei cittadini e delle classi dirigenti gestire al meglio gli esiti dell’innovazione tecnologica.

Intervistiamo su questi temi Gabriele Giacomini, autore del volume “Potere digitale. Come Internet sta cambiando la sfera pubblica e la democrazia”, pubblicato a fine 2018 dall’editore milanese Meltemi.

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Se da una parte le nuove tecnologie digitali alimentano il bisogno di una maggiore partecipazione democratica, dall’altra dobbiamo anche registrare fenomeni di disintermediazione, che hanno investito anche la struttura dei partiti e i corpi intermedi. Che ne pensa?

Il problema della disintermediazione è strettamente correlato al tema dei partiti, dal momento che la democrazia dei moderni ha visto sempre al centro il potere dei partiti. Nonostante questi abbiano mutato nel tempo le proprie forme, costituiscono, in ogni caso, una costante della democrazia rappresentativa. Siamo passati da un partito di notabili – il partito della democrazia a suffragio ristretto – al partito di massa, e ora si è registrata un’ulteriore modificazione: i partiti stanno cambiando in rapporto stretto con quelle che sono le tecnologie della comunicazione. Per spiegare questi cambiamenti partiamo dalle caratteristiche del partito di massa tradizionale.

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linkiesta

Il Nobel per l’economia? Conformista e prevedibile

Ecco perché bisognerebbe abolirlo (forse)

Andrea Fioravanti intervista Emiliano Brancaccio

Emiliano Brancaccio, professore di politica economica all’Università del Sannio spiega i retroscena e le critiche al premio economico più famoso al mondo nel suo libro "Il discorso del potere" (Il Saggiatore), in libreria dal 14 marzo. E ha previsto il nome del prossimo vincitore

1 zl21SdB8CGLRwWd9t KpeAIl premio Nobel per l'economia è come l'Oscar: tutti lo criticano ma ognuno sogna di vincerlo. Non esiste premio più controverso. L'economista più famoso del mondo, John Maynard Keynes non l'ha mai vinto, mentre un matematico come John Nash è riuscito ad aggiudicarselo nel 1994 per la sua "teoria dei giochi". Può capitare che due avversari politici citino in un talk show economisti che l'hanno vinto per giustificare politiche economiche radicalmente opposte. Quasi tutti credono che vincere il premio Nobel dia il potere di cambiare il corso dell'economia, ma raramente queste teorie sono applicate dalla politica che le riscopre 15 o 20 anni dopo. E quando ogni autunno viene pubblicato il nome del vincitore sono in pochi a cercare le motivazioni della vittoria. Per questo Emiliano Brancaccio, professore di politica economica all'Università del Sannio, ha scritto in collaborazione con Giacomo Bracci il libro "Il discorso del potere. Il premio Nobel per l’economia tra scienza, ideologia e politica" (Il Saggiatore) in libreria dal 14 marzo. Brancaccio da molti anni è protagonista di confronti serrati con i principali esponenti della dottrina economica prevalente, dall’ex capo economista del Fondo Monetario Internazionale Olivier Blanchard all’ex premier Mario Montii. Il suo obiettivo è far conoscere i retroscena, le critiche e il meccanismo del premio economico più famoso al mondo.

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Brancaccio, partiamo dalla provocazione contenuta nelle prime pagine del suo libro. Bisognerebbe abolire il premio Nobel?

L’idea di abolirlo non è certo nostra. Fin dalle sue origini il premio ha attirato polemiche e contestazioni. Addirittura lo stesso Alfred Nobel non aveva previsto questo premio nel suo testamento.

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Coordinamenta2

“Siamo all’offensiva?”

di Elisabetta Teghil

Olga cittàSiamo tante, siamo all’offensiva, il movimento delle donne salverà il mondo. Questo è il refrain che circola in lungo e in largo. E non sarà questo lo specchio dei tempi? Cioè che un movimento senza nessuna possibilità di incidere e di cambiare alcunché sembri vincente?

Quello che viene propagandato come “movimento delle donne” è dichiaratamente interclassista, le sue rivendicazioni sono di richiesta di riconoscimento e di tutela allo Stato e ha un’impostazione esplicitamente corporativa.

Lo sciopero è un’arma di lotta che dovrebbe mirare a cambiare un rapporto di forza attraverso il danneggiamento della controparte e a ottenere un risultato preciso. Si può fare sciopero bloccando tutto il servizio del pubblico trasporto perché non si vuole la privatizzazione del servizio, tanto per fare un esempio, o si può fare sciopero generale bloccando tutti i servizi della città perché non si vuole l’approvazione di una legge che sta passando in parlamento come il finanziamento delle missioni militari all’estero, tanto per farne un altro, ma è impensabile fare sciopero per la pace nel mondo. C’è forse qualcuno/a che non è d’accordo sulla pace nel mondo? Farebbero sciopero anche quelli che le guerre le fanno e le fomentano. Quindi ciò che salta agli occhi di primo acchito è che non può essere impostato uno sciopero contro la violenza sulle donne o sulle ingiustizie di questa società perché tanto sono d’accordo tutti e tutte, compresi tutti gli uomini e tutte le donne che sono direttamente responsabili della costruzione della società neoliberista e della perpetuazione del patriarcato.

Però, con una lettura più attenta ma neanche chissà quanto approfondita, il motivo vero balza fuori evidente. Le donne della socialdemocrazia riformista che hanno impostato qui in Italia questo movimento vogliono soldi, vogliono finanziamenti, vogliono carriere, vogliono che sia riconosciuto il ruolo delle donne che in questa società in effetti fanno parte della struttura di dominio ai livelli e nelle modalità più disparate.

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carmilla

La recessione interiore

di Giovanni Iozzoli

88yy7712Avete presente i vecchi film di indiani in cui improbabili Apaches si mettevano a culo in aria, con un orecchio ben piantato per terra, onde avvertire in lontananza l’arrivo del treno o lo scalpiccio dei cavalli? Ecco, quella è la postura assunta da imprenditori ed economisti italiani negli ultimi cinque mesi – più o meno dall’ultimo trimestre del 2018. Solo che i pellerossa in fase di ascolto erano intrepidi e impassibili, mentre le nostre sedicenti classi dirigenti, appaiono tremebonde, spaesate, sempre sull’orlo della crisi di nervi. E quell’orecchio schiacciato sui pavimenti dei loro eleganti uffici riceve solo segnali preoccupanti. Si sa che il nemico è in avvicinamento, se ne vedono tutti gli effetti già pienamente squadernati: fatturati, ordinativi, scorte, inflazione, tutti gli indicatori hanno il segno meno, e con persistente continuità.

In Italia siamo passati da un periodo di contenuta euforia – la crisi è passata, concentriamoci sulla terribile bellezza e la geometrica potenza dell’industria 4.0 –, all’attuale panico mal dissimulato. Il dio capricciosissimo del ciclo economico sta compilando nuovi elenchi di predestinati all’inferno: i fedeli non si salveranno mediante le opere – eppure ci danno dentro di brutto, attraverso l’intensificazione dei ritmi, le condizioni di sfruttamento, la compressione dei salari, il dumping contrattuale. Fanno il loro dovere, gli imprenditori italiani: piangono e fottono, soprattutto i lombardo-veneti – che dentro la crisi, con riflesso automatico, abbandonano le compassate velleità mitteleuropee e si riscoprono interpreti del più melodrammatico mammismo mediterraneo. Aiutateci, aiutateci tutti a stare in piedi, a rimanere sul mercato, compattiamoci, abbiamo bisogno.

Adesso la panacea di tutti i mali, il rimedio anticiclico per eccellenza, sono diventate le grandi opere – come se la realizzazione di una bretella stradale Sassuolo-Campogalliano, nel modenese, ad esempio, potesse invertire il corso della crisi globale.

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marxianomics

Che Guevara, Maradona e Jim Morrison

Metaintervistina 30 – Writing Bad

Intervista a Marco Veronese Passarella

4103945 2685791 ) WW: le metaintervistine sono nate per “intervistare” persone legate al mondo della letteratura, poi si sono spinte verso il mondo della musica e ora… siamo giunti all’economia. Marco Veronese Passarella: l’economia è scienza o è anche arte? L’economista può essere un artista nel suo essere, appunto, economista?

MVP: Mi verrebbe da dire che è confusione, come rivela il fatto che si usi comunemente lo stesso nome, “economia”, per riferirsi sia alla scienza che al suo oggetto. Prescindendo da questo, l’economia politica o “economica” è l’arte di dimostrare, attraverso l’utilizzo di strumenti e metodi scientifici, che l’interesse materiale particolare della propria parte sociale corrisponde all’interesse generale. Insomma, l’una e l’altra cosa – arte della retorica e scienza – al servizio della lotta di classe nel piano più alto della sovrastruttura, quello della produzione delle lenti attraverso cui filtriamo (e modifichiamo) il mondo.

 

2) WW: quando l’ho contattata, lei si è definito “un barbaro”, ci spiega perché? Intendeva nel campo della letteratura?

MVP: Lo sono nell’accezione propria di straniero, appartenente a una civiltà remota – dato che sono comunista, ateo e, nei fatti anche se non per scelta, apolide. E, inoltre, lo sono anche nel senso lato di persona che legge ormai pochissimi libri, quasi nessuno. Persino nel mio lavoro la maggior parte del tempo di ricerca è assorbito dalla scrittura di codici e dalla lettura ‘diagonale’ di manuali e pubblicazioni tecnico-scientifiche. E, naturalmente, niente più carta. Solo bit. La barbarie, appunto.

 

3) WW: Com’è arrivato a essere lecturer in economics presso l’Economics Division della Business School, University of Leeds, e che giudizio da’ di questa sua esperienza lavorativa?

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ilsalto

Obbligo o verità?

La battaglia dei vaccini e il silenzio-assenso della sinistra

di Marco Craviolatti

1547302030198.jpg contaminazioni non dichiarate e antigeni assenti ecco la relazione finale sui vaccini a rischio

Copernico partì da osservazioni note e usò un metodo accessibile a tutti.
Molti non gli credettero, ma le sue affermazioni erano già vere,
perché chiunque ci sarebbe potuto arrivare, grazie alla scienza del tempo.
Il suo punto di vista non venne imposto da un re o dai preti.
Altrimenti sarebbe stata una verità instabile, contraddittoria e ingiusta.

Wu Ming, Proletkult

Renzi-Gentiloni, Macron, Macri. Se vi dicessero che questi governi-modello del liberismo globale hanno imposto la stessa misura legislativa in Italia, Francia e Argentina, vi scatterebbe qualche campanello d’allarme? Nemmeno se toccasse quanto di più sacro vi appartiene, non il vostro portafoglio, bensì il vostro corpo? Nemmeno se stravolgesse all’improvviso un contesto stabile della salute pubblica, virando a 180° le norme precedenti? Se l’allarme non è scattato siete in buona compagnia della sinistra italiana (quella poca ancora tale).

Nel giugno 2017 il DL Lorenzin (procedura di urgenza! Poi convertito dalla Legge 119/2017) ha introdotto un abnorme obbligo vaccinale (10 + 4 raccomandati) dai 0 ai 16 anni, con corollario di misure coercitive e punitive: è una svolta della politica sanitaria di portata almeno equivalente a quanto rappresentò il pacchetto Treu per il lavoro, il piano inclinato della progressiva cancellazione dei diritti. Come allora, si parte da alcune fasce della popolazione per raggiungere via via tutti gli altri. Nell’intera storia italiana, dal 1939, i vaccini obbligatori non avevano mai superato i 4. Nell’ottobre 2017 è la Francia a portare da 3 a 11 i vaccini obbligatori. L’ulteriore salto di qualità arriva nel dicembre 2018 con il DDL argentino 972-D, che impone vaccinazioni certificate anche agli adulti perfino per il rilascio dei documenti di identità, seppur non vincolandoli (ma il passo è breve). In compenso diventano già indispensabili per l’accesso a scuole e università e per le visite pre-assuntive e lavorative: no iniezione – no lavoro. No Jab – No Job proclama compiaciuto in Australia il governo del Partito Liberale, che ha adottato una misura analoga, oltre a quelle No Jab – No Pay (taglio dei sussidi familiari) e No Jab – No Play (esclusione dalla scuola).

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Le emigrazioni e il dilemma etico-politico

di Moreno Pasquinelli

Stampa 1423456498Catto-comunismo o comunismo d’accatto?

Parafrasando Carl Schmitt sovrano è chi decide l’ordine del giorno. E’ sotto gli occhi di tutti come l’élite neoliberista, forte della sua formidabile potenza di fuoco mediatica, sia riuscita a fare del fenomeno emigratorio la questione fondamentale dell’agenda politica.

Una colossale operazione ideologica di distrazione di massa. Tutti hanno abboccato, sinistre comprese, le quali hanno anzi deciso di occupare la prima linea del fronte immigrazionista, pur restando, lo Stato maggiore, ben saldo nelle mani dei dominanti. Sarebbe sbagliato pensare che questo obbligare la pubblica opinione a considerare l’immigrazione come questione delle questioni sia solo strumentale all’evidente obbiettivo di rovesciare il governo giallo-verde. Dietro c’è molto di più, c’è una visione del mondo, la necessità di imporla come destino.

Infatti, sul fenomeno emigratorio, l’élite dominante vorrebbe tracciare la linea che divide il bene dal male, lo spartiacque tra buoni e cattivi. Cattivo è chiunque non accetti come sacro il principio morale della cosiddetta “accoglienza”, dalla parte del male starebbe chiunque respinga come eticamente superiore l’ordine cosmopolitico fondato sul melting pot multietnico. Ancora una volta ricorrendo a Schmitt siamo in presenza di “concetti teologici secolarizzati”. Rovesciare l’ordine del giorno dei dominanti dovrebbe essere il primo atto politico di chi si considera antagonista, e non solo per evitare di essere ad essi funzionali.

Come mai questo non avviene? Non è solo per insipienza tattica, accade perché gli stessi “antagonisti” hanno introiettato e fatta propria sia la visione teologica dell’élite — compresi i suoi esorcismi per combattere e circoscrivere il “male” e non esserne contaminati — solo camuffandola con la maschera di quello che un tempo sarebbe stato chiamato “catto-comunismo” o meglio comunismo d’accatto.

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operaviva

La società dei performanti

di Maurizia Russo Spena, Vincenzo Carbone

Tolve 11 1628x1085Interroghiamo oggi, in questa sede, il libro di Roberto Ciccarelli Capitale disumano. La vita in alternanza scuola lavoro (Manifestolibri, 2018), che è meraviglioso soprattutto nella sua sezione più filosofico-politica (dove vi è un recupero ed una riappropriazione della nozione di forza lavoro intesa come produttrice di legame sociale e valori), a partire dall’osservazione di alcune categorie rilette sulla base delle nostre esperienze professionali di ricercatori in ambito socio-educativo e di genitori di figli che subiscono costantemente le ingiunzioni performative della «scuola delle competenze». Interpelleremo del testo, pertanto, la parte più empirica delle transizioni intese come misura di politica attiva dell’alternanza scuola lavoro (ASL), che definiremmo piuttosto come intreccio non lineare tra formazioni e lavori, e, dunque, non l’analisi delle transizioni quale paradigma che concerne l’intero corso di vita.

Ci soffermeremo, in particolare, sulla violenza delle retoriche delle competenze, del loro carattere performativo, delle conseguenze che producono sulla vita dei soggetti in carne ed ossa, soprattutto a partire dal mondo della scuola. La costruzione di questa narrazione, secondo la quale gli studenti all’interno del principio della formazione continua, degli apprendimenti ricorsivi e della certificazione delle capacità (sapere, fare, dover-essere, imparare ad apprendere), devono essere i promotori del proprio capitale umano, è avvenuta in un quarto di secolo, a livello nazionale, ma anche sul piano internazionale ed europeo.

 

1. La nozione di competenza/e va aggredita non solamente in quanto dispositivo di controllo, valutazione ed asservimento, ma soprattutto perché le logiche e le metriche (adottate verso «comportamenti oggettivabili») ad essa sottese costituiscono e delimitano l’unico orizzonte di pensabilità del soggetto neoliberale.

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sinistra

L’ideologia della casa in proprietà e le catene dorate del capitale

di Eros Barone

95c7d381df1c0cfed4c302f53793db20.image.500x400I poeti vivono in un mondo immaginario, e così anche il signor Sax, il quale s'immagina che il padrone d'immobili abbia "raggiunto il grado supremo d'indipendenza economica" ed abbia "un ricovero sicuro", "diverrebbe capitalista e sarebbe assicurato contro i pericoli della disoccupazione o dell'inabilità al lavoro dal credito immobiliare, che sarebbe a sua disposizione" ad ogni momento.

Friedrich Engels, La questione delle abitazioni.

Non ho mai toccato un soldo. Ho posseduto solo una vecchia Ritmo e questo ai milanesi non dovrei dirlo visto che a Milano chi non ha neppure una casa in proprietà è considerato un poveraccio.

Armando Cossutta, Una storia comunista.

 

  1. Investire nel mattone”: miti e realtà di un mercato monopolistico

In Italia, dove a lungo la cultura marxista ha discusso intorno ai processi di formazione di un nuovo blocco storico, non solo è mancata quasi del tutto un’analisi del blocco storico dominante, ma continua a mancare un’analisi adeguata della complessiva questione delle abitazioni come essenziale cerniera del blocco di potere dominante. Fatta questa premessa, resta tuttavia da aggiungere che qui non si intende offrire al lettore un’analisi compiuta di quello che si potrebbe definire “il blocco edilizio”, ma solo alcune linee introduttive ad una siffatta analisi, cercando, sia pure in modo schematico, di individuare le stratificazioni economiche e sociali che ne fanno parte o sono in qualche modo subordinate a questo “blocco”, e i legami, anche di carattere sovrastrutturale, che sono condizione del suo radicamento e della sua conservazione.1

Orbene,la consistenza economica e le ramificazioni del blocco fondiario, industriale e finanziario dell’edilizia appaiono evidenti, sol che si consideri come, nonostante le profonde interrelazioni tra pubblico e privato, il segno di questo settore sia tuttavia nettamente privatistico. Dal punto di vista della produzione e della proprietà, il settore dell’edilizia è infatti tra i più privatizzati della nostra economia.

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ospite ingrato

Lavoro e letteratura tra libertà e servitù

Un percorso

di Andrea Cavazzini

volti e luoghi nella pittura dell800 01Il tema «Lavoro e letteratura» fa parte di una costellazione complessa fin dall’inizio. Nel sistema topico delle pratiche umane sviluppatosi nella modernità – diciamo tra il XVIII secolo e la fine del Novecento – entrambi questi termini sono portatori di una tensione, o forse di una contraddizione, che è quella tra libertà e necessità, tra autenticità e alienazione, tra autonomia e eteronomia. Impossibile qui ricostruire tale costellazione nel dettaglio e nel suo divenire, che comporterebbe lo studio approfondito di figure quali Adorno, Barthes, Bataille, Simone Weil (per restare al Novecento). Ci basterà delinearne le tensioni tematiche e concettuali.

Ricordiamo in ogni caso che un punto di arrivo, o comunque un vertice di intensità, di questa problematica è il testo di Franco Fortini, Opus servile, dei primi anni Novanta del ventesimo secolo, in cui l’attività letteraria è categorizzata attraverso l’assiomatica del lavoro fornita da Hegel nella “dialettica del servo e del padrone”. È chiaramente a partire da questa categorizzazione, che implica una discussione dei generi letterari e del loro rapporto con il tempo e il linguaggio, che sarebbe possibile ricostruire le figure del tema «Lavoro e letteratura» negli autori citati e in quanti ne sviluppano oggi la problematica (due tra tutti: Jacques Rancière e Giorgio Agamben).

 

1. Duplicità del lavoro

La parola “lavoro” fa parte del nostro discorso politico quotidiano. Ma parliamo veramente della stessa cosa, e della stessa nozione, nei discorsi dei teorici post-marxisti sul potenziale emancipatore del “lavoro immateriale”, nelle mobilitazioni contro la precarietà e misure quali l’infausto jobs act, nella constatazione che un numero crescente di persone sono escluse dal lavoro nei paesi “sviluppati”, nella rivendicazione da parte dei migranti di accedere a dei lavori regolari?