Print
Hits: 6027
Print Friendly, PDF & Email

goofynomics

C'era una volta la favola...

di Alberto Bagnai

Prefazione a Il Pedante: La crisi narrata, Imprimatur, 2017

new york 0(...come forse saprete, e questa è la prefazione...)

C’era una volta... – Una regina! – diranno subito i miei lettori, per evitare gli strali del politicamente corretto, che trafiggerebbero senza remissione chi, cedendo a un impulso sessista, avesse d’istinto pensato al più classico “re”. No, cari amici: c’era una volta la favola, “breve vicenda il cui fine è far comprendere in modo piano una verità morale” (come riporta Google...). Ecco: questa era la favola. Si sapeva cosa fosse, si sapeva a cosa servisse: a proporre (e se del caso imporre) al destinatario una “verità morale”, che poi significa: a decidere chi fosse buono (e meritasse una ricompensa) e chi fosse cattivo (e meritasse un castigo). I genitori, o i nonni (e, naturalmente, le nonne) raccontavano favole ai bambini per farli diventare “buoni” proponendo loro esempi “virtuosi”, o almeno per farli addormentare cullandoli con la nenia di un resoconto confortevole nella sua prevedibilità. Due obiettivi (ammansire o addormentare) che, per chi gestisce il potere a qualsiasi livello (dalla famiglia all’impero), sono sostanzialmente equivalenti: entrambi assicurano che il manovratore non venga disturbato.

C’era una volta la favola, e oggi non c’è più.

Come genere letterario, difficilmente potrebbe aver successo presso il raffinato e disincantato pubblico odierno, che così tante rivoluzioni culturali (dal ’68 in giù) hanno istruito a ostentare insofferenza verso il principio di autorità e verso il buon senso. Come strumento di gestione della vita familiare, è stata soppiantata da dispositivi che il progresso tecnico rende accessibili anche ai meno abbienti (la televisione prima, poi i videogiochi, ora gli smartphone). Il progresso miete vittime, e fra queste, lo capite bene, miei cari lettori, era destino si trovasse questo relitto di un passato patriarcale, questo residuo di un mondo permeato di facile moralismo. In un mondo di persone che la sanno lunga, a cui non la si fa, perché sono istruite, leggono i giornali, e i libri consigliati dai giornali, la favola doveva soccombere.

Questo in apparenza.

La realtà è un’altra: la favola oggi, dall’essere una delle possibili dimensioni narrative, con dignità pari, o forse lievemente inferiore, a quella di tante altre (il romanzo, la novella, il poema, ...) è diventata la dimensione narrativa par excellence, il genere letterario egemone, rinascendo dalle proprie ceneri con identica struttura (un buono, un cattivo, una ricompensa, una punizione), ma nome diverso: narrazione, o, addirittura, narrativa. Sostantivo, questo, che in italiano indica un genere letterario (contrapposto a saggistica), ma che nel linguaggio cialtrone dei nostri operatori informativi ricorre come traduzione maccheronica dell’inglese “narrative”: sostantivo che significa “racconto”, e che, nelle lande anglofone ha sostituito il più esplicito “(fairy) tale”, così come da noi, col consueto ritardo di fase, di per sé indice di una spaventosa subalternità culturale, “narrazione” ha sostituito “favola” (o “storia”).

La saggezza profonda dell’etimologia pone questo scarto lessicale in una prospettiva interessante. Favola viene dal latino fari, parlare: l’adulto parla all’infante, dove l’in-fante è, appunto quello che (ancora) non parla. Narrazione ha la sua radice in gnarus, l’esperto, che parla all’ignarus, l’inesperto. Con questa evoluzione (se possiamo considerarla tale) la legittimazione della voce recitante compie un salto di qualità: nella favola esprime il normale avvicendarsi di fasi dell’esistenza (chi non parla, parlerà: e racconterà favole), nella narrazione cristallizza uno status (chi è arrivato inesperto – di economia, di bioetica, di geopolitica – all’età adulta difficilmente potrà evolvere ad esperto: e continuerà ad ascoltare narrazioni).

La narrazione si presenta così, in primo luogo, come tirannide degli esperti: è una favola che impera sulla nostra esistenza, ne detta gli obiettivi, ne definisce gli ambiti, ne struttura i valori morali, ne circoscrive – sterilizzandola – la dialettica politica. Esopo è morto, Fedro pure, e Lafontaine non si sente molto bene: eppure, mai come oggi la cicala e la formica ammiccano dai titoli di qualsiasi quotidiano, erigendo il recinto all’interno del quale il dibattito sulle sorti di interi paesi deve svolgersi (per insondabile e insindacabile decisione dello gnarus), e assegnando in modo tanto perentorio e schematico quanto subliminale torti e ragioni in vicende complesse; vicende che una volta, prima di emanciparsi al grido di “vietato vietare”, i cosiddetti intellettuali cosiddetti progressisti si sarebbero guardati bene dall’affrontare in termini così intellettualmente sciatti, così pericolosamente semplicistici. Una vittima, il progresso, l’ha fatta, ma non è la favola: è, in tutta evidenza, il senso critico degli intellettuali progressisti, che vicende impossibili da riassumere in questo breve scritto introduttivo hanno spinto lungo una ripida china e scivolosa china, che dal materialismo storico li ha condotti al moralismo isterico.

La narrazione è appunto la traduzione in prassi del moralismo, di quella strana degenerazione ideologica, assolutamente bipartisan, che brandisce come un’arma una visione unilaterale delle relazioni umane, a partire da quelle economiche, con il risultato (se non con l’intenzione) di presentare come unici colpevoli del proprio destino gli sconfitti di un sistema economico tanto instabile quanto ingiusto. Nel mondo naturale la cicala può essere tale, sulle fronde, a prescindere dall’esistenza di un formicaio fra le radici dell’albero. Il mondo sociale, economico, è un pochino diverso: non si può essere il debitore-cicala di nessun creditore-formica. Ogni debito è necessariamente un credito, e quindi un cattivo debito è in re ipsa un cattivo credito. In economia, come ora anche gli economisti più ottusi e i giornalisti più cialtroni sono costretti ad ammettere, il torto (se tale è) di essere cicala non può essere addossato a una sola parte: a debitore imprudente corrisponde creditore irresponsabile, e la logica liberale, di mercato, invocata dai moralisti esigerebbe che entrambi venissero sanzionati. Ma, appunto, la narrazione (cioè la favola) ha questo, fra i suoi assi portanti: quello di ricondurre i processi sociali e politici a una rappresentazione naturalistica, non solo nel senso più immediato (quello dell’uso di metafore provenienti dal mondo animale: cicale, formiche, falchi, colombe, porci – i famigerati PIGS...), ma anche in senso epistemologico. Il suo scopo, cosciente o meno, è quello di depurare il racconto di fatti sociali dalla loro dimensione politica, cioè di escluderli a priori dal dominio delle possibili scelte collettive (in particolare, di quelle democraticamente espresse), riconducendoli a una preordinata assegnazione di torti e ragioni, di cui la politica deve semplicemente prendere atto. Il debitore è cattivo, quindi il creditore è buono: il primo va punito, il secondo tutelato, e la narrazione oblitera qualsiasi riflessione sulla sostenibilità (politica, sociale, ambientale) di questo capitalismo “testa vinco io, croce perdi tu”.

Col vostro permesso mi concederò da qui in avanti il vezzo di resistere alle mode, una frivolezza che spero mi perdoniate, e di chiamare le cose col loro nome: consentitemi quindi di chiamare la narrazione (o narrativa) col suo nome: favola. Una innocua operazione di chiarezza che ci aiuterà a orientarci.

L’egemonia della favola nella prassi dei mezzi di comunicazione non è un dato accidentale, ma la conseguenza necessaria dell’involuzione paternalistica subita dalla dialettica politica, nel nostro come negli altri paesi “avanzati”. Un’involuzione, a sua volta, correlata allo sbilanciamento dei rapporti di forza a svantaggio delle classi lavoratrici, con l’affermarsi del governo dei ricchi, di quella che l’autore ha scelto di definire plutocrazia, recuperando un termine logorato da un certo uso propagandistico. Se dagli operatori informativi ormai ci sentiamo raccontare sempre e solo favole, è perché la classe dominante è riuscita ad imporre l’idea che lo Stato, “che è come una famiglia”, deve essere guidato dallo gnarus di turno (il “tecnico”), che sa qual è la cosa giusta da fare, e quindi deve procedere, incurante del consenso popolare (cioè della democrazia), esattamente come il buon padre di famiglia deve, in molte circostanze, ignorare le bizze del fanciullino riottoso, corredando la fermezza nel somministrare la giusta (?) punizione con un più o meno ipocrita “fa più male a me che a te” (ricorderete le lacrimucce di una nota riformatrice...). Naturalmente, se lo gnarus può praticare, o addirittura ostentare, disprezzo verso la volontà del popolo sovrano, se può proporsi come obiettivo quello di fare il bene (?) del popolo contro la volontà di quest’ultimo, è perché trae da altro la sua legittimazione: appunto, dal potere economico che di certe prassi di governo, e di certe favole, è il più immediato beneficiario.

Ci sarà pure un motivo se, dopo decenni di riforme che dovevano fare gli interessi della maggioranza (spesso contro la sua volontà), a partire dal divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia del 1981 (che doveva tutelare i meno abbienti dall’inflazione “che erode il loro potere d’acquisto”), e passando per le varie riforme del mercato del lavoro “che faciliteranno l’inserimento dei giovani”, e naturalmente per l’entrata nell’euro “che ci avrebbe protetto”, disuguaglianza, disoccupazione e fragilità finanziaria in Italia hanno raggiunto livelli precedentemente impensabili! In effetti, per chi analizzi i fenomeni economici partendo dai dati, e in particolare per chi si ponga, come chi scrive, in un’ottica di lungo periodo, la domanda che sorge spontanea è proprio come sia possibile che un simile degrado delle condizioni di reddito relativo e assoluto sia politicamente sostenibile, come sia possibile che gli elettori non si ribellino a un sistema nel quale i sacrifici, le lacrime e sangue ritualmente chieste dai governanti, oltre a palesarsi regolarmente come inutili, sono così ingiustamente distribuite. La risposta, naturalmente, è nella favola che i media ci raccontano, una favola che poggia sulla rappresentazione di un perenne stato di urgenza, su quella crisi perpetua che i governanti ci assicurano di voler risolvere, ma che in realtà, come il testo di cui ci occupiamo lucidamente mostra, alimentano, almeno in termini narrativi, perché in essa trovano il più efficace strumento di dominio.

Ecco: questo testo, caro lettore, ti insegnerà (se vorrai impararlo) in che modo i media attivamente contribuiscano a rendere accettabili le ingiustizie, come costruiscano la favola che circuisce l’ignarus, quali corde archetipiche vadano a toccare per aggirare lo spirito critico del pubblico, quali strumenti retorici usino per persuadere i dubbiosi, a quali strumenti dialettici ricorrano per neutralizzare gli interlocutori evitando scrupolosamente di entrare nel merito delle loro obiezioni. In questo senso, porrei questo testo in una ideale linea di continuità con Gli stregoni della notizia di Marcello Foa e con La fabbrica del falso di Vladimiro Giacché: due testi che, a vario livello, si pongono il problema di come il sistema dei media sia diventato, oggi, un effettivo ostacolo per l’esercizio della sovranità democratica, e questo certo non per cattiveria d’animo, ma per quella ovvia subalternità rispetto a chi lo finanzia, della quale, ex multis, si era già occupato Gramsci, quando ricordava all’operaio che “il giornale borghese è uno strumento di lotta mosso da interessi che sono in contrasto coi suoi”. Che gli interessi particolari esistano, e che chi li incarna cerchi di difenderli, si chiama lotta di classe, e non è una teoria del complotto: è il sale della storia. La democrazia, il governo del popolo, si fa plutocrazia, governo dei ricchi, perché il mondo del popolo è una rappresentazione dei ricchi: chi ha in pugno i media costruisce il racconto della realtà a propria immagine e somiglianza. Non a caso in questi giorni di autunno girano per Roma le camionette di un’università per ricchi a pubblicizzare corsi di “giornalismo narrativo”! Le decisioni della maggioranza sono così condizionate da una visione del mondo che una minoranza forgia nel proprio esclusivo interesse. Un interesse, aggiungo, a priori lecito, al pari di quello della maggioranza, ma che sovverte la dialettica democratica nel momento in cui si rivela particolarmente difficile da disciplinare con meccanismi di controllo e di bilanciamento.

Se ne Gli stregoni della notizia il giornalista Foa si poneva in una prospettiva di tecnica della comunicazione, smascherando i principali accorgimenti usati dai narratori (gli spin doctor), se ne La fabbrica del falso l’economista Giacché smontava la favola riscontrandone nei dati la falsità, troppo sistematica per non essere intenzionale, in questo testo l’autore fa un lavoro in qualche modo preliminare: quello di ricondurre la favola ai suoi elementi costitutivi essenziali: trama, retorica e personaggi. Questo lavoro di decostruzione è prezioso, perché permette al lettore di individuare la favola, insomma: di capire, senza ricorrere a competenze specifiche, quando chi gli parla lo sta prendendo in giro (magari involontariamente, per mero spirito gregario rispetto alle linee tracciate dalla grande stampa internazionale). I meccanismi narrativi sono, prima e più dei contenuti, il suggello della falsità di quanto viene narrato, e la logica elementare, in modo più efficace di qualsiasi sofisticato bagaglio culturale, basta a diffidare della favola. Non occorre un Nobel in biologia per capire che le cicale non parlano (soprattutto, non con le formiche!), e non occorre un dottorato in economia per capire che i tagli dei redditi individuali (pensioni, salari) non fanno crescere il reddito aggregato. Resta da capire quindi perché molti, anche intelligenti, anche (anzi: soprattutto) colti, credano a simili favole, e se ne facciano ecolalici divulgatori, amplificando, con la loro auctoritas più o meno fondata e riconosciuta di intellettuali, il messaggio che il potere, quel potere che loro per lo più osteggiano a parole, ma del quale si fanno strumenti nei fatti, vuole diffondere. E anche su questo punto, sul quale tanti si sono esercitati, il testo offre prospettive interessanti.

Decenni di politiche articolate sull’uso di disoccupazione e disuguaglianza come strumenti di disciplina delle rivendicazioni salariali hanno consegnato gli stati a potentati economici il cui più immediato assillo è evitare che la democrazia funzioni, che la maggioranza eserciti il diritto di tutelare i propri interessi. La favola è viva, e lotta insieme a loro. Possa questo testo aiutare gli oppressi a emanciparsi, riappropriandosi, come primo necessario passo di un percorso di lotta, della capacità di raccontare il mondo con un linguaggio autonomo da quello degli oppressori.

(...poi ci sarebbe quest'altro dettaglio, e di posti a prezzo scontato ne sono rimasti drammaticamente pochi: suggerirei di non far correre la voce, e rassicuro i miei congeneri: avranno anch'essi la loro parte...)

Web Analytics