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sinistra

Il "socialismo" eclettico e piccolo-borghese di Alessandro Visalli

Postille a una controreplica

di Eros Barone

11822807 100221In questa risposta alla controreplica di Alessandro Visalli concernente la mia critica al suo articolo sui fatti di Macerata1 , procederò isolando le frasi in cui egli concentra la sua anticritica e cercherò di contribuire sia ad una migliore conoscenza del modo in cui si pone il problema dell’immigrazione in un contesto imperialistico sia ad una conseguente pratica internazionalista del movimento di classe sia, ‘last but not least’, alla formazione teorica delle nuove generazioni di militanti comunisti. Va da sé che ringrazio Visalli per aver dedicato grande attenzione alle critiche che io e Mario Galati abbiamo avanzato nei confronti della sua analisi, del suo apparato categoriale e delle sue conclusioni, che però differiscono in notevole misura dalla teoria marxista e dal materialismo storico.

Visalli, riferendosi alla questione dell’ortodossia, scrive quanto segue:

Ovviamente confermo di buon grado la sua [di Eros Barone] ortodossia e confesso, il capo cosparso di cenere, la mia cultura borghese. Ciò detto, amico mio e compagno (scusa), credo anche io che il socialismo sia la soluzione.

La questione dell’ortodossia, come ha chiarito correttamente György Lukács, riguarda il metodo e i princìpi, ragione per cui è legittimo che Marx abbia cambiato idea su questa o quella questione (ad esempio, sulla Comune di Parigi, sulla democrazia borghese o sulla possibilità di una conquista pacifica del potere politico), mentre è incontrovertibile che non ha mai cambiato idea su questioni di principio concernenti i fondamenti della teoria e della metodologia del materialismo storico e del socialismo scientifico.

Restano perciò inoppugnabili le osservazioni di metodo che ho svolto, in chiave antirevisionista, nell’‘incipit’ del mio articolo2 . Ma qui viene posta la questione del rapporto tra origine sociale e orientamento politico, più precisamente del rapporto tra origine operaia e orientamento di sinistra, così come del rapporto tra origine borghese e orientamento di destra. La questione può investire o l’origine di classe o il contenuto di una posizione (teorica, politica, economica). ‘Prima facie’ sembrerebbe riferirsi all’origine di classe, vista l’enfasi visalliana sul padre, operaio metalmeccanico divenuto poi quadro e dirigente, ma, in séguito, viene correttamente riferita al contenuto della posizione. Orbene, è doveroso osservare che, nel primo caso, non si ha che fare con una posizione di classe, riconducibile alla concezione marxiana o alla tradizione marxista, bensì con una posizione antidialettica e antimarxista, in quanto caratteristica dell’ideologia del maggiore rappresentante del ‘socialismo conservatore borghese’ (così definito da Marx ed Engels nel terzo capitolo del “Manifesto del partito comunista”), ossia di Pierre-Joseph Proudhon (1809-1865). Così, la meccanica derivazione dell’orientamento politico dall’origine sociale sfocia inevitabilmente in una visione angustamente settaria e in una pratica economicistica e corporativa. Se un simile criterio fosse valido, il movimento operaio avrebbe dovuto infatti escludere dal suo seno gli stessi fondatori del socialismo scientifico, in quanto Marx era figlio di un esponente della media borghesia intellettuale, oltreché marito, avendo sposato Jenny von Westphalen, di un’esponente della nobiltà tedesca, ed Engels non solo era figlio di un industriale tessile, ma subentrò anche al padre, dopo la morte di quest’ultimo, quale imprenditore dell’azienda che la famiglia Engels possedeva a Manchester. Vale la pena, inoltre, di ricordare che nelle file del movimento operaio e comunista hanno militato imprenditori industriali e organizzatori dello stesso movimento operaio come Robert Owen (1771-1858), luminoso esponente del socialismo critico-utopistico e valoroso combattente del movimento cartista inglese, oltre a dirigenti rivoluzionari come Felix Edmundovic Dzerzinskij (1877-1926), che proveniva dai ranghi della nobiltà polacca, e, su scala più ridotta (attingo a ricordi personali), come il marchese Giorgio Doria, rampollo di una famiglia della nobiltà genovese, esponente di primo piano della federazione del PCI e docente di storia economica presso l’Università ligure. D’altronde, la stessa dottrina del socialismo scientifico non sarebbe mai potuta sorgere, se alla sua elaborazione non avessero recato un decisivo contributo intellettuali di origine borghese che, come Marx, Engels e Lenin, ruppero con la classe di appartenenza e posero le loro capacità intellettuali al servizio della classe del proletariato e della causa del comunismo. La nota tesi ortodossa, ossia leniniana, secondo cui la coscienza di classe viene portata al proletariato dall’esterno, significa esattamente questo: che la classe sfruttata economicamente, essendo esclusa dalla cultura e dalla scienza, è priva della possibilità di elaborare una concezione alternativa del mondo, della storia e della società ed ha, pertanto, un vitale bisogno dell’apporto proveniente dagli intellettuali che hanno acquisito gli strumenti analitici e interpretativi necessari all’interno della cultura borghese, che hanno preso coscienza delle contraddizioni di tale cultura e che hanno riconosciuto nella classe proletaria il soggetto storico della trasformazione sociale. Le eccezioni, come quella dell’operaio tedesco Joseph Dietzgen (1828-1888), molto apprezzato da Marx e da Engels per i suoi scritti filosofici, confermano la regola. Infine, occorre sottolineare che il comunismo è la causa della liberazione (non di una classe ma) dell’intera umanità. Ciò comporta che a tale causa possano (e debbano) aderire persone che appartengono a tutti gli strati sociali e che individuano nel partito comunista e nella dottrina marxista lo strumento della loro unificazione teorica, organizzativa e politica sul terreno della lotta rivoluzionaria contro il sistema capitalistico di produzione e di scambio, per la costruzione di una “società nella quale il libero sviluppo di ciascuno è la condizione per il libero sviluppo di tutti”.

Poi però passi alle parole d'ordine, le condivido tutte, nessuna esclusa. Ovviamente per poterle attuare, o avvicinarsi, bisogna recuperare capacità di determinazione politica, ovvero fare i conti con la mobilità dei capitali e con quella delle merci (free trade). Come ci arriviamo? Certo, se dobbiamo partire dalla tua notevolissima frase: ‘se nel cuore del modo di produzione capitalistico non vi fosse una contraddizione in grado di farlo saltare, tutti i nostri sforzi in questo senso sarebbero semplicemente donchisciotteschi’, dovrei capire che la domanda non ha senso. Ci si arriva direttamente, per forza, da solo.

Partirei da una domanda chiave: qual è stato il problema centrale di Marx nella sua elaborazione del materialismo storico? Fissare un punto di vista obiettivo sulla realtà sociale che rivelasse la direzione del suo movimento, allo scopo di intervenire in essa per trasformarla. Qui è opportuno precisare che non si tratta di un intervento illuministico, poiché il soggetto della trasformazione è una forza sociale che fa parte in modo essenziale di quel movimento e che nel contempo è antagonistica al sistema, cioè potenzialmente rivoluzionaria. In definitiva il tema che di continuo Marx ci ripropone è quello della “trasformazione del mondo”, affidata a determinate forze sociali che divengono coscienti del compito: cioè il tema della rivoluzione. Ciò che caratterizza Marx è che egli ce lo ripropone a partire dall’analisi scientifica di una società capitalistica che, per quanto notevolmente trasformata, esiste nella maggior parte del mondo. In questo senso, strategia rivoluzionaria e analisi scientifica si influenzano reciprocamente in base ad un punto di vista stabilito non da un sistema sociale che non esiste (il comunismo), ma dalla problematica del passaggio ad esso. Mi rendo conto, peraltro, che la ‘forma mentis’ sostanzialmente positivista di Visalli è estranea alla dialettica, come dimostra l’obiezione che egli avanza nei confronti di quella che è una citazione, da me non dichiarata, dello stesso Marx. Vediamo allora di ‘épater le bourgeois’ con il seguente enunciato: il pensiero non è costretto a rinserrarsi nella propria normatività; è in grado di pensare contro se stesso, senza rinunciare a se stesso. Aggiungo soltanto che, se fosse possibile una definizione della dialettica, si dovrebbe proporre questa. Quello che l’‘eterodosso’ Visalli non riuscirà mai a cogliere è invece il punto archimedico in cui l’analisi scientifica e la strategia rivoluzionaria si compenetrano, vale a dire il leninismo.

Quando Marx compie questa affermazione [della metafisica della scienza] (via via con maggiore circospezione) in lui, politico, filosofo e scienziato, sono i primi due termini a prevalere.

Nella vita di Marx teoria e pratica non sono mai state disgiunte: lo scienziato, il filosofo e il rivoluzionario (non “politico”, come dice Visalli usando, ancora una volta, un lessico piccolo-borghese) hanno sempre costituito un blocco unico. Naturalmente, come accade in ogni relazione dialettica, vi è un fattore determinante, che nel caso di Marx è l’analisi scientifica: la sua posizione rivoluzionaria deriva infatti dalla sua posizione scientifica e filosofica. Sicché, dopo l’esperienza della rivoluzione popolare del 1848, il lavoro di organizzazione politica che sfocerà nella fondazione della Prima Internazionale non ebbe minore importanza dell’elaborazione teorica del Capitale, che costerà al suo autore decenni di studi accaniti. Nel 1867 esce il primo volume di quell’opera che, secondo l’efficace definizione di un amico di Marx, è “certamente il missile più tremendo che mai sia stato scagliato in testa ai borghesi”. Ivi Marx individua le invarianti (ossia gli elementi e le relazioni immutabili) del modo di produzione capitalistico, che possono essere riassunte in tre caratteri fondamentali: 1) il capitalismo è orientato alla crescita, necessaria per garantire i profitti e l’accumulazione (quindi, crisi = assenza di crescita); 2) la crescita dipende dallo sfruttamento della forza-lavoro nel processo produttivo (ciò non significa necessariamente che i lavoratori guadagnino poco, ma significa che la crescita dipende sempre dal divario fra quanto i lavoratori guadagnano e quanto creano); 3) il capitalismo è necessariamente dinamico dal punto di vista tecnologico e organizzativo (ciò, nel mentre dipende dalle leggi della concorrenza che spingono i capitalisti a innovare continuamente, determina un mutamento delle forme della lotta di classe combattuta da entrambe le parti sul mercato del lavoro e per il controllo dei lavoratori). Marx ha dimostrato che queste tre condizioni necessarie del modo di produzione capitalistico sono incoerenti e contraddittorie, che le crisi sono necessariamente immanenti allo sviluppo capitalistico e che non vi è alcun modo in cui la combinazione di queste tre condizioni necessarie possa produrre una crescita stabile e lineare.

Stiamo tuttavia, mi pare, facendo una sorta di gioco: quello di rinfacciarci vicendevolmente l’accusa di irrazionalismo, anche se appare soprattutto da una parte, è per me irrazionale il culto del progresso (ed è, appunto, cultuale) ed è per voi irrazionale ogni richiamo che sospenda il riferimento al vero del discorso scientifico (con diverse accentuazioni), ed in particolare di quello cristallizzato nella tradizione marxista. Ma nel fare questo gioco, io credo, proiettiamo vicendevolmente i nostri fantasmi.

La mia impressione, che confina con la certezza, è che nel pensiero di Visalli premesse e conclusioni siano in nettissima contraddizione. Nelle sue convinzioni filosofiche (le cui coordinate sono riconducibili a Charles Taylor, Walter Benjamin, Jürgen Habermas e Costanzo Preve) dimostra di essere un tipico intellettuale piccolo-borghese. Dal punto di vista economico come da quello filosofico egli accetta la revisione del marxismo compiuta da Bernstein (naturalmente egli rintuzzerà questo rilievo con il solito ricorso alla categoria autoriflessiva della ‘proiezione’). In compagnia, ancorché denegata, di Bernstein rifiuta la dialettica interna dello sviluppo economico, in particolare del capitalismo monopolistico, come processo che conduce necessariamente alla rivoluzione proletaria; conformemente a ciò, seguendo ancora Bernstein, respinge anche la dialettica come metodo filosofico. Questa viene da lui sostituita con l’antropologia culturale, il positivismo (“numero e classificazione”, per citare quanto egli afferma nella sua controreplica) e anzitutto con le arbitrarie generalizzazioni heideggeriane sul “dominio della tecnica”. Dalla sociologia borghese e pseudomarxista contemporanea (si veda il suo riferimento, per un verso, al gruppo “Krisis”, che predica la scomparsa del proletariato e afferma il carattere onnipervasivo della ‘forma merce’, e per un altro verso al neo-proudhoniano Karl Polaniy) egli assume l’idea della centralità della contraddizione Nord-Sud nella formazione imperialistica mondiale (qui si fa sentire l’influenza del luxemburghismo, mediata da Samir Amin). Considera infine il progresso come una tipica illusione borghese, facendo generalmente proprie a questo riguardo le argomentazioni degli ideologi reazionari. Per essere dei “fantasmi”, non c’è che dire, hanno una discreta consistenza e, per quanto possa spiacere all’interessato, legittimano pienamente l’accusa, rivolta al contenuto oggettivo del suo pensiero, di essere quanto meno subalterno all’irrazionalismo del periodo imperialistico. Riprendendo la metafora culinaria già sfruttata, si tratta allora, in contrasto netto con il sobrio vitto leninista, di degustare un’offerta gastronomica ricca e variata, cui un pizzico di post-modernismo aggiunge un sapore speziato che non può non piacere ai palati più esigenti…

È “oggettiva”, questa “unità”, solo dall’alto (o dal basso) di una potente astrazione, che capisco ed alla quale a volte faccio riferimento, ma che va compresa come tale. Viceversa le vie sono sempre anche presenti in essere, qui ed ora. Non “localistiche” o “strettamente nazionali” (non so bene che cosa significhi), ma neppure astrattamente universaliste e piattamente mondialiste.

Può essere utile, poiché giova ad illuminare il problema del rapporto fra astrazione e mondo reale, un chiarimento sul modo in cui la teoria marxista concepisce l’universale (modo che, a mio giudizio, supera l’antitesi fra essenzialismo ed empirismo, che caratterizza le due principali varianti della filosofia borghese, così come l’antitesi che caratterizza le due principali strategie per la transizione al socialismo, elaborate per un verso dal trotskismo, la cosiddetta ‘rivoluzione permanente’, e per un altro verso dal revisionismo moderno, le cosiddette ‘vie nazionali’).

Ancora una volta, proprio quell’Aristotele di cui Galileo soleva dire che, se fosse stato vivo, avrebbe approvato il suo modo di ragionare e non quello degli aristotelici, ci spiega come vada inteso l’universale, quando, ad esempio, distingue ‘realiter’ (e non ‘formaliter’) fra le tre anime, evitando di postulare l’esistenza di un’anima che, senza corrispondere a nessuna di esse in una qualsiasi forma determinata e semplice, sia il ‘quid commune’ a tutte e tre; così come sempre Aristotele ci chiarisce la natura dell’universale, quando osserva che, rispetto alle diverse figure geometriche (triangolo, quadrato, pentagono ecc.), l’elemento comune ad esse, qualora venga inteso come ‘la figura in generale’, è solo un vuoto ente di ragione, mentre la figura veramente universale (che ricompare anche come quadrato, pentagono ecc.) è il triangolo, poiché esso è la figura-base, determinata e semplice, cui si può ridurre ogni altra figura.

In ciò risiede, fra l’altro, la genialità scientifico-filosofica dei primi pensatori greci, i tanto bistrattati (per il loro materialismo…) ‘physiológoi’, che concepivano l’universale come una sostanza completamente fisica, di natura acquea o aerea o ignea. Ma allora il prodotto dell’astrazione (di quella astrazione che, per poter tornare al mondo reale con efficacia euristica, deve prima ‘obliterarlo’ e allontanarsene, vicariandolo con un modello teorico e realizzando in tal modo il galileiano e marxiano circolo metodico ‘concreto-astratto-concreto’), ossia l’universale, non solo si manifesta (senza separarsi da essi) nei fenomeni particolari, ma esiste altresì come individuo particolare insieme con gli altri individui particolari, da esso prodotti (esattamente, per usare un paragone, come il padre che, dopo averli generati, vive spesso a lungo insieme con i suoi figli).

A questo proposito, in una sua lettera a Engels del 25 marzo 1868, Marx, soffermandosi sull’etimologia del termine ‘universale’, esclama con ironica soddisfazione: «Ma che cosa direbbe il vecchio Hegel se sapesse nell’aldilà che l’Universale (‘Allgemein’) in tedesco e in nordico non significa altro che la terra comune, e il Particolare (‘Besondere’) null’altro che la proprietà particolare separata dalla terra comune?»3 .

Ecco perché l’identificazione quasi automatica dell’universale con l’idea è la tesi centrale di ogni idealismo: una tesi che viene assunta come un assioma, mentre in realtà non è altro che un pregiudizio ereditato dal medioevo. Ed ecco perché Marx ed Engels, pur usando il metodo dell’astrazione determinata (= generalizzazione, logicamente e storicamente differenziata, delle esperienze particolari), affermano la realtà oggettiva dell’universale (certo non nel senso di Platone e di Hegel ma) nel senso della esistenza di un legittimo nesso tra i fenomeni materiali, nel senso cioè della loro unità in una legge, la quale tuttavia non li unifica sopprimendo le loro differenze ed opposizioni, bensì li riconduce ad una genesi comune. E quest’ultima, definita di volta in volta con sempre maggior precisione, ad esempio, in fisica, come movimento, inerzia, massa, gravitazione, spazio-tempo ecc., che cos’è, rispetto a quei fenomeni che ne costituiscono le multiformi modificazioni, se non una medesima sostanza, la cui natura pienamente materiale la rende indipendente sia dal pensiero che dalla parola? Ancora una volta Spinoza si rivela il ‘maestro di color che sanno’ dell’età moderna, il pensatore che, coerentemente con l’immagine meccanicistica del mondo nell’età della manifattura, declina la sostanza come ‘grande filiera dell’essere’; mentre Althusser non fa altro che seguire le sue tracce quando, per caratterizzare la totalità complessa a dominante, riprende il concetto hegeliano del ‘processo senza soggetto’. Dal canto suo, il socialismo scientifico, in quanto scienza della transizione dal capitalismo al comunismo, risolve il problema del rapporto tra universale e particolare attraverso la legge dello sviluppo ineguale e la teoria della rivoluzione ininterrotta per tappe. “E questo fia suggel ch’ogni uomo sganni”, direbbe il sommo poeta.

Cosa c'è di orrendo, qual senso di perdita di orientamento, di limiti e centro (come disse Keplero) ti fa retrocedere in questo modo davanti alla possibilità che liberare Marx dal determinismo implichi ‘l'indeterminismo’?

La frase interrogativa lascia trasparire una inequivocabile trama nicciana. Chiariamo dunque la questione del determinismo marxiano, vecchio ‘topos’ della polemica antimarxista. Determinare significa ‘porre dei limiti’: nulla di meno, ma anche nulla di più. La totalità nella quale si esplica la determinazione è la totalità costituita dall’insieme ‘base-sovrastrutture-prassi’, entro il quale la base, ossia il binomio forze produttive-rapporti di produzione, esercita una determinazione ‘in ultima istanza’ sulle sovrastrutture e sulla prassi. Non si tratta pertanto di una determinazione meccanica, come è quella di un pulsante che, premuto, mette in moto un congegno, ma di una determinazione dialettica che può passare, per esplicarsi pienamente, tra parecchi anelli intermedi. La base ‘pone dei limiti’ al campo di oscillazione delle sovrastrutture, che non viene determinato in modo univoco e automatico ma di cui riduce le variabili. Ciò detto, si può aggiungere che, avendo che fare con una totalità strutturata e gerarchizzata in più istanze, il ‘condizionamento’, termine ritenuto erroneamente più ‘debole’ della determinazione, risulta essere invece più ‘forte’. Inoltre, come ebbe a sottolineare il tardo Engels in una serie di lettere e, segnatamente, nella lettera a J. Bloch del 21 settembre 18904 , la categoria dialettica che assume un peso preponderante nell’articolazione delle diverse istanze della totalità ‘base-sovrastrutture-prassi’ è quella di influenza reciproca (della base sulle sovrastrutture e sulla prassi, e viceversa). Comunque sia, mi riservo di dedicare un articolo specifico a questo teorema, che si può considerare l’architrave del materialismo storico.

 

La grande assente: la coscienza di classe

Una volta elaborata scientificamente, la coscienza di classe si riassume nella proposizione chiave: “Proletari di tutto il mondo, unitevi!”, poiché l’idea fondamentale che sta al centro del pensiero marxista e comunista è che l’ultima classe che può rivestire un ruolo decisivo nello sviluppo storico è quella che potenzialmente è in grado di porre fine alle lotte di classe. Come ultima classe del processo storico, come “classe non classe”, essa non si limita a conquistare il potere politico per sostituirsi alla classe che dominava in precedenza, ma, attraverso la mediazione della “dittatura del proletariato”, con l’abbattimento quindi della dittatura borghese, mira a por fine, una volta per tutte, alle dittature storiche e ad aprire la via al “regno della libertà”. In questo senso, come ha sottolineato Marx, la rivoluzione comunista non è necessaria soltanto perché è l’unico mezzo per rovesciare la classe dominante e conquistare il potere politico, ma perché solo con la rivoluzione il proletariato potrà togliersi di dosso tutto il sudiciume ereditato dalla vecchia società. Occorreranno dieci, cento, mille anni? Non lo so. Quello che so è che la borghesia ha impiegato secoli per arrivare al potere e che tale costatazione riguarda minimamente il breve tempo della nostra esistenza, anche se non cambia di un millimetro il problema del “che fare?”, che ci sta dinnanzi.

Ciò detto, provo anche a definire, per l’essenziale, la risposta che dobbiamo dare, come marxisti, alla cruciale domanda sul “che fare?”. Non è mia intenzione predicare una ‘imitatio Christi’; affermo però che il percorso di Lenin, fondato sul nesso tra teoria e prassi e, nella fattispecie, sul nesso tra scienza e strategia, strategia e tattica, tattica e organizzazione, filosofia e politica, è un percorso che conserva un significato oggettivamente esemplare. A mio giudizio, il compito dei marxisti è oggi quello di lavorare, movendo dagli apparati in cui òperano (scuola, stampa, sindacati ecc.), per riconnettere il marxismo al proletariato e viceversa, radicandosi nelle tre grandi tendenze del processo storico individuate dai fondatori del socialismo scientifico: la riduzione del lavoro necessario (resa possibile dalla meccanizzazione e dalla informatizzazione dei processi produttivi), lo spostamento in avanti delle frontiere tra società e natura (reso possibile dalla rivoluzione scientifico-tecnica), la formazione di un’umanità integrata (resa possibile dalla costituzione di un mercato mondiale). Così, per riprendere lo stupendo paragone usato da Antonio Gramsci in una delle sue “Lettere dal carcere”, essi si comporteranno esattamente come si comportò l’esploratore norvegese Nansen allorché rimase intrappolato nei ghiacci con la sua nave e decise di resistere avanzando lentamente assieme alla banchisa polare fin quando essa non si fosse sciolta.

Nella spiegazione macroeconomica, piuttosto abbozzata, che segue Eros Barone fa ampio uso infatti di termini come “irrisolvibile”, “mutamenti di carattere epocale”, “non possono non”, e di un modello ‘idraulico’ di travaso dei capitali (come fossero cose) che meriterebbe maggiore riflessione e maggiori letture economiche, probabilmente. Certo, alcune di queste sono non marxiste…

Evidentemente, Visalli ignora che il marxismo è il frutto di quelle che Lenin definiva le sue “tre fonti e tre parti integranti”: la filosofia classica tedesca, l’economia politica inglese e il socialismo francese 5 . Che nella disàmina di un problema complesso come quello dell’immigrazione i marxisti si possano e si debbano avvalere anche dei contributi arrecati da altre correnti di pensiero (e perfino da correnti avverse al marxismo) rientra perciò nel metodo della “critica immanente”, di cui Visalli, che pure è refrattario alla dialettica, avrà forse orecchiato l’esistenza. Quindi, ‘oportet ut scandala eveniant”, e anche Boeri, così come l’economia neoclassica a cui questi si ispira, possono essere funzionali, entro certi limiti, alla suddetta disàmina. Tuttavia, non sarà sfuggito a Visalli che i punti di riferimento essenziali della mia impostazione sono, oltre al fondamentale studio dell’economista indiano Prabhat Patnaik, la lettera di Marx e l’articolo di Lenin 6 . Sennonché l’aumento dell’immigrazione e gli eventi connessi a questo fenomeno (tra cui gli stessi fatti di Macerata) esigono dai marxisti un’analisi approfondita che, partendo dalla dinamica del capitale e dei rapporti di produzione, delinei una strategia autonoma delle forze comuniste inconciliabile sia con le posizioni della sinistra borghese che con le politiche delle forze reazionarie e di estrema destra, giacché alla base dell’immigrazione odierna vi sono tutte le contraddizioni dell’imperialismo: saccheggio di risorse, guerre, terrorismo, che spingono milioni di persone ad emigrare per cercare un futuro. La risposta dei comunisti al problema dell’immigrazione deve, anzitutto, indicare le cause strutturali delle politiche imperialiste, denunciando le attività dei propri paesi in Africa e nel Vicino Oriente e condannando ogni politica di intervento la quale, ancorché spesso dissimulata da orpelli umanitari, persegue in realtà l’obiettivo di spianare la strada all’attività di saccheggio dei rispettivi monopoli, impoverendo interi popoli. Del resto, un’analisi più approfondita dell’immigrazione deve porre in evidenza non solo l’aspetto, maggiormente enfatizzato dai ‘mass media’, dell’immigrazione verso l’Europa, ma anche la realtà dei flussi migratori interni. In questo senso, la polarizzazione tra capitale e forza-lavoro appare il vero obiettivo della libera circolazione delle persone e rappresenta, insieme con quella di capitali e merci, il pilastro della costruzione del mercato comune dell’Unione Europea. L’immigrazione risulta dunque un fenomeno strutturalmente connesso con le necessità dei monopoli in un mercato aperto, con la conseguente ricerca della forza-lavoro a minor costo e con i relativi interventi per incrementarne i profitti. L’Italia, ad esempio, non è solo terra di immigrazione, ma anche, contemporaneamente e in misura crescente, terra di emigrazione verso altri paesi europei ed extraeuropei, nei quali i giovani italiani cercano posti di lavoro che oggi non esistono nel nostro Paese o condizioni retributive migliori. Pur nella differenza che intercorre tra questi fenomeni in termini di drammaticità e di condizioni esistenziali, essi sono legati ad una matrice comune e l’idea di una immigrazione bilaterale e perequativa, che ho formulato nel mio articolo come obiettivo programmatico di un governo socialista, è una proposta per avviare a soluzione, congiuntamente, sia il problema dell’immigrazione che quello dell’emigrazione.

In conclusione, una strategia rivoluzionaria deve, da una parte, rifiutare il buonismo e il moralismo della sinistra borghese, dall’altra deve combattere ogni forma di divisione della classe lavoratrice sulla base della nazionalità. Esattamente come avvenne all’inizio del secolo scorso, vanno combattute e superate tanto le divisioni all’interno del proletariato, quanto le divisioni connesse con i forti processi migratori che spinsero dal Mezzogiorno d’Italia centinaia di migliaia di lavoratori, ex contadini, ad entrare nelle fabbriche del Settentrione. Parimenti, oggi il lavoro del movimento di classe (rappresentato dai comunisti e dai sindacati conflittuali) deve essere diretto alla costruzione della massima unità di classe, unico fattore che può impedire l’uso strumentale, da parte del capitale, della manodopera immigrata in funzione di esercito industriale di riserva, atto ad alimentare una competizione tra lavoratori. Il compito dei comunisti è dunque, oltre alla critica e alla condanna di ogni forma di chiusura delle frontiere con muri e filo spinato - chiusura non solo disumana, ma anche assolutamente inadeguata a risolvere il problema -, la denuncia sistematica dell’inganno che si cela dietro la libera circolazione transnazionale, che non è affatto la premessa delle libertà, ma lo strumento più vantaggioso che possa adoperare, nelle attuali condizioni, il capitale monopolistico. Solo così sarà possibile neutralizzare la propaganda razzista e nazionalista della Lega e dell’estrema destra, impedendo che il proletariato sia la vittima di una micidiale operazione divisiva.

Non credo di aver detto tutto ciò che sarebbe necessario, ma credo di aver detto abbastanza. In questa e in altre sedi non mancheranno le occasioni per precisare, approfondire e rettificare questo o quell’aspetto dell’azione del movimento di classe. Qui, per quanto mi riguarda, metto il punto, ché, come recita un antico adagio latino, “nimium altercando veritas amittitur”. Tuttavia, non se ne abbia a male Visalli se mi permetto di rilevare che esiste una perfetta simmetria, all’insegna del revisionismo, tra la sua concezione teorica, filosofica e culturale e l’appello di voto alla lista di “Liberi e Uguali” nelle elezioni politiche del 4 marzo scorso, appello di cui egli è stato uno dei firmatari. Nulla di male, è un suo diritto scegliersi le compagnie da frequentare nel campo della politica borghese, cioè Grasso, D’Alema, la Boldrini, Bersani. Singolare è però che con siffatti compagni egli si proponga di lottare per una prospettiva socialista. Direi piuttosto che se è vero che, stando a quanto asserisce, “il socialismo è la soluzione”, egli è parte del problema non della soluzione. Dal canto mio, essendo un marxista-leninista irriducibile e pur avendo una scelta più ridotta, preferisco altre compagnie.


Note
1 Si veda all’indirizzo https://www.sinistrainrete.info/societa/11855-alessandro-visalli-eros-barone-circa-fisica-e-metafisica.html .
2 Si veda all’indirizzo: https://www.sinistrainrete.info/societa/11728-eros-barone-fisica-e-metafisica-dei-fatti-di-macerata.html .
3 Cfr. Karl Marx – Friedrich Engels, Opere Complete, vol. 43, Lettere 1868-1870, Editori Riuniti, Roma, 1975.
4 Cfr. Karl Marx – Friedrich Engels, Opere Complete, vol. 48, Lettere 1888-1890, Editori Riuniti, Roma, 1991
5 Si veda al seguente indirizzo: https://www.marxists.org/italiano/lenin/1913/3/font-mar.htm .
6 Si veda al seguente indirizzo: https://www.sinistrainrete.info/societa/11728-eros-barone-fisica-e-metafisica-dei-fatti-di-macerata.htm (nota 7 per la lettera di Marx e nota 6 per l’articolo di Lenin).
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