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Crisi parallele

Intervista a György Lukács

In «L’utopia concreta. Rivista quadrimestrale», I, n. 1, ottobre 1993 [da «New Left Review», n°60, marzo – aprile 1970]

1 paolo morso da un vipera dopo il naufragio a malta roma basilica di san paoloCompagno Lukács, come giudica la sua vita e l’epoca storica in cui ha vissuto? In cinquantanni di lavoro scientifico e rivoluzionario ha avuto la sua parte di onori e di umiliazioni. Sappiamo anche che è stato in pericolo dopo l’arresto di Béla Kun nel 1937. Se dovesse scrivere un’autobiografia o delle memorie personali, quale lezione fondamentale ne trarrebbe?

Per rispondere brevemente, direi che è stata una mia grande fortuna aver vissuto una vita intensa e densa di avvenimenti. Lo considero come un particolare privilegio di cui ho avuto esperienza negli anni 1917/1919. Poiché provenivo da un ambiente borghese – mio padre era un banchiere di Budapest – e pur attuando un’opposizione piuttosto individuale in «Nyugat»1 – facevo parte tuttavia dell’opposizione borghese.

Non arriverei a dire – non potrei – che il puro e semplice impatto della prima guerra mondiale sarebbe stato sufficiente a fare di me un socialista. Fu senza dubbio la Rivoluzione russa e i movimenti rivoluzionari che ne seguirono in Ungheria che mi spinsero a diventarlo, e a ciò sono rimasto fedele. Ritengo che questo sia uno degli aspetti più positivi della mia vita. È un’altra questione se, oppure no, essa, nel suo insieme, abbia subito degli alti e bassi, in qualsiasi direzione, si può dire però che abbia avuto una certa unità. Guardando indietro, posso individuare le due tendenze che hanno prevalso lungo tutto l’arco della mia esistenza: in primo luogo, esprimere me stesso, poi, essere al servizio del movimento socialista – così come io l’ho inteso in ogni momento. Queste due tendenze non si sono mai disgiunte, né sono mai stato assillato da un qualche conflitto tra di esse.

In seguito, risultava spesso – secondo un giudizio personale e quello di altri – che il mio operato si rivelasse sbagliato, e anche questo sono in grado di affermarlo con una certa equanimità. In quei casi penso di aver agito giustamente respingendo quelle opinioni che, successivamente, ritenevo non fossero corrette. In ultima analisi, posso tranquillamente affermare di aver sempre cercato di dire ciò che volevo nel migliore dei modi. Ma per quanto riguarda il valore e la forma della mia intera opera non mi pronuncio – non è compito mio. La storia lo deciderà in un modo o nell’altro. Da parte mia, mi ritengo soddisfatto dello sforzo compiuto e, direi, contento sotto questo aspetto: il che non significa, naturalmente, sentirsi appagati per i risultati di questi sforzi. Nel breve lasso di tempo che mi rimane farò del mio meglio per esprimere certe idee più accuratamente, nel modo più esatto e scientifico per il marxismo.

 

Può un uomo essere contento della sua condizione? Esiste davvero un caso simile?

Ad essere sinceri, può darsi che uno scrittore, mentre scrive, provi una sensazione simile di tanto in tanto. Accade che senta di esser riuscito ad esprimere quanto gli stava a cuore. E una questione diversa come ciò apparirà tre giorni più tardi. Dico soltanto che questa situazione esiste.

 

Lei è stato non solo testimone della storia di questo secolo, ma anche uno che vi ha partecipato attivamente. Se dovesse fare ora un bilancio dei suoi sogni e dei suoi ideali giovanili – lo sviluppo del socialismo dalla Repubblica dei Soviet ungherese fino ai nostri giorni – cosa vi includerebbe?

Si deve fare qui una distinzione tra elementi soggettivi ed oggettivi. Soggettivamente, direi, era già chiaro sin dagli anni ‘20 – lasciamo stare il presente – che le speranze con cui avevamo fervidamente seguito la Rivoluzione russa dal 1917 in poi non si realizzarono – l’ondata rivoluzionaria mondiale nella quale avevamo riposto la nostra fiducia si arrestò. Il fatto che la rivoluzione rimase circoscritta all’Unione Sovietica non è il risultato delle teorie di un uomo ma della realtà della storia mondiale. In questo senso le speranze soggettive del singolo individuo restano incompiute. D’altro canto, chiunque si definisca un marxista – e riterrà, quindi, di essere uno studioso della storia – deve sapere che nessuna grande trasformazione ha avuto luogo dall’oggi al domani. Sono trascorsi millenni prima che il comunismo primitivo diventasse una società di classe. O, per fare qualche esempio storico, noi ora possiamo comprendere la storia della dissoluzione della società basata sulla schiavitù, e si può concludere che occorsero ottocento, quasi mille anni di crisi perché potesse evolvere nel feudalesimo. Di conseguenza, quanto più si è marxisti, tanto più si dovrebbe essere consapevoli che una trasformazione decisiva come la transizione del capitalismo al socialismo non può concludersi nel giro di settimane o mesi, oppure di anni, e che il periodo in cui viviamo è solo l’inizio della transizione, e chi sa quante decadi, e anche più, passeranno prima che il mondo entri nell’era del vero socialismo. Chi voglia essere marxista deve separare le sue aspettative dalla valutazione degli eventi. È naturale che a ciascuno, soggettivamente, farebbe piacere conoscere l’epoca del vero socialismo, ma un marxista apprenderà dall’esperienza della propria vita che tali cambiamenti non si verificano da un giorno all’altro.

 

Come dovrebbe la filosofia marxista rapportarsi alla grande ricchezza filosofica dei nostri tempi? Quanta parte di essa può essere considerata utile o come uno stimolo a un ulteriore sviluppo?

Mi perdonerà se non le darò una risposta esauriente in proposito. Non ho una grande stima della filosofia borghese moderna. È comprensibile che delle persone, nei paesi socialisti, siano deluse dalle deformazioni staliniste del marxismo e si rivolgono alla filosofia occidentale, proprio come si può trovare una donna ingannata dal marito nelle braccia di chiunque quella notte. Devo confessare che non ho una grande opinione della filosofia borghese e che considero Hegel l’ultimo grande filosofo della borghesia. Se la stampa americana, tedesca o francese proclama X o Y un grande filosofo, e se di conseguenza della gente delusa dallo stalinismo immagina di correggere il marxismo con lo strutturalismo, per esempio, – e per favore non se la prenda a male se lo dico così apertamente – allora considero tutto ciò come illusorio.

Disapprovo il fatto che durante il periodo stalinista il marxismo ufficiale si sia isolato completamente dai risultati ottenuti dagli sviluppi sorti al di fuori dell’Unione Sovietica. Questo era sbagliato e non marxista. Marx, Engels e Lenin, infatti, hanno sempre seguito la filosofia contemporanea e il pensiero scientifico con la massima attenzione; e, si aggiunga, con la più grande attenzione critica. Se si osserva con attenzione la carriera di Marx, si vedrà che non furono solo eminenti figure quali Darwin e Morgan che influenzarono il suo pensiero. Ad esempio, egli si interessò con passione agli esperimenti agrochimici di Liebig, alle ricerche storiche di Mauser, e così via. Ma, si deve precisare, il giudizio di Marx sui suoi cosiddetti grandi contemporanei – penso a Comte e a Herbert Spencer – fu di rifiuto e di disprezzo. Si può capire psicologicamente come i marxisti odierni cerchino in ogni occasione sostegno in Occidente, ma considero ciò come oggettivamente non corretto.

Penso che sia necessaria una migliore comprensione del marxismo, un ritorno alla sua reale metodologia e, tramite questa, il tentativo di capire il periodo storico dopo la morte di Marx. Si è ancora lontani dall’aver raggiunto un tale obiettivo dal punto di vista marxista. È uno dei più grandi peccati del marxismo che nessuna analisi economica reale sia stata effettuata dal libro di Lenin sull’imperialismo scritto nel 1916. Inoltre, non esiste nessuna reale analisi economica e storica sullo sviluppo del socialismo. Il compito dei marxisti è perciò l’esame critico di cosa si può imparare dalle opere scritte nei paesi occidentali.

È fuor di dubbio che in numerosi campi delle scienze naturali tali opere hanno ottenuto enormi risultati da cui possiamo certamente imparare. In secondo luogo, è mia opinione che gli scritti filosofici – strettamente definiti – e le scienze sociali debbano essere vagliati attentamente e sotto il profilo critico. Sarebbe un’illusione pensare che Nietzsche possa insegnarci qualcosa – sebbene si conoscano dei casi, deplorevoli, in cui della gente delusa dal marxismo stalinista ci abbia provato. Tuttora, il massimo che si può ricavare da Nietzsche è una lezione di come non bisogna filosofare e quanto egli sia pericoloso e nocivo per la filosofia. Mi corre quindi l’obbligo di chiarire che il mio atteggiamento, a proposito di quello che è possibile apprendere dall’Occidente, è estremamente critico. Vorrei che i marxisti facessero altrettanto e giudicassero inoltre le tendenze occidentali usando il reale metodo marxista.

 

Lei ha adoperato il concetto di «marxismo ufficiale» in opposizione alle tendenze filosofiche borghesi, dicendo anche che molto lavoro deve essere fatto da quando i classici sono stati pubblicati. Cosa intende per marxismo ufficiale?

Intendo per «Marxismo ufficiale» quel marxismo che ha preso gradualmente forma in Unione Sovietica dopo la vittoria ideologica, politica e organizzativa riportata da Stalin su Trotskij, Bukharin e gli altri. Ciò si configurò come un processo. Non voglio entrare nei particolari, ma una cosa è certa: non si può dire che fino a un certo giorno c’era il leninismo e il giorno dopo Stalin ha introdotto lo stalinismo. Bensì, nel corso di un processo che è durato più di dieci anni, il marxismo è stato reinterpretato per adeguarlo alle necessità del dominio stalinista i cui principi sono stati presi in esame diverse volte nei miei scritti.

Se posso ripetermi, eccone qui esposti gli aspetti essenziali: in Marx la grande prospettiva storico-mondiale derivava da un metodo dialettico onnicomprensivo, egli tentò di porre in ogni campo i suoi fondamenti economico-politici. Tale prospettiva fornì la forza motrice all’attività di Marx, gli permise di analizzare le situazioni in ogni epoca e in ogni circostanza, e, al loro interno, le ragioni di carattere tattico. Stalin capovolse tutto questo, mettendolo a testa in giù. In Stalin era sempre il momento tattico ad essere predominante, ed in base ad esso creava una strategia e una teoria generale.

Diciamolo, anche se il 20° Congresso condannò la dottrina staliniana secondo la quale la lotta di classe subiva un’intensificazione nel socialismo, sbagliò ancora – sfortunatamente – quando asserì che il problema non consisteva nell’essere Stalin giunto a una simile conclusione e, basandosi su questa, aver preparato le grandi purghe contro Bukharin e gli altri. Il problema, piuttosto, è che Stalin sentiva di avere una necessità tattica per quelle purghe, le effettuò, e poi, per giustificarle, costruì la teoria secondo cui la lotta di classe si intensifica sotto il socialismo. Cito in proposito un episodio ancora più significativo in cui Stalin, effettivamente, assunse una giusta posizione tattica. Quando firmò il patto con Hitler nel 1939 fece un passo tatticamente corretto. Seguì quella fase della guerra nella quale Gran Bretagna e Stati Uniti combatterono Hitler in una comune alleanza con l’URSS che riuscì a respingere il pericolo nazista. Secondo il mio modo di vedere, la questione principale è se ciò si sarebbe verificato senza la iniziale mossa tattica di Stalin. Invece, quando proclamò nel 1939 che la Seconda Guerra Mondiale non si distingueva essenzialmente dalla Prima, e che il compito per i Partiti comunisti era perciò ancora quello, liebknechtianamente inteso, di combattere il nemico interno, allora – partendo da un passo tatticamente corretto – egli diede, in nome del Comintern, una disposizione catastroficamente sbagliata ai partiti francese e inglese.

Penso che i risultati grotteschi prodotti dai metodi staliniani siano illustrati abbastanza chiaramente da questo esempio. Si aggiunga che le idee staliniste non sono state del tutto liquidate. Di conseguenza, molte delle nostre concezioni sulla politica mondiale si rivelano puramente tattiche, possono dimostrarsi non corrette da un giorno all’altro e – per esprimermi schiettamente – hanno ben poco a che fare con i processi reali della società.

 

Come vede la ricezione delle sue opere in Jugoslavia?

Non credo di avere i titoli, devo confessarlo, per muovere osservazioni critiche sui problemi dello sviluppo ideologico in Jugoslavia. Brevemente, tutto quello che posso dire è che durante la seconda guerra mondiale la Jugoslavia suscitò l’entusiasmo di tutti noi. Tra i paesi più piccoli fu la sola nazione ad intraprendere, indipendentemente, una guerra di Resistenza su larga scala contro Hitler. Da questo punto di vista, il comportamento del popolo jugoslavo servì da esempio per tutti gli altri, inclusi gli Ungheresi, la cui volontà di resistere ad Hitler fu di gran lunga meno cosciente, risoluta ed efficace.

In secondo luogo, tutti noi – e con questo intendo un gruppo di intellettuali – giudicavamo gli sviluppi dello stalinismo con una certa soddisfazione. Chiunque legga i miei articoli degli anni ’20 e ’30 vedrà che anche a quell’epoca mi trovavo in disaccordo con la linea di Stalin e di Ždanov. Per esempio, il libro che scrissi su Hegel era diametralmente opposto all’analisi che ne aveva fatto Ždanov. Gli orientamenti politici dell’Ungheria comunque seguirono strettamente la linea dell’URSS, e per tutti noi che eravamo capaci di pensare autonomamente fu un grande evento che Tito iniziasse la campagna contro i metodi stalinisti con spirito critico e pratico nello stesso tempo. La storia del socialismo non dimenticherà mai la grande impresa di Tito. Come risultato, gli scritti marxisti in Jugoslavia cominciarono ad essere molto più liberi del marxismo ufficiale. Ho sì prestato attenzione a quest’ultimo, ma a volte ne ho fatto l’oggetto, aspramente, della mia critica.

Tali sviluppi, devo ripetere, non equivalgono allo scendere da un treno e salire su un altro. Si rendono necessarie grandi battaglie ideologiche prima che l’ideologia della nuova fase prenda forma. Che questo processo sia cominciato torna ad onore dei compagni jugoslavi e sarà sempre apprezzato. In ogni caso – e ciò vale non solo per la Jugoslavia ma per l’intero movimento – la critica della teoria stalinista e la battaglia per il rinnovamento del marxismo che è in corso devono essere intraprese con qualsiasi strumento intellettuale a disposizione, i migliori possibili. È evidente, quindi, che un punto di vista completamente chiaro e una singola tendenza dominante devono ancora emergere. Sono sicuro di non essere frainteso se esprimo fiducia nella possibilità che la tendenza da me sostenuta sia quella dominante, sebbene sappia che ognuno, per il suo punto di vista, aspira all’approvazione finale della storia.

In ogni caso, una simile svolta storica, così come una corretta direzione, devono ancora oggettivamente darsi, e per questo ovunque ci sono delle persone che, nei paesi socialisti e capitalisti, si adoperano per un rinnovamento del marxismo. Tutti verificano il proprio metodo, in uno specifico campo d’attività, discutendo tra loro, sperando che si giunga a un orientamento comune che porti il marxismo fuori dalla infelice situazione in cui si è smarrito a causa dell’influenza di Stalin.

 

Qualcuno sostiene che l’autogestione operaia è una peculiare invenzione jugoslava e non un’espressione di sviluppo in senso socialista. Qual è la sua opinione in proposito?

Sarebbe difficile rispondere alla sua domanda in questa forma. In generale, direi che l’autogestione operaia è uno dei problemi più importanti del socialismo. È scorretto, secondo la mia opinione, che molti oppongano allo stalinismo una generica democrazia – più precisamente, la democrazia borghese. Marx ha descritto la struttura fondamentale della democrazia borghese già nel 1840; essa è fondata sull’antitesi fra il cittadino idealizzato e il borghese materialista, l’inevitabile risultato dell’evoluzione del capitalismo è che il capitalista borghese conquista la posizione più alta e il cittadino idealizzato diventa il suo servo. Al contrario, l’essenza dell’evoluzione del socialismo – iniziata con la Comune di Parigi e continuata con le due Rivoluzioni russe – è definita da un nome: consigli operai. Per esprimere ciò sul piano teorico, potremmo dire che è la democrazia della vita quotidiana. L’autogoverno democratico si svolge ai livelli più elementari della vita quotidiana, spingendosi in alto finché non diventa la decisione del popolo nel suo insieme su tutte le questioni pubbliche importanti. Oggi siamo solo all’inizio di un tale processo. Ma non ci possono essere dubbi che le innovazioni che hanno avuto luogo in Jugoslavia, e il fatto che siano state l’oggetto di un dibattito responsabile, contribuirà, nelle nuove circostanze del momento, al successo finale dei consigli operai affinché diventino ancora una volta il principio essenziale di ogni sviluppo socialista.

 

Una volta ha espresso l’idea che l’uomo completo è l’uomo della vita pubblica. Potrebbe soffermarsi su questo punto?

Io credo che siamo interessati qui a un tema fondamentale del marxismo, Marx lo affrontò nei primissimi tempi scrivendo le sue Tesi su Feuerbach. Quando Marx criticò Feuerbach disse che l’approccio di questi al materialismo si fermava alla natura. Nel mondo della natura organica hanno origine alcune specie – ma tali specie – come Marx le definì nelle sue argomentazioni contro Feuerbach – sono silenziose. Il leone, il singolo leone, appartiene alla specie Leone. Ma il singolo leone non sa niente di tutto questo. Quando sta cacciando o procreando dei cuccioli lo fa per soddisfare esclusivamente le sue necessità biologiche e allo stesso tempo – senza che ne sia cosciente – per servire e rappresentare la sua specie. Ora, se Marx dice che la società umana non è una specie muta, questo cosa significa? Per un uomo è precisamente l’unità inseparabile della specie Homo con l’umanità, così come il leone con gli animali o, se volete, l’erba dei prati con le piante.

Rispetto a ciò, tuttavia, l’uomo è coscientemente il membro di una tribù anche a livello più primitivo. Questo fatto stesso, che sia cioè il membro della tribù più primitiva, lo solleva al di là del silenzio che è puramente biologico. Sorge a riguardo una singolare dialettica tra le esigenze della specie verso l’individuo, le responsabilità dell’individuo verso la specie e il reciproco impatto delle due cose sia sulla specie che sull’individuo. Ciò sta alla base dell’evoluzione dell’uomo. Se esaminiamo la storia correttamente, vedremo che questo è il suo reale contenuto. Si aggiunga quanto Marx disse molto tempo fa: lo sviluppo di cui si è avuto finora esperienza – e quanto enorme sia stato lo si può misurare se si confronta l’ascia di pietra con la bomba atomica – è ancora la preistoria dell’umanità.

Per l’uomo la sua storia reale comincerà con il comunismo, quando si sarà lasciato dietro tutte le barriere della società di classe. Precisiamo, mentre analizziamo l’uomo contemporaneo e il suo rapporto con la specie, dovremmo essere consapevoli di trovarci ancora allo stadio preistorico. Interpreterei la cosa nel modo seguente: nello stadio preistorico l’appartenenza alla specie è ancora essenzialmente in antitesi alle esigenze puramente individuali dell’uomo e individuali sono state le eccezioni storiche nelle quali i due aspetti hanno completamente coinciso. Si pensi, ad esempio, all’iscrizione che commemora i 300 Spartani alle Termopili2. Ciononostante, la dialettica si intensifica costantemente. Tale dialettica spingerà un numero sempre più crescente di persone, nel corso della società umana, a riflettere sul fatto che la realizzazione personale può essere possibile solo se le necessità superiori della specie sono accettate come un dovere dell’individuo.

Ciò che affascina in figure come Socrate o Lenin – senza che essi ne fossero necessariamente coscienti – è che il libero sviluppo della loro individualità e l’affermazione delle esigenze della specie, volontariamente assunte, risultano in tale armonia. Direi che ora gli obiettivi marxisti nel comunismo dovrebbero esser tali da far permettere all’uomo di liberarsi dall’intrappolamento del silenzio della specie, in proporzione alla sua capacità di scorgere la realizzazione individuale nei compiti inerenti all’accettazione del suo posto come membro della specie.

 

Ha citato due volte il nome di Lenin, con particolare emozione. Che ruolo ha avuto nella sua vita?

Se vuol dire quanto abbia avuto a che fare con lui personalmente, allora la risposta è: terribilmente poco. I nostri contatti personali sono consistiti nell’aver Lenin scritto in maniera estremamente schietta che il mio saggio sul parlamentarismo era brutto e non marxista. Confesso che fu una di quelle critiche da cui ho imparato molto. Egli – non nella sua critica veramente ma ne L’Estremismo, malattia infantile del comunismo, che affronta la stessa questione – poneva in rilievo la differenza tra il declino di un’istituzione come il Parlamento in una prospettiva storico-mondiale e il suo superamento politico pratico. Io nel mio saggio ho confuso questi due aspetti. Ho appreso moltissimo dal risalto da lui dato alla differenza; in seguito fui in grado di valutare tali questioni in modo più immediato. Si esaurì così, in realtà, il mio contatto personale con Lenin.

Lo incontrai effettivamente al Terzo Congresso del Comintern, ma non bisogna dimenticare che a quel tempo ero solo un membro del Comitato Centrale di un piccolo partito illegale, e quando qualcuno mi presentò a lui nei corridoi, deve aver avuto problemi più urgenti che impegnarsi in una discussione con un ungherese di secondo livello. Nondimeno, il suo comportamento al Terzo Congresso fece un’enorme impressione su di me. Lo studio dei suoi scritti servirono solo a rafforzarla. Più precisamente, vediamo in Lenin, essenzialmente, un nuovo tipo di genuino rivoluzionario. Non si vuole con questo ridurre i meriti dei vecchi rivoluzionari. Ma, si può dire che, dopo la disintegrazione della Polis, ebbe inizio un esperimento tra gli Stoici che mirava al rinnovamento della moralità civica, a creare una nuova aristocrazia capace di agire più giustamente, in contrasto con le inique azioni degli individui. Tracce di quest’atteggiamento e la sua ripresa nel 17° e nel 18° secolo voglion dire che un certo ascetismo si può cogliere nei grandi rivoluzionari. Se si pensa a Robespierre, per esempio, tale ascetismo è molto evidente. Ciò ha influenzato anche il nostro tempo.

Se guardiamo alla nostra epoca rivoluzionaria e a eminenti figure come Otto Korvin in Ungheria3 o Eugen Levine a Monaco4, si comprenderà quello che voglio dire. Questo infatti è ascetismo al più alto grado. Al contrario, già Engels e in particolare Lenin dopo di lui, rappresentano un tipo non ascetico di rivoluzionario. Il carattere rivoluzionario è evidente nel fatto che le inclinazioni individuali non giocarono alcun ruolo nella loro vita e che, anche se presero delle decisioni contro le proprie personali propensioni, non agirono in modo ascetico. Si leggano le descrizioni di Lenin fatte da Gorky – specialmente gli eccellenti brani in cui il leader bolscevico parla dell’«Appassionata» di Beethoven – si vedrà chiaramente come, in contrapposizione a Robespierre e a Levine, rappresenti un nuovo tipo di rivoluzionario che nello stesso tempo si occupa degli affari pubblici e sacrifica sì il suo destino privato in maniera analoga alla vecchia tipologia, ma senza quell’autosacrificio che implica l’ascetismo. Secondo me, l’esempio di Lenin giocherà un ruolo enorme negli svolgimenti futuri.

 

Esiste un rapporto diretto tra ascetismo e Estremismo, malattia infantile del comunismo?

Naturalmente. I rivoluzionari radicali di quel tempo erano soprattutto di tipo ascetico, moltissimi tra loro erano straordinariamente integri e devoti, che – sono convinto – Lenin conosceva perfettamente bene. Non gli sarebbe mai successo di negare che Dutchman Pannekoek o Roland Holst fossero dei sinceri rivoluzionari, nonostante ciò condannò il loro settarismo. Mentre tutto questo per lui si poneva senza dubbio come un problema politico, il problema morale tuttavia resta in secondo piano. Essendo fortemente pratico, egli sapeva che tale problema morale poteva sorgere soltanto in un contesto sociale ad alto livello di sviluppo. Nel dibattito degli anni ’20 fu il suo punto di vista sui problemi concreti – pro e contro il settarismo – che condusse a quelle decisioni politiche per cui si batté.

 

Quale giudizio esprimerebbe oggi sul movimento operaio internazionale alla luce de L’Estremismo, malattia infantile del comunismo?

Guardi, è una questione molto complicata. Indubbiamente, il radicalismo di sinistra gioca un qualche ruolo. Solo, dobbiamo stare di nuovo molto attenti qui a come applicare i giudizi sui problemi storici contenuti nei classici a quelli invece dell’attualità. Chi pensa che un libro scritto da Lenin nel 1920 possa riferirsi alla gioventù americana del 1969 o che la critica di Lenin a Roland Holst possa valere anche per Dutschke commetterebbe un terribile errore. D’altra parte, emerge a questo punto un problema reale, e in questo possiamo ancora imparare da Lenin. Cioè, ci troviamo solo all’inizio di una crisi della società capitalistica. Si ripensi al 1945 e alla vittoria su Hitler, molti credevano che il nuovo capitalismo manipolato l’American Way of Life – avrebbe significato una nuova era nello sviluppo dell’umanità. Dicevano che questo non era più capitalismo ma un qualche tipo di società di un ordine più elevato e così via.

Sono trascorsi venticinque anni da allora e oggi l’intero sistema sta affrontando lo stadio iniziale di una crisi straordinariamente profonda. Sottolineo insieme stadio iniziale e crisi. Stadio iniziale vuol dire la rivolta degli studenti e degli intellettuali, ma si è ancora ben lontani dall’articolare un progetto ben fondato. I programmi proposti sono in generale estremamente naïve. Si ponga attenzione, per esempio, all’affermazione dei giovani secondo la quale il modo per sconfiggere il capitalismo consisterebbe nel trasformare il lavoro in gioco, allora tutto quello che fanno è ripetere quanto il povero Fourier diceva al principio del 19° secolo, e su cui Marx si dimostrò alquanto ironico nel 1840. Ci troviamo quindi di fronte a un movimento molto immaturo, che dovrebbe essere valutato positivamente poiché si oppone alle contraddizioni che sorgono di solito nelle società capitalistiche manipolate. Intendo con questo la guerra del Vietnam, la crisi razziale negli Stati Uniti, l’incapacità della Gran Bretagna di trovare un ruolo post-imperiale, le crisi in Francia, in Germania, in Italia. In altre parole, guardando nella prospettiva storico-globale, ci troviamo alla soglia di una crisi mondiale, la soglia può naturalmente voler dire 50 anni, bisogna essere chiari su questo. Attualmente vedo un grande stimolo pratico per il rinnovamento del marxismo nel fatto che non ci può essere rivoluzione senza una teoria della rivoluzione, come Lenin giustamente affermò nel Che fare?.

Ritornando a quanto in precedenza detto – deve esserci un rinnovamento del metodo marxista in Occidente e anche qui da noi, per intraprendere un’analisi economica e sociale delle acquisizioni del capitalismo: un’analisi che noi marxisti non abbiamo fatto e senza la quale saremo incapaci di individuare i problemi concreti che richiedono soluzione. Fino ad allora non saremo in grado di parlare di un movimento rivoluzionario capace di grandi decisioni. Questa è la ragione per cui considero il rinnovamento del marxismo in quanto tale una questione importante. Ci sono dei problemi anche nei paesi socialisti, perché senza il rinnovamento necessario della teoria non ce ne sarà alcuno nella pratica. Ma chi creda che il capitalismo sarà rovesciato semplicemente da happenings è certo molto naïve.

 

Quali problemi concreti sono sollevati dal rinnovamento della teoria marxista per la pratica dei paesi socialisti? E quali menzionerebbe in particolare?

Ci troviamo di fronte a una vasta gamma di problemi. Cominciamo con le questioni economiche. La Rivoluzione russa, come Lenin sapeva bene, non scoppiò nei paesi capitalisti più avanzati nella forma di una rivoluzione mondiale, ma in un solo paese relativamente arretrato. Questo significa che l’Unione Sovietica ha affrontato un compito eccezionale – non incluso nello schema offerto da Marx, il quale ipotizzava lo scoppio della rivoluzione socialista nei paesi più sviluppati – aumentare la produzione a un livello che avrebbe reso il ‘socialismo reale’ economicamente possibile. Oggi sospetto che Stalin sconfisse i suoi rivali non soltanto perché era l’unico abile tattico tra loro, ma anche perché, innanzitutto, sosteneva più risolutamente il socialismo in un solo paese e la necessità di superare l’arretratezza economica. Ora, l’Unione Sovietica progredì, anche se non completamente, nel periodo stalinista. Rispetto a ciò non si è verificato ancora che la produzione sia diventata normale e, essenzialmente, la produzione che renda possibile la transizione al socialismo. In tale contesto in Unione Sovietica e in tutti i paesi socialisti sorge il problema del «Che fare?» e ad esso non si può dare una soluzione coi metodi stalinisti.

Quando fui intervistato dall’«Unità» (22 agosto 1966) in occasione dell’avvio in Ungheria delle riforme economiche, dissi che il problema va risolto solo con l’introduzione della democrazia socialista. La questione di un nuovo sviluppo economico e la transizione da un sistema stalinista non democratico a una democrazia socialista è un unico complesso di problemi. Non si può risolvere l’uno senza l’altro. Ma, in quanto ciò non è ammesso in molti paesi – e dove alcuni individualmente lo fanno, siamo molto lontani da una soluzione – anche noi, in un certo senso, ci troviamo in una situazione di crisi, che, in qualche modo, dobbiamo superare sia nella teoria che nella prassi. Questo è per noi di vitale importanza perché, senza soluzione alla crisi, non uguaglieremo gli standard mondiali nella nostra produzione. Inoltre un’evoluzione in senso democratico porrebbe rimedio alle gravi carenze create dal sistema staliniano.

Ho raccontato più d’una volta un episodio che era straordinariamente caratteristico al tempo di Lenin; sebbene l’Unione Sovietica, dominata dalla fame, attraversasse una crisi politica, economica e militare, ricordo di aver preso parte a Vienna a molti raduni degli emigrati politici in cui raccoglievamo fondi per coloro che soffrivano la fame in URSS. Non solo la maggioranza degli intellettuali ma anche, e in misura maggiore, gli operai sentivano che quanto stava avvenendo in Unione Sovietica era decisivo per la loro vita. O, se posso esprimermi in latino, «nostra causa agitur» se in Russia volevano edificare il socialismo. Gli sviluppi dello stalinismo hanno avuto il catastrofico risultato a livello internazionale che il sentimento del «nostra causa agitur» ha cessato di esistere nel movimento socialista europeo. Non è vero che un socialista italiano o francese è socialista perché desidera vivere come gli operai sovietici. Non vuole vivere in quel modo. Vorrebbe, se è un vero socialista, una vita socialista, ma non crede che la vita di un operaio sovietico o del contadino di un kolkhoz sia tale. C’è allora una specie di interdipendenza tra le due crisi. Fino a quando non riusciremo a far rivivere la teoria socialista derivante dal marxismo, fino a quando non riusciremo a renderla realtà vivente nei paesi socialisti, lo straordinario potere d’attrazione del socialismo – che è durato dal 1917 all’epoca delle Grandi Purghe circa – e con esso la simpatia internazionale, non può rinascere. In tale ambito i due grandi problemi inerenti alla riforma sono direttamente interdipendenti.

Il fondamento della suddetta interdipendenza – non lo rimarcherò mai abbastanza – è nella ripresa della teoria marxista.

 

Molti parlano di riforme economiche nei paesi socialisti. Secondo lei, compagno Lukács, è possibile riformare solo l’economia?

Non si può considerare l’economia come una cosa a sé stante. La gente qui – e anche in Occidente – commette l’errore di pensare che una disciplina con relativa cattedra universitaria costituisca nella realtà un’entità indipendente. Io posso fare delle lezioni di economia all’università senza menzionare la società o la ideologia e così via, ma ciononostante il processo economico reale si è sempre configurato come la base e la chiave di volta dell’intera società. Voglio dire, in altre parole, che è necessario rinnovare non solo l’economia marxista ma il marxismo stesso.

Marx non fu mai un economista puro e semplice nell’accezione data ai nostri accademici. Se si esamina attentamente ogni pagina del Capitale vedremo tutta una serie di cose che saremo portati a classificare sotto la rubrica di sociologia e storia. Ma Marx fu un grande pensatore e come tale non si preoccupava minimamente di simili rubriche e prendeva in considerazione lo sviluppo sociale nel suo complesso. Perciò, come ho già detto, in Ungheria sostengo l’idea che il nuovo sistema economico non può realizzarsi senza un’opera di riforma della democrazia socialista.

Sono convinto che molti difetti e ostacoli che troviamo nei nuovi meccanismi economici derivano precisamente dal fatto che abbiamo introdotto una regolamentazione economica senza aver tenuto conto delle sue basi sociali e averle riformate. Poiché anche qui il problema è legato al rinnovamento dei fondamenti del metodo marxista. Vede, si possono dire molte cose su Marx, eccetto che fosse un economista di professione come qualche professore in Ungheria o in Jugoslavia sembra pensare – dubito anche che i peggiori nemici di Marx pensino questo di lui. A questo punto – non pensando a noi stessi come a una specie di secondi Marx – è necessario ritornare alla sua metodologia nei nostri sforzi, concezioni e obiettivi.

 

Non ha detto molto sul problema della politica delle nazionalità. Questo significa che non ha niente di speciale da aggiungere a riguardo?

Sono dell’idea che quanto detto da Marx e da Lenin – spiacente di essere così ortodosso – fosse assolutamente corretto. Marx affermava che un popolo che ne opprima un altro non può essere libero e chiedeva l’autonomia per ogni nazione anche fino al diritto di secessione. Si pronunciavano, in proposito, sui fattori di interdipendenza, senza i quali una crescita in senso socialista non può tradursi in realtà all’interno di uno stato multinazionale. Essi hanno formulato tale concetto di interdipendenza molto accuratamente e sarebbe nostro compito applicarlo concretamente come e dove sia possibile e necessario.

 

«Sarebbe?»

Sì. Deve essere applicato sul serio in ogni caso. Abbiamo discusso finora di questioni ideologiche. Non ho intenzione di occuparmi di questioni di politica quotidiana. Ma come ungherese e osservatore distaccato, in generale preferisco piuttosto il modo con cui avete risolto un simile problema in Jugoslavia. Penso che alcuni passi siano stati fatti verso una soluzione improntata al marxismo-leninismo. Se ci sono aspetti negativi, allora dovremmo forse evitare di menzionarli nella discussione.

 

Una convinzione si è diffusa all’interno del cosiddetto marxismo ufficiale: cioè, che con la trasformazione dei rapporti di proprietà la questione nazionale nei paesi socialisti, in generale, si risolverà da sé.

Lenin non ha mai detto di qualche problema in nessun momento che questo si sarebbe risolto da sé. Nel corso di una lunga vita, sia nelle piccole faccende private o negli affari pubblici più importanti, non ho mai trovato dei problemi che si fossero appianati spontaneamente.

 

La frase era tra virgolette.

Molto bene, traduciamo allora le virgolette. Se voglio fumare una sigaretta devo andare giù in negozio e comprare un pacchetto di Kossuth, poiché se non lo faccio non potrò fumarne una. Non è mai successo nella mia vita che io, un socialista, mi sieda in questo appartamento e che le sigarette arrivino sul mio tavolo di propria iniziativa. Ugualmente, credo che nessun problema sia più facilmente risolvibile nelle maggiori questioni sociali che in quelle futili della vita quotidiana.

 

Se guardiamo alla situazione attuale del marxismo alla luce degli scritti dei suoi più illustri rappresentanti, non solo essi si trovano in gran disaccordo tra di loro, ma su molte questioni ciascuno rifiuta le idee degli altri o le critica duramente. Come giudica il carattere sempre più polifonico del marxismo?

C’è nella domanda il sottinteso che un simile poliformismo potrebbe rappresentare un fenomeno positivo per la filosofia marxista. Io ho le mie riserve in proposito. Apprezzo il fatto che ci siano delle persone in ogni paese che dicono: «Ora analizzerò tale questione» o «assumerò una posizione su tal altro problema». Senza dubbio, è un fenomeno positivo. Porta come conseguenza che il marxismo contemporaneo presenta un carattere polifonico e polimorfico – qualcuno direbbe pluralistico. Mi si lasci esprimere un dubbio a questo punto. Il marxismo, proprio come ogni altra cosa, soggiace alla regola secondo la quale esiste solo una verità.

La Storia o è storia della lotta tra le classi o non lo è. Ora, si può discutere in ambito storico se la lotta di classe si sia svolta in un modo o nell’altro, ma è una cosa del tutto diversa. Solo, dobbiamo essere consapevoli che, oggettivamente, in ogni questione può esserci un’unica verità. Non condanno dunque il poliformismo esistente, ma credo che siamo soltanto all’inizio di una soluzione ideologica dell’attuale crisi. Delle tendenze si opporranno ad altre, fino a quando non arriveremo alla verità, pur tuttavia, pongo nuovamente in rilievo che ne esiste solo una e un siffatto poliformismo mostra che siamo sulla buona strada. Sarebbe comunque estremamente spiacevole accettare concetti borghesi sbagliati e vedere nel pluralismo un ideale sicuro e pensare che sia vantaggioso un marxismo idealista o materialista, causale o teleologico, in una maniera o nell’altra. Lasciamo tutto ciò alla manipolazione capitalista – essa è in grado di inventare le sue proprie teorie per il marxismo.

Dobbiamo essere chiari sul fatto che in ogni punto in discussione c’è solo una verità e che noi marxisti ci stiamo battendo perché emerga. Fino a che non si manifesterà, tali tendenze continueranno ad essere in conflitto, e, mi sento obbligato ad aggiungere, personalmente mi schiero contro ogni tentativo di accelerare il processo con metodi amministrativi. I problemi ideologici vanno risolti ideologicamente. Nello stesso tempo, penso che sia necessario tenersi alla larga dal pluralismo all’occidentale e adottare il principio che per ogni questione abbiamo di fronte una sola verità. Può accadere che io stesso mi trovi in disaccordo con voi in Jugoslavia su questo. Ho già detto che le simpatie di una persona non dipendono dal generale consenso, ma dal sentimento che tutti stiamo collaborando a una stessa grande causa e che – pur trovandoci coinvolti in polemiche molto aspre – abbiamo ben chiaro che tali polemiche tornano utili allo stesso obiettivo.


Traduzione di Massimo Capicotto

Note
1 «Nyugat», che significa Occidente, era un periodico letterario d’avanguardia che dava il tono alla letteratura ungherese nel periodo precedente alla prima guerra mondiale.
Sull’iscrizione si legge: «Straniero, riferisci agli Spartani che noi qui giaciamo tenendo fede alla loro parola».
3 Otto Korvin era un intellettuale socialista che ricoprì un ruolo molto importante nella Comune ungherese del 1919. Egli pensava che l’accettare la morte fosse il dovere più grande di un rivoluzionario, e si rifiutò deliberatamente di fuggire da Budapest dopo la caduta della Comune. Fu giustiziato dal Terrore Bianco.
Eugen Levine fu un leader, di origine russa, del Partito Comunista Tedesco a Monaco, durante la Repubblica dei Soviet di Bavaria nel 1919. Fu giustiziato dalla controrivoluzione dopo la caduta della Repubblica. In un famoso discorso al suo processo dichiarò: «Noi comunisti siamo tutti dei morti in licenza straordinaria».
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