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Ascesa e declino nella storia economica d’Italia

G. Gabbuti intervista Emanuele Felice

9f6e4a5cover25785Con Ascesa e declino. Storia economica d’Italia (il Mulino, Bologna 2015, 392 pp), Emanuele Felice offre una sintetica ma assai documentata narrazione dell’evoluzione dell’economia italiana dall’Unità ad oggi. Classe 1977, abruzzese, Dottorato a Pisa, Felice è recentemente rientrato in Italia come Professore Associato presso l’Università D’Annunzio di Chieti-Pescara, dopo un periodo di cinque anni all’Università Autonoma di Barcellona. Il suo libro è per certi versi il primo tentativo di sintesi della storia economica italiana a seguito della grande crisi – non solo quella globale ed europea degli ultimi anni, ma quella più generale italiana, che le precede di almeno due decenni. L’ultima grande sintesi accademica – quella di Vera Zamagni, intitolata Dalla Periferia al centro – si chiudeva infatti con il 1990: e già all’epoca, osservatori come Marcello De Cecco si chiedevano con amara ironia se il titolo non avrebbe dovuto essere integrato, già dalla seconda edizione, con un “…e ritorno”. Felice, che in un recente articolo con Giovanni Vecchi ha certificato questo “ritorno” nelle misure di produzione come il PIL, nel suo libro estende l’analisi alla grande mole di dati prodotti dalla storiografia economica italiana negli ultimi decenni. Relegando tuttavia la gran parte delle serie storiche nell’appendice online, i dati vengono evocati nel testo in modo da venire incontro al lettore non tecnico, non sovrastando ma accompagnando costantemente la narrazione storiografica. Proprio per questa caratteristica, Ascesa e Declino sta generando un dibattito abbastanza insolito per la disciplina sui giornali, con qualche eco anche nel dibattito politico interno al Partito Democratico. Per questo, il libro si presta a ragionare non solo della storia economica italiana, ma anche di come questa possa interrogare il presente, di quale ruolo debba avere come disciplina all’interno della formazione e del discorso pubblico italiani. Per questo motivo vi proponiamo un’intervista, come prima pietra di un focus tematico sulla storiografia economica e sociale italiana.

***

Il libro è organizzato seguendo le categorizzazioni classiche della storiografia italiana – Italia Liberale, Fascismo, Dopoguerra (prima e dopo Bretton Woods). Molti tuoi colleghi, in effetti, si sono concentrati su uno solo di questi periodi. Traendo beneficio dalla prospettiva di lungo periodo, è corretto mantenere questa tradizionale suddivisione rigida, o prevalgono elementi di continuità nello sviluppo italiano, come sostenuto ad esempio da Rolf Petri?

Sicuramente esistono elementi di continuità, ed è anche normale che sia così. Rolf Petri si concentrava soprattutto sull’impresa pubblica creata negli anni Trenta del Novecento (l’Iri), che poi sarà uno dei pilastri su cui poggerà il miracolo economico. Ma vi sono state continuità – di istituzioni, di politiche, di classi dirigenti – anche fra l’età liberale e il fascismo, specie negli anni Venti; e ovviamente nella seconda metà del Novecento, fra gli anni Sessanta e la successiva fase di rallentamento e poi declino.

Nonostante ciò, non direi che a prevalere sia la continuità. Sopraggiungono elementi di rottura piuttosto forti, netti: nel contesto internazionale, anzitutto, e in almeno tre periodi (età liberale, fascismo, Repubblica) anche nel «regime» interno che ne consegue, il quale cambia completamente; in un caso, il fascismo, retrocedendo verso forme più estrattive e autoritarie (con risultati pessimi); successivamente, con la Repubblica, segnando un balzo netto del sistema italiano verso un assetto più inclusivo.

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Un ruolo predominante, nella tua interpretazione delle vicende italiane, è attribuito alle classi dirigenti. Da dove vengono? Sono un portato delle forme in cui il capitalismo italiano si è evoluto – piccola impresa, scarso investimento tecnologico e formativo – o della nostra storia (recente, ma non solo)? È possibile “creare” migliori classi dirigenti, e come?

Le classi dirigenti, almeno quelle imprenditoriali, discendono sicuramente dall’assetto produttivo del sistema Italia (e storicamente non solo quello industriale: si pensi ai latifondisti nel Mezzogiorno). Tuttavia ci sono anche altri fattori in gioco, piuttosto complessi. L’ideologia (liberalismo, nazionalismo, socialismo, cattolicesimo sociale) ha un ruolo importante, così come lo hanno vicende politiche particolari e non di rado casuali (l’affermazione del fascismo in Italia, ad esempio, non era affatto inevitabile; lo stesso dicasi, con le dovute differenze, per il ventennio berlusconiano; e si noti che entrambe queste stagione hanno visto emergere, pur se solo in parte, una nuova classe dirigente).

Ciò premesso, le classi dirigenti si possono certo migliorare con politiche dedicate. Molti paesi non a caso di successo (Germania, Francia, Giappone) hanno prestato particolare attenzione a questo aspetto. L’Italia nel complesso della sua storia è stata un po’ deficitaria e questo tema nel dibattito attuale continua a essere, purtroppo, sottovalutato. Tale noncuranza è ancora più preoccupante perché di recente la situazione della nostra classe dirigente si è fatta particolarmente critica. Mi spiego. Durante il miracolo economico la formazione della classe dirigente poggiava su tre pilastri: le grandi organizzazioni del capitalismo italiano (imprese private e pubbliche dalla Fiat all’Iri, istituzioni finanziarie), i moderni partiti di massa, ma anche un sistema di istruzione di base e superiore tutto sommato apprezzabile (con elementi del sistema francese e di quello tedesco, e la progressiva tendenza a diventare più inclusivo in modo da valorizzare il merito). Oggi due di quei pilastri praticamente non ci sono più, mentre il terzo è in una situazione molto difficile (le università italiane sono drammaticamente indietro nei ranking internazionali); sull’altro piatto della bilancia, va detto che è stata avviata una riforma della pubblica amministrazione che prevede l’istituzione di scuole di alta formazione per i dirigenti pubblici i cui effetti – forse molto positivi – saranno da valutare nei prossimi anni. Su di un piano più generale, il modo migliore per formare classe dirigente è investire, in genere con soldi pubblici, nell’istruzione di base e avanzata. In Italia questo è ancora più importante perché da noi invece gli investimenti privati latitano, per le storiche debolezze della grande impresa accentuatasi negli ultimi decenni.

Vorrei però sottolineare che oggi la dimensione nazionale della classe dirigente conta relativamente meno. Noi abbiamo bisogno di creare una classe dirigente europea e questo è un problema che tutta l’Unione dovrebbe porsi – e su cui siamo in drammatico ritardo.

 

In questi tempi va molto di moda, non solo tra gli economisti, il saggio di Acemoglu e Robinson – Perché le nazioni falliscono – che indica con forza come siano le “istituzioni” a determinare in maniera cruciale l’insuccesso o il successo dei diversi Paesi del mondo. Tuttavia, si può dire che non ci sia molto accordo tra gli studiosi su come vadano definite e come funzionano queste istituzioni. Quale definizione daresti, da storico economico, di questa “scatola nera”? Vi rientra la “classe dirigente”? Quanto pesano le istituzioni nella storia economica del nostro Paese?

Le istituzioni sono certo un oggetto difficile da definire, e ancor più da studiare, perché particolarmente complesso. Su che cosa siano e come funzionano si confrontano, naturalmente, più scuole di pensiero, da diversi campi disciplinari. Ai fini dell’analisi storica, una definizione accettabile, oltre che semplice, può essere quella che le considera come un insieme di regole, formali e informali, che informano e limitano l’azione umana; sono integrate dall’ideologia (o le credenze, se vogliamo) e dalle organizzazioni. In sé la classe dirigente non può essere considerata un’istituzione. Piuttosto ne è il prodotto: per essere più precisi, è il prodotto di un determinato assetto socio-istituzionale (dove il suffisso “socio” sta per sociale, riferito alla società: la forza, anche in termini meramente materiali e numerici, dei diversi ceti sociali – borghesia industriale, proprietari terrieri, burocrazia, classe operaia, ecc.). La classe dirigente è però molto importante perché costituisce l’anello di congiunzione fra l’assetto socio-istituzionale e le politiche economiche messe in campo, le quali a loro volta possono anche cambiare l’iniziale assetto socio-istituzionale. Ecco allora che si può creare una situazione di “dipendenza dal sentiero” (path dependence), con risultati positivi o negativi a seconda della situazione di partenza. Un esito negativo è quello prodottosi nel Sud Italia, dove un certo assetto di tipo estrattivo non è stato sostanzialmente mai superato – pur mutando i suoi caratteri di fondo nelle diverse epoche storiche. Per l’Italia nel suo insieme, il giudizio è più complesso. Vi è stato un periodo, dalla fine dell’Ottocento agli anni Sessanta del Novecento, in cui il nostro assetto socio-istituzionale stava evolvendo in maniera più inclusiva, e tutto ciò generava anche una classe dirigente meglio preparata, oltre che una certa crescita economica; persino i contraccolpi negativi del fascismo furono attenuati da una classe dirigente di estrazione liberale, i cui eredi hanno poi partecipato da protagonisti anche al miracolo economico. Poi però quel circolo virtuoso si è interrotto – probabilmente per l’incapacità del sistema politico di assumere e porre in atto la logica dell’alternanza democratica, fra gli anni Settanta e Ottanta. E da allora non a caso siamo entrati in una fase di progressivo declino, fattosi via via più accentuato nella seconda Repubblica, mano a mano che anche il livello della classe dirigente peggiorava.

Ma ritornando alla domanda iniziale: le istituzioni contano nella storia di ogni paese, e l’Italia non fa eccezione. Da noi forse contano mediamente un po’ di più perché, essendo il nostro paese generalmente povero di risorse naturali: più di altri, noi dovevamo far leva su istituzioni adeguate per promuovere i fattori “immateriali” dello sviluppo. Dopo una certa esitazione iniziale, per un po’ ci siamo riusciti. Ma ad un certo punto quel processo virtuoso si è interrotto.

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De Gasperi, Nenni e Togliatti ai tempi del primo governo De Gasperi (1946-47). Foto Olycom

 

Sin dal titolo, il libro propone con forza il tema del declino – tema che non è in effetti al centro di molta letteratura economica. Come lo studio storiografico del declino – quello italiano, ma non solo – può aiutarci a comprendere (e affrontare) le sfide del presente?

Da questo punto di vista l’Italia è un paese particolarmente affascinante perché, oltre alla fase attuale di declino, ha attraversato nel corso della sua storia millenaria diverse epoche altalenanti ­– di ascesa e, appunto, di declino. E di solito poi quelle di espansione economica hanno portato ad alcune delle esperienze più affascinanti dell’avventura umana, anche in ambito artistico e culturale, da Lucrezio a Dante, fino al Rinascimento.

Lo studio del declino serve ovviamente a comprendere le sfide del presente, dato che oggi stiamo vivendo, ancora una volta, il declino. Una prospettiva storica di lungo periodo può fornire utili elementi di confronto. Due esempi, anche se per farli dovrò semplificare molto: l’Italia romana – e con essa l’impero romano d’Occidente ­– è crollata nel V secolo perché rimasta priva di una classe dirigente ed era diventata preda dei piccoli Cesare di turno, a differenza dell’impero romano d’Oriente (che poggiava sulla burocrazia della corte bizantina); l’Italia del XVII secolo è declinata perché ostaggio delle corporazioni e di un assetto socio-istituzionale (con annessa mentalità) aristocratico ed estrattivo, che scoraggiava gli investimenti produttivi e l’innovazione.

 

Nel libro si dà molta enfasi alla capacità che ha avuto l’Italia – Paese “trasformativo” di materie prime necessariamente provenienti dall’estero – di cogliere le opportunità offerte dall’economia internazionale. I periodi di prosperità hanno sempre coinciso, per noi italiani, con un più generale equilibrio nell’economia mondiale (Gold Standard, Bretton Woods), e in fondo il ruolo delle classi dirigenti è stato quello di cogliere o intralciare queste opportunità. Quali sono, secondo te, le acque in cui ci troveremo a navigare nel prossimo futuro? È possibile immaginarsi un ritorno alla cooperazione, o dobbiamo aspettarci scenari diversi – simili magari al periodo tra le due guerre, in cui comportamenti non cooperativi tra Paesi e banche centrali hanno amplificato l’impatto della crisi del 1929, e alla fine del Gold Standard?

Noi attraversiamo una fase dell’economia internazionale molto difficile, caratterizzata da un rallentamento strutturale del tasso di crescita a fronte di un costo del denaro bassissimo (come forse mai nella storia umana, praticamente al minimo): se arriverà una nuova crisi – probabile, viste le debolezze dei paesi emergenti e la perdurante fragilità dell’euro – ci sarà ben poco che i banchieri centrali potranno fare per allentare la tensione. Anche nel commercio internazionale, benché viviamo in un mondo molto più globalizzato rispetto agli anni fra le due guerre, la situazione è meno favorevole che in passato: l’ultima grande consultazione per un accordo generale (il WTO) è fallita e ora si punta sugli accordi “regionali” (cioè continentali: fra Usa ed Europa, Usa ed Estremo Oriente); questi però sono, per natura, a carattere geo-politico e quindi tendono ad escludere, per ragioni extra-economiche, alcuni dei produttori più efficienti (è il caso della Cina nell’accordo di cooperazione fra le due sponde del Pacifico); sono molto meno utili per il “benessere aggregato”.

Ciò nonostante, non siamo in una fase simile agli anni Trenta: vi è da tempo, consolidata, una cooperazione molto stretta in una parte significativa dell’economia mondiale, che va dal Giappone all’Unione Europa passando per gli Stati Uniti; benché assai più labili, mi pare che i meccanismi di cooperazione funzionino ora anche all’interno del G20, un consesso che copre la stragrande maggioranza del Pil e dell’economia mondiali. Tutto questo negli anni Trenta non esisteva. Un rischio però simile a quel periodo lo corriamo: che la prolungata depressione, una volta esaurite le possibilità di intervento dei banchieri centrali, favorisca come risposta la crescita delle spese militari (è il keynesismo bellico); saldandosi così con rigurgiti nazionalisti o da guerra santa già palesatisi ovunque nel mondo. Questo processo, che è in parte già iniziato, potrebbe effettivamente sfuggire di controllo, facendo deragliare anche i meccanismi di coordinamento che pure sono in campo.

 

A proposito del paragone di prima, tra i tuoi colleghi, più che tra gli economisti, prevale un giudizio piuttosto negativo nei confronti dell’Euro e delle politiche monetarie europee. Specialmente tra gli anglosassoni, mostri sacri come EichengreenTemin gli attribuiscono direttamente le responsabilità della crisi europea, mentre O’Rourke esorta addirittura a “passare oltre l’Euro”. Nell’enfasi condivisibile che poni sui “fondamentali” del sistema Paese, non si perde un po’ il ruolo giocato dalla politica monetaria – dal divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia, che rese quest’ultima “indipendente” e giocò un ruolo non irrilevante nell’esplosione del debito pubblico italiano, alla stessa decisione di entrare nel Sistema Monetario Europeo e poi nell’Euro?

Allora, cominciamo dalla fine. Bisognerebbe ricordare che il divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia fu deciso, all’inizio degli anni Ottanta, per contenere l’inflazione, giacché quel divorzio voleva dire che il Governo non poteva più chiedere alla Banca d’Italia di stampare moneta; e che un’inflazione elevata è all’origine degli alti tassi d’interesse che si pagano sul debito. Se poi il debito pubblico è ulteriormente peggiorato, il motivo è che la politica non ha saputo riformarsi, contenendo le spese quando ci trovavamo ancora in una fase espansiva (gli anni Ottanta) e le condizioni dell’economia internazionale erano più favorevoli; cioè, quando sarebbe costato meno. Stiamo attenti quindi a non confondere la causa con l’effetto.

Successivamente, qualche cosa di simile è avvenuto con la moneta unica: il sistema italiano ha accettato di imporsi dei vincoli, più stringenti, che richiedevano un salto verso un nuovo modello di sviluppo, incentrato su investimenti in ricerca e innovazione e sull’efficienza della funzione pubblica ­– amministrazione, giustizia, politica. Solo che poi non sono seguiti i fatti, cioè le necessarie riforme in questi tre ambiti, e non a caso l’Italia ha iniziato ad andare male, peggio dei suoi partner europei (male nel tasso medio di crescita di lungo periodo, non tanto e non solo in singoli anni). E questo è avvenuto da ben prima dello scoppio della crisi del 2008.

Ciò detto, non v’è dubbio che dal 2008 a oggi le politiche deflattive della zona euro, rispetto a quelle più espansive degli Stati Uniti, hanno aggravato la situazione. Inoltre, l’euro è stato fatto male, con una regia politica di secondo livello, che premia la contrattazione fra i governi più che il ruolo del Parlamento europeo e della Commissione, favorendo quindi i governi più forti anche se non maggioritari in termini di popolazione – che poi sarebbero la Germania e i loro alleati; i quali, per ragioni istituzionali interne, non vogliono l’inflazione. La soluzione a questo dev’essere più Europa, non meno Europa: avviare l’Unione fiscale e quindi politica. Il mio timore è che – stante l’attuale situazione internazionale – se questa prospettiva prenderà effettivamente corpo sarà anzitutto nell’ambito militare, per creare un budget comune sulla difesa, con tutti i rischi di tipo geo-politico che ciò comporta. D’altra parte, l’uscita dall’euro anche del paese più piccolo (per non parlare dell’Italia) scatenerebbe una crisi finanziaria mondiale dalle conseguenze imprevedibili e molto probabilmente disastrose.

Perché siamo arrivati a questo punto? Io credo perché è mancata, soprattutto tra le forze progressiste, piena consapevolezza della sfida europea e dell’importanza di costruire un’Europa politica. Costruirla doveva essere un obiettivo prioritario soprattutto per le forze che rappresentano il mondo del lavoro, che è infatti il grande perdente di questa partita; invece, l’Europa della moneta unica va benissimo al capitale e a chi per pagare meno tasse gioca (legittimamente) sulla competizione al ribasso nei livelli di imposizione fiscale.

 

In un celebre articolo di un quarto di secolo fa, lo storico economico David Landes si chiedeva “Perché noi siamo ricchi e loro sono poveri?”. Noi era l’”occidente”, loro il resto, e la risposta, un po’ brutale, era “noi” siamo bravi (abbiamo buone istituzioni) e “loro” così scarsi, ma anche il contrario – “noi” siamo avidi e meschini, tanto da colonizzare “loro”. Dove collocare l’Italia: tra “noi” o “loro”? Cosa ha spiegato sinora – e cosa spiegherà, domani – i nostri successi: la capacità di superare le sfide, o cosa ci metteranno nel piatto i grandi attori economici?

Su scala globale, e in una ricostruzione storica, l’Italia va posta sicuramente fra i “noi”. E trovo la risposta di David Landes, per quanto in apparenza ambivalente (ma la storia è spesso così: non si fa tagliare con l’accetta e non ha giustizia), condivisibile in linea di massima.

Per il resto, non siamo più ai tempi dell’impero romano: l’Italia contemporanea conta poco per la definizione degli assetti mondiali – forse l’epoca in cui ha avuto più peso è stata quella fra la prima e la seconda guerra mondiale, con esiti disastrosi. Dobbiamo quindi sostanzialmente assumere come dato il contesto geo-politico mondiale, sapendo che riusciamo a influenzarlo poco. Quello che possiamo fare è attrezzarci al meglio per superare anche le sfide più difficili, dotandoci dei fondamenti socio-istituzionali di un grande paese avanzato: di nuovo, gli investimenti in ricerca e sviluppo e nei settori più avanzati; le riforme nell’amministrazione, nella giustizia e nella politica; e naturalmente una classe dirigente lungimirante in grado di dedicarsi con coerenza e convinzione a quest’opera di lungo periodo.

1925 belgian gp antonio ascari alfa romeo p2 1st giulio ramponiAntonio Ascari, vincitore del primo Gran Premio del Belgio alla guida di una Alfa P2 (28/06/1925). Morirà il mese seguente, nel Gran Premio di Francia. Ciò non impedirà all’Alfa Romeo di aggiudicarsi il primo Campionato Mondiale di Automobilismo.

 

Il libro dà conto, soprattutto nella prima parte, dell’enfasi che la nuova “scuola” di storici economici ha portato alla descrizione dei livelli materiali di vita, delle condizioni di salute così come della distribuzione delle risorse, e allo studio della povertà. Alla fine, però, lo storico economico sembra sempre costretto a usarle come variazioni sul tema chiave – come va il PIL?  Può essere l’osservazione storica a fornirci nuovi modelli interpretativi dello sviluppo economico, o dobbiamo aspettare che siano gli economisti ad andare oltre la mera “crescita” del PIL?

Io credo né l’una né gli altri. Il modo in cui guardiamo la storia dipende dal modo in cui viviamo nel presente. Dalle domande che ci facciamo oggi, nascono anche le domande che rivolgiamo al passato. Se continuiamo a interrogarci soprattutto sul Pil, è perché il Pil, che approssima il reddito, è la misura dominante nelle nostre società capitaliste e di mercato; è quella che ne sintetizza meglio i valori di riferimento. Quando cambierà la società, il modo in cui è organizzata, la sua ideologia, allora forse cambieranno anche le domande che ci porremo e magari, finalmente, considereremo la speranza di vita o l’istruzione più importanti del reddito. Questo naturalmente dovrebbe essere un processo che coinvolge tutti: anche gli storici e gli economisti, certo, ma soprattutto in quanto cittadini.

Però vale la pena aggiungere che per cambiare è fondamentale capire (almeno un po’) dove stiamo andando. E forse per capire dove stiamo andando, la storia è più utile dell’economia: nella scienza storica, se fatta bene, c’è in fondo anche l’economia, con le sue glorie e i suoi limiti; ma nell’economia c’è la storia?

 

Il libro segue di un anno un altro – Perché il Sud è rimasto indietro – in grado di sollevare un acceso dibattito tra i meridionalisti, non solo accademici. Questa tua attività divulgativa va in aperta contro-tendenza con le abitudini dei tuoi colleghi – tantoppiù in un momento in cui le regole accademiche penalizzano questo tipo di attività. Cosa spinge uno storico economico accademico a scrivere questi libri? Cosa ha di urgente da dire la storia economica agli italiani?

Provo a rispondere accennando a quello che avevo da dire io: pensavo di aver fatto delle ricerche interessanti – sull’origine, l’evoluzione e le cause dei divari regionali; sulla ricostruzione e l’interpretazione dell’economia italiana – e che valesse la pena di raccontarle a un pubblico più vasto, al di là di una ristretta cerchia di specialisti in cui già circolavano. Questo è un po’ controcorrente, è vero. Ma non troppo. Nel mondo anglosassone, o anche in quello francese, ci sono degli ottimi accademici che sono anche splendidi divulgatori. Credo sia ancora un po’ così anche in Italia. Ed è un bene: una società che dialoga in modo diretto con la sua cultura alta è più forte e coesa – oltre che più “saggia”, mi si passi il termine – di una in cui vige una rigida separazione.

Per quel che riguarda più nello specifico la storia economica, come dicevo ritengo che la storia possa essere molto utile per comprendere le sfide del presente; e che quella economica lo sia per capire meglio i due grandi problemi economici che abbiamo oggi in Italia, il declino degli ultimi quindici anni e il perdurante divario Nord-Sud.

 

Uno dei sette capitoli è dedicato proprio alla disciplina della storia economica, a come è cambiata e a come dovrebbe evolvere. Eppure, proprio per quella natura “in bilico tra due culture” che ne fa, per alcuni, “la regina delle scienze sociali”, la storia economica italiana rischia di trovare sempre meno spazio nelle università italiane, e di uscire annientata dalla più generale crisi della nostra università. È possibile invertire la rotta? Quale dovrebbe essere il ruolo della storia economica nella formazione degli italiani?

Io non posso che dirle che dovrebbe avere un grande ruolo, ma questo è un giudizio di parte. E poi, a dire il vero mi piacerebbe che si studiassero di più anche le discipline scientifiche e la filosofia. In generale, vorrei che in Italia si studiasse di più e meglio.
Sul declino accademico della storia economica, a quel che ho capito ci sono due ordini di ragioni. Uno di matrice internazionale: l’economia, specie quella particolare versione neo-classica che si considera la “fisica della società” e quindi crede di descrivere leggi immutabili nel tempo, è per natura poco interessata alla storia (e persino all’osservazione fattuale); la storia, dal canto suo, negli ultimi decenni si è interessata più allo studio della psicologia e della cultura, trascurando i caratteri “materiali” che sono invece propri della storia economica – ed erano al centro della storiografia marxista tradizionale, come pure di quella liberale. Un altro ordine di ragioni è invece di matrice interna, e si ricollega all’incapacità della nostra storia economica di aprirsi al dibattito internazionale: nella convinzione, nella presunzione, che l’Italia non interessasse oltre confine, o che fosse troppo singolare da meritare un approccio comparativo; oppure semplicemente per pigrizia.

 

Proprio con l’uscita di questo secondo libro, hai intensificato anche l’attività di editorialista su La Stampa. Gran parte delle tue analisi si concentrano sugli effetti, più o meno evidenti, dell’azione del Governo. Da storico del declino, e feroce critico delle classi dirigenti italiane, come giudichi l’azione di Renzi? In particolare, l’enfasi sulla “rottamazione” e sulla “velocità” può contribuire a sbloccare un Paese incancrenito, o rischia al contrario di produrre crisi di rigetto – se non a diluirsi per via dei compromessi necessari al raggiungimento degli “obiettivi”?

L’enfasi di per sé non conta nulla, contano le cose che si fanno. E Renzi sta facendo molte cose, anche se non tutte vanno nella direzione giusta. Fra quelle positive, c’è la riforma della pubblica amministrazione – che però deve essere ancora attuata. Fra quelle negative, la mancata riforma del catasto sugli immobili e la contestuale abolizione della tassa sulla prima casa. Altri interventi importanti, come la riforma/abolizione del Senato, non è facile valutarli adesso: vedo luci e ombre, in generale mi pare che vadano nella direzione giusta, ma poi nella concreta attuazione potrebbero anche rivelarsi un fallimento.

Il punto però è che Renzi da solo non salva il Paese. Renzi vincerà la sfida se saprà dotarsi di una classe dirigente preparata e lungimirante, in grado di attuare nel medio periodo un’ampia e articolata strategia di riforma della macchina dello Stato ­– nei suoi diversi gangli che richiedono, ognuno, elevate competenze tecniche. Altrimenti, si scontrerà con la burocrazia, perderà e ci saranno sicuramente crisi di rigetto (in parte questo è già avvenuto, ad esempio con la riforma della scuola).
Aggiungo che il discorso sulla classe dirigente riguarda anche gli imprenditori. Ad esempio, la Confindustria “senior” mi pare abbastanza adagiata su posizioni di rendita, in linea con una tradizione che dura ormai da quarant’anni. Al contrario quella Giovani ultimamente mi sembra un po’ più consapevole delle sfide che abbiamo di fronte.

 

Michele Salvati sul Corriere ha scritto che Ascesa e Declino è “un libro che qualsiasi italiano preoccupato per il destino del suo Paese dovrebbe avere nella sua biblioteca, per quanto piccola”. Da buon “quantitativo”, conoscerai bene i dati sulle vendite di libri in Italia: qual è il messaggio che daresti, in poche righe, a quegli italiani preoccupati che non leggeranno il tuo libro?

Di ricordarsi che la chiave di tutto, ma proprio di tutto, è la conoscenza.

Dopodiché, se vogliono farsi passare le preoccupazioni ci sono rimedi migliori del mio libro.

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