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criticamarx

Il processo decostituente

Luigi Ferrajoli

La legge di revisione costituzionale recentemente approvata rappresenta la demolizione non solo dellaCostituzione repubblicana del 1948, ma del paradigma stesso della democrazia costituzionale. Decostituzionalizzazione della democrazia e costituzionalizzazione del berlusconismo. La battaglia in difesa della costituzione.

         Ogni carta costituzionale può essere considerata come la carta d’identità dell’ordinamento da essa costi­tuito e disegnato. Ciò vale per la Costituzione italiana del 1948, come per tutte le altre co­stituzioni, le quali sono di solito, se degne del loro nome, patti di con­vivenza generati dall’accordo di tutte le forze politiche rappresen­tative delle società cui sono desti­nate. La legge di revisione costitu­zionale recente­mente approvata dalla maggioranza berlusconiana è invece la carta d’identità della destra, che riflette la concezione e soprattutto la pratica della demo­crazia che è propria di questa de­stra e che questa destra pretende di imporre come nuova carta d’identità della Repubblica.

Questa legge, d’altro canto, non si limita a stravolgere la carta costituzionale del 1948. Essa persegue la trasformazione in costitu­zione formale di mutamenti già in larga parte intervenuti in questi ul­timi anni nella costituzione ma­teriale della Repubblica. Riflette, in breve, una deformazione della demo­crazia già di fatto avvenuta. È quasi certo che essa sarà spaz­zata via dal referendum. E tutta­via essa esprime e formalizza una concezione anti-parlamentare ed extra-costituzionale della demo­crazia larga­mente penetrata nel ceto politico e nel senso comune, anche di sinistra, e già tradottasi in un’alterazione di fatto del no­stro assetto costituzionale.

È que­sto l’aspetto più grave e allarman­te dello scempio realiz­zato: la sot­tovalutazione degli effetti distorsi­vi degli equilibri democratici da esso provocati, dovuta al fatto che quella concezione ha ormai conta­giato gran parte delle forze politi­che e dell’opinione pubblica. Ne è prova il fatto che nel ceto politico, nella stampa e nella televisione, la riforma è stata identificata sem­plicemente con la cosiddetta devo­lution : come se l’alterazione più importante, anzi la sola cosa vera-mente importante da essa intro­dotta, fosse la parte, pur grave, de­dicata al federalismo e non quella, di gran lunga più devastante, che riguarda l’assetto istituzionale del sistema politico.

Per questo una battaglia in difesa della Costituzione del ’48 non potrà limitarsi a una semplice contestazione di questa legge. Essa dovrà consistere, soprattutto, in una battaglia culturale di rifonda­zione della nostra democrazia, che muova da un’analisi dei suoi ele­menti e fattori di crisi, quali si sono venuti manifestando e sviluppan­do nello scorso decennio e sono giunti pericolosamente a matura­zione con l’attuale governo Berlu­sconi. Il nuovo testo approvato dal-la destra costituzionalizza infatti tutti gli elementi della crisi in atto, i quali investono tutte e tre le di­mensione nelle quali si articola la democra­zia costituzionale quale è disegnata dalla Costituzione re­pubblicana del 1948: la dimensio­ne politica del­la democrazia rap­presentativa ; quella istituzionale della separazione dei poteri e quel­la più propriamen­te garantista dello Stato costituzionale di dirit­to . L’effetto di queste tre crisi con­giunte e della loro costi­tuzionalizzazione è un’involuzione della de­mocrazia italiana che si esprime nella regressione neo-assolu­tistica così dei poteri politici della mag­gioranza nella sfera del governo come dei poteri economici delle im­prese nella sfera del mercato.

Il primo di questi tre ele­menti di crisi è costituito dalla per­sonalizzazione e dalla verticalizza­zione della rappresentanza politi­ca. Non è un fenomeno soltanto ita­liano. In quasi tutti i paesi di de­mocrazia avanzata abbiamo assi­stito in questi anni a un rafforza­mento degli esecutivi e a una cor­relativa esauto­razione dei parla­menti. Dagli Stati Uniti all’Inghil­terra, dalla Spagna alla Francia e alla Russia, la rap­presentanza po­litica, grazie anche alla diffusione del modello presidenzialista o di si­stemi elettorali di tipo maggiorita­rio, tende sempre più a identifi­carsi con la persona del capo dello Stato o del governo.

Secondo la concezione sotto-stante a questo modello – che nel­la sua versione italiana e berlusco­niana ha ereditato i connotati po­pulisti e organicistici provenienti dalla tradizione fascista – la democra­zia politica consisterebbe, ben più che nella rappresentanza della pluralità degli interessi so­ciali e nella loro mediazione parla­mentare, nella scelta elettorale di una maggioranza di governo e con essa del capo della maggioranza, identificato così con l’espressione massima e organica della volontà popolare. Ne è ri­sultato da un lato un indebolimento dei partiti quali luoghi e strumenti di aggregazione sociale, di for­mazione collettiva di programmi e scelte politiche, di rappresentanza di interessi e op­zioni differenziate e virtualmente in conflitto; dall’altro un’involuzio­ne anti-rappresentativa della de­mocrazia politica, dato che un or­gano monocratico non può rappre­sentare la volontà del popolo inte­ro. «Una siffatta volontà col­lettiva» infatti, come insegnò Hans Kelsen, «non esiste», e la sua assunzione ideologica serve a «masche­rare il contrasto d’interessi, effettivo e ra­dicale, che si esprime nella realtà dei partiti politici e nella realtà, ancor più importante, del conflitto di classe che vi sta dietro» 1 .

Il secondo e ancor più grave fattore di crisi consiste nel proces­so di progressiva confusione e con­centrazione dei poteri. Alludo – ben più che alla lesione, che pure è stata perseguita con la riforma del­l’ordinamento giudiziario, del classico principio della separazio­ne tra i pubblici poteri – al pro­gressivo venir meno di una sepa­razione ancor più importante, che fa parte del costituzionalismo profondo dello Stato moderno an-cor prima che della democrazia: la separazione tra sfera pubblica e sfera privata, os­sia tra poteri poli­tici e poteri economici. Il tramite di questa confusione di poteri e di in­teressi è costitui­to, non solo in Ita­lia, dall’affermazione del primato del mercato sulla sfera pubblica, dalla conseguente subordinazione dei poteri di governo ai grandi po­teri e interessi economici privati e dalla stretta allean­za tra poteri politici e poteri mediatici.

Ciò che caratterizza il caso italiano è la concentrazione nelle mani di una stessa persona di tut­ti e tre questi poteri – dei poteri po­litici di governo, dei poteri media­tici e di un enorme sistema di in­teressi e poteri economici in aper­to conflitto con gli interessi pub­blici – all’insegna di una concezio­ne proprietaria delle istituzioni. Non si tratta di una semplice su­bordinazione degli interessi pub­blici a interessi privati, ma di un fenomeno patologico, che svuota le forme stesse della rappresentanza politica quale rappresen­tanza sen­za vincolo di mandato, deprime quel presupposto elementare della democrazia che è il plurali­smo del­le fonti di informazione e si risol­ve, in assenza di limiti e regole, in due forme convergenti di as­solutismo: l’assolutismo della maggio­ranza e l’assolutismo del mercato; l’onnipotenza dei poteri politici maggioritari e l’assenza di regole e controlli sui poteri economici.

Ne consegue il terzo aspetto della crisi della democrazia costi­tuzionale: la squalificazione della sfe­ra pubblica e della legalità, sia ordinaria che costituzionale, e per­ciò la crisi dello Stato di diritto quale sistema di limiti e vincoli im­posti ai poteri politici della mag­gioranza e a quelli economici del mercato. Verticalizzazione, con­centrazione, confusione e vocazio­ne assolutistica dei poteri pubblici e privati equi­valgono infatti all’odierna, nuova versione del «governo degli uomini» in luogo del «governo delle leggi». Si pensi al ri­corso alla guerra in violazione del-la Carta dell’Onu e, in Italia, dell’art.11 della Costituzio­ne; alla diffusione della pratica della tor­tura; alle leggi emergenziali, come il Patriot Act americano, lesi­ve del­le più elementari garanzie dell’ ha­beas corpus .

Si pensi, in Italia, alle leggi ad personam in favore degli inte­ressi del presidente del Consiglio; al finanziamento delle scuole pri­vate escluso dall’art. 33 della Co­stituzione; alla lesione del princi­pio costi­tuzionale di progressività dell’imposizione fiscale. Si pensi, soprattutto, all’abdicazione della laicità dello Stato espressa dalla pretesa che il diritto sia utilizzato come strumento di imposizione o di rafforzamen­to della morale cat­tolica, identificata con la morale tout court ; alla crescente erosione della sfera pubbli­ca quale insieme di funzioni e di istituzioni sottopo­ste a regole e a controlli, a garan­zia dei diritti di tut­ti; alla demoli­zione del diritto del lavoro e delle sue classiche garanzie; all’indebo­limento delle garanzie istituziona­li dei diritti sociali; alla progressi­va privatizzazione, infine, della sfera pubblica e delle relati­ve fun­zioni in tema di istruzione, di pre­videnza sociale e di assistenza sa­nitaria. Ne risulta minato l’in­tero edificio dello Stato costituzionale di diritto quale strumento di ga­ranzia dei diritti fondamentali, de­gradati a diritti patrimoniali di ac­cesso, monetizzabili e negoziabili, in contrasto con il loro carattere universale e con il loro rango co­stituzionale che ne imporrebbe la sottrazione al mercato e alle ragio­ni del profitto e l’uguale garanzia a beneficio di tutti ad opera della sfera pubblica.

C’è infine un ultimo fattore di crisi – di tipo politico e cultura­le – che ha reso possibile e di cui si è resa interprete la manomissione della Costituzione del ’48: la re­gressione morale e civile di una larga parte della società italiana che si manifesta nell’attacco all’antifascismo, nel revisionismo storiografico e nella riabilitazione dei repubblichini di Salò, nella demonizzazione della tradizione co­munista e sociali­sta, nella squali­ficazione dello Stato sociale, nella riabilitazione della guerra come strumento di governo del mondo e di soluzione dei problemi interna­zionali, il tutto all’insegna di una sorta di fondamentali­smo liberista e occidentalista. Nell’età della co­siddetta «fine delle ideologie» si è prodotto il più smaccato trionfo di tutte le ideologie reazionarie – po­puliste, liberiste, razziste, bellici­ste, clericali – provocato da un lato dalla crisi delle vecchie forme par­titiche e sindacali di socializzazio­ne, dall’altro da vere e proprie campagne ideologiche in favore dei valori della forza, del mercato, del successo, dei nazionalismi e cam­panilismi, della tradizione, dell’in­vadenza della religione nella vita pubblica.

Una nuova costituzione

      È in questo quadro di crisi e di de­terioramento della nostra demo­crazia che è maturato, quale sua mas­sima espressione e corona­mento, il progetto governativo di revisione costituzionale. Ciò di cui dobbiamo assumere consapevolez­za è che questa riforma equivale alla decostituzionalizzazione del nostro sistema politico, ovvero alla costituzionalizzazione di tutti gli aspetti della crisi sopra indicati: alla demolizione, in breve, non solo della Costituzione repubblicana del 1948, ma del paradigma stesso della democrazia costituzionale.

        Diciamo subito, innanzitut­to, che si tratta, per le sue dimen­sioni e per lo stravolgimento pro­dotto, di una nuova costituzione , promossa da una coalizione di for­ze – Alleanza Nazionale, Forza Ita­lia e Lega Nord – nessuna delle quali ha partecipato alla formazio­ne della Costituzione vigente. Il senso politico dell’operazione è chiaro. Proprio perché non ha par­tecipato alla formazione della Co­stituzione antifasci­sta del ’48 e in essa non si riconosce, questa nuo­va destra, oggi maggioritaria in Parlamento ma non nel paese, sta tentando di archiviare l’attuale Carta costituzionale e di varare una sua costituzione, una nuova carta d’identità della Repubblica, a sua immagine e somiglianza. Pretende, in altre parole, di rom­pere il vecchio patto di convivenza che non a caso Berlusconi squa­lificò, sprezzantemente, come «so­vietico» – e di imporne uno nuovo. Ciò che si vuole realizzare è prima di tutto una rottura della conti­nuità costituzionale, al fine di rifondare la Repubblica sulle forze che alla Costituzione del ’48 furo­no estranee od ostili.

La prima considerazione suggerita da questa legge è perciò che essa non è, propriamente, una «legge di revisione» costituzionale, consistente di un singolo e deter­minato emendamento, quale è quella consentita dall’articolo 138 dell’attuale Costituzione. Essa è bensì una costituzione del tutto di­versa da quella vigente, che altera l’intero assetto istituzionale, mo­dificandone gli equilibri e ridefi­nendo compe­tenze e regole di for­mazione e funzionamento di tutti gli organi costituzionali: del Parla­mento e del Go­verno, del presiden­te della Repubblica e del presiden­te del Consiglio, della Corte costi­tuzionale e delle Regioni.

Di qui un primo aspetto di il­legittimità, sul piano delle forme e del metodo, di una simile riforma, che sconvolge l’intero assetto della Repubblica disegnato dalla secon­da parte della Costituzione vigen­te, cambiando al tempo stesso la forma di Stato, da nazionale a fe­derale, e la forma di governo, da parla­mentare a para-presidenzia­le o peggio, come mostrerò, a mo­nocratica. Giacché tale riforma, equivalendo in sostanza al varo di una nuova costituzione, non è le­gittimamente possibile sulla base della costituzio­ne vigente, neppu­re ad opera di un’ipotetica assem­blea costituente che pur decidesse a larghissima mag­gioranza. Il solo potere ammesso dalla nostra Co­stituzione è infatti un potere di re­visione, che non è un potere costi­tuente ma un potere costituito, il cui esercizio può consistere solo in specifici emendamenti; laddove, se diretto a dar vita a una nuova co­stituzione, esso si converte in un potere costituente e sovra­no, anti­costituzionale ed eversivo perché in contrasto, oltre che con l’artico­lo 138, con il principio stabili­to dall’art.1 della Costituzione che «la sovranità appartiene al popo­lo», il quale da nessuno può esser­ne espropriato.

È questo un principio fonda­mentale del costituzionalismo de­mocratico 2 , che da sempre ha fatto propria la classica distinzione di Sieyès tra «potere costituente» e «poteri costituiti» 3 . Ed è, soprat­tutto, il principio adottato da qua­si tutte le costituzioni democrati­che, che prevedono procedure di revisione ben più complesse della nostra, sul presupposto che la Co­stituzione è una cosa seria, sot­tratta alla disponibi­lità delle con­tingenti maggioranze. Proviamo a pensare come sarebbe accolta l’idea di una nuova costitu­zione negli Stati Uniti, la cui Costituzio­ne richiede, nel suo articolo 5, che la proposta di un semplice emen­damento sia avanzata dai due ter­zi dei componenti del Congresso o da due terzi delle legislature dei vari Stati, e che nel primo caso l’emendamento sia approvato se votato dalle legislature di tre quarti degli Stati e, nel secondo, se votato dai tre quarti dei membri di un’apposita Convenzione convoca­ta dal Congresso 4 . In quasi nessun paese, poi, è consentita la revisio­ne totale della costituzione, ma solo la re­visione parziale median­te singoli emendamenti. Dove è prevista la revisione totale, come in Spagna e in Svizzera, essa è sot­toposta a procedure talmente la­boriose da rendere impossibili col-pi di mano di mag­gioranza 5 .

Ciò che invece è accaduto in Italia è stata l’approvazione a maggioranza – una maggioranza parla­mentare che per di più è mi­noranza nel paese – di un testo che altera l’intero assetto costituzio­nale della Repubblica. Il preceden­te della sconsiderata riforma del titolo V, varata dall’Ulivo alla fine della scorsa legislatura, è invocato a sproposito: benché gravemente colpevole, quella riforma fu pur sempre una re­visione settoriale della Costituzione, che per di più riprodusse una modifica approva­ta qualche anno pri­ma da entram­bi gli schieramenti nella Commis­sione Bicamerale. L’attuale rifor­ma riscrive invece oltre 50 articoli della seconda parte, con gli inevi­tabili riflessi sulla prima. È la vec­chia idea che Gianfranco Miglio espresse brutalmente dieci anni fa, dopo la prima vittoria delle de­stre: la costituzione non è un ac­cordo tra tutti sulle regole del gio­co ma è un «patto che i vincitori im­pongono ai vinti» 6 .

       Ma questa nuova costituzio­ne è illegittima, oltre che sul pia­no del metodo e delle forme, anche e soprat­tutto su quello dei conte­nuti, che come stabilì una storica sentenza della Corte costituziona­le del 1988 non possono derogare ai «principi supremi» della Costi­tuzione 7 . La Costituzione vigente disegna infatti un sistema com­plesso di regole dirette a limitare, a separare e a bilanciare i poteri pubblici onde impe­dirne, a garan­zia dello Stato di diritto e dei di­ritti fondamentali di tutti, la de­generazione in poteri asso­luti e il­limitati. Il testo della riforma go­vernativa, al contrario, unifica di fatto il potere politico nelle mani del Primo ministro eliminando li­miti, controlli e contrappesi. Pro­duce una verticalizzazione e una personalizzazione dell’assetto co­stituzionale, conferendogli un ca­rattere monocratico che compro­mette o comunque indebolisce en­trambe le dimensioni della demo­crazia costituzionale: la rappre­sentatività del­le funzioni di gover­no e l’indipendenza delle istituzio­ni di garanzia. Contraddice perciò non solo la Costi­tuzione vigente, ma lo spirito stesso del costituzio­nalismo democratico del secondo Novecento, la cui no­vità è consi­stita, dopo le tragedie dei fascismi e delle guerre mondiali, nei limiti e nei vincoli imposti dal­le costitu­zioni rigide ai poteri di maggio­ranza, a tutela dei diritti fonda­mentali di tutti.

Il tracollo della funzione legislativa

      Non parlerò di tutti gli aspetti aberranti di questa riforma. Non mi soffermerò, in particolare, sul­la co­siddetta devolution , sulla qua-le si è concentrato l’intero dibatti­to politico; se non per dire che essa, asse­gnando in maniera esclusiva alle Regioni la competenza sulla scuola, sulla sanità, sulle funzioni di poli­zia e su «ogni altra materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato», introdu­ce una ri­gidità nella separazione delle competenze tra istituzioni centrali e istituzioni regionali che non esiste nemmeno nei vecchi or­dinamenti federali. È un muta­mento della forma dello Stato che punta aperta­mente alla divisione dell’unità del paese, la quale si basa appunto sull’uguaglianza dei cittadini nei di­ritti fondamentali quali sono, in particolare, i diritti sociali alla salute e all’istruzione. Se passasse una simile riforma, si accentuerebbe il divario non solo economico, ma anche nella garan­zia dei diritti, tra cittadini del Nord e cittadini del Sud, tra citta­dinanza privilegiata delle regioni settentrionali e cittadi­nanza sen­za valore del Mezzogiorno. Senza contare la crescita enorme dei co­sti, delle complicazioni e dell’inef­ficienza derivante dalla duplica­zione – anzi dalla moltiplicazione per il numero delle Regioni – degli apparati e delle burocrazie ammi­nistrative.

Ciò che invece merita di es-sere analizzata è la deformazione in senso monocratico del sistema po­litico prodotta da questa rifor­ma. Mi limiterò a illustrare due manomissioni: l’incredibile com­plicazione della funzione legislati­va e la demolizione del principio della rappresentanza politica.

Grazie alla prima manomis­sione, la funzione legislativa del Parlamento è destinata alla para­lisi. L’attuale art. 70 – che si com­pone di una sola riga: «La funzio­ne legislativa è esercitata colletti­vamente dalle due Camere» – vie-ne sostituito da un lunghissimo ar­ticolo che sembra il frutto di una mente ma­lata. Il nuovo testo in­troduce quattro tipi di fonti: 1) leg­gi di competenza della sola Came­ra sulle materie riservate alla le­gislazione esclusiva dello Stato dall’art. 117 2° comma, cui il Se­nato federale «può pro­porre modi-fiche, sulle quali la Camera decide in via definitiva»; 2) leggi di com­petenza del solo Senato federale sulle materie riservate alla legi­slazione concorrente dello Stato e delle Regioni dall’art. 117 3° com­ma, cui la Camera «può proporre modifiche, sulle quali il Senato de­cide in via definitiva»; 3) leggi di competenza congiunta di entram­be le Camere su una lunga serie di materie previste dagli artt.117, 2° comma lett. m) e p), 5° e 9° comma, 118 2° e 5° comma, 119, 120 2° comma, 122 1° comma, 125, 132 2° comma e 133 2° comma, in ordine alle quali, ove le due Camere non approvino il medesimo testo, è ar­chitettata una complessa procedu­ra che comporta il «voto finale del­le due Assemblee» su un «testo unifi­cato» elaborato da una Commis­sione paritetica convocata dai Pre­sidenti delle due Camere e «com­posta da 30 deputati e 30 senato­ri» secondo un criterio di propor­zionalità; 4) leggi di competenza del Senato sulle quali il governo, su autorizzazione del presidente della Repubblica chiamato «a veri­ficar(n)e i pre­supposti costituzio­nali», può proporre modifiche «es­senziali all’attuazione del suo pro­gramma approvato dalla Camera ovvero alla tutela delle finalità di cui all’art. 120»: modifiche che, se non approvate dal Se­nato, sono de­cise dalla Camera «in via definiti­va a maggioranza assoluta dei suoi componenti». Senza contare una quinta fonte, quella prevista dall’attuale art. 120, a sua volta modificato, secondo cui «lo Stato può sostituirsi alle Regioni, alle Città metropolitane, alle Province e ai Comuni nell’esercizio delle funzioni loro attribuite dagli arti­coli 117 e 118, nel caso di mancato rispetto di norme e trattati interna­zionali o della normativa comu­nitaria, oppure di pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica o quando lo richiedano la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in partico­lare la tutela dei li­velli essenziali delle prestazioni concernenti i di­ritti civili e sociali».

È difficile capire se ci trovia­mo di fronte a una prova di dis­sennatezza istituzionale oppure a un consapevole sabotaggio della funzione legislativa destinato a la­sciar spazio illimitato alla decreta­zione d’urgenza del governo. Pos­siamo infatti immaginare il caos istituzionale che proverrà da una divisione delle competenze tra questi cinque tipi di fonti, a causa delle inevitabili incertezze e degli infiniti con­tenziosi generati da una ripartizione inevitabilmente generica e astratta delle cinque classi di materie ad esse attribui­te. Si è previsto, nell’ultimo com­ma del nuovo art. 70, che in caso di conflitto su chi dovrà varare la leg­ge controversa, decidano i due pre­sidenti della Camera e del Senato, i quali potranno «defe­rire la deci­sione ad un Comitato paritetico composto da quattro deputati e quattro senatori» da essi stes­si de­signati; che i due presidenti «d’in­tesa tra loro, su proposta del Co­mitato», stabiliscano i criteri di di­stinzione delle competenze; che in-fine, in deroga alla competenza della Corte costituzionale su que­sti ti­pici conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato, «la decisione dei Presidenti o del Comitato non è sin­dacabile in alcuna sede». Ma che cosa accadrà se i due presi­denti non andranno d’accordo? o se non sarà raggiunto l’accordo all’in­terno del Comitato da essi istitui­to? oppure se il «testo unificato» elaborato dal­la Commissione pari­tetica per risolvere il conflitto tra Camera e Senato sulle materie di competenza congiunta non sarà approvato da entrambe le due As­semblee (non essendosi neppure stabilito che esse deliberino in se­duta comune)?

D’altro canto, agli inevitabili conflitti tra Camera e Senato in materia di legislazione statale, sono destinati ad aggiungersi i conflitti di attribuzione tra Stato e Regioni, che altrettanto inevitabil­mente saranno prodotti dall’incer­tezza dei confini tra le tre classi di materie e di competenze disegnate dall’art. 117: 1) le materie di com­petenza esclusiva dello Stato, 2) quelle di competenza esclusiva delle Regioni, 3) quelle di compe­tenza concorrente di Stato e Re­gioni. Avremo così una miriade non solo di conflitti, ma anche di conflitti tra conflitti. Potrà aversi il caso che su di una medesima questione – per esempio a proposi­to di una legge in una materia ri­tenuta da taluno di competenza esclusiva dello Stato e da altri di competenza esclusiva delle Regio­ni perché «non espressamente ri­servata alla legislazione dello Sta­to» – si producano due conflitti di­versi destinati a essere risolti in sedi diverse: l’uno tra Stato e Re­gione, sulle loro rispettive compe­tenze, affidato, in base all’art. 134, al giudizio della Corte costituzio­nale; l’al­tro tra Camera e Senato federale sulle loro competenze nel­la medesima materia, destinato ad essere ri­solto dai presidenti delle due Camere o dal Comitato da essi istituito.

Ne risulterà – tra un Parla­mento articolato di fatto in quattro Camere (la Camera dei deputati, il Senato federale, la Commissione dei sessanta e il Comitato degli otto) e le 20 Regioni – una conflittuali­tà intra-istituzionale perma­nente; la possibilità di ostruzioni­smi illimitati; un sovraccarico in­tollerabile di lavoro, su questioni puramente procedurali, per i due presidenti (e il loro Comitato) e per la Corte co­stituzionale; una squa­lificazione ulteriore della certezza delle fonti e delle leggi; il collasso definitivo del principio di legalità e dello Stato di diritto; una frana, infine, dell’intero edificio della de­mocrazia parla­mentare e rappre­sentativa.

L’attacco alla rappresentanza politica

        Ma c’è una seconda e più massic­cia frana della democrazia rappre­sentativa provocata dalla seconda ma­nomissione sopra indicata dell’assetto costituzionale. Essa consiste nella demolizione del principio della rappresentanza po­litica, che è indubbiamente un «principio supremo» sottratto, come vorrebbe la già ri­cordata sen­tenza n. 1146 del 1988, al potere di revisione. Sotto due aspetti: per­ché il nuovo testo elimina di fatto il ruolo di controllo del Parlamen­to e la responsabilità di fronte ad esso dell’esecutivo; perché inoltre esso modifica lo statuto del parla­mentare, trasformandolo in un mandatario passivo della coali­zione cui appartiene e, di fatto, del suo capo.

Viene innanzitutto soppres­so, dal nuovo testo, il voto di fidu­cia delle Camere nei confronti del Pri­mo ministro, la cui legittima­zione è rimessa direttamente al voto popolare. Il nuovo art. 94, in­fatti, dice che «il Primo ministro il­lustra il programma di legislatura e la composizione del Governo alle Camere entro dieci giorni dalla no­mina» e che «la Camera si esprime con un voto sul programma». Ma questo voto non è un voto di fidu­cia, dato che non ne dipende la so­pravvivenza del Governo essendo stato sop­presso il primo comma dell’attuale art. 94 secondo cui «il Governo deve avere la fiducia del­le Camere». Si prevede solo che sia lo stesso Primo ministro che, per disciplinare la propria maggioran­za, possa «por­re la questione di fi­ducia e chiedere che la Camera dei deputati si esprima, con priorità su ogni altra proposta, con voto conforme alle proposte del Gover­no», ovviamente «per appello no­minale».

Al contrario sarà il Primo mi­nistro che potrà sciogliere le Ca­mere. È pur vero che si richiede la controfirma del presidente della Repubblica. Ma contrariamente a quanto prevede la Costituzione attua­le, lo scioglimento è previsto, dal nuovo testo dell’art. 88, «su ri­chiesta del Primo ministro, che ne assu­me l’esclusiva responsabi­lità». Lo scioglimento del Parla­mento, da atto di un organo super partes come è il presidente della Repubblica, diviene insomma un atto politico del Primo ministro. È così che il rappor­to di fiducia tra Parlamento e Governo si capovol­ge. Non sarà più il Governo che do­vrà avere la fiducia del Parlamen­to, ma sarà il Parlamento che do­vrà avere la fiducia del Primo mi­nistro.

Ma c’è un altro mutamento, ancor più grave, del sistema rap­presentativo. «La mozione di sfi­ducia», dice il nuovo art.94, deve essere sempre «votata per appello nominale e approvata dalla mag­gioranza as­soluta dei componenti» della Camera; nel qual caso com­porta, oltre alle dimissioni del Pri­mo ministro, lo scioglimento della Camera medesima. Solo la cosid­detta sfiducia costruttiva, cioè ac­compagnata dalla designazione di un nuovo Primo ministro, consen­te la prosecuzione della legislatu­ra. Tuttavia tale desi­gnazione deve essere operata «da parte dei deputati appartenenti alla mag­gioranza espressa dalle ele­zioni in numero non inferiore alla maggio­ranza dei componenti della Came­ra». Non solo. In forza di un’altra norma anti-ribaltone, «il Primo ministro si dimette altresì qualora la mozione di sfiducia sia stata re­spinta con il voto determinante dei deputati non appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezio­ni». Non sarà insomma possibile cambiare in parlamento la mag­gioranza di governo.

Io credo che queste norme anti-ribaltone siano il vero cuore della riforma: il segno inequivoco della svolta che si intende realiz­zare. Grazie ad esse saranno im­possibili le crisi di governo parla­mentari. Maggioranza e minoran­za vengono blindate, sicché solo i parlamentari della maggioranza avranno – non già singolarmente, non potendo unire i loro voti a quelli dell’opposizione, ma solo nel loro insieme – un potere di inizia­tiva politica e di responsabilizza­zione dell’esecutivo; mentre i par­lamentari della mi­noranza non conteranno nulla. È la fine della rappresentanza senza vincolo di mandato, essendo ciascun parla­mentare vincolato alla coalizione di appartenenza. Ed è la violazio­ne vistosa del principio basilare della democrazia politica, sancito dall’attuale e inalterato art. 67, se-condo il quale «ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazio­ne ed esercita le sue funzioni sen­za vincolo di mandato».

Non si tratta di una sempli­ce «riforma». Con questa rigida se­parazione tra maggioranza e mino­ranza il Parlamento viene di fatto emarginato. Il nuovo sistema abolisce l’uguaglianza del voto dei par­lamentari ed estromette di fatto l’opposizione da ogni funzione di controllo e di mediazione politica. Non solo. Esso vanifica anche la rappresentatività e la responsabi­lità politica dei parlamentari della maggioranza, i quali risulteranno vincolati da un rapporto di man­dato verticale: il mandato impera­tivo, non già dal basso ma dall’alto, che lega il parlamentare al Primo ministro. Queste norme sono in­fatti di­rette non solo a neutraliz­zare l’opposizione ma anche, e forse soprattutto, a disciplinare, a ri­cattare e di fatto a neutralizzare – come del resto è di fatto accaduto in questa legislatura – ogni potere di controllo della stessa maggio­ranza parlamentare. Non saranno più possibili, in base ad esse, crisi di governo par­lamentari. Ne risul­terà una totale irresponsabilità del Primo ministro di fronte al Par­lamento in favore di un suo rap­porto organico, diretto, con l’elet­torato.

       Si sta insomma progettando una deformazione radicale della democrazia, e non solo della demo­crazia parlamentare. Non viene infatti neppure instaurata una de­mocrazia presidenziale di tipo pur sempre rappresentativo. La rap­presentatività delle democrazie presidenziali, con tutti i loro difet­ti, è assicurata da parlamenti for­ti – si pensi al Congresso degli Sta­ti Uniti – radicalmente separati e indipendenti dal potere esecutivo. Ma quando, come accade in questo scempio, il Parlamento viene tra­sformato in un or­gano decorativo rigidamente dominato da una maggioranza che a sua volta è so­stanzialmente alle di­pendenze del Primo ministro, scompare anche la democrazia rappresentativa. Giac­ché un organo mono­cratico quale è il Primo ministro non accompa­gnato da un Parlamento indipen­dente non può per sua na­tura, se-condo l’insegnamento di Kelsen già ricordato, rappresentare tutto il popolo, ma solo la parte vincen­te nelle elezioni. La democrazia, aggiunse Kelsen, «implica l’assen­za di capi» 8 . Essa consiste in un si­stema articolato di istituzioni di governo e di istituzioni di garan­zia, di limiti e vincoli costituziona­li imposti a tutte le funzioni pub­bliche, di equilibri e contrappesi, di bilanciamenti e separazioni tra poteri, finalizzati ad impedirne straripamenti ed abusi a tutela dei diritti di tutti. Al contrario, l’idea opposta di un rapporto organico tra un capo – presidente o premier – e il popolo intero è un’idea organicistica e po­pulista che contrad­dice la nozione stessa della demo­crazia, non diciamo costituzionale ma semplicemen­te «rappresenta­tiva».

La battaglia in difesa della Costituzione

        Purtroppo il problema più grave è che questa legge esprime una con­cezione della democrazia ampia­mente diffusa, anche a sinistra. Circola da tempo nel centro-sini­stra una cosiddetta «bozza Ama­to», che contiene la più grave di tutte le manomissioni della Costi­tuzione contenute nel testo gover­nativo. Tanto che non è chiaro chi abbia copiato da chi. Anche in que­sta bozza è prevista infatti una norma cosiddetta «anti-ribaltone» che prevede lo scioglimento delle Camere in caso di sfiducia, a meno che un nuovo pri­mo ministro non venga indicato e votato dalla mag­gioranza iniziale. «In caso di sfidu­cia, e su sua propo­sta», cioè su pro­posta del presidente del Consiglio, è in essa stabilito, «vi sarà lo scio­glimento, a meno che una mozione costruttiva votata dalla maggio­ranza iniziale, comunque autosuf­ficiente anche se inte­grata o even­tualmente ridotta, non proponga un diverso candidato». È sperabile che una simile proposta sia defini­tivamente archiviata e dimentica­ta, se non altro se non vogliamo che ne risulti screditata l’in­tera batta­glia referendaria contro l’analoga controriforma della destra. Resta il fatto che quella bozza segnala una concezione monocratica e po­pulista della democrazia che, come si è detto all’inizio, è pre­sente an­che a sinistra.

Di qui la necessità che l’at­tacco della destra alla Costituzio­ne diventi l’occasione, nella batta­glia che si aprirà con il referendum costituzionale, per una riflessione critica ed autocritica sulla gravità del­la posta in gioco, sui guasti pro­vocati da oltre un decennio di lo­goramento costituzionale, sul nes­so indis­solubile, infine, che lega co­stituzione e democrazia. È neces­sario, in particolare, che da que­st’attacco si traggano due lezioni, l’una di metodo, l’altra di merito.

         La prima lezione riguarda i pericoli incombenti sul ruolo ga­rantista della Costituzione. La contro­riforma della destra ha rive­lato l’enorme debolezza delle at­tuali garanzie costituzionali. Nel­la totale di­sattenzione e disinfor­mazione dell’opinione pubblica, una maggioranza parlamentare che è già minoran­za nel paese ha potuto mettere in atto, cedendo, per salvaguardare se stessa, al ri­catto di una sua com­ponente mi­noritaria, la più pesante destrut­turazione del nostro sistema de­mocratico che sia mai stata conce­pita. Perché questo attentato non si ripeta, la battaglia referendaria dovrebbe essere accompagna­ta da un preciso impegno programmati­co: il rafforzamento della debole garanzia della rigidità costitu­zionale apprestata dall’attuale art. 138. Sulla base di questa norma, che ingenuamente supponeva un generale lealismo politico nei con­fronti del patto costituzionale, la revisione della Costituzione ri­chiede oggi semplicemente «due successi­ve deliberazioni ad inter­vallo non minore di tre mesi» e l’ap­provazione con la sola «maggio­ranza assolu­ta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda vo­tazione»: in altre parole, con il voto della sola maggioranza di governo, contro il quale può essere richiesto il referendum popolare, oltre tutto solo se esso non raccolga la mag­gioranza dei due terzi dei compo­nenti di ciascuna Camera. È chia­ro che se vo­gliamo che la Costitu­zione sia messa al riparo da altri futuri colpi di mano, la garanzia della sua rigidità dev’essere raffor­zata in tre direzioni: a ) innalzando a 3/4 o quanto meno a 2/3 dei com­ponenti delle due Camere la mag­gioranza qualificata richiesta per la revisione; b ) sottraendo esplici­tamente alla revisio­ne, in accordo con la sentenza già ricordata della Corte costituzionale, i principi su­premi della Costitu­zione, come il principio di uguaglianza, il ripudio della guerra, i principi della rap­presentanza politica e della sepa­razione dei poteri e tutti i diritti fondamentali; c ) limitando infine il potere di revisione, come avviene negli Stati Uniti, all’adozione di singoli e determinati emendamen­ti. Si garantirebbe tra l’altro, gra­zie a questa terza condizione, che il potere di revisione, che è un po­tere costituito, non si trasformi in potere costituente varando, come oggi è avvenuto, una riforma dell’intera costituzione; e che il successi­vo referendum costituzio­nale avvenga su singole e determi­nate questioni, come ha più volte richiesto la Corte costituzionale, e non si trasformi a sua volta in un plebiscito.

         La seconda lezione riguarda i pericoli incombenti sul nostro si­stema democratico. Già oggi, come si è detto all’inizio, ci troviamo di fronte a una concentrazione di po­teri – politici, economici, mediatici in mano a una stessa persona che non ha precedenti né confronti in altri paesi democratici. Il cosiddet­to premierato «assoluto», come è stato chiamato, introdotto da que­sta riforma, annullando di fatto il ruo­lo del Parlamento, indebolendo e sottoponendo alla logica dello spoil system il già fragile sistema delle istituzioni di garanzia – dal presidente della Repubblica ai pre­sidenti delle Camere, dai giudici costitu­zionali e alle cosiddette Au­torità indipendenti – darebbe vita ad una vera autocrazia. È insom­ma la con­cezione della democrazia costituzionale come sistema di li­miti, di vincoli e di garanzie impo­ste a tutti i poteri incluso il potere politico di maggioranza, e inoltre come insieme di contrappesi e di separazione tra poteri, che dovrà essere ristabilita nel senso comu­ne. Proprio questa concezione vie-ne infatti ribal­tata dall’odierna re­visione, dopo essere stata in tutti questi anni contrastata da Berlu­sconi e indebolita nello spirito pub­blico. E allora occorre mostrare che l’attuale riforma altro non è che la legalizzazione della costituzione materiale del berlusconismo: del suo sistema autocratico, della sua insofferenza per li­miti, regole e controlli giurisdizionali, dell’idea, in breve, che la democrazia consi­sta unicamente nella scelta ogni cinque anni di un capo.

È intorno a questi pericoli che oggi occorre informare e mobi­litare l’opinione pubblica nel corso del­la prossima campagna referen­daria. Ma è chiaro che il referen­dum – non soltanto per essere vin­to, ma anche per risanare la ferita inferta alla Costituzione – deve di­venire una grande battaglia civile di dife­sa della democrazia costitu­zionale, non inquinata da proposte di compromesso del tipo «no a que­sta ri­forma» ma ad altre, nuove proposte di «aggiornamento». E questo, a me pare, potrà avvenire tanto quan­to saranno soddisfatte due condizioni.

La prima è che il referendum venga promosso, nei tre mesi che ci separano dalla pubblicazione della legge di revisione sulla Gaz­zetta Ufficiale, da un fronte di for­ze ben più largo di quello richiesto dall’art. 138 della Costituzione, fino ad essere già rappresentativo della maggioranza degli elettori: non dunque soltanto da un quinto dei membri di una Camera, ma da tutti i parlamentari dell’opposizio­ne più quelli della maggioranza, per esempio dell’Udc, che hanno manifestato dubbi o contrarietà; non sol­tanto da cinque Consigli re­gionali, ma da tutti i Consigli re­gionali nei quali il centro sinistra è maggio­ranza e perciò dalla mag­gioranza delle Regioni; non soltan­to da 500.000 elettori, ma da mi­lioni di citta­dini, utilizzando ma­gari per la raccolta delle firme le votazioni primarie finora pro­grammate o da pro­grammare in vi­sta delle prossime elezioni.

La seconda condizione è che il referendum si svolga all’insegna dell’emergenza democratica, oltre che costituzionale. La prossima campagna elettorale potrà solo trarre vantaggio da una ferma bat­taglia contro lo scempio della de­mocrazia costituzionale progettato dalla destra: consentendo di esibi­re i gravi pericoli che proverrebbe­ro da una sua possibile vittoria, ol­tre che l’incompetenza e la sciatte­ria da essa dimostrate nel mettere mano alle regole del gioco demo­cratico. Sotto questo aspetto le ele­zioni politiche e il referendum han­no un tema centrale comune: la sconfitta culturale, oltre che politi­ca, del progetto berlusconiano e della concezione della democrazia che è alle sue spalle e, insieme, la rifondazione, nel senso comune, del carattere antifascista della Co­stituzione repubblicana e del suo valore normativo di programma politico e sociale, ancora in gran parte da attuare, e di fondamento e presidio della nostra democrazia.

Questo testo riproduce, con qualche mo­difica e aggiornamento, la relazione svolta il 7 giugno 2005 al convegno «La Costituzio­ne ferita», promosso a Roma dalla Ca­mera di consultazione della sinistra.
 
Note
1) H. Kelsen, Chi deve essere il custode della costituzione? [1931], in Id., La giusti­zia costituzionale , Milano, Giuffrè, 1981, pp. 275-276.
2) E.J. Sieyés, Che cosa è il terzo Stato? [1788], Roma, Editori Riuniti, 1992, pp. 53-69.
3) «L’esercizio del potere costituente da parte del popolo è manifestazione di sovra­nità popolare », con la conseguenza che «solo al popolo appartiene il potere di cambiare la Costituzione» (G. Chiarelli, Popolo, in Novissimo Digesto , Torino, Utet, 1966, XIII, pp. 285-286). Sui limiti del potere di revisione quale potere costituito, si vedano anche A. Pace, Potere costituente , Padova, Ce­dam, 1997, 2002 2 , pp. 126-156 e 235-238 e M. Dogliani, Revisione e principi costitu­zionali inderogabili , nel quaderno de Il Ponte , La costituzione tra revisione e cam­biamento , a cura di S. Rodotà, U. Allegret­ti e M. Dogliani, Roma, Editori Riuniti, 1998, pp. 19-27.
4) Non meno laboriose sono le procedu­re di revisione previste dalle costituzioni del dopoguerra. In base all’art. 110 della Co­stituzione greca del 1975, la revisione di disposizioni «specificamente determinate» viene proposta da almeno cinquanta depu­tati, approvata da almeno tre quinti dei membri del Parlamento in due successivi scrutini separati da un intervallo di alme­no un mese, e deliberata dal successivo par­lamento a maggioranza assoluta dei suoi componenti. L’art. 78 della Legge fonda­mentale della Repubblica Tedesca del 1949 stabilisce che le modifiche della Legge me­desima, inammissibili ove riguardino i suoi primi venti articoli o l’articolazione del Bund in Länder, devono essere approvate dai due terzi dei membri del Bundestag e dai due ter­zi di quelli del Bundesrat. Ana­logamente, in Giappone, l’art. 96 della Co­stituzione del 1946 richiede, per l’approva­zione di ogni emendamento, «il voto con­corde dei due terzi dei membri di ciascuna Camera» seguito dalla sua approvazione in un apposito re­ferendum popolare. In Spa­gna, l’art. 167 della Costituzione del 1978 richiede, per ogni emendamento, l’appro­vazione da parte della maggioranza di tre quinti di ciascuna delle due Camere oppu­re della maggioranza assoluta del Senato e della maggioranza di due terzi del Con­gresso, seguita, se lo richiede un decimo dei membri di una delle due Camere, da un re­ferendum popolare.
5) In base all’art. 168 della Costituzio­ne spagnola, si procede dapprima alla vo­tazione del nuovo testo a maggioranza di due terzi di ciascuna Camera, poi allo scio­glimento immediato delle Cortes, poi alla ratifica della nuova costituzione a maggio­ranza di due terzi delle nuove Camere e in-fine al referendum sulla revisione appro­vata. In Svizzera, in base all’art. 120 della Costituzio­ne del 1874, per la revisione to-tale si richiede anzitutto che la proposta sia avanzata da una delle due Camere o da 100.000 elet­tori; successivamente si proce­de al referendum sul quesito «se la riforma totale debba o no aver luogo»; poi il Parla­mento viene sciolto; poi si procede alla sua rielezione per elaborare la nuova costitu­zione; infine, in base all’art. 123, la costi­tuzione riformata viene sottoposta e refe­rendum.
6) «È sbagliato», dichiarò Gianfranco Miglio all’ Indipendente del 25 marzo1994, «dire che una costituzione dev’essere volu­ta da tutto il popolo. Una costituzione è un patto che i vincitori impongono ai vinti. La strada per cambiare c’è, sta dentro questa co­stituzione, dentro l’articolo 138 che parla appunto di modifiche costituzionali. Basta la metà più uno dei voti del parlamento. Qual è il mio sogno? Lega e Forza Italia rag­giungono la metà più uno. Metà degli ita­liani fanno la costituzione anche per l’altra metà. Poi si tratta di mantenere l’ordine nelle piazze».
7) Con la sentenza n. 1146 del 1988, la Corte costituzionale ha affermato: «La co­stituzione italiana contiene alcun principi su­premi che non possono essere sovvertiti
o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituziona­le o da altre leggi costituzionali. Tali sono tanto i principi che la stessa Costituzione esplicitamente prevede come limiti assolu­ti al potere di revisione costituzionale, qua-le la forma repubblicana (art. 139 Cost.), quanto i principi che, pur non essendo espressamente menzionati fra quelli non assogget­tabili al procedimento di revisione costituzionale, appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Co­stituzione italiana [...] Se così non fosse, del resto, si perverrebbe all’assurdo di conside­rare il sistema delle garanzie giurisdizio­nali della Costituzione come difettoso o non effettivo proprio in relazione alle sue nor-me di più elevato valore».
8) H. Kelsen, Essenza e valore della de­mocrazia [1929], cap. VIII, in Id., La demo­crazia , Bologna, Il Mulino, 1981, p. 120. «Intera­mente nel suo spirito», cioè nello spirito della democrazia, prosegue Kelsen, «sono le parole che Platone, nella sua Re­pubblica (III, 9) fa dire a Socrate, in rispo­sta alla domanda su come dovrebbe essere trattato, nello Stato ideale, un uomo dota­to di qualità superiori, un genio, insomma: “Noi l’onoreremmo come un essere degno d’adorazione, meraviglioso ed amabile; ma dopo avergli fatto notare che non c’è uomo di tal genere nel nostro Stato, e che non deve esserci, untogli il capo ed incoronato­lo, lo scorterem­mo fino alla frontiera”».
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