Il processo decostituente
Luigi Ferrajoli
La legge di revisione costituzionale recentemente approvata rappresenta la demolizione non solo dellaCostituzione repubblicana del 1948, ma del paradigma stesso della democrazia costituzionale. Decostituzionalizzazione della democrazia e costituzionalizzazione del berlusconismo. La battaglia in difesa della costituzione.
Ogni carta costituzionale può essere considerata come la carta d’identità dell’ordinamento da essa costituito e disegnato. Ciò vale per la Costituzione italiana del 1948, come per tutte le altre costituzioni, le quali sono di solito, se degne del loro nome, patti di convivenza generati dall’accordo di tutte le forze politiche rappresentative delle società cui sono destinate. La legge di revisione costituzionale recentemente approvata dalla maggioranza berlusconiana è invece la carta d’identità della destra, che riflette la concezione e soprattutto la pratica della democrazia che è propria di questa destra e che questa destra pretende di imporre come nuova carta d’identità della Repubblica.
Questa legge, d’altro canto, non si limita a stravolgere la carta costituzionale del 1948. Essa persegue la trasformazione in costituzione formale di mutamenti già in larga parte intervenuti in questi ultimi anni nella costituzione materiale della Repubblica. Riflette, in breve, una deformazione della democrazia già di fatto avvenuta. È quasi certo che essa sarà spazzata via dal referendum. E tuttavia essa esprime e formalizza una concezione anti-parlamentare ed extra-costituzionale della democrazia largamente penetrata nel ceto politico e nel senso comune, anche di sinistra, e già tradottasi in un’alterazione di fatto del nostro assetto costituzionale.
È questo l’aspetto più grave e allarmante dello scempio realizzato: la sottovalutazione degli effetti distorsivi degli equilibri democratici da esso provocati, dovuta al fatto che quella concezione ha ormai contagiato gran parte delle forze politiche e dell’opinione pubblica. Ne è prova il fatto che nel ceto politico, nella stampa e nella televisione, la riforma è stata identificata semplicemente con la cosiddetta devolution : come se l’alterazione più importante, anzi la sola cosa vera-mente importante da essa introdotta, fosse la parte, pur grave, dedicata al federalismo e non quella, di gran lunga più devastante, che riguarda l’assetto istituzionale del sistema politico.
Per questo una battaglia in difesa della Costituzione del ’48 non potrà limitarsi a una semplice contestazione di questa legge. Essa dovrà consistere, soprattutto, in una battaglia culturale di rifondazione della nostra democrazia, che muova da un’analisi dei suoi elementi e fattori di crisi, quali si sono venuti manifestando e sviluppando nello scorso decennio e sono giunti pericolosamente a maturazione con l’attuale governo Berlusconi. Il nuovo testo approvato dal-la destra costituzionalizza infatti tutti gli elementi della crisi in atto, i quali investono tutte e tre le dimensione nelle quali si articola la democrazia costituzionale quale è disegnata dalla Costituzione repubblicana del 1948: la dimensione politica della democrazia rappresentativa ; quella istituzionale della separazione dei poteri e quella più propriamente garantista dello Stato costituzionale di diritto . L’effetto di queste tre crisi congiunte e della loro costituzionalizzazione è un’involuzione della democrazia italiana che si esprime nella regressione neo-assolutistica così dei poteri politici della maggioranza nella sfera del governo come dei poteri economici delle imprese nella sfera del mercato.
Il primo di questi tre elementi di crisi è costituito dalla personalizzazione e dalla verticalizzazione della rappresentanza politica. Non è un fenomeno soltanto italiano. In quasi tutti i paesi di democrazia avanzata abbiamo assistito in questi anni a un rafforzamento degli esecutivi e a una correlativa esautorazione dei parlamenti. Dagli Stati Uniti all’Inghilterra, dalla Spagna alla Francia e alla Russia, la rappresentanza politica, grazie anche alla diffusione del modello presidenzialista o di sistemi elettorali di tipo maggioritario, tende sempre più a identificarsi con la persona del capo dello Stato o del governo.
Secondo la concezione sotto-stante a questo modello – che nella sua versione italiana e berlusconiana ha ereditato i connotati populisti e organicistici provenienti dalla tradizione fascista – la democrazia politica consisterebbe, ben più che nella rappresentanza della pluralità degli interessi sociali e nella loro mediazione parlamentare, nella scelta elettorale di una maggioranza di governo e con essa del capo della maggioranza, identificato così con l’espressione massima e organica della volontà popolare. Ne è risultato da un lato un indebolimento dei partiti quali luoghi e strumenti di aggregazione sociale, di formazione collettiva di programmi e scelte politiche, di rappresentanza di interessi e opzioni differenziate e virtualmente in conflitto; dall’altro un’involuzione anti-rappresentativa della democrazia politica, dato che un organo monocratico non può rappresentare la volontà del popolo intero. «Una siffatta volontà collettiva» infatti, come insegnò Hans Kelsen, «non esiste», e la sua assunzione ideologica serve a «mascherare il contrasto d’interessi, effettivo e radicale, che si esprime nella realtà dei partiti politici e nella realtà, ancor più importante, del conflitto di classe che vi sta dietro» 1 .
Il secondo e ancor più grave fattore di crisi consiste nel processo di progressiva confusione e concentrazione dei poteri. Alludo – ben più che alla lesione, che pure è stata perseguita con la riforma dell’ordinamento giudiziario, del classico principio della separazione tra i pubblici poteri – al progressivo venir meno di una separazione ancor più importante, che fa parte del costituzionalismo profondo dello Stato moderno an-cor prima che della democrazia: la separazione tra sfera pubblica e sfera privata, ossia tra poteri politici e poteri economici. Il tramite di questa confusione di poteri e di interessi è costituito, non solo in Italia, dall’affermazione del primato del mercato sulla sfera pubblica, dalla conseguente subordinazione dei poteri di governo ai grandi poteri e interessi economici privati e dalla stretta alleanza tra poteri politici e poteri mediatici.
Ciò che caratterizza il caso italiano è la concentrazione nelle mani di una stessa persona di tutti e tre questi poteri – dei poteri politici di governo, dei poteri mediatici e di un enorme sistema di interessi e poteri economici in aperto conflitto con gli interessi pubblici – all’insegna di una concezione proprietaria delle istituzioni. Non si tratta di una semplice subordinazione degli interessi pubblici a interessi privati, ma di un fenomeno patologico, che svuota le forme stesse della rappresentanza politica quale rappresentanza senza vincolo di mandato, deprime quel presupposto elementare della democrazia che è il pluralismo delle fonti di informazione e si risolve, in assenza di limiti e regole, in due forme convergenti di assolutismo: l’assolutismo della maggioranza e l’assolutismo del mercato; l’onnipotenza dei poteri politici maggioritari e l’assenza di regole e controlli sui poteri economici.
Ne consegue il terzo aspetto della crisi della democrazia costituzionale: la squalificazione della sfera pubblica e della legalità, sia ordinaria che costituzionale, e perciò la crisi dello Stato di diritto quale sistema di limiti e vincoli imposti ai poteri politici della maggioranza e a quelli economici del mercato. Verticalizzazione, concentrazione, confusione e vocazione assolutistica dei poteri pubblici e privati equivalgono infatti all’odierna, nuova versione del «governo degli uomini» in luogo del «governo delle leggi». Si pensi al ricorso alla guerra in violazione del-la Carta dell’Onu e, in Italia, dell’art.11 della Costituzione; alla diffusione della pratica della tortura; alle leggi emergenziali, come il Patriot Act americano, lesive delle più elementari garanzie dell’ habeas corpus .
Si pensi, in Italia, alle leggi ad personam in favore degli interessi del presidente del Consiglio; al finanziamento delle scuole private escluso dall’art. 33 della Costituzione; alla lesione del principio costituzionale di progressività dell’imposizione fiscale. Si pensi, soprattutto, all’abdicazione della laicità dello Stato espressa dalla pretesa che il diritto sia utilizzato come strumento di imposizione o di rafforzamento della morale cattolica, identificata con la morale tout court ; alla crescente erosione della sfera pubblica quale insieme di funzioni e di istituzioni sottoposte a regole e a controlli, a garanzia dei diritti di tutti; alla demolizione del diritto del lavoro e delle sue classiche garanzie; all’indebolimento delle garanzie istituzionali dei diritti sociali; alla progressiva privatizzazione, infine, della sfera pubblica e delle relative funzioni in tema di istruzione, di previdenza sociale e di assistenza sanitaria. Ne risulta minato l’intero edificio dello Stato costituzionale di diritto quale strumento di garanzia dei diritti fondamentali, degradati a diritti patrimoniali di accesso, monetizzabili e negoziabili, in contrasto con il loro carattere universale e con il loro rango costituzionale che ne imporrebbe la sottrazione al mercato e alle ragioni del profitto e l’uguale garanzia a beneficio di tutti ad opera della sfera pubblica.
C’è infine un ultimo fattore di crisi – di tipo politico e culturale – che ha reso possibile e di cui si è resa interprete la manomissione della Costituzione del ’48: la regressione morale e civile di una larga parte della società italiana che si manifesta nell’attacco all’antifascismo, nel revisionismo storiografico e nella riabilitazione dei repubblichini di Salò, nella demonizzazione della tradizione comunista e socialista, nella squalificazione dello Stato sociale, nella riabilitazione della guerra come strumento di governo del mondo e di soluzione dei problemi internazionali, il tutto all’insegna di una sorta di fondamentalismo liberista e occidentalista. Nell’età della cosiddetta «fine delle ideologie» si è prodotto il più smaccato trionfo di tutte le ideologie reazionarie – populiste, liberiste, razziste, belliciste, clericali – provocato da un lato dalla crisi delle vecchie forme partitiche e sindacali di socializzazione, dall’altro da vere e proprie campagne ideologiche in favore dei valori della forza, del mercato, del successo, dei nazionalismi e campanilismi, della tradizione, dell’invadenza della religione nella vita pubblica.
Una nuova costituzione
È in questo quadro di crisi e di deterioramento della nostra democrazia che è maturato, quale sua massima espressione e coronamento, il progetto governativo di revisione costituzionale. Ciò di cui dobbiamo assumere consapevolezza è che questa riforma equivale alla decostituzionalizzazione del nostro sistema politico, ovvero alla costituzionalizzazione di tutti gli aspetti della crisi sopra indicati: alla demolizione, in breve, non solo della Costituzione repubblicana del 1948, ma del paradigma stesso della democrazia costituzionale.
Diciamo subito, innanzitutto, che si tratta, per le sue dimensioni e per lo stravolgimento prodotto, di una nuova costituzione , promossa da una coalizione di forze – Alleanza Nazionale, Forza Italia e Lega Nord – nessuna delle quali ha partecipato alla formazione della Costituzione vigente. Il senso politico dell’operazione è chiaro. Proprio perché non ha partecipato alla formazione della Costituzione antifascista del ’48 e in essa non si riconosce, questa nuova destra, oggi maggioritaria in Parlamento ma non nel paese, sta tentando di archiviare l’attuale Carta costituzionale e di varare una sua costituzione, una nuova carta d’identità della Repubblica, a sua immagine e somiglianza. Pretende, in altre parole, di rompere il vecchio patto di convivenza – che non a caso Berlusconi squalificò, sprezzantemente, come «sovietico» – e di imporne uno nuovo. Ciò che si vuole realizzare è prima di tutto una rottura della continuità costituzionale, al fine di rifondare la Repubblica sulle forze che alla Costituzione del ’48 furono estranee od ostili.
La prima considerazione suggerita da questa legge è perciò che essa non è, propriamente, una «legge di revisione» costituzionale, consistente di un singolo e determinato emendamento, quale è quella consentita dall’articolo 138 dell’attuale Costituzione. Essa è bensì una costituzione del tutto diversa da quella vigente, che altera l’intero assetto istituzionale, modificandone gli equilibri e ridefinendo competenze e regole di formazione e funzionamento di tutti gli organi costituzionali: del Parlamento e del Governo, del presidente della Repubblica e del presidente del Consiglio, della Corte costituzionale e delle Regioni.
Di qui un primo aspetto di illegittimità, sul piano delle forme e del metodo, di una simile riforma, che sconvolge l’intero assetto della Repubblica disegnato dalla seconda parte della Costituzione vigente, cambiando al tempo stesso la forma di Stato, da nazionale a federale, e la forma di governo, da parlamentare a para-presidenziale o peggio, come mostrerò, a monocratica. Giacché tale riforma, equivalendo in sostanza al varo di una nuova costituzione, non è legittimamente possibile sulla base della costituzione vigente, neppure ad opera di un’ipotetica assemblea costituente che pur decidesse a larghissima maggioranza. Il solo potere ammesso dalla nostra Costituzione è infatti un potere di revisione, che non è un potere costituente ma un potere costituito, il cui esercizio può consistere solo in specifici emendamenti; laddove, se diretto a dar vita a una nuova costituzione, esso si converte in un potere costituente e sovrano, anticostituzionale ed eversivo perché in contrasto, oltre che con l’articolo 138, con il principio stabilito dall’art.1 della Costituzione che «la sovranità appartiene al popolo», il quale da nessuno può esserne espropriato.
È questo un principio fondamentale del costituzionalismo democratico 2 , che da sempre ha fatto propria la classica distinzione di Sieyès tra «potere costituente» e «poteri costituiti» 3 . Ed è, soprattutto, il principio adottato da quasi tutte le costituzioni democratiche, che prevedono procedure di revisione ben più complesse della nostra, sul presupposto che la Costituzione è una cosa seria, sottratta alla disponibilità delle contingenti maggioranze. Proviamo a pensare come sarebbe accolta l’idea di una nuova costituzione negli Stati Uniti, la cui Costituzione richiede, nel suo articolo 5, che la proposta di un semplice emendamento sia avanzata dai due terzi dei componenti del Congresso o da due terzi delle legislature dei vari Stati, e che nel primo caso l’emendamento sia approvato se votato dalle legislature di tre quarti degli Stati e, nel secondo, se votato dai tre quarti dei membri di un’apposita Convenzione convocata dal Congresso 4 . In quasi nessun paese, poi, è consentita la revisione totale della costituzione, ma solo la revisione parziale mediante singoli emendamenti. Dove è prevista la revisione totale, come in Spagna e in Svizzera, essa è sottoposta a procedure talmente laboriose da rendere impossibili col-pi di mano di maggioranza 5 .
Ciò che invece è accaduto in Italia è stata l’approvazione a maggioranza – una maggioranza parlamentare che per di più è minoranza nel paese – di un testo che altera l’intero assetto costituzionale della Repubblica. Il precedente della sconsiderata riforma del titolo V, varata dall’Ulivo alla fine della scorsa legislatura, è invocato a sproposito: benché gravemente colpevole, quella riforma fu pur sempre una revisione settoriale della Costituzione, che per di più riprodusse una modifica approvata qualche anno prima da entrambi gli schieramenti nella Commissione Bicamerale. L’attuale riforma riscrive invece oltre 50 articoli della seconda parte, con gli inevitabili riflessi sulla prima. È la vecchia idea che Gianfranco Miglio espresse brutalmente dieci anni fa, dopo la prima vittoria delle destre: la costituzione non è un accordo tra tutti sulle regole del gioco ma è un «patto che i vincitori impongono ai vinti» 6 .
Ma questa nuova costituzione è illegittima, oltre che sul piano del metodo e delle forme, anche e soprattutto su quello dei contenuti, che come stabilì una storica sentenza della Corte costituzionale del 1988 non possono derogare ai «principi supremi» della Costituzione 7 . La Costituzione vigente disegna infatti un sistema complesso di regole dirette a limitare, a separare e a bilanciare i poteri pubblici onde impedirne, a garanzia dello Stato di diritto e dei diritti fondamentali di tutti, la degenerazione in poteri assoluti e illimitati. Il testo della riforma governativa, al contrario, unifica di fatto il potere politico nelle mani del Primo ministro eliminando limiti, controlli e contrappesi. Produce una verticalizzazione e una personalizzazione dell’assetto costituzionale, conferendogli un carattere monocratico che compromette o comunque indebolisce entrambe le dimensioni della democrazia costituzionale: la rappresentatività delle funzioni di governo e l’indipendenza delle istituzioni di garanzia. Contraddice perciò non solo la Costituzione vigente, ma lo spirito stesso del costituzionalismo democratico del secondo Novecento, la cui novità è consistita, dopo le tragedie dei fascismi e delle guerre mondiali, nei limiti e nei vincoli imposti dalle costituzioni rigide ai poteri di maggioranza, a tutela dei diritti fondamentali di tutti.
Il tracollo della funzione legislativa
Non parlerò di tutti gli aspetti aberranti di questa riforma. Non mi soffermerò, in particolare, sulla cosiddetta devolution , sulla qua-le si è concentrato l’intero dibattito politico; se non per dire che essa, assegnando in maniera esclusiva alle Regioni la competenza sulla scuola, sulla sanità, sulle funzioni di polizia e su «ogni altra materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato», introduce una rigidità nella separazione delle competenze tra istituzioni centrali e istituzioni regionali che non esiste nemmeno nei vecchi ordinamenti federali. È un mutamento della forma dello Stato che punta apertamente alla divisione dell’unità del paese, la quale si basa appunto sull’uguaglianza dei cittadini nei diritti fondamentali quali sono, in particolare, i diritti sociali alla salute e all’istruzione. Se passasse una simile riforma, si accentuerebbe il divario non solo economico, ma anche nella garanzia dei diritti, tra cittadini del Nord e cittadini del Sud, tra cittadinanza privilegiata delle regioni settentrionali e cittadinanza senza valore del Mezzogiorno. Senza contare la crescita enorme dei costi, delle complicazioni e dell’inefficienza derivante dalla duplicazione – anzi dalla moltiplicazione per il numero delle Regioni – degli apparati e delle burocrazie amministrative.
Ciò che invece merita di es-sere analizzata è la deformazione in senso monocratico del sistema politico prodotta da questa riforma. Mi limiterò a illustrare due manomissioni: l’incredibile complicazione della funzione legislativa e la demolizione del principio della rappresentanza politica.
Grazie alla prima manomissione, la funzione legislativa del Parlamento è destinata alla paralisi. L’attuale art. 70 – che si compone di una sola riga: «La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere» – vie-ne sostituito da un lunghissimo articolo che sembra il frutto di una mente malata. Il nuovo testo introduce quattro tipi di fonti: 1) leggi di competenza della sola Camera sulle materie riservate alla legislazione esclusiva dello Stato dall’art. 117 2° comma, cui il Senato federale «può proporre modi-fiche, sulle quali la Camera decide in via definitiva»; 2) leggi di competenza del solo Senato federale sulle materie riservate alla legislazione concorrente dello Stato e delle Regioni dall’art. 117 3° comma, cui la Camera «può proporre modifiche, sulle quali il Senato decide in via definitiva»; 3) leggi di competenza congiunta di entrambe le Camere su una lunga serie di materie previste dagli artt.117, 2° comma lett. m) e p), 5° e 9° comma, 118 2° e 5° comma, 119, 120 2° comma, 122 1° comma, 125, 132 2° comma e 133 2° comma, in ordine alle quali, ove le due Camere non approvino il medesimo testo, è architettata una complessa procedura che comporta il «voto finale delle due Assemblee» su un «testo unificato» elaborato da una Commissione paritetica convocata dai Presidenti delle due Camere e «composta da 30 deputati e 30 senatori» secondo un criterio di proporzionalità; 4) leggi di competenza del Senato sulle quali il governo, su autorizzazione del presidente della Repubblica chiamato «a verificar(n)e i presupposti costituzionali», può proporre modifiche «essenziali all’attuazione del suo programma approvato dalla Camera ovvero alla tutela delle finalità di cui all’art. 120»: modifiche che, se non approvate dal Senato, sono decise dalla Camera «in via definitiva a maggioranza assoluta dei suoi componenti». Senza contare una quinta fonte, quella prevista dall’attuale art. 120, a sua volta modificato, secondo cui «lo Stato può sostituirsi alle Regioni, alle Città metropolitane, alle Province e ai Comuni nell’esercizio delle funzioni loro attribuite dagli articoli 117 e 118, nel caso di mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria, oppure di pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica o quando lo richiedano la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali».
È difficile capire se ci troviamo di fronte a una prova di dissennatezza istituzionale oppure a un consapevole sabotaggio della funzione legislativa destinato a lasciar spazio illimitato alla decretazione d’urgenza del governo. Possiamo infatti immaginare il caos istituzionale che proverrà da una divisione delle competenze tra questi cinque tipi di fonti, a causa delle inevitabili incertezze e degli infiniti contenziosi generati da una ripartizione inevitabilmente generica e astratta delle cinque classi di materie ad esse attribuite. Si è previsto, nell’ultimo comma del nuovo art. 70, che in caso di conflitto su chi dovrà varare la legge controversa, decidano i due presidenti della Camera e del Senato, i quali potranno «deferire la decisione ad un Comitato paritetico composto da quattro deputati e quattro senatori» da essi stessi designati; che i due presidenti «d’intesa tra loro, su proposta del Comitato», stabiliscano i criteri di distinzione delle competenze; che in-fine, in deroga alla competenza della Corte costituzionale su questi tipici conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato, «la decisione dei Presidenti o del Comitato non è sindacabile in alcuna sede». Ma che cosa accadrà se i due presidenti non andranno d’accordo? o se non sarà raggiunto l’accordo all’interno del Comitato da essi istituito? oppure se il «testo unificato» elaborato dalla Commissione paritetica per risolvere il conflitto tra Camera e Senato sulle materie di competenza congiunta non sarà approvato da entrambe le due Assemblee (non essendosi neppure stabilito che esse deliberino in seduta comune)?
D’altro canto, agli inevitabili conflitti tra Camera e Senato in materia di legislazione statale, sono destinati ad aggiungersi i conflitti di attribuzione tra Stato e Regioni, che altrettanto inevitabilmente saranno prodotti dall’incertezza dei confini tra le tre classi di materie e di competenze disegnate dall’art. 117: 1) le materie di competenza esclusiva dello Stato, 2) quelle di competenza esclusiva delle Regioni, 3) quelle di competenza concorrente di Stato e Regioni. Avremo così una miriade non solo di conflitti, ma anche di conflitti tra conflitti. Potrà aversi il caso che su di una medesima questione – per esempio a proposito di una legge in una materia ritenuta da taluno di competenza esclusiva dello Stato e da altri di competenza esclusiva delle Regioni perché «non espressamente riservata alla legislazione dello Stato» – si producano due conflitti diversi destinati a essere risolti in sedi diverse: l’uno tra Stato e Regione, sulle loro rispettive competenze, affidato, in base all’art. 134, al giudizio della Corte costituzionale; l’altro tra Camera e Senato federale sulle loro competenze nella medesima materia, destinato ad essere risolto dai presidenti delle due Camere o dal Comitato da essi istituito.
Ne risulterà – tra un Parlamento articolato di fatto in quattro Camere (la Camera dei deputati, il Senato federale, la Commissione dei sessanta e il Comitato degli otto) e le 20 Regioni – una conflittualità intra-istituzionale permanente; la possibilità di ostruzionismi illimitati; un sovraccarico intollerabile di lavoro, su questioni puramente procedurali, per i due presidenti (e il loro Comitato) e per la Corte costituzionale; una squalificazione ulteriore della certezza delle fonti e delle leggi; il collasso definitivo del principio di legalità e dello Stato di diritto; una frana, infine, dell’intero edificio della democrazia parlamentare e rappresentativa.
L’attacco alla rappresentanza politica
Ma c’è una seconda e più massiccia frana della democrazia rappresentativa provocata dalla seconda manomissione sopra indicata dell’assetto costituzionale. Essa consiste nella demolizione del principio della rappresentanza politica, che è indubbiamente un «principio supremo» sottratto, come vorrebbe la già ricordata sentenza n. 1146 del 1988, al potere di revisione. Sotto due aspetti: perché il nuovo testo elimina di fatto il ruolo di controllo del Parlamento e la responsabilità di fronte ad esso dell’esecutivo; perché inoltre esso modifica lo statuto del parlamentare, trasformandolo in un mandatario passivo della coalizione cui appartiene e, di fatto, del suo capo.
Viene innanzitutto soppresso, dal nuovo testo, il voto di fiducia delle Camere nei confronti del Primo ministro, la cui legittimazione è rimessa direttamente al voto popolare. Il nuovo art. 94, infatti, dice che «il Primo ministro illustra il programma di legislatura e la composizione del Governo alle Camere entro dieci giorni dalla nomina» e che «la Camera si esprime con un voto sul programma». Ma questo voto non è un voto di fiducia, dato che non ne dipende la sopravvivenza del Governo essendo stato soppresso il primo comma dell’attuale art. 94 secondo cui «il Governo deve avere la fiducia delle Camere». Si prevede solo che sia lo stesso Primo ministro che, per disciplinare la propria maggioranza, possa «porre la questione di fiducia e chiedere che la Camera dei deputati si esprima, con priorità su ogni altra proposta, con voto conforme alle proposte del Governo», ovviamente «per appello nominale».
Al contrario sarà il Primo ministro che potrà sciogliere le Camere. È pur vero che si richiede la controfirma del presidente della Repubblica. Ma contrariamente a quanto prevede la Costituzione attuale, lo scioglimento è previsto, dal nuovo testo dell’art. 88, «su richiesta del Primo ministro, che ne assume l’esclusiva responsabilità». Lo scioglimento del Parlamento, da atto di un organo super partes come è il presidente della Repubblica, diviene insomma un atto politico del Primo ministro. È così che il rapporto di fiducia tra Parlamento e Governo si capovolge. Non sarà più il Governo che dovrà avere la fiducia del Parlamento, ma sarà il Parlamento che dovrà avere la fiducia del Primo ministro.
Ma c’è un altro mutamento, ancor più grave, del sistema rappresentativo. «La mozione di sfiducia», dice il nuovo art.94, deve essere sempre «votata per appello nominale e approvata dalla maggioranza assoluta dei componenti» della Camera; nel qual caso comporta, oltre alle dimissioni del Primo ministro, lo scioglimento della Camera medesima. Solo la cosiddetta sfiducia costruttiva, cioè accompagnata dalla designazione di un nuovo Primo ministro, consente la prosecuzione della legislatura. Tuttavia tale designazione deve essere operata «da parte dei deputati appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezioni in numero non inferiore alla maggioranza dei componenti della Camera». Non solo. In forza di un’altra norma anti-ribaltone, «il Primo ministro si dimette altresì qualora la mozione di sfiducia sia stata respinta con il voto determinante dei deputati non appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezioni». Non sarà insomma possibile cambiare in parlamento la maggioranza di governo.
Io credo che queste norme anti-ribaltone siano il vero cuore della riforma: il segno inequivoco della svolta che si intende realizzare. Grazie ad esse saranno impossibili le crisi di governo parlamentari. Maggioranza e minoranza vengono blindate, sicché solo i parlamentari della maggioranza avranno – non già singolarmente, non potendo unire i loro voti a quelli dell’opposizione, ma solo nel loro insieme – un potere di iniziativa politica e di responsabilizzazione dell’esecutivo; mentre i parlamentari della minoranza non conteranno nulla. È la fine della rappresentanza senza vincolo di mandato, essendo ciascun parlamentare vincolato alla coalizione di appartenenza. Ed è la violazione vistosa del principio basilare della democrazia politica, sancito dall’attuale e inalterato art. 67, se-condo il quale «ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato».
Non si tratta di una semplice «riforma». Con questa rigida separazione tra maggioranza e minoranza il Parlamento viene di fatto emarginato. Il nuovo sistema abolisce l’uguaglianza del voto dei parlamentari ed estromette di fatto l’opposizione da ogni funzione di controllo e di mediazione politica. Non solo. Esso vanifica anche la rappresentatività e la responsabilità politica dei parlamentari della maggioranza, i quali risulteranno vincolati da un rapporto di mandato verticale: il mandato imperativo, non già dal basso ma dall’alto, che lega il parlamentare al Primo ministro. Queste norme sono infatti dirette non solo a neutralizzare l’opposizione ma anche, e forse soprattutto, a disciplinare, a ricattare e di fatto a neutralizzare – come del resto è di fatto accaduto in questa legislatura – ogni potere di controllo della stessa maggioranza parlamentare. Non saranno più possibili, in base ad esse, crisi di governo parlamentari. Ne risulterà una totale irresponsabilità del Primo ministro di fronte al Parlamento in favore di un suo rapporto organico, diretto, con l’elettorato.
Si sta insomma progettando una deformazione radicale della democrazia, e non solo della democrazia parlamentare. Non viene infatti neppure instaurata una democrazia presidenziale di tipo pur sempre rappresentativo. La rappresentatività delle democrazie presidenziali, con tutti i loro difetti, è assicurata da parlamenti forti – si pensi al Congresso degli Stati Uniti – radicalmente separati e indipendenti dal potere esecutivo. Ma quando, come accade in questo scempio, il Parlamento viene trasformato in un organo decorativo rigidamente dominato da una maggioranza che a sua volta è sostanzialmente alle dipendenze del Primo ministro, scompare anche la democrazia rappresentativa. Giacché un organo monocratico quale è il Primo ministro non accompagnato da un Parlamento indipendente non può per sua natura, se-condo l’insegnamento di Kelsen già ricordato, rappresentare tutto il popolo, ma solo la parte vincente nelle elezioni. La democrazia, aggiunse Kelsen, «implica l’assenza di capi» 8 . Essa consiste in un sistema articolato di istituzioni di governo e di istituzioni di garanzia, di limiti e vincoli costituzionali imposti a tutte le funzioni pubbliche, di equilibri e contrappesi, di bilanciamenti e separazioni tra poteri, finalizzati ad impedirne straripamenti ed abusi a tutela dei diritti di tutti. Al contrario, l’idea opposta di un rapporto organico tra un capo – presidente o premier – e il popolo intero è un’idea organicistica e populista che contraddice la nozione stessa della democrazia, non diciamo costituzionale ma semplicemente «rappresentativa».
La battaglia in difesa della Costituzione
Purtroppo il problema più grave è che questa legge esprime una concezione della democrazia ampiamente diffusa, anche a sinistra. Circola da tempo nel centro-sinistra una cosiddetta «bozza Amato», che contiene la più grave di tutte le manomissioni della Costituzione contenute nel testo governativo. Tanto che non è chiaro chi abbia copiato da chi. Anche in questa bozza è prevista infatti una norma cosiddetta «anti-ribaltone» che prevede lo scioglimento delle Camere in caso di sfiducia, a meno che un nuovo primo ministro non venga indicato e votato dalla maggioranza iniziale. «In caso di sfiducia, e su sua proposta», cioè su proposta del presidente del Consiglio, è in essa stabilito, «vi sarà lo scioglimento, a meno che una mozione costruttiva votata dalla maggioranza iniziale, comunque autosufficiente anche se integrata o eventualmente ridotta, non proponga un diverso candidato». È sperabile che una simile proposta sia definitivamente archiviata e dimenticata, se non altro se non vogliamo che ne risulti screditata l’intera battaglia referendaria contro l’analoga controriforma della destra. Resta il fatto che quella bozza segnala una concezione monocratica e populista della democrazia che, come si è detto all’inizio, è presente anche a sinistra.
Di qui la necessità che l’attacco della destra alla Costituzione diventi l’occasione, nella battaglia che si aprirà con il referendum costituzionale, per una riflessione critica ed autocritica sulla gravità della posta in gioco, sui guasti provocati da oltre un decennio di logoramento costituzionale, sul nesso indissolubile, infine, che lega costituzione e democrazia. È necessario, in particolare, che da quest’attacco si traggano due lezioni, l’una di metodo, l’altra di merito.
La prima lezione riguarda i pericoli incombenti sul ruolo garantista della Costituzione. La controriforma della destra ha rivelato l’enorme debolezza delle attuali garanzie costituzionali. Nella totale disattenzione e disinformazione dell’opinione pubblica, una maggioranza parlamentare che è già minoranza nel paese ha potuto mettere in atto, cedendo, per salvaguardare se stessa, al ricatto di una sua componente minoritaria, la più pesante destrutturazione del nostro sistema democratico che sia mai stata concepita. Perché questo attentato non si ripeta, la battaglia referendaria dovrebbe essere accompagnata da un preciso impegno programmatico: il rafforzamento della debole garanzia della rigidità costituzionale apprestata dall’attuale art. 138. Sulla base di questa norma, che ingenuamente supponeva un generale lealismo politico nei confronti del patto costituzionale, la revisione della Costituzione richiede oggi semplicemente «due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi» e l’approvazione con la sola «maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione»: in altre parole, con il voto della sola maggioranza di governo, contro il quale può essere richiesto il referendum popolare, oltre tutto solo se esso non raccolga la maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera. È chiaro che se vogliamo che la Costituzione sia messa al riparo da altri futuri colpi di mano, la garanzia della sua rigidità dev’essere rafforzata in tre direzioni: a ) innalzando a 3/4 o quanto meno a 2/3 dei componenti delle due Camere la maggioranza qualificata richiesta per la revisione; b ) sottraendo esplicitamente alla revisione, in accordo con la sentenza già ricordata della Corte costituzionale, i principi supremi della Costituzione, come il principio di uguaglianza, il ripudio della guerra, i principi della rappresentanza politica e della separazione dei poteri e tutti i diritti fondamentali; c ) limitando infine il potere di revisione, come avviene negli Stati Uniti, all’adozione di singoli e determinati emendamenti. Si garantirebbe tra l’altro, grazie a questa terza condizione, che il potere di revisione, che è un potere costituito, non si trasformi in potere costituente varando, come oggi è avvenuto, una riforma dell’intera costituzione; e che il successivo referendum costituzionale avvenga su singole e determinate questioni, come ha più volte richiesto la Corte costituzionale, e non si trasformi a sua volta in un plebiscito.
La seconda lezione riguarda i pericoli incombenti sul nostro sistema democratico. Già oggi, come si è detto all’inizio, ci troviamo di fronte a una concentrazione di poteri – politici, economici, mediatici – in mano a una stessa persona che non ha precedenti né confronti in altri paesi democratici. Il cosiddetto premierato «assoluto», come è stato chiamato, introdotto da questa riforma, annullando di fatto il ruolo del Parlamento, indebolendo e sottoponendo alla logica dello spoil system il già fragile sistema delle istituzioni di garanzia – dal presidente della Repubblica ai presidenti delle Camere, dai giudici costituzionali e alle cosiddette Autorità indipendenti – darebbe vita ad una vera autocrazia. È insomma la concezione della democrazia costituzionale come sistema di limiti, di vincoli e di garanzie imposte a tutti i poteri incluso il potere politico di maggioranza, e inoltre come insieme di contrappesi e di separazione tra poteri, che dovrà essere ristabilita nel senso comune. Proprio questa concezione vie-ne infatti ribaltata dall’odierna revisione, dopo essere stata in tutti questi anni contrastata da Berlusconi e indebolita nello spirito pubblico. E allora occorre mostrare che l’attuale riforma altro non è che la legalizzazione della costituzione materiale del berlusconismo: del suo sistema autocratico, della sua insofferenza per limiti, regole e controlli giurisdizionali, dell’idea, in breve, che la democrazia consista unicamente nella scelta ogni cinque anni di un capo.
È intorno a questi pericoli che oggi occorre informare e mobilitare l’opinione pubblica nel corso della prossima campagna referendaria. Ma è chiaro che il referendum – non soltanto per essere vinto, ma anche per risanare la ferita inferta alla Costituzione – deve divenire una grande battaglia civile di difesa della democrazia costituzionale, non inquinata da proposte di compromesso del tipo «no a questa riforma» ma ad altre, nuove proposte di «aggiornamento». E questo, a me pare, potrà avvenire tanto quanto saranno soddisfatte due condizioni.
La prima è che il referendum venga promosso, nei tre mesi che ci separano dalla pubblicazione della legge di revisione sulla Gazzetta Ufficiale, da un fronte di forze ben più largo di quello richiesto dall’art. 138 della Costituzione, fino ad essere già rappresentativo della maggioranza degli elettori: non dunque soltanto da un quinto dei membri di una Camera, ma da tutti i parlamentari dell’opposizione più quelli della maggioranza, per esempio dell’Udc, che hanno manifestato dubbi o contrarietà; non soltanto da cinque Consigli regionali, ma da tutti i Consigli regionali nei quali il centro sinistra è maggioranza e perciò dalla maggioranza delle Regioni; non soltanto da 500.000 elettori, ma da milioni di cittadini, utilizzando magari per la raccolta delle firme le votazioni primarie finora programmate o da programmare in vista delle prossime elezioni.
La seconda condizione è che il referendum si svolga all’insegna dell’emergenza democratica, oltre che costituzionale. La prossima campagna elettorale potrà solo trarre vantaggio da una ferma battaglia contro lo scempio della democrazia costituzionale progettato dalla destra: consentendo di esibire i gravi pericoli che proverrebbero da una sua possibile vittoria, oltre che l’incompetenza e la sciatteria da essa dimostrate nel mettere mano alle regole del gioco democratico. Sotto questo aspetto le elezioni politiche e il referendum hanno un tema centrale comune: la sconfitta culturale, oltre che politica, del progetto berlusconiano e della concezione della democrazia che è alle sue spalle e, insieme, la rifondazione, nel senso comune, del carattere antifascista della Costituzione repubblicana e del suo valore normativo di programma politico e sociale, ancora in gran parte da attuare, e di fondamento e presidio della nostra democrazia.