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controlacrisi

Crisi di sistema

Ferruccio Gambino

La recessione cominciata due anni fa è una crisi di sistema e non una semplice battuta di arresto di un ciclo tendente alla normalità.

Per trovare un disastro simile occorre guardare alla Grande Depressione del 1929-38. E’ facile esagerare l’importanza degli avvenimenti correnti rispetto a quelli del passato, ma questo rovescio è colossale, comunque lo si misuri. Non basterà qualche rettifica per mettere in sesto un quadro sociale – prima ancora che economico – sconquassato.

Molti ammettono che questa crisi è sì di sistema, ma poi la spiegano a piccole dosi ansiolitiche. In realtà è crisi di sistema perché tocca in profondità i rapporti sociali in tutti i paesi investiti dalla globalizzazione. Per coloro che sono dalla parte delle lavoratrici e dei lavoratori, il dato saliente è la crisi dei rapporti sociali, ben prima di qualsiasi sboom finanziario. Già all’inizio degli anni ‘70, Stan Weir, un protagonista e osservatore delle relazioni lavorative negli Usa avvertiva la diffusa resistenza a condizioni di lavoro in via di deterioramento: “…grandi numeri di operai industriali non sono più disposti a tollerare le condizioni nelle quali si vuole che producano i beni e i servizi che…mantengono in vita questa società”.

Tuttavia il peggio doveva ancora arrivare. Dalla metà degli anni ‘30 fino all’inizio della Guerra Fredda (1947) il quadro istituzionale del New Deal di Roosevelt aveva diminuito la sperequazione nelle condizioni di lavoro e nei redditi in vaste aree del paese dove il sindacalismo industriale andava affermandosi. Rimaneva esclusa gran parte del Sud e del Sud Ovest, dove l’ombra lunga della schiavitù e del razzismo si proiettava sullo sfondo del New Deal. Facendo leva sul razzismo antisindacale e su molti dei rappresentanti politici di tali regioni, una legge di limitazione del potere sindacale (legge Taft-Hartley, 1947) colpiva i settori e le zone scarsamente sindacalizzate. Sulla stessa linea di attacco, negli anni ‘50 cominciavano i primi licenziamenti (illegali ma efficaci) contro gli organizzatori sindacali. Tuttavia il movimento di rivolta contro la segregazione razzista, allora in pieno sviluppo, metteva un freno inaspettato alle tendenze di destra. In generale, i nemici del New Deal dovevano ancora affilare le loro armi per un trentennio prima di prendersi la rivincita. Intanto cominciava a farsi sentire la concorrenza industriale della Germania e del Giappone, mentre le condizioni di lavoro diventavano più pressanti. Seguivano sei anni di intensi conflitti industriali (1968-74) che sovente debordavano fuori dalle burocrazie sindacali. Vari tentativi di dar vita a organizzazioni operaie indipendenti venivano stroncate congiuntamente dalla repressione pubblica e sindacale.

E’ dopo la crisi petrolifera del 1973-74 e la relativa recessione che la destra si decide ad “annichilire” (to zap) il lavoro tutelato dai contratti collettivi negli Usa, costruendo le opportune alleanze. La strategia è quadruplice e assume la forza di una tendenza oggettiva: desertificare le aree a più densa militanza sindacale negli Usa, investire all’estero in aree a bassi salari, importare forza-lavoro immigrata in regime di scarsi o nulli diritti, aumentare i carichi di lavoro e le disuguaglianze in termini di reddito, ritmi di lavoro, nocività, servizi pubblici. Le nuove parole d’ordine sono deregolamentazione, smantellamento del sindacato, rinunce “volontarie” sul costo del lavoro, polivalenza, abolizione dei mansionari , “senso di squadra con l’azienda”.

Nell’agosto del 1979 arriva il golpe. Lo mette in atto il capo democratico – Paul Volker - della Federal Reserve, mentre è ancora presidente un “progressista” democratico, Jimmy Carter: i tassi d’interesse a breve aumentano prima al 15% e poi al 20% per tre anni, riducendo di colpo i salari e l’occupazione e spegnendo così l’inflazione (leggi: il lavoro dipendente).

E’ il segnale atteso: i repubblicani negli Usa, i conservatori thatcheriani in Gran Bretagna e poi via via gli altri governi dei paesi industriali avviano la campagna contro il “labor” in tutte le sue forme, fino al governo cinese che sùbito dopo la strage di dissidenti di Tien An Men (1989) organizza la più dura e vasta campagna di aggressione mediatica mai condotta contro la “sua” classe operaia. Mentre comincia l’estasi postmoderna e postindustriale di una parte dell’intelligentsia occidentale, 150 milioni di cinesi vengono avviati al lavoro industriale nelle condizioni più dure, a produrre su linee che in Occidente scatenerebbero ancora conflitto, nonostante le batoste. E’ così che grandi aree industriali negli Usa e in Gran Bretagna perdono colpi ed è così che, a somiglianza degli anni ‘20, si forma una classe di esponenti del capitale finanziario che, come ha scritto il giornalista Robert Frank, sono dei super-ricchi esclusivi che “hanno formato il loro paese virtuale… un mondo chiuso in se stesso, stranieri della finanza, creatori di un proprio paese nel paese, di una loro società nella società e di una loro economia nell’economia”. Intanto il governo Reagan riporta in auge un’oscura sentenza della Corte Suprema del 1938 che autorizza l’assunzione permanente di crumiri durante gli scioperi, un prezioso ferrovecchio al quale nessun imprenditore aveva osato ricorrere nei quarant’anni precedenti.

A fronte delle crescenti disuguaglianze degli anni ‘80 e ‘90 e dell’inizio del nuovo millennio, la Federal Reserve allenta sempre più i vincoli imposti alle banche e abborraccia un palliativo che neppure le amministrazioni repubblicane di Coolidge e di Hoover avrebbero mai pensato di cucinare negli anni ‘20: indebitamento privato facile e mutui-casa a go-go servono a creare capitalisti immaginari, che dovrebbero barricarsi nella loro sfera privata e fronteggiare la scadenza delle rate. Ma questa operazione avviene alla fine di un lungo percorso di crisi del sistema industriale e finanziario. E’ in realtà il tentativo delle banche di salvarsi infarcendo i loro debiti con titoli immobiliari da spazzatura che spinge la finanza a erogare i mutui sub-prime.

Le banche non si convertono certamente al credo della destra libertaria del “diventiamo tutti padroni”. Offrono i mutui per la casa di proprietà chiedendo come garanzia del reddito perfino le ricevute delle vincite alle lotterie. Di tali garanzie non potrebbe importare di meno alle banche, perché poi rifilano questi crediti inesigibili ai primi malcapitati che arrivano a tiro.

Le interpretazioni dei sostenitori del capitalismo in tutte le loro gradazioni propongono varie correzioni di rotta, dopo aver indicato come cause della crisi corrente qualche sintomo immediato: incentivazione delle carte di credito, mutui ipotecari superiori al valore degli immobili, cartolarizzazione dei mutui e di altre forme di debito da scaricare su decine di migliaia di turlupinati nel paese e all’estero, menzogne delle maggiori agenzie di valutazione finanziaria. Oppure, ancora, eliminazione dei controlli del governo Usa sui crediti e sugli impieghi bancari di somme enormemente superiori alla loro base di capitale, evasioni e paradisi fiscali, pratiche opache e addirittura occulte ai quattro angoli della terra, vendita scriteriata di coperture assicurative. Adesso i più pensosi tra i difensori del capitalismo invocano il ripristino di regole severe per le banche, le assicurazioni e in generale le istituzioni finanziarie. Allo scoppio della crisi qualche centrale sindacale europea, con un’involontaria torsione tragicomica, puntava il dito sui fenomeni di capitalismo da casinò. Meglio di niente. Ma le grandi istituzioni finanziarie non vogliono saperne di vecchie o nuove regole. In ogni caso, siamo lontani dalla fine degli anni ‘90, quando un alto esponente della scuola economica di Chicago affermava che “il problema centrale di prevenire la depressione è stato risolto… per l’arco di molti decenni”, trovando poi un’autorevole consonanza con l’attuale premier laburista britannico, che è anche il più navigato economista tra i governanti dei paesi industriali.

 

Quando il capitalismo presindacale era alla frutta

Per tentare di comprendere la vicenda in corso dobbiamo riandare al periodo della Grande Depressione. Negli anni ‘20 sia negli Stati Uniti sia in Europa sia nel vasto mondo coloniale il movimento operaio di allora subisce pesanti sconfitte: dagli scioperi per il sindacato industriale negli Usa alla rotta del lungo sciopero dei minatori in Gran Bretagna nel 1926, al consolidamento del fascismo, dello stalinismo e poi del nazismo (1933), al mantenimento di fatto del lavoro forzato nelle colonie e al ritorno del lavoro coatto in Europa. In breve, i settori di classe operaia che escono allo scoperto e lottano per ottenere il riconoscimento del sindacato industriale perdono e perdono ripetutamente, così come perdono coloro che allora si battono contro il colonialismo.

Nei paesi industriali il piano inclinato si allunga fino al 1932-33. I salari nominali vengono decurtati direttamente in busta paga. Quasi tutti gli economisti affermano che quella è l’unica politica salariale praticabile: dolorosa ma necessaria a ridare coraggio agli investitori. Questa è la strada sulla quale s’incammina anche il disperato capitalismo tedesco che lo porta ad accettare e addirittura a favorire l’ascesa del nazismo nel 1933 e la distruzione del movimento operaio in Germania.

Intanto negli Usa gli operai della Ford – a fronte delle decurtazioni salariali - manifestano con cartelli che recano scritte eloquenti, “Se il veleno non funziona, provate la Ford”. Per tutta risposta e con la sua personalissima idea di previdenza sociale, Henry Ford apre il suo frutteto ai disoccupati africano-americani del vicino villaggio di Inkster, in modo che possano portarsi a casa qualche cesta di frutta e ortaggi. Va notato che nei primi anni ‘30 negli Stati Uniti, dopo la repressione degli Industrial Workers of the World nel decennio precedente, non ci sono sindacati industriali, ma soltanto sindacati di mestiere, con l’unica eccezione del sindacato dei minatori (United Mine Workers). Poi, arriva la svolta che talvolta è stata considerata un’insorgenza spontanea.

Ma, come diceva Marty Glaberman, allora giovane militante di New York, quasi sempre la spontaneità non è altro che il frutto di un invisibile sforzo organizzativo altrui.

A fronte della decurtazione dei salari e dei licenziamenti a partire dal 1930 si susseguono scioperi e dimostrazioni nei principali centri industriali degli Usa. Pure chi se la passa un po’ meglio prende le distanze dalla presidenza repubblicana che governa fino al 1932. Di solito gli scioperi sono perdenti, ma pur perdendo, non si abbandona mai la piazza. I disoccupati non disdegnano di mettersi in fila per il piatto di minestra, ma la fila è davanti agli occhi di tutti e alcuni fotografi dell’epoca diventano famosi riprendendone e diffondendone le immagini. Per contro, nelle dittature questo disagio viene occultato. Per esempio, in quel medesimo periodo nella Milano del fascismo la polizia spazzola le strade e mette i disoccupati sui treni, con tanto di foglio di via. Dunque le strade vanno ripulite, se ordine, legge e dittatura devono essere difesi. A quel tempo eravamo ancora al di qua della democrazia ma anche dell’imprigionamento di braccianti africani, colpevoli di ricevere salari da miseria e di sopravvivere nei tuguri.

Negli Usa dei primi anni ‘30 la sorpresa e l’indignazione sono grandi quando le dimostrazioni continuano a essere contrastate dalla Guardia Nazionale, anche dopo l’avvento della presidenza di F.D. Roosevelt (1933). Alle dimostrazioni seguono altre sconfitte. Tuttavia nell’aprile - maggio del 1934 in uno sciopero dell’auto a Toledo, nell’Ohio, occupati e disoccupati uniti sfidano industriali e autorità locali. La polizia della città si rifiuta di operare gli arresti dei dimostranti. Il governatore dell’Ohio ordina l’intervento della Guardia Nazionale che spara con mitragliatrici, uccide due dimostranti e ne ferisce parecchi altri. A quel punto un fatto nuovo assume i contorni di una svolta epocale: a fronte della sparatoria, i manifestanti invece di disperdersi si ricompattano contro la Guardia Nazionale. E’ allora che il Governo Federale prende atto del fatto che l’organizzazione unitaria degli occupati e dei disoccupati è ormai capace di reggere lo scontro a fronte del terrore. Se succede nella piccola Toledo, può succedere su più vasta scala altrove. Negli scontri di Toledo, due combattive organizzazioni gemelle, la Lega dei Disoccupati e l’American Workers Party, entrambe sotto la guida di A. J. Muste, un pastore protestante pacifista, strappano una vittoria che sotto altri cieli soltanto qualche movimento anticoloniale riesce a cogliere in quei tempi. Inoltre gli scontri di Toledo fanno appello a un’opinione pubblica che negli Stati Uniti non è un sacco di patate e che anzi possiede la capacità morale di indignarsi, stufa di essere governata da malvissuti che ordinano di prendere a mitragliate e di arrestare disoccupati e scioperanti.

Poi, sempre nello stesso anno, le lezioni del grande sciopero vincente dei camionisti del Minnesota, diretto da militanti trotzkisti del Workers Party e quello dei portuali di San Francisco guidato dal Partito Comunista sono ben comprese dalla ministra del lavoro, Frances Perkins e fatte valere nella loro portata all’interno del governo Roosevelt. E’ stato detto autorevolmente dallo storico statunitense George Rawick che negli Stati Uniti degli anni ‘30 non sono i sindacati che organizzano gli scioperi ma sono gli scioperi che organizzano i sindacati. E’ senz’altro vero.

Basta aggiungere che - dopo il disorientamento del 1929-38 - le esigue organizzazioni politiche proletarie svolgono un’opera cruciale. Erano riuscite a sopravvivere al deserto e alla repressione degli ultimi anni ‘20 e a reclutare giovani e soprattutto giovani immigrati di seconda generazione. Con il 1933 queste formazioni diventano cruciali per la ripresa delle campagne a favore dei senza-salario, della sindacalizzazione di massa e dell’approvazione delle leggi a favore del lavoro: diritti sindacali nei posti di lavoro, previdenza sociale, sostegno ai disoccupati, orario normato per legge, minimo salariale nazionale. Poi vengono la fine delle decurtazioni salariali, i contratti di lavoro, l’occupazione della General Motors di Flint e la sindacalizzazione del settore dell’auto e dell’acciaio. Finché nel 1941 l’osso più duro, la Ford, cede su tutta la linea e accetta il contratto sindacale. Fine del frutteto, della frutta e del fordismo presindacale. Ma attenzione: l’ostilità nei confronti del New Deal di Roosevelt non si placa. I rooseveltiani vengono tacciati di socialismo, e addirittura di bolscevismo. Una parte dei repubblicani non smetterà di voler cancellare il New Deal. Per farlo, le armi sono semplici: antisindacalismo in genere e razzismo contro gli africani-americani in particolare.

 

Banconote come cambiali per le generazioni future

A partire dal 2008, le maggiori istituzioni finanziarie degli Usa hanno preteso e ottenuto il salvataggio da parte del governo federale, che ha elargito il contante fresco d’inchiostro senza contropartite.

A ragione si può dire che il governo federale è stato e rimane ostaggio delle grandi banche. Al confronto, l’azione della prima presidenza Roosevelt appare sì limitata ma certamente assai più efficace e socialmente meno sghemba di quella odierna.

Dopo aver separato con una legge le banche commerciali da quelle d’investimento, il governo Roosevelt manda in fallimento oppure liquida e fa assorbire 2.000 banche (per l’equivalente di circa 40 miliardi e mezzo di dollari del 2009) tra il 1933 e il 1936, mentre più di 14mila banche tornano a operare alla metà di marzo del 1933, dopo otto giorni di chiusura nazionale. I piccoli risparmiatori delle banche fallite vengono rimborsati fino a un massimo di cinquemila dollari, mentre gli importi superiori non vengono affatto riconosciuti dal governo federale. Comincia la cosiddetta “Grande Compressione” dei redditi più alti, i cui effetti di eguagliamento nella società statunitense dureranno fino ai primi anni ‘70. Inoltre, sotto Roosevelt, il Congresso respinge qualsiasi richiesta di salvataggio bancario, mentre sotto George W. Bush e sotto Obama, cinque o sei grandi commessi – non eletti - decidono i salvataggi delle grandi banche (tranne la Lehman Brothers, costretta a fallire). Nel 2008 e nel 2009 il Congresso si acconcia ad approvare misure già prese ai piani alti della finanza. Ma non si tratta più delle cifre relativamente modeste del governo Roosevelt: dal 14 marzo del 2008 alla fine del 2009 i governi di George W. Bush e di Barack Obama scodellano 245 miliardi di dollari a circa 700 banche e assicurazioni, lasciando fallire le più piccole, e garantiscono 350 miliardi di debiti delle banche (in totale una cifra superiore di almeno quattordici volte a quella che il governo Roosevelt aveva speso per salvare i risparmiatori dalle insolvenze bancarie tra il 1933 e il 1936). Aggiungendo i 300 miliardi di prestiti a breve che il Governo Federale concede a grandi aziende industriali e i 955 miliardi di stimolo cardiaco all’economia si giunge alla cifra di 1850 miliardi di dollari: in media, un chiodo da tre miliardi di dollari al giorno.

Nel maggio del 2009 il maggiore quotidiano economico statunitense giunge ad affermare che, nell’assalto alla diligenza per strappare contributi, la Federal Reserve è diventata “un bazar”.

Alle elargizioni citate va aggiunta la garanzia federale contro tutte le future perdite delle due compagnie immobiliari parastatali per il triennio 2010-2012. In breve, mentre di nazionalizzazioni di banche o di aziende industriali decotte non se ne è vista neppure una, si può ben dire che la finanza, l’industria e l’immobiliare hanno imposto alle presidenze Bush e Obama la più grande privatizzazione mai avvenuta dei futuri bilanci pubblici, ossia del lavoro avvenire dei giovani statunitensi. Sulle loro spalle è stato gettato un enorme e crescente debito federale.

 

Qual è il golfo che separa la vicenda del New Deal da quella corrente?

In sintesi, la separazione è data da un’onda lunga quanto sessanta anni di reazione conservatrice al New Deal rooseveltiano.

E’ una reazione che governa e promuove la corrosione della vita sociale negli Usa, in un cornice istituzionale che concede sempre più spazio allo sfruttamento e sempre meno spazio alle ragioni del lavoro vivo.

Dell’onda lunga della reazione si colgono i primi segni già nei mesi successivi alla vittoria degli scioperi dell’auto del 1936 e alla sindacalizzazione di massa che segue, nella siderurgia, nella gomma, nel tessile e in altri settori. Al ristagno economico il governo federale risponde con il drastico aumento della spesa pubblica per il riarmo, in vista della guerra che verrà. Solo così sembra che il capitale finanziario e industriale possa essere soddisfatto. Ed effettivamente lo è in larga misura, poiché durante la prima fase della guerra l’impegno dei sindacati di non scioperare viene rispettato, mentre negli ultimi due anni la loro capacità di disciplinare gli iscritti si infrange contro la diffusione degli scioperi a gatto selvaggio. Ma con l’avvio della Guerra Fredda la reazione antioperaia riprende con vigore: prima estromettendo i membri del Partito Comunista e degli altri gruppi di sinistra da posti di responsabilità sindacale, poi trasgredendo la legge e perseguitando gli organizzatori sindacali nei posti di lavoro, secondo un copione che è stato poi seguìto in centinaia di migliaia di casi di vero e proprio accanimento nella più manifesta illegalità.

Dopo la devastazione antioperaia degli scorsi decenni tornano attuali le parole che un prezzolato ma candido organizzatore di campagne antisindacali negli Stati Uniti scriveva nei primi anni ‘90: “Il nemico era lo spirito collettivo… l’ho avvelenato, l’ho soffocato, l’ho manganellato se dovevo, qualunque cosa, purché non spuntasse fuori come una forza lavoratrice unita”.

Forse è questo il lato oscuro della corrente motivazione al lavoro salariato. Ma che può dire un capitalismo come questo quando, ad esempio, intende motivare chi deve assemblare un Suv? E soprattutto in una situazione lavorativa dove i tempi dell’assemblatore sono stati stretti da “45 secondi operativi” a “57 secondi operativi” per ogni minuto, com’è stato ordinato negli anni passati non solo nell’auto ma anche in altri settori. La crisi è in questa ossessione che è diventata un’ovvietà accettata dall’economia politica. Molti pensano ancora di potere svicolare alla spicciolata dai tempi compressi, ma è ormai un’economia politica che conduce al suicidio decine di migliaia di contadini indiani, di donne cinesi, di adolescenti giapponesi, che negli Stati Uniti ha reso l’espressione “diventare postale” un sinonimo non di un normale posto di lavoro ma degli stragisti che sparano all’impazzata su chi càpita, nella più grande ondata di disagio giovanile della storia dell’umanità. In questo cuore di tenebra del capitale sta la crisi di sistema e non nelle perdite di giocatori di borsa che comunque si tengono più o meno artificialmente a galla.

E’ su questo displuvio che i destini di sfruttate e sfruttati si dividono da quelli che non hanno interesse a guardare la profondità del dissesto in corso. E’ pur vero che il capitalismo è un sistema perennemente in crisi perché continuamente teso a sottomettere il lavoro vivo che vuole altro, rispetto alla fatica quotidiana che gli è imposta per sopravvivere. Tuttavia oggi il precipitato della crisi sta solidificando in muri, fili spinati e barriere che vengono innalzati un po’ dappertutto. Da qualche parte occorrerà ricominciare.

dal mensile SU LA TESTA, n.1, febbraio 2010
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