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la citta futura

Il Capitale del XXI secolo di Thomas Piketty

di Paolo Massucci

451601e2c2a2c10e47fcc6138e9e1f31 XLLa concorrenza perfetta invocata da economisti e governi non intacca i meccanismi che accrescono le disuguaglianze economiche. Al riguardo ecco la proposta di Piketty. La proposta di una imposta annuale sul capitale fortemente progressiva e mondialmente estesa appartiene al filone del socialismo utopista, intrinsecamente irrealizzabile

In questa corposa opera scientifica di quasi mille pagine (Il Capitale nel XXI secolo) Piketty - sulla base dei dati disponibili - presenta in maniera dettagliata, talvolta persino ridondante, lo stato attuale delle nostre conoscenze storiche sulla dinamica della distribuzione dei redditi e dei patrimoni a partire dal XVIII secolo, traendone, in ultimo, insegnamenti per il secolo in corso. La lezione principale - che conferma peraltro molti altri studi nonché la comune esperienza - è che il sistema capitalistico, se abbandonato a se stesso, continua a produrre progressiva divergenza economica all’interno della società, mettendo persino in discussione quello stato sociale faticosamente conquistato dai cittadini europei.

Il testo, non certo sintetico, costituisce uno studio serio che ha il merito di chiarire, su basi oggettive, la distribuzione della ricchezza mondiale, la sua dinamica storica e la direzione futura prevedibile, nonché quello di formulare una possibile soluzione chiara dei gravi problemi, della quale espone anche gli attuali ostacoli da rimuovere per la sua effettiva realizzazione.

La proposta formulata consiste in un processo di redistribuzione della ricchezza, mediante una elevata imposta mondiale fortemente progressiva da applicarsi sul capitale individuale, per invertire l’attuale andamento, altrimenti inarrestabile, di concentrazione della stessa ricchezza prodotta (con formazione di un’oligarchia internazionale). Secondo l’Autore, tale riforma si dovrebbe comunque realizzare per vie democratiche all’interno dell’attuale sistema capitalistico e sarebbe l’unico modo per impedire una situazione insostenibile di sempre più estrema disuguaglianza economica, tale da poter inficiare gli stessi meccanismi del funzionamento economico e da generare inevitabilmente disastri umanitari e sociali al punto da ipotizzare la fine della civiltà così come oggi la conosciamo.

Analizzando i dati statistici mostrati nel testo si evince che con il crescere delle disuguaglianze nella proprietà di capitali, la cosiddetta “classe media” tende a sparire e si proletarizza, determinandosi una separazione sempre più netta tra i nullatenenti e la classe possidente. Si evince anche che la “classe media”, che costituisce ancora una sorta di cuscinetto tra il proletariato vero e proprio e la borghesia e che ha costituito il perno dello sviluppo delle cosiddette “democrazie occidentali”, non è sempre esistita storicamente (e geograficamente), ma si è formata prevalentemente nei primi decenni del secondo dopoguerra, a seguito di peculiari fattori storici occorsi nei Paesi sviluppati. La classe media piccolo-proprietaria è stata una grande creazione del XX secolo, dovuta alla redistribuzione di una importante quota di ricchezza proveniente dai centili superiori, nonché -ma questo punto non sembrerebbe essere citato nel testo- dall’esproprio sistematico della ricchezza prodotta dai paesi colonizzati da parte dell’imperialismo occidentale. E oggi sempre più in crisi…

Il punto è che i decenni successivi alla Seconda Guerra Mondiale, i Trente Glorieuses, come ci illustra Piketty, sono stati l’unico periodo nella storia del capitalismo in cui si sono verificate le seguenti condizioni, in particolare nei Paesi del cosiddetto “Primo Mondo”:

In tale congiuntura storica l’accumulo di ricchezza è provenuta prevalentemente dai redditi di lavoro anziché dal capitale ereditato o accumulato nel passato e ciò ha determinato una maggiore mobilità sociale ed una effettiva, sebbene parziale, emancipazione sociale.

L’Autore mette opportunamente in rilievo come questa fase storica si sia andata esaurendo intorno agli anni settanta e come, conseguentemente, la sua fenomenologia sociale in termini di distribuzione della ricchezza (minore disuguaglianza economica, espansione di una classe media, sviluppo dello stato sociale), a partire da quel periodo, pur con un ritardo inerziale, si stia ritrasformando in senso regressivo. Si è trattato infatti di una fase peculiare e temporanea, non del naturale sviluppo capitalistico.

Ci stiamo ormai avviando, in tutti i Paesi Sviluppati e in buona parte del mondo, verso una diseguaglianza economica in termini patrimoniali simile a quella vissuta dall’Europa nel XIX secolo -con l’1% di rentiers che possedeva il 50-60% dei patrimonio nazionale, il 10% che ne possedeva il 90% e il resto della popolazione che viveva di stenti- e tendenzialmente potremo persino superarla se non si interverrà. Ancora più drammatica è la crescente disuguaglianza dei redditi da lavoro: a partire dagli anni settanta-ottanta assistiamo, soprattutto e ad iniziare dagli Stati Uniti, ad una esplosione senza precedenti delle disuguaglianze di reddito, con una crescita impressionante del reddito da lavoro essenzialmente a beneficio esclusivo dell’1% più benestante. Ciò è dovuto in particolare ad una classe di supermanager delle multinazionali con stipendi annui di diversi milioni di dollari (o di euro) e persino di centinaia di milioni per le posizioni di vertice: nessuno può prevedere fino a quale livello ci si potrà spingere da oggi in avanti. La polarizzazione dei redditi da lavoro sta facendo sì che le famiglie ad alto reddito - oltre il novantesimo o i novantacinquesimo percentile -, impiegando appena una piccola parte del loro reddito, possano sempre più impiegare come domestici una buona parte della popolazione a minor reddito. Si sta ricreando il lavoro servile ?

La crescita estrema della disuguaglianza, con l’attuale andamento, potrà raggiungere un livello tale da essere considerata intollerabile e dar luogo a lotte violente a cui si opporrebbero da una parte un più forte apparato repressivo dall’altra un’operazione di vitale legittimazione ideologica della posizione dei vincitori, operazione che naturalmente è già pienamente in atto. Quest’ultima si propone sia di giustificare la ricchezza e gli alti redditi con il merito sul lavoro (capacità e sacrificio) sia con la loro necessità sociale, nel senso che la eventuale riduzione degli alti redditi nuocerebbe al resto della popolazione.

L’Autore fa notare che tutti i dati disponibili suggeriscono che, a dispetto dei luoghi comuni ideologici, la mobilità sociale nell’America del XX secolo e all’inizio del XXI (nazione che presenta la maggiore disparità dei redditi da lavoro), sia molto bassa ed inferiore a quella dell’Europa. Ciò viene messo in relazione con l’elevato costo degli studi universitari, proibitivo per le classi popolari e medie, ed in particolare di quelli più prestigiosi (ad Harvard, che non è nemmeno l’università più cara, le quote di iscrizione ammontavano a 54.000 dollari nel 2013). Certamente l’accesso esclusivo agli studi più qualificati e prestigiosi impedisce qualsiasi vera mobilità sociale, accelerando ed aggravando piuttosto il processo di riproduzione intergenerazionale (altro che opposizione tra generazioni o divisione della ricchezza sulla base dell’età, come pure viene affermato ideologicamente!). Ma c’è di più: gli economisti ad esempio, soprattutto i più quotati, provengono proprio dalle classi più privilegiate e svolgono un ruolo tecnico per i decisori politici, oltre a quello di insegnamento e divulgazione. La loro appartenenza di classe comporta pertanto anch’essa, indirettamente, un’azione di autorigenerazione delle stesse disuguaglianze. A tal proposito Piketty sostiene che teorie e metodologie nella scienza economica risentano profondamente di tali interessi e cita l’utilizzo diffuso di indicatori astratti di disuguaglianza, quali il Coefficiente di Gini o il Principio di Pareto o i rapporti interdecili, i quali si propongono di edulcorare le stesse disuguaglianze, presentandole come naturali, ovvie, eterne. Nel testo viene smentito anche il mito, riduttivo e infondato, dell’accumulazione come “ciclo di vita”, suggerito dall’economista italiano Modigliani, apologeta del liberismo economico, secondo cui il capitale sarebbe accumulato nel corso della vita lavorativa mediante il risparmio, per essere utilizzato interamente, dopo il pensionamento, per mantenere il tenore di vita, anziché essere destinato a trasmettersi con l’eredità.

Le grandi ricchezze generano ovviamente potere e capacità di lobbying e ciò è certamente una delle spiegazioni della tendenza alla riduzione della progressività delle imposte che a sua volta aumenta di fatto il reddito netto della classe più benestante (si pensi, passando all’attualità, alla drastica riduzione delle imposte alla imprese americane stabilita dal tycoon Trump, o, nel piccolo, alla assurda proposta di una flat tax, nella campagna elettorale italiana in corso, da parte del magnate Silvio Berlusconi). Un altro fattore di divergenza deriva dal fatto che i capitali maggiori rendono di più di quelli piccoli o minimi (immaginiamo i tassi di interesse irrisori, spese a parte, di un conto corrente bancario o postale), grazie alla maggiore economia di scala nei costi della gestione finanziaria come pure al migliore accesso di informazioni sui mercati finanziari, riservate e non. In più al crescere della dimensione dei capitali aumenta la capacità di evasione fiscale, legale ed illegale (si pensi ai cosiddetti paradisi fiscali, maanche alla costituzione di fondazioni private e di trust funds o allo spostamento delle sedi fiscali delle società o della residenza personale dove conveniente, ecc.). Tutto ciò comporta, in un circolo vizioso, una crescita esponenziale dei patrimoni più grandi.

Piketty sostiene, a ragione, contro Pareto, che non esiste un limite “naturale” al livello di disuguaglianza della distribuzione di redditi e ricchezze, non esistono fattori automatici di regolazione che lo stabilizzino, ma sono i fattori esogeni che giocano. D’altra parte non ritiene verosimile la teoria del futuro crollo automatico del capitalismo come conseguenza della marxiana caduta tendenziale del saggio di profitto. Tale andamento infatti può essere attenuato o persino temporaneamente bloccato o invertito da una serie di controtendenze tra cui lo sviluppo tecnologico o le politiche neoliberiste pro capitale.

La soluzione preferibile formulata da Piketty sarebbe, in sostanza, una imposta annuale individuale sul capitale fortemente progressiva, a tassi quasi confiscatori per le maggiori ricchezze ed estesa a livello mondiale. Per rendere ciò attuabile, sottolinea l’Autore, occorre però creare strumenti nuovi, fondati teoricamente su un sistema altamente trasparente di scambi automatici di informazioni bancarie, affidabili e globali, sulla distribuzione dei patrimoni, in mano al potere pubblico e che svolga interessi generali. Questo secondo l’Autore sarebbe l’unico modo, non certo semplice da attuarsi, che consentirebbe alla democrazia di riprendere il controllo del capitalismo finanziario globale, salvaguardando allo stesso tempo il dinamismo imprenditoriale. E sarebbe pertanto una soluzione più “pacifica” di quella, peraltro definita fallimentare, attuata dall’Unione Sovietica nel XX secolo. L’Autore suggerisce anche che la soluzione illustrata consentirebbe di rimborsare tutto o in parte l’astronomico debito pubblico, accumulato da molti Paesi del sud Europa tra cui l’Italia. In maniera condivisibile questi afferma che il debito pubblico costituisce una ricchezza privata che grava sulla povertà pubblica e va incontro agli interessi di chi dispone di mezzi finanziari per prestare soldi allo Stato, a cui sarebbe stato invece meglio far pagare le imposte.

Tuttavia non è chiaro come possa essere imposta una tale soluzione, che non è certo tecnica ma politica, la quale in pratica significherebbe la perdita del controllo del potere da parte del capitalista e la sua, pur graduale, espropriazione. Tant’è vero che oggi, in effetti, prevale un senso di impotenza da parte delle classi popolari e delle classi medie, e, all’opposto di quanto auspicato, persino a livello europeo gli Stati entrano in concorrenza, divisi dall’esigenza, penalizzante, di attrarre capitali, come lo stesso testo ci espone.

Assistiamo infatti ormai ad una gara continua per ridurre le imposte sui redditi delle imprese e per detassare i redditi finanziari, al punto che già oggi il prelievo fiscale sui vertici della gerarchia sociale di fatto ha già perso ogni progressività. Il modo di produzione capitalistico si è sviluppato e si regge, possiamo dire, non perché sia più efficiente di altri modi di produzione, ma perché esso fornisce ai capitalisti il più grande profitto e il più grande potere. Consentiranno mai i capitalisti di attuare la soluzione proposta da Thomas Piketty che, pur mantenendo il capitalismo, eliminerebbe i più grandi privilegi alla classe detentrice del potere, cioè a loro stessi?

Infine, il titolo del testo non può non richiamare la maggiore opera filosofica di Marx, ma naturalmente la distanza tra di esse, a parte qualche minore analogia (quali diversi richiami alla letteratura francese ottocentesca) e minimi riferimenti allo stesso Marx, rimane siderale: l’indagine di Piketty, pur attenta alle dinamiche del processo storico, si svolge da una prospettiva strettamente socio-economica e quantitativa ed è lontana da qualsiasi profondità valutativa filosofica. Chiarito ciò, il testo dell’autore francese può essere indubbiamente uno strumento molto utile come punto di partenza per una discussione politica, in considerazione dei drammatici dati oggettivi e del loro andamento generati dal sistema capitalistico ed opportunamente qui mostratici.

Per concludere, si potrebbe dire che le soluzioni individuate da Piketty, posto che risolverebbero il problema della ingiusta distribuzione della ricchezza nel sistema capitalistico e della connessa perdita della democrazia, siano l’ultima possibilità di dimostrare l’eventuale riformabilità del capitalismo. Ad oggi, a quasi cinque anni dalla pubblicazione dell’opera, che pure ha venduto nel mondo oltre un milione di copie, passi avanti anche minimi verso l’applicazione delle ricette qui proposte non risulta siano state fatti, e questo deve far riflettere.

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