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Una crisi, tante teorie

di Marco Palazzotto

Pubblichiamo la relazione introduttiva di Marco Palazzotto all’incontro con Vincenzo Comito, “Banche tra normativa europea e digitalizzazione”, tenutosi a Palermo il 16 maggio 2018. Qui il video dell'incontro

01567Nell’ultimo decennio abbiamo assistito a vari dibattiti sulla crisi finanziaria scoppiata nel 2007/2008. Tenterò di sviluppare sinteticamente alcune analisi che più meritano attenzione, a mio parere, nella discussione a sinistra.

Un primo esame della crisi si può far rientrare nel filone del cosiddetto ‘marxismo ortodosso’ e fa riferimento alla legge, che Marx espone in buona parte nella sua principale opera Il capitale, chiamata teoria della caduta tendenziale del saggio di profitto.

In breve: il saggio di profitto (Sp) è dato dal rapporto tra plusvalore (Pv) e capitale (quest’ultimo è pari alla somma tra capitale costante [C] e variabile [V]).

Sappiamo anche che il saggio di plusvalore (Spv) prodotto dalla classe lavoratrice è uguale al rapporto tra plusvalore e capitale variabile (investimento in forza lavoro).

​Marx afferma che esiste una tendenza – apparentemente dovuta al progresso tecnologico, e che si manifesta nei relativi investimenti in capitale costante – che fa aumentare la composizione organica del capitale (rapporto tra capitale costante e variabile). Tale tendenza è dovuta al continuo tentativo di aumentare la produttività per ottenere maggiore plusvalore (diviso in plusvalore assoluto e relativo). Più aumenta il capitale costante in rapporto al capitale variabile (denominatore della formula 1) più diminuisce il saggio di profitto.

Tale teoria, viste le controtendenze in atto nel capitalismo (ad esempio: consumismo nel fordismo del dopoguerra; oppure finanziarizzazione nel neoliberismo) viene criticata, in diversi casi, come poco aderente alla realtà.

Solo per accennare ad alcune critiche più autorevoli, Sweezy ad esempio fa notare che, partendo dalla formula del saggio di profitto, la presenza di una variabile al numeratore ed una al denominatore (ovvero il saggio di plusvalore e la quota di capitale costante) rendono la teoria poco applicabile empiricamente. Sweezy, infatti, asserisce che: “se si afferma, come noi affermiamo, che tanto la composizione organica del capitale quanto il saggio del plusvalore sono delle variabili, la direzione nella quale il saggio del profitto cambierà diviene indeterminata” (La teoria dello sviluppo capitalistico”, tratto da “The communist – Contro l’economia politica di Sweezy” – quaderni 1979). Infatti, sarebbe tautologico, usando un’espressione di Joan Robinson, descrivere come tendenzialmente calante un rapporto che vede costante il saggio di plusvalore (Stefano Perri, Ritorno al futuro? La caduta tendenziale del saggio di profitto, tra teoria ed evidenza empirica. Convegno The Global Crisis, Siena 2010).

Un’altra chiave di lettura può essere fornita dagli studi sulle variabili distributive di Kalecki o Sraffa. Kalecki, per esempio, nella sua Teoria della dinamica economica afferma che il saggio di profitto è una variabile ‘esogena’. In altre parole il capitalista fissa tale variabile dopo aver deciso quale quota del suo reddito destinare ai consumi e che investimento realizzare basandosi sulle aspettative future dell’efficienza marginale del capitale (Sulla dinamica dell'economia capitalistica. Saggi scelti 1933-1970, Einaudi 1975). Se la classe capitalista fissa quindi il saggio di profitto, le variabili che lo influiscono diventano dipendenti e non il contrario.

Una seconda analisi della crisi è stata sviluppata da alcuni accademici post-keynesiani. L’Europa, che è stata investita dalla crisi dei subprimes proveniente dagli USA, non costituendo un’area valutaria ottimale, ha fatto emergere gli squilibri commerciali derivanti dalla ‘gabbia’ dell’Euro che non permette svalutazioni competitive e politiche espansive (Bagnai e Cesaratto dal 2011). Una tendenza al mercantilismo della Germania e dei satelliti dell’ex area del marco hanno prodotto avanzi di bilancia dei pagamenti di parte corrente, che si sono tradotti in crediti finanziari verso i debitori dei paesi del sud Europa. I target 2 rappresentavano un termometro di questi squilibri. Quando le banche del centro nord hanno richiesto di rientrare dalle posizioni debitorie sono esplosi i debiti pubblici. Sappiamo come è andata poi a Irlanda, Grecia, Portogallo, Spagna e Italia.

Una soluzione a tale crisi, secondo alcuni, potrebbe derivare dalla rottura degli accordi monetari. Ritornando ad una moneta fluttuante, che segue i differenziali di prezzo tra le diverse economie, si manterrebbero i rapporti tra importazioni ed esportazioni in equilibrio e si neutralizzerebbero le tendenze mercantiliste dei pesi in surplus come la Germania. In verità tale soluzione dovrà essere accompagnata da una politica monetaria espansiva di banche centrali sotto il controllo statale. Una maggiore ingerenza nell’economia da parte governativa dovrebbe avvenire anche per alcuni settori chiave e trainanti, come il settore energetico, delle telecomunicazioni, dell’industria pesante, dei trasporti.

Una variante marxista di tale interpretazione individua il problema nella politica di costruzione europea: i vincoli imposti dalle varie politiche di austerità, come il fiscal compact, non sarebbero altro che il frutto di volontà di oligarchie internazionali per tenere sotto controllo le economie dei paesi meridionali. In particolare, i più colpiti ne uscirebbero i lavoratori in un contesto di conflitto tra classi sociali antagoniste. Tale comitato d’affari europeo può essere sconfitto solo attaccandolo sulla costruzione continentale e quindi ponendo come obiettivo lo smantellamento delle istituzioni europee, ottenendo la tanto agognata “sovranità nazionale”.

Una terza interpretazione della crisi, riformista e ‘compatibilista’ rispetto alla struttura istituzionale europea, è quella che potremmo chiamare più puramente keynesiana (un esempio è quello francese de Les Economistes atterrés). Tale lettura prende in considerazione la sproporzione tra i profitti del settore finanziario e quelli dei settori produttivi. Ci sarebbe un intervento esagerato nella finanza dei pochi. Inoltre, esiste un problema distributivo: quote sempre maggiori di reddito, nella ripartizione del surplus mondiale, vengono accentrate presso una classe, mentre i percettori di salari ottengono quote sempre minori. Soluzioni vengono ricercate nella diminuzione del potere della finanza. Una proposta verte sulla Tobin Tax. Gli squilibri distributivi potrebbero essere ridotti grazie ad un aumento della domanda aggregata su impulso dei consumi via aumenti salariali, e diminuzione della disoccupazione via investimenti pubblici. Infine i debiti pubblici e gli investimenti pubblici potrebbero essere stimolati solo da una Banca Centrale Europa che assuma il ruolo di Lender of last Resort (prestatore di ultima istanza).

Una quarta ed ultima valutazione della crisi viene da altri economisti che pongono al centro l’interpretazione marxiana mista alle teorie post-keyenesiane che utilizzano modelli come quelli elaborati per spiegare l’instabilità finanziaria (Minsky) o il circuito monetario (in Italia Augusto Graziani).

Secondo tali pensatori (in Italia ad esempio Halevi e Bellofiore), la crisi che stiamo vivendo ormai da un decennio potremmo definirla un ‘Minsky Moment’, dal nome del noto economista americano post-keynesiano, padre del modello dell’instabilità finanziaria.

Secondo tale visione la crisi del 2007/2008 deriverebbe da una Capital asset inflation che ha generato a partire degli anni ’80 una inflazione dei prezzi delle attività grazie ad un “capitalismo dei fondi”. L’afflusso crescente di risorse finanziarie sui mercati e proveniente dai fondi pensione e fondi istituzionali, ha consentito alle imprese produttrici di autofinanziarsi, con l’emissione più cospicua di azioni a condizioni più convenienti. È aumentata quindi la componente speculativa del guadagno a fronte della componente produttiva. Ne è derivata una ‘centralizzazione senza concentrazione’, ovvero grandi fusioni e acquisizioni (centralizzazione), a fronte di una frammentata rete produttiva (a scapito dunque della concentrazione).

Intanto, è cambiata la forma tipica del circuito monetario del capitalismo “fordista”. Nel secondo libro del CapitaleMarx ci spiega che la finanza occupa un ruolo importante nel circuito del capitale il quale assume la forma prima del capitale monetario, all’inizio del circuito, poi come capitale produttivo e infine come capitale-merce. La valorizzazione del capitale avviene nella fase in cui il capitale assume la forma di capitale produttivo. Da questo circuito, Marx dimostra che il capitalismo è un’economia monetaria di produzione e che il circuito del capitale ci consente di capire dove entra la finanza.

Con la teoria del circuito monetario Graziani e altri rappresentarono il capitalismo come un circuito (come fece Marx) nel seguente modo:

La sequenza viene aperta dalla decisione delle banche (la classe dei capitalisti monetari) di accordare un’apertura di credito a favore delle imprese (la classe dei capitalisti industriali), per le quali tale flusso di moneta (il capitale monetario) costituisce, al contempo, il potere d’acquisto necessario ad acquistare la forza-lavoro da impiegare nel processo produttivo. Tale sequenza si chiude soltanto quando le imprese, una volta che hanno venduto le merci e quindi monetizzato la produzione, ripagano il debito verso le banche, suddividendo il profitto tra profitto industriale e profitto bancario (l’interesse).

Senza la creazione di moneta-credito da parte delle banche (che possono semplicemente annotare contabilmente con impulsi elettronici), non si può avere il processo di produzione e scambio. In questo modello i mercati finanziari assumono un ruolo ancillare di intermediari tra imprese e mercato per la collocazione di titoli emessi dalle stesse imprese, recuperando una parte della moneta bancaria immessa nel circuito sotto forma di salari. Come rileva Marco Veronese Passarella (in Augusto Graziani tra Keynes e Marx, 2014) sin dagli anni ’70 sembra che il mercato finanziario abbia assunto un ruolo centrale nella produzione capitalistica e quindi nel circuito del capitale, soprattutto nei paesi anglosassoni. L’utilizzo di carte di credito, mutui, credito al consumo, ha trasformato il salariato da risparmiatore a debitore netto. L’asse tradizionale banche - imprese - famiglie è stato gradualmente rimpiazzato quindi dall’asse banche - mercati finanziari - famiglie. Succede quindi che le banche concedono crediti alle famiglie, queste destinano risorse ai consumi maggiori rispetto al proprio salario. Le imprese destinano i maggiori profitti ad investimento finanziario in prodotti derivati creati dal sistema bancario (i derivati hanno come base “collaterale” proprio il rapporto creditizio con le famiglie). Bastano delle perturbazioni finanziarie esterne al circuito che fanno crollare tale sistema appartatamente stabile. In questo quadro i mercati finanziari sono in grado di incidere indirettamente sull’intensità di lavoro e dunque sul processo di creazione di valore e di plusvalore.

La scommessa per il futuro sarà capire come il capitalismo reagirà a questa crisi, e come rimodellerà il circuito del capitale. Assistiamo certamente ad una fase di reindustrializzazione protettiva degli USA. La Cina ormai rappresenta un’economia matura e superpotenza mondiale seconda, forse ancora per poco, agli USA. Sicuramente la nuova rivoluzione tecnologica, oggi di fatto trainata da pochi operatori (soprattutto cinesi e statunitensi), farà la differenza. L’Europa pare destinata ad un ruolo marginale, mentre l’Africa potrebbe diventare il nuovo bacino di fornitura di lavoro salariato, prendendo il posto che fu dell’Asia nel secolo scorso.

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