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officinaprimomaggio

Storia di due marxismi: in ricordo di Erik Olin Wright

di Michael Burawoy

Un saggio, due autori: attrezzi per leggere il presente e per trasformarlo

Screenshot from 2020 05 16 12 53 46Questo scritto, in cui Michael Burawoy[1] traccia un rigoroso profilo intellettuale del collega e amico Erik Wright, è stato redatto per la conferenza in ricordo di Erik Olin Wright – scomparso nel gennaio 2019 – tenutasi l’1 e il 2 novembre 2019 all’Università del Wisconsin a Madison, dove Wright era stato docente nel Dipartimento di Sociologia e per circa quarant’anni direttore del Havens Center for Social Justice. Lì Wright aveva sviluppato nell’arco di alcuni decenni il suo programma di ricerca scientifica neo-marxista atta a rielaborare un’analisi di classe al passo con i tempi, progetto che all’inizio degli anni Novanta, a seguito di aporie scientifiche e mutamenti politici più generali, lasciò il posto al Progetto di utopie reali. Grazie a Erik Wright, il Havens Center è stato non solo un dipartimento universitario di assoluta centralità nel dibattito sociologico americano, ma un’autentica fucina di sociologia critica, crocevia di generazioni di ricercatori e attivisti da tutto il mondo, dove si fondono rigore scientifico e impegno politico.

Questo saggio è stato inviato da Michael Burawoy a Opm, e riproduce il testo pubblicato sul numero 121 della New Left Review, uscito nel febbraio 2020.

Burawoy è stato nel 2004 presidente dell’American Sociological Association – carica che anche Wright avrebbe ricoperto, nel 2012 – ed è tuttora docente in uno dei luoghi più rilevanti della produzione sociologica americana, il Sociology Department dell’Università di California a Berkeley.

L’importanza della traduzione di questo scritto è molteplice. Anzitutto, permette di far entrare nel dibattito pubblico italiano i due autori statunitensi, entrambi esponenti di una via “critica” alla scienza sociale, che mentre a livello globale hanno esercitato un’indiscussa influenza scientifica e intellettuale, nel nostro paese sono poco noti ai non addetti ai lavori.

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Derrida comunista

di Leo Essen

comunisti cinaC’è lutto anche in politica. E ad essere in lutto non sono i comunisti che hanno creduto di aver perso, con il socialismo reale, anche il sogno di un comunismo possibile. La mente va a Althusser, al ricordo che ne offre Élisabeth Roudinesco, quando, parlando dell’amico scomparso, accosta il suo destino a quello di tutta una generazione di comunisti che, di fronte al disastro del socialismo reale, vedevano inabissarsi il loro ideale ed erano costretti a rinunciare all’impegno militante, con il risultato di sprofondare nella malinconia. Il lutto come ossessione, come un fantasma dell’ossessione, come idealizzazione e reificazione, e la malinconia, come memoria di una perdita, non possano essere confinati al socialismo reale. Rispondendo a Roudinesco, Derrida dice di non credere che la «malinconia» di cui lei parla – questa mezza sconfitta che non è possibile in alcun modo ridurre né esaurire, questo atteggiamento di scacco strutturale che segna l'inconscio geopoltico dei nostri tempi – sia soltanto il segno del decesso di un determinato modello comunista. Esso, dice, non fa che riversare i suoi pianti, talora privi di lacrime e inconsapevoli, più spesso fatti di lacrime e sangue, sul cadavere della politica stessa. Piange quello che è il concetto stesso di politica nei suoi caratteri essenziali, oltreché in quei caratteri specifici propri della modernità – lo Stato nazionale, la sovranità, la forma-partito, la struttura parlamentare nella sua configurazione più diffusa.

Nel 2001, in questo dialogo con Roudinesco, (morirà nel 2004), Derrida parla del suo rapporto con Althusser, suo grande amico e maestro, coinquilino in Rue d’Ulm a Parigi, e dice di essere stato costretto per lungo tempo al silenzio. Un silenzio frutto di una scelta, ma non per questo meno dolorosa.

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economiaepolitica

In perfetto Stato. Indicatori globali e politiche di valutazione dello Stato neoliberale

di Enrico Mauro

pubblicazioni dei sociCi sono diverse buone ragioni per leggere questo libro di Diego Giannone (IN PERFETTO STATO. Indicatori globali e politiche di valutazione dello Stato neoliberale, Mimesis, Milano-Udine, 2019) dedicato alla «trasformazione dallo Stato nazionale welfarista keynesiano allo Stato internazionale competitivo hayekiano» (p. 103, ma cfr. anche pp. 11 e 24-32). E sono tutte anticipate dal titolo e da un’«Introduzione» ben fatta, che consente al lettore, recensore o meno, di orientarsi rapidamente.

La prima ragione è il titolo, che sia in copertina che nel frontespizio compare in maiuscolo, sicché si può intendere sia come «In perfetto Stato» che come «In perfetto stato». Mentre la prima lettura è confermata dai frequenti riferimenti al «perfetto Stato neoliberale» (p. 16 e passim), la seconda è suggerita dal velo di ironia che copre, ispessendosi pagina dopo pagina, tutto il testo, ironia che nasce dalla dialettica tra una locuzione («In perfetto stato» appunto) che potrebbe essere il motto di una palestra o di un centro-benessere e una critica senza sconti allo Stato e all’ordine globale neoliberali-neoliberisti.

La seconda ragione è che la critica al neoliberalismo-neoliberismo si svolge sulle spalle di due giganti: Antonio Gramsci e Michel Foucault (le epigrafi che precedono l’introduzione sono tratte dai Quaderni del carcere e da Sorvegliare e punire). Si svolge, più precisamente, sulla base di un utilizzo congiunto dei due, volto a «mostrare come quello degli indicatori possa configurarsi sia come un potere di classe che come un potere di classificazione (p. 72, ma cfr. passim e specialmente il par. 3.2, dedicato a «Potere di classe e potere di classificazione»).

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Epidemia tra norma ed eccezione

di Carlo Galli

e30009a3602f8cbfab5cfa0c873509ad L1. La tematica del caso d’eccezione è stata elaborata da pensatori anti-liberali, di destra di sinistra, da Schmitt a Benjamin, da Donoso ad Agamben, da Sorel a Tronti. Il “caso d’eccezione” è stato faticosamente raggiunto come la vetta di un monte, dopo un’angosciante scalata. È un concetto estremo, destrutturante, in quanto dimostra che l’essenza di ogni ordine sta nel potere di creare disordine. In altri termini, che la sovranità è regolatrice, in uno spazio determinato, perché ha inizio dal “non-ordine”, perché ha davanti a sé una materia, i cittadini, omogenea e indifferenziata, infinitamente plastica, che può essere ordinata e disordinata in mille mutevoli differenze, con molteplici classificazioni, in infiniti sbarramenti e infinite aperture. Questo legare e slegare, questo “far ordine nel fare disordine”, e viceversa, è l’opera della decisione sovrana.

Invano il mondo liberale nei suoi sviluppi ha voluto riempire lo spazio vuoto della sovranità con solide “sostanze” non disponibili all’agire sovrano: le persone e i loro diritti, i corpi elementari o secondari, insomma, la società. Invano il pensiero dialettico ha mostrato che la sovranità è l’espressione di una vita complessa, storica, di intense contraddizioni reali, che non è solo il potere decidente nel suo assoluto formalismo ma è egemonia, dominio articolato. E al contempo è strumento di azione orientata all’autonomia collettiva, alla rivoluzione come apertura al nuovo.

Davanti a tutto ciò il pensiero dell’eccezione sgombra il campo con piglio irresistibile: la verità della politica moderna è il gesto che ripropone l’origine, è la folgore dell’a decisione, l’insorgenza del potere costituente, il cuneo della rivoluzione che spacca la storia.

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bollettinoculturale

Utopia, Stato e libertà in "Stato e rivoluzione"

di Bollettino Culturale

abc9a9d175bc81879a7f3ceb1e8cc472Durante l’agosto e il settembre del 1917 Lenin scrisse Stato e Rivoluzione. Come ha chiarito nella prefazione alla prima edizione, il suo scopo era quello di affrontare la questione dello Stato da un punto di vista politico e teorico. La discussione, il confronto con le idee di Karl Kautsky, i socialdemocratici russi e gli anarchici, ebbe luogo nel contesto della Grande Guerra e alla vigilia della Rivoluzione d'Ottobre. In effetti, l'opuscolo fu lasciato incompiuto perché la rivoluzione stessa "interruppe" Lenin, come egli stesso disse.

Al di là delle affermazioni del suo autore, Stato e Rivoluzione rappresenta una sintesi della tabella di marcia verso la società comunista mentre disegna alcune delle caratteristiche fondamentali di quella società futura. Per questo motivo può essere letto come un testo appartenente alla tradizione utopica occidentale. In questo senso, condivide elementi con quel tipo di letteratura. Tanto per cominciare, la società comunista intravista nell'opuscolo di Lenin è una società egualitaria e di abbondanza. L'abbondanza e l'uguaglianza costituiscono spesso le caratteristiche principali delle società immaginate dalle prime utopie popolari medievali. Stato e Rivoluzione risponde anche alla tradizione marxista di critica radicale del capitalismo e allo stesso tempo rappresenta l'immagine di un desiderio. Da questo punto di vista si collegherebbe anche con la tradizione utopica. Poiché sia la severa critica del mondo in cui è stato concepito, sia l'espressione di un desiderio, appaiono continuamente nella storia delle utopie.

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il rasoio di occam

Da emergenza sanitaria a stato di eccezione politico?

di Geminello Preterossi

L'attitudine critica non può essere quella di negare o relativizzare il problema coronavirus, ma di denunciare abusi, irrazionalità, eccessi, logiche e rischi "di fondo". Bisognerà, poi, subito riorganizzarsi socialmente e politicamente

biopoliticaGli interventi di Giorgio Agamben sulle conseguenze politiche del coronavirus impongono alcune riflessioni. In generale, condivido la critica alla normalizzazione dell'emergenza, trasformata in "calamità" (anche quando si tratta, ed è la maggior parte dei casi, di questioni politiche, economiche, sociali e non certo di "oggettività" naturali o tecniche). Ora però il problema esiste e, soprattutto in Lombardia, ha creato una situazione drammatica dal punto di vista sanitario. Quindi una reazione mirata, ma adeguata, è necessaria. Certo, il rischio che si trasformi un'emergenza sanitaria reale in uno stato di eccezione politico c'è, è davanti ai nostri occhi. Delegare in toto agli esperti (che peraltro manifestano posizioni non sempre univoche) le scelte politiche è pericoloso: i tecnici devono fornire i dati da valutare, ma la decisione deve essere politica, perché solo così si può tenere conto della complessità dello scenario. Occorre saper distinguere, rendersi conto delle soluzioni che hanno funzionato e di quelle che non hanno funzionato, essere flessibili per aggiustare le strategie. Nessun fideismo emergenzialista, dunque. Abbiamo bisogno, piuttosto, di ragion pratica. La vita pubblica è cosa diversa da un laboratorio: altrimenti si trasforma la società intera in un “laboratorio”. Ciò, sia chiaro, non per ridimensionare il quadro, che è grave e preoccupante, ma per mantenere in funzione la capacità di valutare criticamente e deliberare di conseguenza (a proposito, siamo sicuri che le istituzioni rappresentative debbano eclissarsi, in un contesto del genere?). Inoltre, quando sarà passata questa buriana, bisognerà mettere in fila tutto: non solo errori, atteggiamenti ondivaghi e opachi, mancanze, ma la logica di fondo, i rischi politici che si corrono, le finalità perseguite dai “poteri indiretti” e il conto che verrà fatto pagare ai più deboli.

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ragionipolitiche

Carl Schmitt e il realismo politico

di Carlo Galli

ph 4441. Quale realismo?

Mi piace credere che il mio modo di pensare la politica possa essere definito (lo è stato) “realismo critico”. Ora esporrò i motivi per cui mi distanzio dal realismo che definirei “acritico”, e in definitiva “non realistico”.

Nato – insieme al suo opposto, l’ “idealismo” – all’interno della disciplina politologica “Relazioni internazionali”, il termine “realismo politico”1 condivide con la scienza politica alcune debolezze epistemologiche: la prima è che esista una realtà “là fuori”, che questa realtà sia instabile e conflittuale, e che il mondo intellettuale si divida fra chi l’accetta com’è e chi pensa che la si possa cambiare. In sostanza, un’opposizione fra essere e dover essere (posizioni pre-moderne, come il tomismo, sono realistiche nel senso che ipotizzano una realtà oggettiva intrinsecamente ordinata; e lì il “dover essere” significa conoscere e rispettare la struttura logica, etica, ontologica del reale).

La seconda debolezza epistemologica sta nell’ipotizzare una sintonia fra natura umana individuale (psicologia) e natura umana collettiva (lo Stato), una convergenza fra antropologia e politica. Sintonia e convergenza nel segno della instabilità, dell’aggressività, della pericolosità dei singoli e degli aggregati umani – tutte caratteristiche “naturali” e oggettive, la cui modificazione è impossibile, o indesiderabile, o inutile, o da ottenere attraverso l’esercizio di rigide discipline individuali e collettive –. Gli “uomini rei” di Machiavelli e la “vita corta misera brutale e breve” di Hobbes – insomma, l’antropologia negativa e pessimistica – a fondamento di forme politiche autoritarie. Naturalmente a questo riguardo gli “idealisti” che condividono con i realisti le debolezze di cui parliamo, sostengono al contrario antropologie in vario grado positive.

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lacausadellecose

La forza dei fatti e la debolezza della volontà

di Michele Castaldo

unnamed 1786rDunque l’Italia si avvia in ordine sparso alla riapertura di quasi tutte le attività. Vale la pena ragionare con fredda lucidità su quanto finora accaduto che fa da sfondo a quanto potrà accadere nell’immediato e prossimo futuro. Insisto molto sulla fredda lucidità, perché c’è un eccessivo vociare un po’ da tutte le parti che non favorisce la comprensione dei problemi che sono seri e gravi.

Come sempre cerchiamo di partire dai fatti e il relazionarsi ad essi da parte di personaggi che rappresentano in vario modo le differenti realtà della società, fra cui la Chiesa Cattolica che riveste tuttora – anche se sempre meno – un ruolo di primo piano nelle relazioni con il cosiddetto mondo civile, ovvero quello della produzione, dell’economia, della cultura e dello Stato. Un potere terreno, inutile ribadirlo, enorme, con centinaia di milioni di aderenti a vari livelli, un vero e proprio popolo mondiale del quale bisogna tenere conto. Un popolo che di fronte a quanto sta accadendo, a proposito del Covid-19, è certamente impaurito nella sua stragrande maggioranza, mentre nelle alte sfere del mondo ecclesiastico c’è seria preoccupazione almeno quanta quella di banchieri, capitani di industrie e quanti ad essi collegati.

Su La Stampa di Torino di giovedì 23 aprile c’è una interessante intervista al cardinale Angelo Scola sulla quale è necessario appuntare l’attenzione, perché la sinistra, educata alla scuola dei mangiapreti della rivoluzione francese, è incapace di leggere nei rappresentanti il portato sociale dei rappresentati. Triste dirlo ma questo è.

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lanatra di vaucan

Crisi climatica e trasformazione sociale al tempo del coronavirus

di Norbert Trenkle

IMG 20200418 200233 scaled e1588224400567Perché la produzione capitalistica di ricchezza deve essere superata

Uno degli strani effetti collaterali della crisi sanitaria è il fatto che essa, nel giro di poche settimane, ha contribuito al miglioramento del clima globale più di quanto non siano riuscite a fare tutte le politiche sul clima degli ultimi anni. A cause del fatto che la circolazione automobilistica nelle principali città è diminuita fin dell’80% mentre il traffico aereo si è drasticamente ridotto e molti impianti di produzione hanno cessato l’attività, secondo una stima del Global Carbon Project, le emissioni di CO2 potrebbero diminuire di circa del 5% nel 2020. Parrebbe perfino che anche il governo tedesco, nonostante le sue ben poco incisive misure di politica climatica, possa centrare l’obiettivo di una riduzione del 40% dei gas serra rispetto al 1990 (Süddeutsche Zeitung 24/3/2020). In ogni caso sarebbe vano sperare che la crisi sanitaria conduca ad una stabile riduzione delle emissioni nocive per l’ambiente e alla limitazione del riscaldamento globale. Il fatto è che questo temporaneo arresto delle attività economiche in gran parte del mondo non ha mutato in nulla la logica fondamentale del modo di produzione capitalistico, che è diretta dall’aumento illimitato e fine a se stesso della ricchezza astratta, rappresentata nel denaro. La compulsione alla crescita, generata da questa finalità autoreferenziale, non sarà certo abolita dalle misure adottate per combattere la pandemia, ma solo rallentata per un breve periodo di tempo. Nel medesimo frangente i governi e le banche centrali stanno facendo tutto il possibile per mitigare questa frenata, allo scopo di mantenere in moto, magari in maniera precaria, la dinamica economica, così da rilanciarla il più celermente possibile una volta revocate le misure di contenimento.

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economiaepolitica

Cercare ancora. Il capitalismo, la tecnica, l’ecologia e la sinistra scomparsa. L’attualità di Claudio Napoleoni

di Lelio Demichelis

download986sDa dove iniziare, volendo recuperare, soprattutto ora, il pensiero e l’opera – complessa, molteplice, culturalmente alta – di Claudio Napoleoni?

Lo faremo concentrandoci su due suoi temi forti – trascurandone per necessità molti altri, come la questione della pace e della guerra, di Dio e della laicità (e il suo voler ripensare il rapporto tra politica religione) o le divergenze con Rodano e le critiche a Sraffa. Due temi che ci coinvolgono direttamente avendo dedicato ad essi, in questi anni, le nostre attività di analisi e di ricerca: il tema della tecnica, intesa come sistema/meccanismo integrato e integrante di uomini e macchine[i]; e quello, strettamente connesso/dipendente dell’alienazione[ii].

Partiamo dall’alienazione. Napoleoni scriveva così, nel 1988 – pur non accettando pienamente (e neppure noi, oggi), la definizione ingraiana di allora delle nuove alienazioni (“perché credo che non ci sia niente di nuovo a questo riguardo… è sempre la stessa, vecchia cosa che il marxismo ha già analizzato…”[iii]): l’alienazione è cioè “il piano in cui si riprende la tematica dell’inclusione dell’uomo moderno dentro meccanismi, non importa se pubblici o privati, che lo dominano, ne espropriano l’autonomia, ne fanno l’elemento di una macchina; [ma] è anche il piano in cui si parla di distruzione della natura e di questione femminile”.

Uscire da questa alienazione doveva allora diventare il compito principale della politica in senso lato e dalla sinistra in senso specifico. Compito che “non è tanto la lotta alla concentrazione del potere economico, quanto l’assumere il problema dell’unificazione nell’alienazione di quella che appare in maniera immediata e sociologica, come la frantumazione sociale[iv].

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lordinenuovo

Lenin e l'imperialismo come categoria economico-politica

di Guido Ricci

Lenin legge Pravda 400x267«Non abbiamo bisogno di infarcire le menti, ma dobbiamo sviluppare e perfezionare la memoria … con la conoscenza dei fatti fondamentali, perché altrimenti il comunismo si trasformerà in una parola vuota, in una semplice insegna e il comunista non sarà che un millantatore se nella sua coscienza non saranno elaborate tutte le nozioni che gli sono state date. Queste nozioni non soltanto dovete impararle, ma impararle e al tempo stesso criticarle al fine di non ingombrare la nostra mente di un ciarpame assolutamente inutile, ma di arricchirla con la conoscenza di tutti quei fatti che un uomo moderno colto non può in nessun modo ignorare». V.I. Lenin, Discorso al Congresso Panrusso della Gioventù Comunista, 2 ottobre 1920.

 

1. Premessa

La nozione di imperialismo, delineata già da Marx ed Engels ed analizzata scientificamente da Lenin, è di grande importanza per la corretta comprensione della realtà, cioè delle contraddizioni insanabili del modo di produzione capitalistico nella sua fase suprema, che stanno alla base del conflitto tra classi e tra paesi e determinano l’ineluttabilità della violenza imperialista.

La corretta comprensione della nozione di imperialismo è fondamentale anche per contrastare l’influenza diretta che esso ha sul movimento operaio e, quindi, sulla lotta di classe e sulla strategia per la trasformazione rivoluzionaria della società.

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voxpopuli

I compiti di questa fase storica di transizione

di Gianfranco La Grassa

us democracy1. In effetti, non sono uno storico anche se a volte affronto determinati momenti della nostra storia, in specie del secolo scorso, e mi piacerebbe molto che altri, ben più preparati al riguardo, approfondissero le questioni da me sollevate con tanta imperizia. Desidero qui punteggiare alcuni problemi, prendendo avvio da quanto avvenne in Germania negli anni ’30, quando venne a termine la Repubblica di Weimar, frutto della sconfitta subita dal paese nella prima guerra mondiale. Se la memoria non m’inganna, alcuni dei problemi cui accennerò sono affrontati secondo la direzione da me scelta quasi soltanto nel Behemoth di Franz Neumann, autore socialdemocratico di indubbio valore.

La suddetta Repubblica di Weimar era in quegli anni (caratterizzati dalla Grande Crisi del ’29) ormai corrotta e marcescente; e appariva preda delle manovre del grande capitale finanziario. Il 1933 è indicato “ufficialmente” come l’anno di uscita dalla crisi in questione; negli Stati Uniti la situazione sarebbe stata risolta – è quanto si sostiene pressoché unanimemente e senza ulteriori approfondimenti critici – dal New Deal di Roosevelt (eletto a fine ’32 e insediatosi appunto nel gennaio di quell’anno), una serie di misure di politica economica attuate tramite forte spesa statale (in deficit di bilancio) e costruzione di infrastrutture di notevole importanza; politica che è stata di fatto sistematizzata teoricamente da Keynes nel suo testo più famoso (1936). Il New Deal prese termine nel ’37, ottenne successi iniziali ragguardevoli in termini di occupazione e crescita economica. Tuttavia, ci si scorda che, già nel ’35 e soprattutto ’36 e ’37, si ha una fase di sostanziale stagnazione che perdura fino allo scoppio della seconda guerra mondiale.

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bollettinoculturale

La dittatura del lavoro nel capitalismo

di Bollettino Culturale

Rubin e il posizionamento della teoria del valore al centro della teoria di Marx

CONIGLIONegli anni ‘20 Isaak Rubin scrive i suoi saggi sulla teoria del valore marxista. Una lettura del lavoro di Marx, in particolare del Capitale, che si concentrava sulla teoria del feticismo della merce, considerata inseparabile dalla teoria del valore. Non è che il feticismo della merce rivela le relazioni di riproduzione che stanno dietro le categorie materiali, ma che:

“è più preciso esprimere la teoria del valore al contrario: in un'economia mercantile capitalista, i rapporti di lavoro della produzione tra uomini acquisiscono necessariamente la forma-valore delle cose e possono apparire solo in questa forma materiale; il lavoro può essere espresso solo in valore. Qui il punto di partenza non è il valore ma il lavoro.”

Rubin è interessato a dimostrare che, sebbene assuma una forma materiale ed è correlato al processo di produzione, il valore è una relazione sociale tra le persone. Nella sua analisi, "il valore rappresenta il livello medio attorno al quale fluttuano i prezzi di mercato e con cui i prezzi coinciderebbero se il lavoro sociale fosse distribuito proporzionalmente tra i vari rami della produzione" ripristinando l'equilibrio grazie al mercato e al suo sistema di prezzi.

Pertanto, il lavoro appare come lavoro distribuito quantitativamente e come lavoro socialmente equalizzato, cioè "come lavoro "sociale", inteso come la massa totale di lavoro omogeneo ed uguale in tutta la società". Per Rubin il lavoro avrebbe un ruolo regolatorio:

"La legge del valore è la legge dell'equilibrio dell'economia mercantile". Con l'aumento della produttività, il lavoro riduce il lavoro socialmente necessario per produrre un bene, il valore unitario di quel bene viene ridotto e si generano cambiamenti nella distribuzione del lavoro sociale tra i vari rami della produzione. La sequenza sarebbe la seguente: Produttività del lavoro-lavoro astratto-distribuzione-valore del lavoro sociale.

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codicerosso

Il Coronavirus e il crollo della modernizzazione

di cybergodz

crollo della modernizzazione scaled e1586795980259Proponiamo qui un testo proveniente dall’ambiente intellettuale tedesco che ruota intorno alla “Critica del valore”.1 Gli estensori, Roswitha Scholz e Herbert Böttcher, appartengono più precisamente all’area che ha come punto di riferimento la rivista Exit e il sito www.exit-online.org.

La Critica del valore si basa sulla tesi per la quale il capitalismo, che è essenzialmente valorizzazione di valore, è giunto al suo limite estremo, oltre il quale non può più andare. Questo a causa soprattutto della competizione capitalistica, la quale ha traghettato il mondo verso quella che è stata definita “terza rivoluzione industriale”, caratterizzata da una produttività a trazione iper-tecnologica e microelettronica.

Le nuove esigenze di questa esasperata produttività capitalistica richiedono una forte razionalizzazione dei costi, quindi l’espulsione di massa di “forza-lavoro” (come definisce l’economia capitalistica coloro che lavorano) dalla produzione, ma anche degli esseri umani in generale se non dal consorzio umano tout court, sicuramente dalla vita sociale e dai suoi benefici – quando ci sono. La onnipervasiva capacità produttiva, incredibilmente elevata, di merci a costi estremamente contenuti satura i mercati esistenti, che non sono più in grado di assorbire in modo redditizio le merci prodotte, e impedisce che se ne aprano di nuovi, ancora rispetto alla redditività necessaria. Al tempo stesso mina la “domanda” (sempre per usare questa odiosa terminologia commerciale) in quanto impoverisce il potere d’acquisto della potenziale platea di consumo, a causa proprio – come già sottolineato – della sua espulsione dal “contesto produttivo”, inteso anche in senso lato. Tutto questo genera, secondo la Critica del valore, una crisi senza ritorno.

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Le radici socialiste del sovranismo costituzionale

di Jacopo D'Alessio

populismo conflitto sociale sovranismo“In ogni epoca bisogna tentare di strappare nuovamente la trasmissione del passato al conformismo che è sul punto di soggiogarla” (Tesi XVIIa – A).

[…] Lo storicismo si accontenta di stabilire un nesso causale fra momenti diversi della storia. Ma nessuno stato di fatto è, in qualità di causa, già perciò storico. Lo diventa solo successivamente attraverso circostanze che possono essere distanti migliaia di anni da esso. Lo storico che muove da qui cessa di lasciarsi scorrere tra le dita la successione delle circostanze come un rosario. Egli invece afferra la costellazione in cui la sua epoca è venuta a incontrarsi con una ben determinata epoca anteriore. Fonda così un concetto di presente come quell’adesso, nel quale sono disseminate e incluse schegge del tempo messianico” (Tesi – VI).

Walter Benjamin

1. Antefatto. La contraddizione attuale

Il seguente articolo si propone di introdurre uno dei filoni storico-politici più importanti che hanno segnato il sovranismo, nella fattispecie la galassia costituzionale e neo-socialista. Ciò è avvenuto in seguito alla crisi economica, nel 2008, proveniente dai subrimes americani i quali, colpendo l’Europa, hanno dato luogo, anche in Italia, ad una rinnovata e collettiva coscienza di classe. Il primo grande contributo scientifico, che mise in luce l’impotenza delle istituzioni europee nel salvaguardare il lavoro e la società italiana dalle aggressioni del capitale a causa dei suoi choc esogeni, conseguì dalla precoce analisi giuridica dell’allora sconosciuto professore universitario Stefano D’Andrea (2011) (1).