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Appunti per un rinnovato assalto al cielo. IV

Hong Kong, la porta della Cina… al mondo offshore

di Paolo Selmi

riportando tutto a casa iv html c4a847cf997cc377Quando oltre vent’anni fa Hong Kong tornò a esser parte della Repubblica Popolare Cinese, sia pur sotto gli slogan “Un Paese, due sistemi (yi guo liang zhi 一国两制 ) e “I cittadini di Hong Kong governeranno Hong Kong con un alto grado di autonomia” (gangren zhi gang, gaodu zizhi 港人治港,高度自治), ricevendo quindi ampie assicurazioni circa la propria autonomia amministrativa, la propria moneta, persino la propria squadra olimpionica, mi pare ancora di sentire qualche Cassandra che invitava a non fidarsi, che la pecorella cantonese sarebbe stata sbranata dalla tigre mandarina, che profetizzava cosacchi con gli occhi a mandorla, ma con sempre la stessa, maledetta, stella rossa in fronte, abbeverare i propri cavalli lungo i putridi acquitrini della costa cantonese mentre appiccavano fuochi con obbligazioni, divenute carta straccia, e pizze di film reazionari di Jackie Chan, Chow Yun-fat e Jet Li, insieme ovviamente a qualche bambino (sennò che comunisti erano?). D’altronde, cosa potevamo pretendere da chi chiamava D’Alema e soci “comunisti”?

Tuttavia, mentre noi ci dilettavamo rivangando vecchi ricordi di mondi scomparsi, da Hong Kong partivano le prime ambascie di mercanti nelle vicine province, in particolare nella ZES (jingji te qu 经济特区 , o Zona Economica Speciale) di Shenzhen, con portafogli ordini pieni di commesse da parte delle nostre ditte, che avevano appena scoperto la gallina dalle uova d’oro ma che, per problemi linguistici, burocratici, economici, non riuscivano a spennare da soli. Il millennio finiva e cominciava con questi trader, intermediari, faccendieri, che triangolavano fatture, emettevano polizze di carico, anticipavano soldi per i loro “cugini”, tanto acerbi e alle prime armi in questi discorsi di ordini, commesse, profitti, conti all’estero e penali, quanto senza peli sullo stomaco nella repressione schiavistica dei loro stessi connazionali su tagliacuci e stampi di plastica puzzolente.

Dopo soli pochi anni, tuttavia, il “talentuoso” allievo già superava il maestro e trattava direttamente con i barbari occidentali, senza bisogno dell’ex-suddito anglofono: Hong Kong, tuttavia, non perdeva d’importanza. Anzi, diventava quel posto al sole di cui il capitalismo cinese, statale e privato, aveva sempre più bisogno per “sciacquare i panni in Arno” e mettere al sicuro i propri profitti. Quanto segue è tratto da un articolo di poco tempo fa del buon Katasonov1 .

Hong Kong è un luogo giuridicamente molto interessante: alcuni Paesi lo considerano offshore, con tutti gli annessi e connessi del caso; altri, come la Russia, no (dal 1 gennaio 2018 dopo la firma di un accordo congiunto per il versamento fiscale in fase di trasferimenti monetari, al fine di non pagare due volte le tasse). Dal punto di vista della cosiddetta “libertà economica”, Hong Kong è da ventiquattro anni consecutivi capofila dei Paesi più “liberi”, secondo uno studio della statunitense The Heritage Foundation. L’ultima classifica, datata febbraio 2018, lo vede al primo posto con 90,2 punti (su 100), lasciandosi dietro rispettivamente Singapore, Nuova Zelanda, Svizzera, Australia e Irlanda.

La natura duale di Hong Kong è raccolta nella definizione con cui alcuni la classificano: midshore, una via di mezzo fra fra offshore e onshore. È un ponte, una porta, una via di mezzo fra la RPC da un lato e il resto del mondo dall’altro. Ciò, ovviamente, fa comodo a entrambi, ed è questo che vent’anni fa pochi intuirono. Pochi, peraltro, faticano ancora oggi a considerare su ordini di grandezza comparabili ex-colonia e madrepatria, fermi alle prime due righe della seguente tabella che ce li disegna, rispettivamente, come topolino ed elefante:

 

RPC

Hong Kong

Popolazione (2016)

1.380.000.000

7.000.000

Superficie (kmq)

9.597.000

2.750

Capitalizzazione Borsa (USD)

7.200 miliardi (tutte le borse)

3.300 miliardi

Classifica mondiale capitalizzazione

II posto

IV posto

Riserve valutarie mondiali

3.344,7 miliardi di USD

431 miliardi di USD

Classifica mondiale riserve valutarie

I posto

VI posto

Volume di scambi valutari

(media giornaliera)

73 miliardi di USD

1,1% sul totale mondiale

437 miliardi di dollari

6,7% sul totale mondiale

Classifica mondiale volume scambi

IV posto

XII posto

 

Tutto questo, per giungere a un’altra importante conclusione: la natura duale di Hong Kong non è soltanto fra “interno” ed “esterno”, ma anche, nella sua forma statuale, fra Stato e “regione autonoma” di uno Stato. Una realtà ambigua che rende limitativo sia aggregare i dati, sia disaggregarli rispetto al continente cinese di cui, fa e non fa parte. Una natura ambigua che, come nel primo caso, fa comodo a tutti, consentendo – come vedremo – numeri da circo contabili, finanziari, amministrativi… che purtroppo, nel nostro Occidente rimasto all’età della pietra, per qualche “paletto” ottusamente ancora piantato qua e là, non riescono – ancora – ad attuare: a loro confronto, noi siamo fermi ancora al battere lo scontrino una volta si e una volta no o dimenticandoci ogni tanto uno zero.

Torniamo alle nostre statistiche, e giochiamo al gioco a cui tutti gli enti internazionali giocano nel presentare dati e tabelle: giochiamo a considerare Cina e Hong Kong due Stati. Ebbene, la UNCTAD ha pubblicato la classifica degli Stati maggiormente ricevitori di investimenti diretti esteri (IDE, o FDI foreign direct investments, per gli anglofoni), riferita al 2016 perché per l’anno scorso occorrerà attendere ancora qualche mese. Diamole un’occhiata e, giusto per farci un po’ del male, mettiamoci anche noi:

Stato

In entrata (miliardi USD)

Percentuale sul totale mondiale

USA

391,1

26,9%

GB

253,8

17,5%

RPC

133,7

9,2%

Hong Kong

108,1

7,4%

Olanda

92,0

6,3%

Singapore

61,6

4,2%

Italia

28,9

1,7%

 

La Repubblica Popolare di Cina riceve nel 2016 una quantità maggiore di investimenti diretti rispetto a Hong Kong. Se vediamo invece il totale degli IDE accumulati nel tempo, la loro “giacenza", o stock per gli anglofoni, ecco che Hong Kong è ancora avanti. Vediamo l’andamento di questo processo di accumulazione:

 

Saldo a fine anno (in miliardi di USD)

Stato

2000

2010

2016

TOTALE MONDO

7.489,6

20.244,9

26.728,3

USA

2.783,2

3.422,3

6.391,3

Hong Kong

435,4

1.067,5

1.590,8

RPC

193,3

587,8

1.354,4

Singapore

110,6

632,8

1.096,3

GB

439,5

1.068,2

1.196,5

Italia

122,6

328,1

346,4

 

Facciamo ora un utile accostamento fra questo tipo di investimenti e il PIL. Nel 2016 il Prodotto Interno Lordo di Hong Kong è stato di 320,9 miliardi di USD, quello della RPC di 11.199,1 miliardi di dollari: nel primo caso, le giacenze equivalgono al 497,7% del PIL, nel secondo al 12,09%. La prima è una “economia di transito”, la seconda no (e non lo siamo nemmeno noi, il 2016 vedeva il nostro PIL arrivare a 1.860,15 miliardi di dollari, con una percentuale investimenti totali/PIL del 18,6%).

Gettiamo ora giù la maschera e ammettiamo il fatto che Hong Kong sia il centro finanziario di una Grande Cina (RPC+Hong Kong+Macao): questo rende possibile che siano registrate a Hong Kong numerose società che, di fatto, operino poi nella Repubblica popolare cinese. Questo rende possibile una politica protezionistica, inimmaginabile per altri Paesi, da parte di Pechino sugli Investimenti Diretti Esteri, traghettati volentieri su Hong Kong, la cui economia di transito funge così anche da cuscinetto – non solo da porta, quindi! – fra capitalismo cinese e capitalismo estero.

Sbaglieremmo però nel pensare a questa politica di Pechino come a una specie di setaccio con cui separare “buoni” da “cattivi” o “onesti” da “disonesti”. Pechino, di fatto, usa Hong Kong per mascherare provenienza e destinazione dei propri flussi di denaro. È giusto, infine, corroborare quanto sinora affermato con altre due tabelline, di fonte ufficiale (Census and Statistics Department della HKSAR, ovvero Hong Kong Special Administrative Region), anch’esse direttamente scaricabili seguendo i link del saggio di Katasonov citato a inizio lavoro. Partiamo dalla composizione geografica del capitale in entrata a Hong Kong:

Stato

2014

2016

Isole Vergini (GB)

35,4%

35,7%

RPC

28,9%

25%

Isole Cayman (GB)

3,7%

8,1%

Olanda

7%

6,5%

Isole Bermuda (GB)

6,4%

5,1%

GB

1,5%

3,1%

USA

3,8%

2,5%

Singapore

3,0%

2,0%

Giappone

2,3%

2,0%

Taiwan

0,6%

0,9%

 

Metà del capitale in ingresso entra da conti offshore, in crescita rispetto a due anni prima, un quarto dalla madrepatria. Vediamo ora la composizione geografica del capitale in uscita:

Stato

2014

2016

RPC

40,6%

40,2%

Isole Vergini (GB)

40,9%

38,8%

Isole Cayman (GB)

2,1%

4,1%

Isole Bermuda (GB)

2,5%

1,9%

GB

2,1%

1,3%

Australia

1,2%

1,1%

Singapore

0,7%

0,8%

USA

0,7%

0,8%

Lussemburgo

0,7%

0,7%

Canada

0,7%

0,7%

 

Anche in questo caso, meno della metà va in madrepatria e, se alle percentuali dei tre più grandi paradisi fiscali si aggiungono contributi di altre simpatiche piccole o grandi isolette, possiamo affermare che metà del capitale in uscita approda in conti offshore.

Abbiamo quindi delineato i due attori principali di questi enormi flussi di capitali in entrata e in uscita da Hong Kong, ecco quindi emergere la sua vera, attuale, funzione: fare da ponte fra il capitale cinese e quello britannico, ovvero del capitale extra-cinese che si avvale della mediazione britannica per il transito su conti offshore ufficialmente sotto la sua giurisdizione. Per inciso, dal punto di vista della “perfida Albione”, non è peccato pensare alla Brexit anche in questa logica di “mani libere” su piazze internazionali, a questo punto completamente deregolamentate. Torniamo, tuttavia, a questa micidiale mistura di istituzioni politiche, economiche, finanziarie e valutarie, di cui abbiamo iniziato ora a esaminare i meccanismi. Quanto segue ci aiuterà a fare un po’ più di luce.

 

I giochi di ombre del capitalismo con caratteristiche cinesi

Non è un viaggio semplice, ribadisco, quello che stiamo intraprendendo. Di una cosa, tuttavia, riportando tutto a casa iv html 64e2be8324bc5916siam certi: occorre andare oltre le ombre cinesi o, per restare a casa nostra, di antiche caverne platoniche, che ci propinano quotidianamente sia i media cosiddetti main stream, ovvero detentori della versione ufficiale da spargere ai quattro venti sia – il che è peggio ancora – gli istituti ufficiali, i centri studi “indipendenti”, ecc. Attenzione: tralasciamo il fatto che spesso, per finalità di breve termine, non si esiti a diffondere informazioni false. Diamo per scontato, anche se non lo è affatto, che uno sparuto nugolo di eroi riesca sempre a sbugiardarli e a dimostrare che “il re è nudo”. Ogni tanto, con mesi di ritardo, dopo che un centinaio di missili sono stati lanciati contro un deposito vuoto di armi, dopo insomma che il fine prefissato per l’azione di disinformazione è stato più o meno raggiunto, la verità viene a galla. Il problema, come abbiamo avuto modo di vedere, è che viene a galla troppo tardi, oppure sepolta sotto tonnellate di informazioni tossiche, tese a depotenziarne, diluirne il più possibile, la pericolosità sociale in termini di stabilità sistemica dello stato di cose esistenti.

Ma non solo: dove possibile, infatti, non si perde occasione di mescolarle, presentarle in modo ambiguo, contraddittorio, letteralmente “fuorviante”, ovvero teso a condurre il fruitore delle stesse a conclusioni diverse, se non opposte, rispetto a quelle a cui giungerebbe se il quadro informativo fosse esposto in maniera chiara e trasparente. Chi studiava Marx, un tempo, era abituato a ragionare in questi termini, allorché arrivava a un certo punto del Capitale dove si parlava del “carattere feticistico della merce” (Fetischcharakter der Ware)<2 , e rifletteva sulle “sottigliezze metafisiche e sui capricci teologici” (metaphysischer Spitzfindigkeit und theologischer Mucken) che giungono a conferire alla merce quel carattere “mistico” (mystische Charakter) di cui Marx procede così sapientemente a rigorosa disamina e critica. Oggi, chi cerca di operare molto, ma molto più a tentoni, in una realtà molto, ma molto più complessa del XIX secolo, è visto come “complottista” e ridotto a caricatura, come del resto tutta la controinformazione.

Noi procediamo sulla nostra strada: forse siamo già riusciti a dimostrare o, quantomeno, a insinuare il dubbio che le Zone Economiche Speciali non siano dei luoghi diversamente socialistici da cui partire per “bombardare il quartier generale” (baoda silingbu 炮打司令部 ), che la Cosco (la compagnia di bandiera della RPC) non si impossessi dell’intero porto del Pireo per instillare dalle coste il virus del comunismo nel Vecchio Continente, che la maggiore ditta di abbigliamento cinese non acquisti il maggior gruppo europeo di abbigliamento per bambino, proprietario di 15 marchi e con un fatturato di 427 milioni di euro all’anno3 , per socializzare i mezzi di produzione e collettivizzare il tessile in Europa che, infine, “capitani coraggiosi” non comprino squadre di calcio sull’orlo del fallimento per rinominarle Dinamo, CSKA, Lokomotiv, Spartak e formarne le giovanili, gli esordienti, i pulcini e i primi calci, sui valori dell’etica socialista. Sarebbe già qualcosa… In questa parte, cercheremo di analizzare il funzionamento di alcune ombre cinesi legate alle pagine precedenti, fondamentali per proseguire nella nostra analisi4 .

Anzi tutto, per capire il discorso che segue occorre addentrarsi un po’ di più negli IDE. Cosa sono esattamente gli investimenti diretti esteri? Non è capitale di credito, ovvero prestiti, finanziamenti, bancari e non, crediti commerciali, eccetera. Non sono neppure gli investimenti in un portafoglio azionario effettuati al puro fine di incrementare la propria quota di dividendi o di semplice speculazione borsistica. Gli IDE sono investimenti

Il secolo scorso questo coincideva, essenzialmente, con la seconda variante, quella della fondazione di un’impresa dal nulla. Oggi, invece, coincide con la prima, ed è uno dei più potenti strumenti con cui banche e multinazionali stabiliscono il controllo di settori interi e finanche di intere economie statali. Il ritmo con cui scorre il fiume di denaro è impressionante: nel solo primo quadrimestre del 2016, gli investimenti cinesi ammontavano già a quaranta miliardi di dollari, spalmati su 149 Paesi a opera di 2726 ditte. Assistiamo quindi a un’opera continua, di dimensioni massicce e che merita di essere esaminata nel dettaglio.

Consideriamo quindi ingresso e uscita degli IDE per anno per Cina, disaggregata come da rapporto UNCTAD nelle sue “Cine”, aggregata come dato unico, per gli USA, e per USA e Cina unita insieme:

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Un primo dato salta subito all’occhio: Cina considerata nel suo insieme e USA, da soli, coprono oltre un terzo delle importazioni ed esportazioni mondiali di capitale in IDE. Sono loro, quindi gli attori principali sulla piazza mondiale. Secondo dato, la forbice fra Cina e USA si sta riducendo, laddove la forza emergente della nuova potenza imperialistica erode man mano gli spazi lasciati incustoditi dalla seconda, fino alla logica, inevitabile, conseguenza: non è un caso che, neanche due anni più tardi, sarebbe emerso in maniera evidente il conflitto interimperialistico fra questi due colossi avente come posta in gioco l’egemonia mondiale.

Occorre quindi fornire un’ultima osservazione, circa le valute cinesi: tralasciando Macao per il suo peso ininfluente, ci soffermeremo su HKD e RMB e, in particolare, sulla prima moneta, anch’essa riciclata dal capitalismo cinese come utile ponte fra due mondi.

La sua storia risale al periodo coloniale, quando le banche straniere potevano emettere banconote sul territorio della colonia garantite in argento. Fra queste, si distinse in particolare una, la HSBC (Hong Kong & Shanghai Banking Corporation), che cominciò a emettere “dollari” (yuan , sigla HKD). Tali banconote riscossero un’enorme riconoscimento a livello nazionale, al punto che fino alla proclamazione della RPC (01/10/1949) erano la moneta più diffusa. Non è un caso che ancora oggi yuan sia sinonimo di RMB (renminbi 人民币 lett. “moneta del popolo”), al punto che gli anglofoni spesso abbreviano la valuta nazionale cinese con CNY (ChiNese Yuan). Nato nel 1895, lo HKD abbandonò lo standard argenteo (1 HKD = 24,2611 g Ag) nel 1936, per agganciarsi alla sterlina britannica (1 HKD = 15 pence). Non avendo una banca centrale propria, gli HKD erano emessi da due banche private, entrambe di proprietà dei Rotschild: la già citata HSBC e la Standard Chartered Bank. Il periodo più difficile fu fra i Sessanta e i Settanta del secolo scorso: si svalutò insieme alla sterlina fino al 1974, allorché entrò nell’orbita del dollaro statunitense, fluttuando poi pericolosamente fino al 1983, quando fissò margini di cambio molto ristretti e rigidi (1 USD = 7,75-7,85 HKD). Dal 1997 l’ormai ex-colonia britannica è unita ma autonoma dalla madrepatria, conservando la propria valuta secondo uno schema classico di “comitato valutario” (o currency board) che, a differenza della banca centrale,

Questa apparente “rigidità” è stata invece, per trentacinque anni, un forte elemento di stabilità che ha consentito di accumulare una quantità enorme di riserve in valuta estera: ad aprile del 2018 erano 434,4 miliardi di USD6 (oltre tre volte l’Italia che, nello stesso mese, totalizzava 126,184 miliardi di EUR)7 , che vanno ad aggiungersi ai 3.124,85 miliardi di USD in valuta estera detenuti dalla madrepatria8 . L’emissione della moneta è a cura di 4 enti: il governo di Hong Kong (monete e banconote da 10 HKD) e tre banche commerciali, ovvero la Banca di Cina e due vecchie conoscenze, la HSBC e la Standard Chartered Bank.

Inoltre, mentre il RMB non è ancora una valuta liberamente convertibile all’estero, ciò non accade a Hong Kong. Ecco quindi, ancora una volta, emergere il ruolo dell’ex-colonia come regione-cuscinetto per poter compiere, nei fatti, ciò che i cinesi negano a parole. Basti pensare che, ancora nel 2017, il 98,95% delle esportazioni di prodotti di Hong Kong, di fatto, altro non era che riesportazione di prodotti della madrepatria (provenienti dalla vicina Shenzhen, o dall’altrettanto vicina Guangzhou, ecc.)9 . Ma non solo: Hong Kong importa oro, tanto oro, da Svizzera, Sudafrica, USA, Australia, Filippine, ecc.10 per poi esportarlo in Cina: 732,5 tonnellate nel 2015, 770,7 nel 2016 e 628,2 nel 201711 .

Abbiamo visto che, di materiale, ce n’è abbastanza per allestire non uno, ma un intera serie di spettacoli di ombre cinesi. E abbiamo appena cominciato. Nelle prossime pagine affronteremo altre modalità di movimento di capitali che compongono le variegate teste di questa Idra.

(Continua... Qui, qui e qui le puntate precedenti)


Note
1 Gran parte dei materiali tratti per questo paragrafo sono tradotti da questo articolo di Valentin Katasonov: https://www.fondsk.ru/news/2018/03/17/gonkong-vorota-kitaja-v-mir-ofshorov-45790.html
2 Karl Marx, Das Kapital, Bd. I in Karl Marx, Friedrich Engels, Werke, Band 23, Dietz Verlag, Berlin/DDR 1968 Erster Abschnitt, pp. 85 - 98
3 http://us.fashionnetwork.com/news/Childrenswear-specialist-Kidiliz-about-to-be-bought-by-Chinese-group-Semir,974203.html#.WwFg9-C-nCI
4 Questi i link delle pagine dei lavori di Katasonov utilizzati per questa parte:
https://www.fondsk.ru/news/2016/02/08/osobaja-rol-gonkongskogo-dollara-38508.html
https://www.fondsk.ru/news/2016/06/02/us-bolshoj-kitaj-borba-na-mirovom-rynke-prjamyh-investicij-40612.html
5 http://www.treccani.it/enciclopedia/investimento-diretto-estero_%28Dizionario-di-Economia-e-Finanza%29/
6 http://www.hkma.gov.hk/eng/market-data-and-statistics/economic-and-financial-data-for-hong-kong.shtml#externalSector
7 https://infostat.bancaditalia.it/inquiry/#eNpVzM0KAiEUQOEXErzNcuAu1LnCJcckdYg24mKKYKDA6Ad6%2BCAoaPctDodC7wxyEuQndDyRMGmH%0AA1srzIha%2BTUn5VjJa32ce5M1RUoYstauALy%2BKKs%2FF%2BgEJxojOdpj2mYLHYDYBPJ4qEubZbs8j0tt%0ATd5O8%2F3z5SH%2BSvkG3s4sMg%3D%3D
8 http://www.safe.gov.cn/wps/wcm/connect/87dcf3804c420ce0aa1caefd3fd7c3dc/The+Scale+of+China's+Foreign+Exchange+Reserves(January+2016-April+2018).xlsx?MOD=AJPERES&CACHEID=87dcf3804c420ce0aa1caefd3fd7c3dc
9 2017: Import – 4.357,004 miliardi di HKD, Export di prodotti domestici – 43,455 miliardi di HKD, Riesportazioni – 3.832,443 miliardi di HKD; totale Export – 3.875,898 miliardi di HKD. https://www.censtatd.gov.hk/hkstat/sub/sp230.jsp?productCode=B1020003
10 https://www.bullionstar.com/blogs/koos-jansen/china-gold-import-jan-sep-777t-whos-supplying/
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