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Appunti per un rinnovato assalto al cielo. V

"Timeo Danaos et dona ferentes": sulla politica imperialistica degli "aiuti"

di Paolo Selmi

appunti per un rinnovato assalto V html 803321df0fb0e599Все счастливые семьи похожи друг на друга, каждая несчастливая семья несчастлива по-своему” (“Tutte le famiglie felici si assomigliano l’una all’altra, ciascuna famiglia infelice lo è a suo modo”): così inizia Anna Karenina, così verrebbe da iniziare questo paragrafo su uno dei tasti più dolenti di questo capitalismo globalizzato, dilaniato dai ruggiti dei nuovi imperialismi e dai rigurgiti dei vecchi. Non c’è nulla di più infelice, di più ipocrita, di più falso, della cosiddetta “cooperazione internazionale”. Ognuno la rende infelice “по-своему”, “a suo modo”: l’Occidente, come alibi per la propria politica neocoloniale, e oggi la Cina, come copertura alla propria politica “di prosperità comune”. Del primo aspetto si è parlato molto, del secondo poco o niente. Colmeremo tra poco questa lacuna ma prima, giusto per capire di cosa si tratta, occorre fare un passo indietro.

Inutile a dirsi, Pechino interviene a gamba tesa su alcune precise, non casuali, situazioni debitorie consolidate, laddove l’imperialismo occidentale, in particolare statunitense, nella figura di quel mostro a due teste di nome FMI-BM (fondo monetario internazionale-banca mondiale) fino a oggi l’aveva fatta da padrone. Occorre quindi fissare alcuni punti cardine, onde riportare la nostra analisi entro un campo di esistenza definito da categorie certe, che non siano la semplice simpatia o antipatia per questo o quello schieramento. Parliamo quindi di dipendenza, meglio, di economia della dipendenza. Non possiamo comprendere le dinamiche del sottosviluppo se prima non affrontiamo la sua causa prima. Ad aiutarci, uno dei fondatori di questa teoria, Theotonio Dos Santos (1936-2018), recentemente scomparso. La sua fama diveniva mondiale nel 1970, con un breve saggio, “La struttura della dipendenza”1 , da cui citiamo i seguenti estratti.

Il primo, fondamentale, riguarda la definizione di dipendenza:

Per dipendenza intendiamo la situazione in cui l’economia di alcuni Paesi è condizionata dallo sviluppo e dalla espansione di un’altra economia cui la prima è subordinata. Il rapporto di interdipendenza fra due o più economie, e fra queste ultime e il commercio mondiale, assume la forma di dipendenza, quando alcuni Paesi (i dominanti) possono espandersi ed mantenersi autonomamente, mentre altri (quelli dipendenti) possono farlo solo come riflesso di questa espansione, che può agire positivamente e/o negativamente sul loro sviluppo immediato.

Il secondo, che per motivi di spazio occorre ridurre ai soli passi salienti, è una lunga analisi che affronta il meccanismo di creazione della “nuova dipendenza” e di apparenti “aiuto”, “finanziamento”, “cooperazione” che in realtà la consolidano:

Parte dalla dipendenza coloniale e da quella finanziario-industriale, che culminano nella

Nei Paesi indipendenti, la “nuova dipendenza” è data dal

1. saldare debiti e ad

2. acquistare le risorse (macchinari, impiantistica) necessarie a riprodurre tale e quale il ciclo produttivo di sfruttamento di risorse umane e materiali.

Questo, vale la pena notare, non è solo un problema delle ex-colonie, ma anche del cosiddetto “primo mondo”, dei “Sud” che emergono sempre di più in questo “Nord” di ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri:

Tornando a livello macroeconomico, Dos Santos ci ricorda di come il surplus derivato dalle esportazioni di questi paesi neo-colonizzati a un certo punto non basti più a coprire le spese di importazione:

Ecco quindi che si rende necessario il “finanziamento internazionale” per ripristinare questo meccanismo – di sfruttamento – inceppato:

Il risultato è che il “finanziamento estero” si rende necessario in due forme: per coprire il disavanzo esistente, e per “finanziare” lo sviluppo tramite prestiti che stimolino investimenti e “riforniscano” un surplus economico interno che era stato decapitalizzato per larga parte a causa di un suo drenaggio sotto forma di profitti che scappavano all’estero. Il capitale straniero e gli “aiuti” stranieri, così, riempiono le buche che loro stessi hanno creato.

Riempiono le buche, ma non livellano.

Anzi, creano i presupposti per il mantenimento di tali meccanismi e strutture di dipendenza.

I vampiri hanno bisogno di una vittima che sia sempre viva, moribonda magari – anzi, auspicabilmente, così da non opporre resistenza – ma viva: morta non servirebbe più a niente.

Per oltre mezzo secolo l’Occidente neocoloniale aveva perpetuato indisturbato questi meccanismi, toccando il cielo con un dito dopo il crollo dell’URSS ed espandendo il suo capitalismo da rapina a Est finché… un bel giorno si misero tra i piedi, entrando sempre più nel grande gioco, i cinesi!

La crescita di prestiti ufficiali bilaterali, “multilaterali” e privati, rivolti specialmente a Paesi ad alto rischio debitorio, sta complicando i processi di saldo dei debiti maturati necessari a ristabilire la sostenibilità dei debiti stessi. Sempre più assistiamo a casi dove i LIC (Low Income Countries, ovvero i Paesi a Basso Reddito) hanno preso a prestito somme eccessive e non sostenibili da grandi, spesso non trasparenti, Paesi sovrani come Cina o creditori privati. Non esiste alcun piano di ristrutturazione connesso alla concessione di tali crediti, creando il rischio di complicare i processi di ristrutturazione in corso, perdite per gli altri creditori, e il declino del reddito medio reale nei paesi debitori2 .

Chissà se l’attuale ministro USA del Tesoro Steven Mnuchin dieci anni fa avrebbe mai pensato di compiere simili affermazioni (datate 2018)! Gli USA già da un po’ non possono più fare il bello e il cattivo tempo come Bernacca… perché il loro posto lo stanno prendendo i cinesi. Come? Dove? È un bene o un male per i poveri Paesi sfruttati, dilaniati, sbranati finora dallo Zio Sam e per quelli, come il nostro, sempre più depressi socialmente dall’impoverimento dei molti a vantaggio dell’arricchimento dei pochi? È quello che cercheremo di capire nei prossimi paragrafi.

“Col novo signore rimane l’antico, l’un popolo e l’altro sul collo vi sta.”

Non ringrazierò mai abbastanza la nostra professoressa di italiano per quelle poesie a memoria che, con cadenza settimanale e passione e dedizione missionaria, dispensò per tre appunti per un rinnovato assalto V html 4803cd4fb7232d2aanni (per molti anche più di tre...) a noi, studenti provenienti in gran parte da quartieri popolari dove quelle strofe erano ancor più lingua straniera di quell’inglese che si fermava “on ze téibol”. Tra queste, immancabile, il Manzoni nazionale, allora detestato per le sue pagine e pagine di componimenti che non capivo neanche quando riuscivo nell’impresa di mettere in fila tutta la sequenza di rime. Eppure oggi, pensando a USA e Cina da un lato, e a noi dall’altro, non mi è potuto non tornare in mente il coro del III atto dell’Adelchi. Leggere per credere.

Come ha fatto la Cina ad arrivare ai livelli odierni di esportazione del capitale, pardon, di “cooperazione”3 ? Dalla sua fondazione a oggi, i tre quarti di secolo passati paiono millenni: la Conferenza di Bandung del 1955, dove entra nella Storia il movimento cosiddetto terzomondistico, lasciava dopo neanche un decennio il passo a una Cina sul piede di guerra con l’URSS (assai più che con Nixon), pronta a rompere le uova nel paniere in Africa a partire dalla visita apostolica di Zhou Enlai (dicembre 1963 – febbraio 1964) in Egitto, Algeria, Marocco, Tunisia, Ghana, Mali, Guinea, Sudan, Etiopia e Somalia. L’Africa già allora costituiva un terreno privilegiato per l’azione di politica estera cinese: di fresca decolonizzazione e indipendenza, più facile da penetrare di un’Asia dove, per ovvi motivi espansionistici, non era ben vista tranne che dai nemici dei nemici (leggasi Pakistan, per esempio, nemico del’India nemica a sua volta della Cina e quindi amico della Cina), così come di un’America Latina dove l’alternativa al socialismo ortodosso di stampo sovietico era già occupata da guerriglieri di diversa impostazione ideologica e non solo maoistica. L’Africa, invece, rappresentava una vetrina decisamente più accomodante. Dieci anni più tardi, con il contributo determinante dei cinesi sarebbe stata completata la linea ferroviaria Tanzania-Zambia (Tanzania-Zambia-Railway, ovvero TAZARA 1970-1975). Per il resto, solo proclami, inviti a Pechino di delegazioni più o meno ufficiali (33 visite in tutti gli anni Settanta da parte di capi di Stato africani), salamelecchi fra partiti maoisti di varie provenienze e tanta prezzolata zizzania nel campo socialista.

Carattere assai diverso, più concreto, assunsero le visite di capi di Stato africani in Cina a partire dagli anni Novanta<4 . In particolare, la visita di Jiang Zemin a sei Stati africani del 1996 coincise con un deciso cambio di rotta fra le relazioni sino-africane, concentrate ora sullo sviluppo economico e sul “rafforzamento della cooperazione nelle sfere dell’economia e del commercio”.

Quell’anno, gli investimenti cinesi in Africa ammontarono a 56 milioni di dollari.

Nel 2008 il totale era giunto a 7,80 miliardi di dollari5 .

Nel solo decennio 2005-2016 i miliardi di dollari investiti in FDI sono stati 66,4 (293 “progetti”), rendendolo così il maggior paese “investitore” in Africa6 .

Notiamo come, nello stesso 2016, le esportazioni totali cinesi verso l’Africa ammontarono a 82,9 miliardi di dollari mentre le importazioni dall’Africa a 54,3 miliardi7 . Un dato che, insieme alla diversissima struttura delle merci scambiate (prodotti finiti vs. materie prime), dovrebbe già farci riflettere alla luce di quanto già esposto circa l’economia della dipendenza. Ma andiamo oltre.

La ricerca pubblicata da AidData si rivela, in questa nostra inchiesta, una fonte insperata di dati e informazioni8 (anche perché la RPC si guarda bene dal rendere pubblici questi dati). Quindici anni dal 2000 al 2014, 4300 progetti distribuiti su 140 Paesi, per un totale di 350 miliardi di dollari di finanziamenti ufficiali, ovvero provenienti da fondi statali: questo il campo di esistenza entro cui i ricercatori hanno operato le loro analisi e tratto le loro conclusioni.

Anzi tutto, i finanziamenti pubblici sono stati distinti entro tre categorie:

Il grafico che descrive la loro traiettoria entro questi quindici anni è, per certi versi, sorprendente (l’ordine di grandezza sono i miliardi di dollari americani parificati al 2014).

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È facile notare come, negli ultimi 10 anni, la tendenza è stata di aumentare la quota di OOF rispetto a quella di ODA. In altre parole, sono gli interessi commerciali a prevalere, dato confermato anche dalla seguente tabella, che accosta i primi 20 Paesi ricettori di finanziamenti dividendoli fra le due categorie:

Paese

ODA (miliardi USD)

OOF (miliardi USD)

In totale

Russia

2,7

36,6

39,3

Pakistan

2,4

16,3

18,7

Angola

0,9

13,4

14,3

Laos

0,6

11

11,6

Venezuela

0,4

10,8

11,2

Turkmenistan

0,6

10,1

10,7

Ecuador

0,02

9,7

9,72

Brasile

0,1

8,5

8,6

Sri Lanka

2,8

8,2

11

Kazakhstan

2,1

6,7

8,8

Cuba

6,7

0

6,7

Costa d’Avorio

4

0,2

4,2

Etiopia

3,7

2,6

6,3

Zimbabwe

3,6

2,1

5,7

Camerun

3,4

1

4,4

Nigeria

3,1

2,9

6

Tanzania

3

0,1

3,1

Cambogia

3

5

8

Ghana

2,5

1,6

4,1

 

Appare lampante come la dimensione commerciale prevalga su quella rappresentativa, così come non è un caso che interessi

Altra elaborazione utile è quella che ci presenta i settori di maggior investimento, anch’essi suddivisi fra OOF e ODA:

Settore

miliardi USD

OOF Energia

109,3

OOF Trasporto e Logistica

37,7

OOF Altro

28,8

ODA Altro

24,5

ODA Trasporto e Logistica

23,1

OOF Industria, attività estrattive ed edilizia

22,3

ODA Riduzione debito

12,3

ODA Energia

11,3

OOF Comunicazioni

10,8

OOF Agricoltura, silvicultura, pesca

7,5

ODA Industria, attività estrattive ed edilizia

4,4

ODA Comunicazioni

4,1

ODA Agricoltura, silvicultura, pesca

1,4

 

Proseguiamo ora con il raggruppamento per settore e la loro incidenza in percentuale sul totale:

Settore

miliardi USD

%

Energia

134,1

37,84%

Trasporto e Logistica

88,8

25,06%

Altro

61,3

17,30%

Industria, attività estrattive ed edilizia

30,3

8,55%

Comunicazioni

16,9

4,77%

Riduzione debito

13

3,67%

Agricoltura, silvicultura, pesca

10

2,82%

TOTALE

354,4

 

 

Riportati su un grafico a torta, vediamo oltre ¾ della stessa investiti per fini ben precisi e riconducibili agli obbiettivi di una sempre maggiore egemonia e controllo globali dei settori cruciali dell’approvvigionamento energetico e del flusso di merci:

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“L’Africa non necessita di democrazia, bensì di pompe d’acqua, cibo e medicine”: non entrando neppure nel merito di questa falsa opposizione logico-formale (di cui il citato Gheddafi era solo il candido estensore, a differenza di chi continua ad attuarla senza dirlo), osservo tuttavia che, all’ordine del giorno delle varie agende di “aiuti”, cinesi e non, oggi non ci sono né pompe d’acqua, né cibo, né medicine, né tantomeno “democrazia” (Tripoli docet).

Premesso questo, eccoci dunque giunti all’inevitabile confronto finale: USA vs RPC. I cinesi superano gli americani per “aiuti totali”, come questo grafico mostra chiaramente:

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Tuttavia, se si dovessero considerare solo gli ODA, il grafico sarebbe completamente diverso:

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Ciò avviene per un motivo chiaramente comprensibile; la quasi totalità degli “aiuti” a stelle e strisce sono ODA, a differenza di quelli cinesi in prevalenza OOF, come mostra chiaramente questa tabella:

Aiuti per tipologia 2000-2014 (miliardi di USD)

USA

RPC

ODA

366,4 (92,88%)

81,1 (22,88%)

OOF

28,1 (7,12%)

216,3 (61,03%)

VOF

0

57 (16,08%)

 

Insomma, il vecchio indovinello popolare “chi la fa, la fa per vendere; chi la compra, non l’adopra, chi l’adopra, non la vede” sembra attagliarsi sia alla sua soluzione originaria, ovvero alla cassa da morto, che agli aiuti cinesi, specialmente per la prima parte: in senso generale, invece, potrebbe attagliarsi a tutti i cosiddetti “aiuti” di qualsiasi imperialismo, da Oriente a Occidente.

La Cina è diventata il maggior Paese creditore al mondo, superando per entità dei prestiti concessi sia gli Stati Uniti che la Banca Mondiale (BM). A proposito di quest’ultima, degna di menzione è la Banca Asiatica d'Investimento per le infrastrutture (BAII), fondata a Pechino nel 2014 con l’intento di contrapporsi alla BM e alla Banca Asiatica di Sviluppo (BAS) egemonizzate dagli USA: il suo capitale ammonta a 100 miliardi di dollari e i suoi tre maggior azionisti sono Cina (26,06%), India (7,5%) e Russia (5,92%). Se consideriamo come la BM, e gli istituti finanziari a essa collegati, vedono la quota USA intorno al 16-17%, possiamo ben capire chi e in quale misura egemonizza la BAII.

Cambiano le modalità, come abbiam visto, e cambiano le condizioni:

In entrambi i casi la struttura economica di dipendenza è sempre più rafforzata dall’azione espansiva a opera dei due colossi imperialistici USA+GRANDE CINA: nel caso cinese in Africa, per esempio,

Non meraviglia quindi, che la strada che prendono gli “aiuti” non sia per nulla casuale e che ad assorbire gran parte degli stessi, sia il progetto “Una cintura, una via” (yi dai yi lu 一带一路) dove la “cintura” è la rotta di terra che attraversa l’Asia centrale fino ad arrivare in Europa, mentre la “via” è la rotta oceanica che arriva in Europa passando per i due oceani Pacifico e Indiano. Il Pakistan, per esempio, tramite un ricongiungimento a nord con lo Xinjiang, dovrà costituire una valida alternativa all’attuale transito nello stretto di Malacca delle merci via mare, tagliando a metà la rotta attraverso cui, per esempio, passa oggi l’80% del petrolio importato: un collo di bottiglia assai pericoloso in caso di “instabilità creativa” targata stelle e strisce.

Invece, così facendo, con 300 miliardi spesi finora e altri 1000 previsti nei prossimi dieci anni,

La cartina che segue ci aiuta a visualizzare rotte, progetti infrastrutturali, e Paesi chiave del loro progetto:

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La seguente cartina invece descrive la collocazione geografica dei prestiti: anche in questo caso, la coincidenza fra soldi e infrastrutture non è per nulla casuale:

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Infine, come in ogni strategia di mercato che si rispetti, dopo l’ingresso del nuovo prodotto a prezzi “di lancio”, gli stessi pian piano salgono. È il caso del tasso di interesse dei crediti concessi: dal 2,5% si è già passati al 5% e, se non ci sono neppure più lacrime per piangere, nessun problema: risorse naturali, industrie, infrastrutture… tutto fa brodo. Non solo quindi i prodotti invadono mercati con difese debolissime, ma anche gli attivi delle industrie locali vengono drenati nelle casse cinesi, aumentando sempre di più le proprietà all’estero del Celeste Impero.

Il forte si mesce col vinto nemico,
col novo signore rimane l’antico;
l’un popolo e l’altro sul collo vi sta...

(Continua... Qui, qui, qui e qui le puntate precedenti)


Note
1 Theotonio Dos Santos, “The structure of dependence”, The American Economic Review, Vol. 60, No. 2, Papers and Proceedings of the Eighty-second Annual Meeting of the American Economic Association (May, 1970), pp. 231-236.
2 http://www.imf.org/External/spring/2018/imfc/statement/eng/usa.pdf
3 Questo il link all’articolo di Katasonov che funge da base per questo lavoro: https://www.fondsk.ru/news/2018/05/01/china-na-pervom-meste-v-mire-kak-mezhdunarodnyj-finansovyj-donor-46056.html
4 Cfr. Deič Tat’jana Lazarevna (Дейч Татьяна Лазаревна), “L’Africa nella strategia cinese” (Африка в стратегии Китая), Mosca, Istituto dell’Accademia delle Scienze di Russia per l’Africa, 2008, pp. 171 e segg.
5 Aa. Vv., Chinese Trade and Investment Activities in Africa, The African Development Bank Group, https://www.afdb.org/fileadmin/uploads/afdb/Documents/Publications/Chinese%20Trade%20%20Investment%20Activities%20in%20Africa%2020Aug.pdf
6 China becomes single largest contributor of Africa's FDI- Report, http://www.africanews.com/2017/05/04/china-becomes-single-largest-contributor-of-africa-s-fdi-report/
7 Ibidem.
8 http://aiddata.org/china
9 Si veda Boris Rožin, Китайские интересы в Сирии: https://colonelcassad.livejournal.com/3989985.html (“Gli interessi cinesi in Siria”) e Akdoğan Özkan, Войну в Сирии выигрывает Китай без единого выстрела (https://inosmi.ru/politic/20170906/240203117.html “La guerra in Siria la vince la Cina e senza sparare un colpo”).
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