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marxismoggi

Un socialismo possibile. Per aprire un dibattito - parte I

di Gianbattista Cadoppi

searching for the fourth dimensionAll’amico, compagno e maestro Domenico Losurdo[1].

Considerazioni sui sistemi socialisti in URSS, Est Europa e Cina

La formazione della teoria del socialismo alla cinese ha usato proprio il marxismo come linea di guida, facendo un bilancio dell’esperienza e delle lezioni dell’Unione Sovietica e dei paesi dell’Est europeo, e anche della stessa esperienza di costruzione del socialismo in Cina nel periodo ‘49-’78, prendendole come base per la formazione di questa teoria.
Huang Hua Guang, responsabile per l’Europa Occidentale del Dipartimento Esteri del Partito Comunista Cinese (Ceccotti, 2010)

Il socialismo marxista differisce da altre impostazioni di tipo sociale come il fabianesimo[2] inglese che rifiutano il capitalismo esclusivamente per ragioni etiche. Il socialismo marxista dovrebbe superare i sistemi precedenti anche, e soprattutto, in termini di razionalità economica.

Nel marxismo la superiorità etica del socialismo va di pari passo con la sua superiorità economica. L’emancipazione umana nel socialismo diventa una premessa per liberare le forze produttive da obsoleti rapporti di produzione che devono essere superati per l’emancipazione dell’umanità. Tutto ruota attorno ai rapporti di produzione. In altre parole, la proprietà sociale dei mezzi di produzione dovrebbe garantire a ogni membro della società il diritto di un accesso equo alle decisioni concernenti il modo in cui i mezzi di produzione vengono impiegati e al modo in cui i frutti di tale impiego sono distribuiti. La proprietà sociale dovrebbe stabilire un rapporto adeguato tra sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione. La socializzazione dei mezzi di produzione renderebbe il lavoro direttamente sociale giacché nel capitalismo lo è solo indirettamente essendo mediato dal profitto individuale (Brus; Łaski, 1989).

Coloro che per primi s’interessarono all’economia politica del socialismo – Marx, Engels, Kautsky – vedono nella pianificazione e nella proprietà sociale una tendenza insita nella stessa evoluzione del capitalismo, in particolare in Germania, che va sempre di più verso il capitalismo monopolistico di stato. La tendenza in atto nell’Ottocento è l’accentramento del capitale in un relativamente piccolo numero di imprese che per il loro alto grado di monopolio possano prescindere dal mercato. Di conseguenza basta impossessarsi di questo sistema ormai giunto a maturazione. Una volta preso il potere la ripartizione dei compiti e dei beni sarebbe stata relativamente semplice. L’analisi della natura tendenzialmente anarchica, le perdite economiche e la disoccupazione durante le grandi crisi, caratteristiche tipiche del capitalismo, porta i fondatori del socialismo a essere diffidenti nei confronti del mercato. Engels però ricorda che il mercato non nasce con il capitalismo ma è vecchio di settemila anni. I padri fondatori del marxismo vedono le crisi economiche come crisi di sovrapproduzione e quindi stabiliscono un rapporto tra salari troppo bassi, prezzi troppo alti e i profitti che sono associati allo sfruttamento. Il mercato viene associato a fenomeni negativi come l’accumulazione di ricchezza e dunque contrari al socialismo. La regolamentazione altamente centralizzata dei salari e dei prezzi stabiliti amministrativamente è identificata con il socialismo e il mercato come la sua antitesi. Il progetto insomma ha un suo senso.

Il capitalismo, però, è stato capace di evolversi incorporando molti elementi del socialismo. Non altrettanto il socialismo o almeno non dappertutto. L’economia capitalista si è evoluta verso la complessità e la divisione del lavoro è diventata più dispersiva attraverso il lavoro individuale, le piccole aziende artigiane, le grandi aziende che creano un indotto di piccole e medie aziende nei distretti industriali e via dicendo.

Stalin ancora nel 1925 propone di dare la terra in affitto ai contadini per 10-20 anni, la classica riforma di stile denghista. Cosa lo porta a proporre solo pochi anni più tardi un passaggio brusco alla pianificazione integrale? La risposta sta nelle minacce concrete contro l’URSS da parte dei paesi imperialisti. Questa è la ragione per cui si deve procedere a tappe forzate verso la modernizzazione del paese per renderlo competitivo con le potenze capitaliste. Robert Davies ritiene che l’economia pianificata centralmente «sia emersa fondamentalmente come conseguenza della decisione di intraprendere una rapida industrializzazione, e che questa decisione, benché controversa, non era arbitraria ma profondamente radicata nella valutazione, da parte bolscevica, dei pericoli che minacciavano la debole economia sovietica in un mondo capitalistico ostile» (Davies, 2006: 277). La sfida fu vinta con la Grande Guerra Patriottica. Il modello si forma in un periodo di acuta crisi del capitalismo che sembra confermare la superiorità dell’economia pianificata. L’URSS degli anni trenta diventa il paradigma del modello economico del socialismo. Il modello si fonda sulla concentrazione dello sviluppo industriale nei centri urbani ed è basato sullo sviluppo estensivo: l’industria pesante prevale su quella leggera e dei servizi, con utilizzo dei surplus provenienti dall’agricoltura per gli investimenti; bassa rimane la produttività e qualità dei prodotti. Alla mancanza di efficienza sopperiscono l’ideologizzazione del lavoro e la mobilitazione permanente. La pianificazione si basa su bilanci materiali e assegnazione altamente centralizzata di compiti e risorse con relazioni monetario-mercantili di carattere meramente passivo. I pianificatori monitorano le risorse esistenti, individuano le esigenze e controllano i risultati della produzione. Questo sistema ha permesso una grande crescita con l’introduzione massiccia di nuove risorse nella produzione e ha permesso avanzamenti fondamentali nell’industrializzazione e nell’incorporamento di nuovi territori da sfruttare.

La concentrazione e centralizzazione delle risorse ha portato a un’accumulazione che è stata molto superiore a quella dei sistemi capitalisti in equivalenti stadi di sviluppo. Così, nel primo decennio di applicazione, ha permesso una forte crescita economica attraverso forti tassi d’investimento che condensano, in un tempo relativamente ristretto, uno sviluppo che nei sistemi capitalisti è stato fatto in un arco temporale molto più dilatato. Nel corso di tre o quattro anni avviene il raddoppio della quota del reddito nazionale destinata agli investimenti. Il livello di partenza è basso e ci sono poche priorità semplici come lo sviluppo dell’industria pesante in virtù del raggiungimento dell’indipendenza economica e della produzione di armamenti per la difesa dalle minacce di guerra. La concentrazione delle risorse in pochi settori strategici ha sempre funzionato sia nel sistema pianificato sia nel socialismo di mercato, si pensi allo stesso “socialismo di guerra” adottato dalla Germania nel corso della prima guerra mondiale che in un certo senso ispirò il comunismo di guerra sovietico[3]. In URSS siamo in presenza poi di condizioni favorevoli per l’industrializzazione accelerata. Una manodopera abbondante e giovane, liberata in poco tempo dalle occupazioni agricole a seguito della collettivizzazione delle terre e della meccanizzazione dell’agricoltura, si riversa nell’industria. C’è abbondanza, inoltre, di risorse naturali ancora non sfruttate. Inoltre le differenze tecnologiche negli anni Venti-Trenta tra i centri più sviluppati del capitalismo come gli Stati Uniti e quelli periferici come l’URSS non sono ancora enormi. Dalla fabbrica di trattori della Ford a Stalingrado escono prodotti qualitativamente non troppo differenti da quelli fabbricati in USA.

Il modello si sarebbe esaurito probabilmente già alla fine degli anni Trenta e la sua vitalità viene prolungata solo dalla guerra e dalla ricostruzione del dopoguerra. La guerra porta in Unione Sovietica, alla distruzione di 1.700 città e più di 70.000 villaggi. Vengono danneggiati 32 mila impianti, 65 mila km di ferrovia e 1.135 miniere. Si tratta di ricostruire quasi ex-novo buona parte della nazione. Nel 1950 l’industria sovietica supera i livelli raggiunti prima della guerra: in quell’anno il valore della produzione industriale e agricola aumenta del 73 per cento comparata ai livelli prebellici. Già nel 1938 si devono riformare le distorsioni del sistema dei prezzi nel settore dei mezzi di produzione e delle materie prime che si rivela inefficiente; Si accumulano perdite perché il modello economico si basa sulla fornitura di materie prime a buon mercato e macchinari per incoraggiarne il consumo, ciò porta alla scarsa redditività dei rami primari dell’economia. Lo schema ha comunque funzionato dimostrando che il modello centralizzato, sebbene renda possibili grandi realizzazioni, tende contemporaneamente a una riproduzione estensiva dell’economia. Superata questa fase i fattori economici che l’hanno favorito, tendono ad agire in senso contrario.

Una volta perso il vantaggio dato dallo sviluppo estensivo, in cui si può crescere semplicemente portando lavoratori dall’agricoltura alla più efficiente industria anche senza aumentare la produttività nei singoli settori, il modello ha cominciato a declinare. La pianificazione viene effettuata in termini generali per l’impossibilità di controllare in dettaglio un sistema che inizia a essere diversificato e complesso. La pianificazione implica una sorta di impresa-centro e l’impossibilità di un rapporto economico tra le imprese. Gli obiettivi del piano sono soggetti a fattori extra-economici per favorire la stabilità politica e dipendono dalla situazione internazionale. I prezzi sono designati dal pianificatore centrale, con motivazioni socio-politiche, non economiche. Spesso si arriva a sovvenzioni alla produzione e ai prezzi. Con i prezzi che in ogni caso coprono i costi maggiorati di un margine di guadagno e vendite garantite viene a mancare la spinta verso l’innovazione e verso la riduzione dei costi. Con la fine dello sviluppo estensivo, con la scarsità di nuove forze da immettere nella produzione, siano esse nuove terre in agricoltura, oppure nuovi lavoratori da portare dall’agricoltura all’industria, rallenta fortemente lo sviluppo. L’aumento dei costi dei fattori produttivi comporta una diminuzione dei tassi di crescita e anche un calo dell’innovazione tecnologica. I macchinari in Unione Sovietica si rinnovano solo ogni quaranta anni e mentre negli Stati Uniti tra gli otto e i dodici.

Umpierrez Sanchez fa un esempio illuminante sul funzionamento delle economie socialiste in assenza di mercato. Una società fabbrica un determinato trattore e le cooperative degli agricoltori sono costrette a comprarlo. Poco tempo dopo si rompe. Tuttavia, durante più di due anni si continua a produrre questi trattori inutilizzabili e le cooperative degli agricoltori continuano a comprarli. Se il rapporto di vendita fosse stato determinato dal mercato e non dal piano, le cooperative di agricoltori smetterebbero di comprare questi trattori una volta accertato che si guastano facilmente. Questo costringerebbe i costruttori ad adottare misure per la produzione di trattori meno fragili. Ancora più illuminante l’esempio fatto dal segretario del Partito Comunista Giapponese:

«Dopo la fine della guerra di aggressione Usa contro il Vietnam, i comunisti giapponesi inviano una delegazione per studiare l’economia vietnamita e dare consigli sulla ricostruzione. La delegazione ha visitato i distretti agricoli, dove si coltiva il riso. Per aiutare la meccanizzazione dell’agricoltura vietnamita, l’Unione Sovietica invia macchine per il trapianto del riso. Essendo un prodotto dell’economia pianificata sul modello sovietico, questi macchinari erano talmente pesanti che affondano nel fango delle risaie. I vietnamiti si sentono obbligati a utilizzare il dono e attaccano due barche su entrambi i lati della macchina per evitare che affondi. La giovane pianta di riso viene piantata ugualmente, ma appena piantata, rimane pressata dalle due barche. Alla fine i vietnamiti smettono di utilizzare le macchine» (Fuwa, 2003).

Nei sistemi socialisti europei nel lungo periodo si riduce il tasso di crescita del reddito, aumentano i costi in presenza di una produttività bassa e addirittura decrescente. Il calo del tasso di profitto impedisce nuovi investimenti nei settori del consumo. Il modello ha dimostrato ampiamente i suoi limiti nell’aumentare la produttività anche per l’assenza di stimoli, di un’efficiente allocazione delle risorse in mancanza d’informazioni adeguate e di una scarsa capacità di innovazione (Umpierrez Sanchez, 2007).

Il modello ha potuto reggersi ancora negli anni Sessanta-Settanta per via della forte accelerazione delle lotte antimperialiste nel terzo mondo e delle lotte nella stessa metropoli imperialista che suscitano una forte critica del modello capitalista. Ormai non si riesce più a nascondere il declino del modello sovietico soprattutto agli occhi disincantati della stessa classe operaia occidentale. Come avrebbe detto Berlinguer si era esaurita la spinta propulsiva del modello sovietico, almeno per i comunisti occidentali. L’URSS dal 1975 al 1985 entra in una fase di stagnazione e, addirittura dal 1984, di inarrestabile declino. La situazione critica dell’Unione Sovietica si verifica nel decennio (1975-85) in cui in Occidente è in pieno sviluppo la rivoluzione tecnologica basata sulle nuove tecnologie informatiche mentre in URSS la ricerca, sia per quanto riguarda le risorse sia per il personale umano, è concentrata nell’apparato militare-industriale ma non ai fini dell’applicazione alla produzione di beni di consumo. Tra l’altro non essendoci un vero mercato di consumo diventa complicato sfruttare le ricerche per scopi civili. Si investe in cannoni ma non nel burro, la conseguenza è la cronica scarsità di merci[4]. Le carenze dei paesi socialisti diventano decisive nella misura in cui la competitività del capitalismo si muove verso la creazione e l’applicazione delle conoscenze accelerando i cicli dell’innovazione tecnologica come ad esempio la rivoluzione nell’informatica e nelle telecomunicazioni. Oggi nella società della conoscenza la scienza diventa una forza produttiva diretta, contribuisce a superare le difficoltà nella crescita estensiva della produzione e della scarsità delle risorse naturali a livello globale e sostituisce in modo sempre più ampio la funzione umana nella gestione operativa della produzione. Per raggiungere tale elevata complessità la produzione richiede una crescente divisione sociale del lavoro e una precisa organizzazione della società. Marx ha predetto che inadeguati rapporti di produzione possono rallentare lo sviluppo delle forze produttive. Questo è vero non solo nel capitalismo ma anche nel socialismo. Al momento della crisi generalizzata dei sistemi socialisti europei la sfida principale del socialismo è di trovare un sistema di rapporti di produzione che risponda al grado di sviluppo del paese e dei processi internazionali cui deve necessariamente legarsi, e che, a sua volta, tale sistema permetta di avanzare verso una società più solidale.

Il capitalismo, sebbene attraversato da numerose crisi, ha trovato un modus vivendi operativamente efficace per stare nel mondo globalizzato. Il socialismo invece è un sistema con dei valori etici di giustizia sociale ma si può dire che non abbia ancora trovato un sistema di rapporti di produzione di efficacia operativa paragonabile o superiore a quella del capitalismo. Come direbbe Vilfredo Pareto l’importante è che la fede dei marxisti e quella degli etici trovino a conciliarsi con i risultati della scienza economica. Per la verità l’esperienza storica del socialismo insegna parecchie cose anche da questo punto di vista.

Il guaio è che nei paesi socialisti si era arrivati a un alto grado di socializzazione della produzione e si è pensato che ritornare al mercato e alla proprietà privata nei settori non strategici fosse un passo indietro perché la visione teleologica e rigidamente deterministica, ma non basata sulla prassi sperimentale, imponeva di procedere in una direzione obbligata.

Per la maggior parte della sua esistenza il sistema socialista ha formato un sotto-universo autonomo e in gran parte autosufficiente economicamente e politicamente. Tra le due guerre questo era stato, almeno relativamente, un vantaggio. L’URSS aveva risentito poco della generale crisi economica dato lo scarso inserimento nell’economia globale. Aveva però risentito del calo del prezzo del grano, di cui era esportatrice, che non le consentiva di importare macchinari per l’industria e l’agricoltura in misura adeguata. Per un paese agli albori dello sviluppo industriale è decisamente indispensabile la protezione della propria economia dalla concorrenza straniera. L’Impero Britannico impose il libero commercio all’India distruggendo la fiorente l’industria tessile locale. É valida la tesi di List e Prebish secondo cui l’industria nascente dei paesi emergenti deve essere protetta al fine di raggiungere gli standard tecnologici dei paesi avanzati. Questo non significa che ci si debba isolare dalla divisione internazionale del lavoro che permette vantaggi concreti proprio alle nazioni in via di sviluppo o comunque arretrate attraverso il meccanismo del vantaggio comparato e del basso costo della manodopera.

Negli anni Settanta soprattutto alcune delle economie socialiste hanno cercato di integrarsi in qualche modo nel mercato mondiale e proprio per questo sono state, in quanto anello debole, le prime vittime della crisi del capitalismo che invece ha resistito perché più idoneo al cambiamento e alla mutazione.

I sistemi socialisti mancavano di leve o strumenti di autocorrezione, ossia non hanno prodotto sul proprio cammino meccanismi sufficienti per affinare il modello di base. Ci sono stati tentativi di razionalizzare il sistema economico, per migliorare il funzionamento del sistema senza alterare la sua natura e mettere in causa il principio della pianificazione centrale. L’economia sovietica ha provato ripetutamente negli anni Sessanta e Settanta, a introdurre nuovi elementi attraverso il principio di decentramento della responsabilità finanziaria delle società. Ma il reale decentramento in un’economia complessa è un sistema di prezzi che riflette più o meno spontaneamente, le infinite operazioni tra i consumatori e i produttori che si producono nell’economia. Senza un sistema di prezzi determinati dal mercato, il decentramento della gestione alle imprese si limita al trasferimento della responsabilità alla periferia, ma non interviene sul criterio di assegnazione delle risorse.

Ogni famiglia in URSS ha il permesso di coltivare un appezzamento personale e di possedere una mucca e del pollame. Gli agricoltori delle aziende agricole collettive, eseguite le consegne obbligatorie allo stato, vendono la loro produzione privata sul mercato libero (il «mercato kolchoziano e sovchoziano») a prezzi fissati dalla domanda e dall’offerta. Questo settore privato o familiare era responsabile di una parte consistente della produzione alimentare della fattoria collettiva, o ogni azienda agricola statale come unità collettiva, poteva vendere i propri prodotti a prezzi regolati dalla domanda e dall’offerta. Ci sono poi negozi di stato che vendono merci di pro­duzione statale a consumatori privati a prez­zi fissati dallo stato; ne­gozi di stato che vendono merci usate a prez­zi fissati dal venditore. Dove manca il mercato spesso, soprattutto in un’economia della penuria, spadroneggia il mercato nero. Gradualmente, infatti, è emerso un mercato parallelo all’interno dell’economia pianificata dell’URSS. Nei mercati «neri», si commerciano beni statali acquistati al basso prezzo fissato dallo stato che vengono ri-venduti, speculando, a prezzo più elevato; vi si scambiano inoltre sia merci rubate, sia merci di produzione illegale come la droga. Il mercato nero fu l’unico a essere sistematicamente represso dopo l’epoca staliniana. C’erano anche i mercati «grigi», che riguardavano scambi non organizzati di merci usate e servizi privati. L’oggetto dello scambio andava dal bene di consumo più ordinario agli appartamenti, dai servizi personali ai materiali, dal carburante ai pezzi di ricambio, ad altri beni strumentali. Le aziende statali sono spesso ampiamente coinvolte nei commerci del mercato grigio che vengono, in genere, tollerati (Harrison, 2006: 34-35).

L’economia parallela in un primo tempo è stata un prodotto dell’autoconsumo e dell’economia naturale dei villaggi kolchoziani, del doppio lavoro, degli approvvigionamenti clandestini di macchinari e risorse di proprietà statale. In seguito, grazie alla tolleranza della gestione popolare brezneviana, questi fenomeni si sono andati consolidando in vere e proprie attività imprenditoriali, dedite alla produzione e al commercio, spesso di carattere speculativo o addirittura criminale. Inoltre, in questa seconda economia sono state coinvolte le stesse aziende statali, in virtù del compromesso brezneviano stipulato dal centro con i poteri locali delle comunità di lavoro. É in quest’ambito, infatti, che matura il più importante blocco d’interessi favorevoli all’affermazione del capitalismo (Melchionda, 2001).

I tentativi di riformare il socialismo sono stati parecchi: in Cecoslovacchia già nel 1958; il Nuovo Sistema Economico della DDR nel 1963: la riforma Kosygin-Liberman nel 1965 e la sua imitazione da parte della Bulgaria, in Polonia una prima volta già negli anni Sessanta.

Il modello chiamato “socialismo di mercato” è stato messo in atto per la prima volta in Jugoslavia, seguita da altri paesi quali l’Ungheria nel 1968 e la Polonia negli anni Settanta. Il modello aveva avuto uno dei suoi teorici in Ota Sik, l’economista del Nuovo corso di Praga. Questo modello chiede la piena autonomia delle imprese, pur mantenendo la proprietà statale dei mezzi di produzione e la guida della pianificazione dello Stato. É stato un tentativo di conciliare mercato e socialismo e preso in considerazione in due alternative di pianificazione e gestione aziendale: una autogestita (testata soltanto in Jugoslavia) e l’altra di gestione aziendale relativamente autonoma.

Marx sostiene che la fase iniziale dello sviluppo capitalistico in Europa occidentale è avvenuta attraverso l’accumulazione primitiva del capitale, la borghesia lo ha ricavato principalmente non tanto dal nascente lavoro salariato, ma piuttosto dai contadini e dalla depredazione semischiavistica delle colonie. Questa ricchezza si è trasformata in capitale e utilizzata per il finanziamento iniziale dell’industrializzazione europea. Un esempio di sfruttamento interno potrebbe essere la Tassa sulla Terra del 1873 nel corso del periodo Meiji in Giappone. In quel periodo si è mantenuto un livello eccezionalmente alto di sfruttamento dei contadini incanalando il surplus economico nella costruzione rapida del complesso industriale-militare giapponese. Il socialismo è andato al potere in paesi piuttosto arretrati a prevalente economia agricola. Ciò che questi paesi avevano davanti erano tre soluzioni. La prima quella di sfruttare i contadini come la stessa borghesia occidentale o giapponese aveva fatto o anche sfruttarli come se fossero un popolo coloniale come sosteneva Preobrazhensky. La seconda opzione era quella di importare capitali attraverso prestiti di stati, banche o istituzioni straniere. La terza infine era di creare le condizioni favorevoli agli investimenti diretti di capitale straniero. La prima opzione, sebbene riveduta e corretta, è quella scelta in un primo tempo da Stalin e da Mao ed ebbe la sua applicazione più radicale nel comunismo di guerra. La seconda fu scelta dai paesi dell’est Europa avviati verso il socialismo di mercato negli anni Settanta. La terza fu quella di Lenin della NEP e di Deng Xiaoping. Tralasciamo la prima opzione che meriterebbe un discorso a parte. Nella seconda opzione l’importazione di macchinari e tecnologia non avviene, come in Cina, a spese delle aziende che investono in loco, ma a spese dello stato, oppure come nel caso della Jugoslavia a spese delle aziende autogestite ma che sono garantite dallo stato, facendo esplodere il debito estero. Inoltre assieme alla tecnologia standard non viene importato il know-how avanzato delle imprese occidentali.

I paesi socialisti non possono competere con le imprese capitaliste che dispongono di un mercato mondiale mentre questi hanno problemi persino a commerciare tra di loro. Le imprese estere che investono in Cina, i mercati ce li hanno già favorendo l’accumulo di debito estero a favore della Cina anziché il contrario. Se le imprese statali non sono di fatto soggette alla concorrenza straniera, non hanno stimoli ad aumentare l’efficienza del lavoro. I dirigenti delle aziende pensano al loro tornaconto e ad allearsi con il capitale internazionale cosa che in parte viene tentata anche in Cina durante i moti di Tienanmen, quando i manager delle imprese statali (assieme ai capitalisti cinesi di Hong Kong) finanziano gli studenti che la sinistra radicale scambiava per novelli Che Guevara. L’inflazione galoppante innescata dal debito contribuisce, tra l’altro, ad accrescere la protesta sociale in Polonia come in Jugoslavia alla fine degli anni Ottanta; essa è stata anche la causa la scatenante dei fatti di Tienanmen, perché è socialmente iniqua e colpisce i ceti più deboli. La Cina ha potuto resistere proprio in virtù della maggiore solidità economica. Nell’est Europa la mancata ristrutturazione delle aziende decotte, il mancato sviluppo di aziende di base labour intensive non statali che dessero occupazione a chi la perdeva nelle aziende statali, ha impedito che lo stato si concentrasse sui punti strategici e ha compromesso l’aumento dell’efficienza e della redditività delle aziende statali. I dirigenti delle aziende cinesi invece sono stati premiati o penalizzati in base ai risultati che ottenevano.

Le riforme hanno uno scopo politico, rafforzare la legittimità del socialismo attraverso un maggior benessere stimolando i consumi con una maggiore tolleranza per le attività private. La crisi economica degli anni Settanta ha contribuito a peggiorare i problemi cronici dei paesi socialisti, che invece di adeguare le loro economie hanno scelto di prendere a prestito capitali dall’estero portando gli stati al default.

Il socialismo di mercato è fallito nell’est Europa. I cinesi hanno studiato a fondo questi modelli e ne hanno tratto proficue lezioni. I cinesi hanno elaborato un’ipotesi di lavoro ottenendo successi incredibili. Su questa base hanno elaborato una teoria che va bene per loro, non la vogliono esportare, ma in molti sono andati a studiarla e se ne sono appropriati. Per marcare la differenza tra i due tipi di socialismo di mercato basta dire che i cinesi, fino alla crisi del 2008, hanno perso più tempo a rallentare e razionalizzare lo sviluppo stesso, ovvero raffreddare l’economia, che non a ottenere le cifre iperboliche dello sviluppo che conosciamo. Tutto il contrario delle asfittiche economie dei paesi socialisti dell’Europa Orientale. Se non fosse stato così il socialismo in Cina sarebbe miseramente crollato.

L’URSS degli anni trenta si sviluppa in un periodo di generale crisi economica e sociale in Occidente e può sembrare un modello per chi propone di superare il capitalismo nei paesi occidentali. L’URSS staliniana rimane, ricordiamolo, uno dei successi maggiori dell’economia mondiale. Essa, forse più della Russia sovietica leninista che uscita stremata dalla guerra civile e che lo stesso Lenin ammetteva che non poteva essere presa a modello, influì moltissimo come ispirazione per lo sviluppo del movimento comunista mondiale.

 

La crisi dei sistemi socialisti

Un aspetto che deve essere preso in considerazione è quello concernente il rapporto instaurato tra i progetti di vita individuale e sociale. Fino agli anni cinquanta le trasformazioni economiche e sociali del socialismo hanno portato a una straordinaria mobilità sociale. Milioni di persone hanno beneficiano o della consegna dei terreni, dell’accesso all’istruzione, al lavoro, dell’alloggio; la maggior parte delle classi benestanti sono emigrate all’estero e i loro posti sono stati occupati da persone provenienti dal popolo; le donne hanno elevato la loro condizione nella società, una parte della popolazione è passata dalla miseria delle campagne a una vita sufficientemente buona nelle città, l’economia è cresciuta in modo accelerato e la gente ha avuti dei benefici. Per la stragrande maggioranza della popolazione è chiaro che i miglioramenti personali non erano stati raggiunti al di fuori del quadro del nuovo progetto sociale. Bisogna poi considerare che spesso la base sociale dei partiti comunisti dell’Europa Orientale, all’indomani della fine della guerra, era costituita da giovani. Venti anni dopo saranno altri giovani, che si vedono bloccata la strada dell’ascesa sociale dalla vecchia guardia, a contestare il regime. Durante il Nuovo Corso cecoslovacco la Pravda, organo del PC slovacco, scrive di una «crisi dei giovani sul piano socialista. La generazione romanticamente politica», ha scritto riferendosi a chi è entrato nella vita subito dopo, il 1945, «ha occupato i posti principali. Essendo giovane, ha bloccato queste posizioni per un periodo anormalmente lungo. Essa non ha ancora aperto la strada neppure alla generazione odierna» (Cadoppi, 2018b: 157).

Ancora alla metà degli anni Cinquanta le previsioni di buona parte degli osservatori sono favorevoli a una rosea prospettiva per l’economia sovietica. Il futuro premio Nobel per l’economia Paul Samuleson dimostra fiducia nella crescita sovietica. Un economista trotskista come Ernest Mandel nel 1956 sostiene che l’Unione Sovietica abbia dimostrato un ritmo di crescita costante e ritiene dunque superate le leggi dell’economia capitalista che provocano rallentamenti dello sviluppo. Isaac Deutscher prevede che nel giro di dieci anni l’URSS sorpassi l’Europa Occidentale. In realtà mentre nel primo piano quinquennale il tasso di crescita era del 19,2 per cento nel 1954-1959 diviene il 5,8 per cento; nel 1980-1982 si abbassa all’1,5 per cento mentre nei successivi anni il tasso di crescita è addirittura negativo.

I sistemi socialisti dopo gli anni Sessanta non reggono più il passo con la crescita dei paesi occidentali. Devono sempre di più fare i conti con la grande economia di consumo in Occidente mentre nell’est regna la scarsità, diventando un modello negativo per coloro che combattono per il superamento del capitalismo nell’Occidente stesso. Occorre dire che il capitalismo del welfare degli anni Sessanta non è più quello conosciuto nell’Ottocento contro cui avevano combattuto Marx e Lenin. Anche in virtù del ruolo di stimolo della Rivoluzione d’Ottobre si sono diffusi il suffragio universale e i diritti civili. I sindacati e i partiti socialisti e comunisti nell’Occidente hanno ottenuto notevoli successi per cui le condizioni della classe operaia non sono più quelle descritte da Engels nell’Ottocento. Si diffonde il benessere tra la popolazione. Nelle economie rigidamente pianificate siamo in presenza di un tenore di vita manifestamente inferiore a quello permesso dal grado di sviluppo dell’economia.

Un socialismo senza prestazioni economiche compatibili con le aspirazioni della popolazione rischia di fare pendere la bilancia verso l’individuazione di strategie personali per arrivare al benessere. Il liberalismo è una dottrina che ha un approccio inclusivo e anche “progressivo”, in cui tutti possono progredire e diventare milionari o possono acquistare i prodotti esposti nelle vetrine. Anche se statisticamente l’opportunità di diventare ricchi non è elevata per la stragrande maggioranza delle persone tutti sono a conoscenza di qualcuno che ha avuto successo. Se una persona non arriva a soddisfare i propri obiettivi nel capitalismo, la tendenza è pensare che ciò sia dovuto alla mancanza di capacità personali piuttosto che per colpa del sistema (Gonzales, 2003). Nel socialismo si tenderà a dar la colpa al sistema, dato che non c’è altra alternativa, soprattutto non ci sono molte possibilità di emersione individuale. Inoltre, le disuguaglianze, i privilegi e anche gli aspetti negativi dei sistemi liberali non sono giustificati in sé, ma da principi che possono essere largamente accettati come la difesa della libertà individuale, la tutela della proprietà ecc.

Nell’Occidente capitalista come nell’Oriente (europeo) socialista si è stati incapaci di creare o immaginare un sistema economico-sociale migliore del capitalismo; migliore per capacità di produrre ricchezza e di soddisfare i bisogni. Migliore, quindi, anche per le classi lavoratrici. Il che vale per gli operai occidentali come per quelli sovietici o dei paesi dell’est. La classe operaia è sostanzialmente rimasta passiva, quando non ha festeggiato come una liberazione, almeno all’inizio, la restaurazione del capitalismo ordoliberista.

Nei paesi capitalistici avanzati anche le classi popolari hanno qualcosa da perdere dalla crisi del sistema: la casa, la pensione, il lavoro e via dicendo. Paradossalmente avevano molte più cose da perdere dei loro fratelli dell’est Europa, sebbene alla fine anche questi hanno perso, almeno all’inizio, il poco che avevano.

Negli Stati Uniti il consumo complessivo individuale costituiva il 68,6 per cento dell’economia nel 1991. Nella ex Unione Sovietica solo il 55 per cento. La sottovalutazione dei settori economici orientati al consumo ha fatto sì che la produttività del lavoro e la redditività dei capitali investiti fossero compromesse. Queste economie non si sviluppano nei settori dell’economia mondiale a più rapida espansione, che non sono quelli della siderurgia o degli armamenti, ma quella dei beni di consumo o dell’hi tech. Ciò ha anche compromesso il settore del commercio poiché gli investimenti nell’industria pesante richiedono capitali più elevati per unità di prodotto di quella leggera e dunque rendono più difficile creare industrie in grado di competere nell’economia mondiale. Inoltre spesso si sottovaluta l’influenza dei brand quali Mc Donald, Apple ecc. che, assieme ad Hollywood, diventano degli autentici ambasciatori del soft power complessivo dell’America.

Uno studio condotto negli anni Novanta ha dimostrato che le aspirazioni dei consumatori, sia in Europa orientale nel periodo socialista che nella Cina pre-riforma, sono frustrate e ciò indipendentemente dal loro livello di reddito. La fornitura di molti beni è irregolare, la loro carenza è la normalità; i consumatori, spesso affrontano lunghe code per acquistare i beni disponibili. Così non c’è solo un basso livello di efficienza nell’allocazione delle risorse reali a favore dei beni di consumo, c’è anche una sostanziale domanda insoddisfatta tenuto conto dei livelli di reddito. Anche l’eventuale aumento degli stipendi, siccome c’è ben poco da comprare, non contribuisce all’incentivazione della produttività dei lavoratori che non sanno che farsene dei soldi che guadagnano. La stessa economizzazione del tempo di lavoro non incide poiché, in ultima analisi, non va a influire sulla diminuzione del prezzo delle merci e non porta dunque a maggiori consumi.

La contraddizione principale, come è stata individuata magistralmente da Deng Xiaoping, è tra i bisogni della gente e l’arretratezza delle forze produttive. In definitiva la socializzazione spinta che in un primo tempo ha funzionato nel concentrare le risorse per uno scopo è diventata una catena per l’ulteriore sviluppo delle forze produttive e dunque del benessere.

Il passaggio alla priorità della produzione di beni di consumo è impossibile da realizzare senza mercato. La struttura della domanda dei consumatori è assai diversa da quella dell’industria pesante, poiché richiede una rete di milioni di piccole unità di produzione. Una vasta rete di piccole aziende, negozi, laboratori e produttori di beni di consumo non si creano amministrativamente ma solo mediante meccanismi di mercato. Lo sviluppo dell’industria pesante ha potuto essere effettuata da Stalin amministrativamente perché comporta la concentrazione delle risorse in un numero relativamente piccolo di unità di ben delimitati settori industriali per scopi specifici come quello di rafforzare l’esercito in vista della guerra. Amministrativamente è, però, impossibile creare milioni di piccoli produttori e servizi per i consumatori.

Mancava anche libertà fondamentali come quella di viaggiare o emigrare, di studiare all’estero, di usufruire degli elementi di consumo culturale del resto del mondo come film, musica ecc. La stagnazione economica unita alla seduzione del consumismo occidentale ha portato alla distruzione del socialismo in Europa. I paesi dell’Est Europa sono soggetti a un paese con uno scarso appeal come l’Unione Sovietica.

L’appeal era alto quando l’Unione Sovietica riusciva a superare indenne la crisi del 1929, dati gli scarsi agganci con il resto dell’economia mondiale, oppure nell’immediato dopoguerra quando risultava essere la liberatrice dell’Europa dal nazifascismo. Spesso, però si sottovaluta l’influenza del soft power americano con Hollywood che in breve tempo è riuscita a far credere che l’Europa sia stata liberata dall’Esercito americano invece che dall’Armata Rossa. Complice in questo caso quello straordinario atto di auto-diffamazione che fu il rapporto al XX Congresso di Krusciov che descrisse la vittoria sul nazismo come opera di mentecatti che costruivano i piani di battaglia sul mappamondo. Già dal Piano Marshall è chiaro che il paese dell’abbondanza non è certo l’Unione Sovietica, uscita stremata dalla guerra, ma sono gli Stati Uniti in piena sovrapproduzione. L’allarme sulla crisi imminente è dato dalla rivolta di Budapest nel 1956.

 

Il socialismo oggi

Ciò che bisogna dimostrare è che un sistema alternativo e migliore del capitalismo sia possibile. In altre parole c’è bisogno di un progetto socialista credibile e più appetibile di quanto sia stato l’esperimento sovietico. In Occidente un tale progetto non è ancora delineato. Il sistema cinese ha uno scarso appeal in Occidente mentre, indubbiamente, lo ha nei confronti dei paesi in via di sviluppo. Le esortazioni etiche e la difesa dei ceti impoveriti possono non avere il richiamo dovuto nemmeno per la classe operaia. Il marxismo esige che il superamento del capitalismo non sia solo una scelta di principio ma una possibilità reale, basata su una teoria scientifica. Inoltre pretende che il superamento avvenga in positivo, verso una maggiore ricchezza. La decrescita è sempre infelice come abbiamo sperimentato in Italia dopo la crisi del 2008.

Il socialismo sopravvive oggi nei paesi meno sviluppati; s’inserisce in una predominante economia capitalistica internazionale, e può prosperare egregiamente, grazie a un uso ampio delle relazioni commerciali, monetarie e dei meccanismi di mercato. Cina, Vietnam, Laos dimostrano con i loro straordinari risultati che ciò è possibile, ma non sono ancora concorrenziali, in termini di soft power, con il modello occidentale. Per lo meno non lo sono in Occidente.

Molti dimenticano che lo stesso socialismo di mercato non è una novità assoluta nei paesi socialisti. Anche questo fa parte di questa esperienza storica. É significativo che molti economisti abbiano pensato già dagli anni Cinquanta al socialismo di mercato come a una alternativa a quello rigidamente pianificato. La discussione viene avviata principalmente in Jugoslavia e nella Polonia di Gomulka, segue l’Ungheria mentre Germania Est e Cecoslovacchia rimangono attardate. Ma si potrebbe persino pensare agli albori delle Democrazie Popolari. Analogamente a ciò che avveniva in Cina, scrive l’economista di origine ungherese Evgenij Varga:

«Il regime sociale di questi stati si differenzia da tutti gli stati da noi conosciuti finora: è qualcosa di assolutamente nuovo nella storia dell’umanità […]. (In essi) “esiste il sistema della proprietà privata sui mezzi di produzione; ma le grandi imprese industriali, il trasporto e il credito sono nelle mani dello stato e lo stato stesso e il suo apparato di repressione non servono gli interessi della borghesia monopolistica, ma gli interessi dei lavoratori”» (Varga, 1947)[5].

Quelle di Varga sono proposte simili a quelle avanzate da Mao[6] per il governo di coalizione e il Togliatti della Democrazia Progressiva. Dunque le idee non mancavano. Ciò in cui si sbagliò fu nel pensare che in paesi come quelli dell’est, che avevano subito una rifeudalizzazione, fossero sufficienti pochi anni per passare a obbiettivi socialisti avanzati.

Nel 1956, dopo l’introduzione dell’economia pianificata in Polonia, il Consiglio economico, cioè un ente governativo, si dichiarò a favore del modello “decentrato”. Mentre, in Ungheria, nel corso degli anni Cinquanta, le raccomandazioni della Commissione economica a favore delle riforme di mercato sono state respinte perché contrarie ai principi fondamentali del socialismo (Bjarnason, 1997).

Il Nuovo Meccanismo Economico, introdotto in Ungheria nel 1968, ha rappresentato la rottura più significativa dal sistema classico della pianificazione centralizzata nei paesi del blocco sovietico e sull’allocazione amministrativa delle risorse, sostituendo il sistema di piani obbligatori con controlli indiretti su aziende di stato in conformità a indicatori finanziari e incentivi. In questo caso però rimangono i difetti di efficienza delle imprese anche perché queste non sono messe in concorrenza nel libero mercato e perché lo stato si ostina a tenersi quasi tutto l’apparato economico senza arrestare il declino dell’efficienza economica. L’operazione si traduce in maggiori poteri ai manager che utilizzano la loro autonomia d’azione per gestire le imprese più per il loro tornaconto che per lo stato. Essi si orientano verso il mercato internazionale che rende possibile l’accaparramento da parte dei manager di valuta forte e l’accesso a beni di lusso preparando inoltre il terreno alla privatizzazione che è dunque dovuta al mancato successo delle riforme e non tanto all’introduzione del “mercato”.

Le statistiche sul PIL indicano un’accelerazione della crescita ungherese all’indomani dell’introduzione del Nuovo Meccanismo Economico: il tasso medio annuo di crescita in termini reali sale dal 4,1 per cento nel 1961-65 al 6,8 nel 1966-70 e 6,3 nel 1971-5, crollando più tardi al 3,2 nel periodo 1976-80 e al 1,4 nel 1981-5. Sostanzialmente i periodi di accelerazione e di rallentamento della crescita in Ungheria seguono da vicino quelli del resto dell’Europa orientale in cui non sono state fatte le riforme. Il rallentamento dell’Ungheria è semmai più pronunciato, con un 3,2 per cento di crescita annua nel 1976-80 contro una media di 3,8 dell’Europa orientale e 1,4 nel 1981-5 contro 2,4. Solo l’agricoltura ha indici più favorevoli rispetto agli altri paesi orientali, ma si tratta di un settore in gran parte non statale (Brus e Łaski, 1989: 64-65).

In Polonia viene introdotta nel 1971 la “nuova strategia per lo sviluppo”, che si basa su forti prestiti esteri e l’importazione di tecnologia occidentale. Il tasso di crescita degli investimenti in capitale fisso sale a una media del 21,3 per cento l’anno durante il 1972-75, rispetto a un tasso medio annuo di circa il 7,6 per cento durante gli ultimi 15 anni. La quota delle importazioni di macchinari e attrezzature provenienti dai paesi non-socialisti e le importazioni totali in macchinari e attrezzature passa da una media del 21,2 per cento nel 1961-71 a una media del 43,3 per cento nel 1972-76, raggiungendo un picco del 52 per cento nel 1975 (Bjarnason, 1997).

Per finanziare queste importazioni, la Polonia riceve dalle banche occidentali 38,6 miliardi dollari di credito a medio e lungo termine tra il 1971-80. Tuttavia, il trasferimento di tecnologia occidentale non ha raggiunto gli obiettivi prefissati di aumentare le esportazioni industriali in Occidente. L’onere del debito, in compenso, diventa così grave che la strategia viene abbandonata nel 1976 e sostituita dalla “Nuova Manovra Economica” che impone una drastica riduzione del tasso di investimenti e nella crescita delle importazioni in valuta forte. Il tasso di crescita degli investimenti nel 1976-78 crolla al 2 per cento. Solo verso la fine degli anni Ottanta il deficit commerciale con i paesi occidentali è stato ridotto notevolmente, da 3 miliardi di dollari nel 1975 a 70 milioni di dollari nel 1989.

Nel 1980, il debito estero della Polonia arriva alla cifra record di ventiquattro miliardi che determina il fallimento della strategia di sviluppo basata su crediti occidentali. Mentre paradossalmente le economie centralizzate sono riuscite a ridurre gli oneri del loro debito internazionale: la Cecoslovacchia e la Romania seguono, infatti, una politica di crescita lenta e ripagano i debiti negli anni Ottanta, con tassi di crescita del PIL in media del 2,7 per cento e il 4 per cento, rispettivamente, tra il 1977-86.

Con il debito internazionale fuori controllo la Polonia, nei tardi anni Ottanta, soffre di un’inflazione enorme. Durante il periodo 1977 al 1986, la Polonia raggiunge solo l’1,4 per cento nel tasso di crescita medio del PIL, il livello più basso tra tutti i paesi del Comecon. In Ungheria, l’accumulo del debito estero porta a negoziati con il Fondo monetario internazionale (FMI) per l’attuazione di un programma di stabilizzazione nel 1982-83. Questo programma, tuttavia, aggrava ulteriormente l’onere del debito, che aumenta di nuovo all’inizio di 1985. L’Ungheria supera la Polonia raggiungendo il secondo più basso tasso di crescita medio del PIL – 2,5 per cento – nel Comecon tra il 1977-86 con il massimo livello di indebitamento pro capite.

Il mancato sviluppo di un mercato socialista è stato responsabile anche dei fallimenti del commercio tra i paesi socialisti. A dispetto dei più elementari principi di economia tutto il commercio è condotto in modo bilaterale. Le banche scambiano le proprie valute con quelle di qualsiasi paese capitalista e viceversa, ma non accettano lo scambio delle valute con altri paesi socialisti, tranne nei negoziati commerciali governativi. Se la Polonia, per esempio, vuole vendere i prodotti agricoli in Cecoslovacchia, ottiene in cambio valuta ceca, che può venire utilizzata solo per acquistare beni cecoslovacchi. Dal momento che di rado accade che la Polonia abbia bisogno di merci cecoslovacche l’eccesso di moneta ceca non può essere speso altrove: tutti i paesi socialisti si sono trovati in possesso di grandi somme inutilizzabili delle rispettive valute. Si tratta di un ritorno al passato, quando l’unica forma di scambio era il baratto tra tribù vicine. Un tentativo è stato fatto nel 1970 per porre rimedio a tale situazione con l’introduzione del rublo trasferibile per lo scambio di moneta comune per tutti i paesi socialisti, ma solo per quanto riguarda i beni di investimento. Non è mai avanzato al di là di quel punto e tutte le economie socialiste ne hanno subito le conseguenze (Lebowitz, 2004).

 

Il primo sintomo evidente della crisi delle democrazie popolari: il Nuovo Corso cecoslovacco

Ricorre il cinquantesimo anniversario del Nuovo Corso cecoslovacco del 1968. Questo fu uno dei primi sintomi della crisi del socialismo nell’Est Europa. Non c’è dubbio che i riformatori segnalassero i punti critici del sistema sebbene le soluzioni proposte sembrassero discutibili.

Certe posizioni del gruppo dirigente cecoslovacco destano molti dubbi anche all’interno dell’ala più aperta del PCI. Il giudizio di Luciano Barca dopo una discussione con Ota Sik, nonostante la simpatia personale, non è positivo: «Lo colpiscono la mancanza di “senso politico” ma anche le “posizioni da FMI”, che giungono fino a “follie ultraliberiste” e rischiano “di scatenare contro gli innovatori tutta la classe operaia”. Kohoutek e Broz, vice-responsabile dell’Organizzazione, appaiono più consapevoli dei problemi, dai contrasti tra le nazionalità alla “spaccatura tra intellettuali e classe operaia”» (Höbel, 2018). Il programma si basa sulla «riorganizzazione di alcuni settori produttivi» che comporterà «riduzioni anche sensibili del numero di occupati o almeno spostamenti anche notevoli di mano d’opera»; il che suscita preoccupazioni tra lavoratori e quadri. Il problema è la compattezza dello schieramento politico perché sembra, cosa rilevata anche da Longo nei suoi colloqui a Praga, che strati importanti della classe operaia e dell’apparato statale oppongano resistenza.

Afferma Dubcek: «Una certa tendenza democratica, vale a dire possibilità eguali per tutti, è propria di un’economia di mercato intesa in senso puro; ma, con il capitalismo, essa è cancellata dalla potenza del capitale privato […]. Noi pensiamo di poter sfruttare quella potenzialità dell’economia di mercato nelle condizioni del socialismo, ricollegandola con i principi democratici che sono propri della società socialista, poiché essa ha abolito la proprietà privata del capitale; in questo modo, possiamo creare qualche cosa che non è realizzabile in nessuna società che non sia socialista» (“l’Unità”, 31 marzo 1968; Höbel, 2018).

Si vuole assicurare un maggior ruolo al mercato nel quadro di un piano che non si propone più di sostituirsi alle imprese dandogli ordini quantitativi, ma le rende protagoniste attive, obbligandole a misurarsi col mercato indirizzati dal piano. Per Barca si sta risolvendo il rapporto tra piano e mercato verso un ruolo nuovo per quest’ultimo. Una nuova qualità del mercato per soddisfare bisogni che nel mercato capitalistico non entrano nella “domanda effettiva”.

Longo assiste a un’assemblea con Ota Sik che «dà un giudizio molto severo sulle scelte del precedente gruppo dirigente: l’applicazione meccanica del modello sovietico, con la priorità assoluta allo sviluppo dell’industria pesante ha provocato “un decadimento della produzione di beni di consumo”; la scarsa cura della produttività del lavoro e dei costi di produzione hanno fatto il resto, indebolendo l’economia cecoslovacca. Ora occorre riconvertirla verso lo “sviluppo di settori più moderni e avanzati”, dando alle aziende “ampi poteri decisionali” e puntando sulla produttività e una certa mobilità del lavoro e la razionalità del calcolo costi/benefici; dei “costi sociali” dovrà farsi carico lo Stato, evitando che si creino “sacche di disoccupazione o riduzioni salariali”» (Höbel, 2018).

Ota Sik sottolinea le deficienze del modello di sviluppo di tipo sovietico, partendo dalla constatazione dei limiti della pianificazione centralizzata, poiché il piano centrale non può in alcun modo garantire che tutte le aziende producano milioni di articoli diversi nelle quantità e qualità necessarie; che le possibilità produttive siano utilizzate e indirizzate nella maniera più efficace; che la produzione venga costantemente sviluppata e rinnovata. In Cecoslovacchia, nella seconda metà degli anni Sessanta la pianificazione arrivava a prevedere la produzione di oltre 1,5 milioni di beni differenti!

La soluzione per ridare slancio all’economia e battere la tendenza all’esaurimento della crescita viene individuata nell’introduzione di meccanismi di concorrenza e di mercato.

Il documento riporta l’idea di Ota Sik che «le nostre imprese devono subire una maggiore pressione da parte del mercato interno e mondiale. La posizione di monopolio delle imprese deve essere sostituita dalla concorrenza, ottenuta all’interno o mediante il commercio estero)». Dirà alcuni anni più tardi Ota Sik: «Senza mercato non può esistere né un interesse dei produttori verso la domanda, né un interesse per lo sviluppo e l’utilizzazione ottimali delle forze produttive nelle aziende. Senza mercato e senza una concorrenza almeno potenziale, opera nelle aziende un meccanismo decisionale basato sull’arbitrio; la pianificazione avviene presso gli organi centrali dello stato in forma burocratica e con inevitabili errori» (Sik, 1974).

 

L’esperienza jugoslava

La Jugoslavia è indubbiamente un importante case study poiché vi vengono implementate tutte le varianti possibili del socialismo, dalla pianificazione di stampo sovietico, al socialismo di mercato, all’autogestione radicale. La Jugoslavia è stata anche un caso di paese socialista di successo per cui è estremamente importante studiarla. La Jugoslavia, tra il 1953 e il 1960, ha registrato il più alto tasso di crescita del mondo. La produzione industriale cresce del 13,4 per cento l’anno e il PIL dell’8,9 per cento. Dal 1960 al 1980 la Jugoslavia, tra i paesi a reddito basso e medio si trova al terzo per reddito pro-capite. La produzione industriale cresce in quegli anni dell’8,8 per cento e il PIL del 7 per cento l’anno; negli anni Settanta del 7,5 per cento e del 6 per cento rispettivamente; nel 1980, la produzione industriale è aumentata dell’80 per cento rispetto al 1970.

Ancora nel 1950 la Jugoslavia è un paese sottosviluppato con più del 50 per cento della popolazione dedita all’agricoltura. Le condizioni di vita in miglioramento, pur variando da repubblica a repubblica, stimolano i consumi e il mercato immobiliare. Nel 1976 la Slovenia può godere di un livello di vita paragonabile a quello austriaco e la Jugoslavia nel suo complesso pari a due terzi di quello italiano (Schweickart, 2006).

La crescita economica della seconda metà degli anni Cinquanta porta anche a forti aumenti salariali (13 per cento nel 1957 sull’anno precedente) per un valore del 4-5 per cento annui al netto dell’inflazione, tra il 1957 e il 1961. Gli stipendi sono ancora indubbiamente bassi, molto diffuso è il secondo lavoro (specie in agricoltura) e indispensabili sono gli assegni familiari. L’indice Engel[7], mostra che le spese per l’alimentazione sono solo il 55 per cento delle spese totali delle famiglie operaie. Migliora anche la qualità delle merci a cominciare da quelle alimentari e anche quelle di utilizzo quotidiano come elettrodomestici ecc. Tra gli indubbi successi del paese la prevenzione antinfortunistica e la sicurezza sul lavoro.

In Jugoslavia, come del resto nelle altre “Democrazie popolari” vi sono delle difficoltà obiettive a trasportare meccanicamente il modello sovietico. É un problema che lo stesso Stalin intravvede, secondo quanto ci dice Dimitrov nel suo diario. In un primo tempo si segue il modello sovietico fondato sulla pianificazione di indici fisici in cui le categorie monetarie giocano un ruolo essenzialmente contabile e non attivo. Perdite e benefici sono pianificati e i prezzi non influiscono sulle scelte dell’azienda.

Con la rottura tra Mosca e Belgrado nel 1948, gli jugoslavi tendono a distinguersi da quella che era la casa madre sovietica elaborando un nuovo modello di socialismo. Secondo la dirigenza jugoslava la proprietà statale intesa come proprietà della classe è una forma indiretta di potere della classe operaia perché, di fatto, la classe non esercita direttamente il proprio controllo sulle aziende, sull’economia e sulla politica. Questa forma centralizzata riprodurrebbe addirittura l’alienazione della classe operaia ovvero la separazione della classe operaia stessa dai mezzi di produzione e dai prodotti del proprio lavoro. La forma classica dell’autogestione è la forma cooperativistica dove la proprietà non è degli operai in quanto classe ma dei lavoratori occupati nella singola azienda. Secondo il punto di vista deterministico e meccanicamente evolutivo del marxismo di quel periodo, la cooperazione è una forma di proprietà sociale “incompiuta” e dunque, deve essere superata. La critica a questo modo di vedere non è del tutto ingiustificata. Per gli jugoslavi la classe operaia in sé deve trasformarsi in classe operaia per sé e dunque il potere non deve essere gestito in nome del proletariato. In questa direzione lo stesso Partito Comunista Jugoslavo cambia nome e diventa Lega dei Comunisti per sottolineare che non si trattava più di un’avanguardia distaccata dalla classe ma uno strumento di esercizio del potere da parte della classe stessa. Gli jugoslavi riprendono la polemica di stampo bordighista sul cosiddetto capitalismo di stato e quella trotzkista sul potere dispotico della burocrazia.

Per i teorici jugoslavi sembra che il problema sia chi amministra il surplus del lavoro e chi se ne impossessa. Se lo fanno direttamente i lavoratori oppure qualcun altro come il capitalista privato per suo conto e a proprio nome oppure se sia il capitalista di stato per suo conto ma a nome del proletariato. In effetti, la cosa non è posta male poiché Marx non è contro il surplus in sé ma contro la sua appropriazione privata. Per Kardelj, il massimo teorico dell’autogestione, il mercato è solo un mezzo tecnico (anche Stalin sarebbe stato d’accordo) e non il padrone dell’economia. Egli riconsidera anche categorie come la rendita, il profitto e la contabilità economica che sono comunque presenti nell’economia socialista ma che i marxisti ortodossi di scuola sovietica non chiamano con il loro vero nome. Secondo i dirigenti jugoslavi le economie rigidamente pianificate, che dovrebbero essere il massimo della razionalità economica, finiscono con l’essere irrazionali dittature dell’offerta che limitano la libertà di scelta dei lavoratori-consumatori. La pianificazione è comunque una creazione soggettiva e tutt’altro che infallibile. Inoltre l’autogestione sarebbe più sensibile alla domanda effettiva del mercato in quanto più flessibile ed efficiente della pianificazione centralizzata.

L’autogestione come sistema inizia nel 1950, anche se già prima erano funzionanti i Consigli dei lavoratori. Tra il 1953-64, è in vigore una variante autogestionaria della pianificazione decentralizzata (come fu realizzata anche in Ungheria e nell’ultimo periodo in URSS) che produce l’articolazione del piano, del mercato e dell’autogestione in seno alla pianificazione. L’introduzione dell’autogestione non significa lo smantellamento totale della pianificazione ma questa viene ristretta ad alcuni strumenti economici: prezzi, crediti, salari e fisco che trasmettono le preferenze dei panificatori e rimpiazzano gli ordini amministrativi. I margini di responsabilità dell’impresa sono ampliati ma la gestione operativa è subordinata alle grandi opzioni strategiche pianificate.

L’autonomia della gestione delle imprese viene rafforzata tra il 1953 e il 1963 con l’ampliamento dell’autogoverno locale a cui passano buona parte delle competenze dello stato. I dirigenti delle imprese dovranno rendere conto al Consiglio dei lavoratori invece che ai ministri dello stato. Nella prima fase di transizione all’economia di mercato il governo controlla gli investimenti, questa politica viene abbandonata per il formarsi di un’opposizione generalizzata a ogni intervento del governo. Ciò è in contrasto sia con l’esperienza giapponese sia con quella successiva cinese di un grande interventismo dello stato nazionale. La richiesta di sempre maggiore autonomia viene dallo stesso Congresso dei Consigli dei lavoratori che nel 1957 reclama: «[...] non abbiamo abbastanza potere per prendere decisioni. É necessario rimuovere i regolamenti statali che restringono l’indipendenza delle imprese. In particolare, dobbiamo promuovere ulteriormente l’iniziativa di lasciare più soldi nelle imprese, permettendo loro di fare più investimenti. Vale a dire, abbassare le tasse. Lasciate che le imprese investono di più e lo stato di meno» (Piccin, 2004).

Si apre comunque una lotta tra “conservatori” e “riformisti”. I primi sono diffidenti verso la maggiore autonomia delle imprese e danno la priorità agli investimenti in agricoltura per diminuire la dipendenza dall’estero che influisce negativamente sulla bilancia commerciale. I riformisti prevalgono e dopo una falsa partenza all’inizio degli anni Sessanta. Con la Costituzione del 1963 l’autogestione diventa un diritto. Dopo una parentesi di riassestamento nel 1965 viene ripresa la strada delle riforme con la possibilità anche di costruire imprese private di piccole dimensioni. Dal 1965 la Jugoslavia passa a un vero e proprio socialismo di mercato, dove il mercato diventa il regolatore dell’economia. Il piano assume una funzione secondaria, di orientamento attraverso lo strumento del credito erogato per l’applicazione di obiettivi pianificati che prendono il posto degli ordini diretti. La pianificazione viene decentralizzata, la gestione operativa dell’azienda si decentralizza e aumentano i margini di responsabilità dell’impresa. L’efficienza deve essere perseguita con l’introduzione di un arbitro neutrale come il mercato e viene varata in un contesto di espansione economica internazionale. Si procede al progressivo smantellamento degli strumenti di pianificazione (controllo sui prezzi, sistema bancario decentralizzato, assieme ai fondi di investimento) con l’apertura alla competitività internazionale. Le aziende autogestite hanno ampia autonomia e possono così prendere decisioni su prezzi, investimenti e assunzioni. La formazione dei prezzi dei mezzi di produzione e mezzi di consumo è affidata principalmente al processo di decisione relativamente autonomo delle singole unità produttive di proprietà collettiva. Anche le singole repubbliche che costituiscono la Federazione diventano più autonome nel tentativo di portare il potere decisionale verso la base e coinvolgere maggiormente i cittadini nella vita sociale con l’effetto di avvicinarli alle istituzioni. Gli organi locali e le aziende ormai amministrano la maggioranza assoluta dei fondi consentendo maggiore flessibilità degli investimenti. La riforma è strutturale. I prezzi di beni e servizi liberalizzati sono stabiliti dalle leggi di mercato. Cambia il sistema di prelievo fiscale per le aziende, più libere di disporre delle risorse economiche prodotte. La pianificazione centralizzata degli investimenti aveva portato a sprechi per la non corretta allocazione degli investimenti, come la costruzione della tipica cattedrale nel deserto ovvero l’acciaieria di Nikšić in Montenegro fuori dalle vie di comunicazione senza ferrovia né strade asfaltate. Si cerca di passare dallo sviluppo estensivo a quello intensivo chiudendo le cosiddette “fabbriche politiche” tenute in piedi solo per dare del lavoro alla manodopera locale, puntando sulla qualità della produzione con la riduzione dei nuovi investimenti allocati in modo più efficiente. Dal 1963 al 1974 i fondi di investimento passano progressivamente dallo stato, che perde influenza sugli investimenti, a favore del sistema bancario autogestito. La Federazione mantiene il potere di controllo e di emissione della carta moneta attraverso la Banca nazionale. L’autofinanziamento e il credito bancario diventano la regola per gli investimenti e le imprese che così possono procacciarsi autonomamente i finanziamenti di cui necessitano. Si auspica che la maggiore competitività porterà a una migliore integrazione con i mercati mondiali con la possibilità di acquisire dall’estero tecnologia e semilavorati.

Si va verso la creazione di un mercato del lavoro con l’accettazione della disoccupazione come male necessario. Alcune obiezioni dei conservatori potevano essere anche giuste dato che con un’autogestione spinta si lascia troppa autonomia ai lavoratori che potrebbero scegliere di aumentare i salari a scapito degli interessi collettivi. I riformisti replicano legando i salari alla produttività fiduciosi che i lavoratori vengano stimolati a una sorta di patriottismo aziendale dipendente appunto dalle sorti e dal successo dell’azienda. La differenziazione dei salari è legata alla produttività e quindi possono variare sensibilmente anche da zona a zona, ma persino tra lavoratori con la stessa qualifica che lavorano in aziende diverse oppure nella stessa azienda. Il decentramento intacca la capacità di controllo macroeconomico, vengono sempre più a mancare gli strumenti per bilanciare le inevitabili disuguaglianze sorte dal mercato.

Le imprese diventano via via sempre più autonome dallo stato tanto che David Granick sostiene che, negli anni Settanta, abbiano un’autonomia paragonabile a quella di una Corporation americana (Mangano 2009). Questo è il lato debole dell’autogestione che da una parte non supera l’anarchia capitalistica della produzione e dall’altra tende a feudalizzare l’economia. La riforma del 1965 viene gestita in modo piuttosto radicale provocando come conseguenza un forte aumento dei prezzi al consumo di circa il 30 per cento nel giro di tre mesi e della disoccupazione determinando un forte malcontento. All’inizio degli anni Settanta è opinione diffusa che le riforme volute dall’ala riformista siano un disastro: scioperi, inflazione, deficit della bilancia commerciale, rallentamento della crescita industriale e diminuzione dell’efficacia degli investimenti.

Nella Costituzione del 1974 le singole Repubbliche arrivano a un’effettiva sovranità su: reddito, sviluppo del territorio, leggi, piani sociali e politiche economiche. L’obiettivo della Costituzione del 1974 tende a favorire i rapporti tra le singole repubbliche, con l’integrazione delle aziende su scala interregionale, attraverso la costruzione di imprese in altre repubbliche saldando gli interessi delle varie regioni. Tutto ciò fallisce clamorosamente. L’autonomia è quasi totale e le singole repubbliche costruiscono stati nello stato. Sono praticamente indipendenti per quanto riguarda gli investimenti e delle attività industriali, le politiche dei prezzi e delle tariffe, i servizi bancari, la tassazione, i servizi pubblici (elettricità, ferrovie, ecc.) e anche nei rapporti col capitale straniero. Il governo dà troppa autonomia ai governi regionali nella creazione e allocazione degli investimenti. Si assiste così a una feudalizzazione che interviene nel settore bancario, tecnologico, infrastrutturale e nel commercio con l’estero. La regionalizzazione comporta da una parte una mancata integrazione e dall’altra processi di vera e propria disintegrazione con tanto di protezionismo regionale.

L’autonomia porta con sé una sorta di corporativismo autarchico regionale e alla frammentazione del mercato interno jugoslavo in una serie di sub-mercati regionali. I due terzi della produzione sono diretti ai mercati delle singole repubbliche. Nel 1970, in effetti, il 60 per cento dello scambio in merci e servizi avviene all’interno delle singole repubbliche mentre nel 1980 tale percentuale sale al 69 per cento per crescere ulteriormente negli anni Ottanta, in un delirio di nazionalismo economico (Filippi, 2006). La cosa favorisce i trust locali che hanno posizioni monopolistiche a scapito del mercato nazionale. C’è la tendenza delle industrie jugoslave a strutturarsi in monopoli attraverso la formazione di “grandi sistemi” su base regionale. Meno del 20 per cento delle aziende controlla il 70 per cento della produzione e vi è alta concentrazione anche nell’artigianato. Vengono approvate leggi antimonopolio e accordi su quote di mercato, prezzi e concorrenza sleale che vietano anche sovvenzioni e i tentativi protezionisti che però sono demandati a istituti che sono interessati da un conflitto di interessi (Camere di commercio). Questi aggregati monopolistici nascono dalla necessità di dare una risposta concreta alla concorrenza delle aziende straniere ma hanno il limite di avere un carattere eminentemente regionale. Quando una di queste aziende entra in crisi (il caso di maggiore rilevanza è quello dell’INA, l’azienda petrolifera croata) si forma un effetto domino dato il loro peso specifico che porta alla crisi tutta l’economia regionale. La crisi e la mancanza di liquidità genera a sua volta un effetto a catena: un’azienda che non paga crea difficoltà ai propri fornitori e così via. Spesso ciò porta a diminuzioni degli stipendi e a conseguenti scioperi ed episodi di luddismo.

Nelle regioni ricche c’è una scarsa stima per la manodopera locale delle regioni più povere, sebbene più a buon mercato (a volte con salari che sono la metà delle regioni più avanzate) e quindi le regioni avanzate tendono ad evitare investimenti in quelle più arretrate nel tentativo di tenere artificialmente bassi i prezzi dei semilavorati provenienti da quelle regioni. Inoltre gli investimenti di un’azienda autogestita comporterebbero la formazione di un’unità autogestita indipendente. L’azienda madre perderebbe il controllo sul nuovo impianto e i profitti sarebbero bloccati all’interno della regione. In questo senso le regioni, che sono diventate per prime benestanti, non aiutano quelle più povere. Il contrario della teoria di Deng Xiaoping applicata alla Cina.

Le spinte autonomistiche dipendono anche da diversi interessi in gioco. Caratteristica è la disputa sul prestito della Banca Mondiale. La Slovenia, che propende per un’integrazione con la Comunità Europea, lo vuole impegnare in un’autostrada che la colleghi all’Italia, la Croazia vuole impiegarlo per lo sviluppo delle zone interne e la Serbia lo vuole impiegare nello sviluppo dei canali danubiani per il commercio con il Comecon. Il mercato del Comecon, non andando tanto per il sottile sulla qualità, disincentiva le innovazioni condizionando l’evoluzione economica, mentre un più stretto collegamento con la Comunità Europea avrebbe avuto un effetto di stimolo.

Ciò porta all’aumento il divario tra zone più sviluppate e zone arretrate che è il presupposto per lo scoppio delle tensioni etniche. Solo un sistema di aziende nazionali piazzato nei nodi strategici e un mercato davvero nazionale può mantenere unito un paese come la Jugoslavia. Si eviterebbero doppioni di aziende e la dipendenza del territorio da pochissime aziende chiave evitando i contraccolpi sociali della crisi. In un settore strategico come quello della produzione dell’energia vige la completa anarchia che si tramuta in autarchia. Manca un sistema razionale di pianificazione per cui le repubbliche autosufficienti non investono e quelle non autosufficienti importano dalle altre. Finché nel 1981 si arriva a una crisi che porta a consistenti limitazioni nell’erogazione di energia elettrica. Gli impianti funzionano con combustibili liquidi che devono essere importati in un periodo di grande aumento del prezzo del petrolio e non fanno altro che aumentare la dipendenza dall’estero.

Il tasso di investimento è il più alto del mondo. Nel 1976 è pari al 33 per cento del PIL contro quello del Giappone con il 30 per cento, il Canada con il 23 per cento e gli USA con il 16 per cento. Nel 1980 se il 47 per cento è destinato ai salari, i fondi aziendali di investimento raccolgono il 17 per cento degli utili, tasso quasi raddoppiato rispetto a un decennio prima; nell’economia iugoslava, complessivamente, il 38 per cento delle risorse è impegnato in investimenti produttivi. La crescita della produttività delle imprese fino alla metà degli anni Settanta, a differenza dell’URSS negli stessi anni, è notevole. C’è un uso intensivo di capitale in ingenti investimenti, con l’introduzione di tecnologia moderna. Le aziende autogestite non licenziano, dato che scopo dei lavoratori autogestionari è quello di garantire l’occupazione e il reddito ma si danno agli investimenti intensivi di tecnologia, per ottenere maggiori redditi in seguito. Questo è in generale un elemento molto positivo, però deve essere unito a un mercato del lavoro flessibile in modo da potere ristrutturare le imprese deficitarie e nel contempo creare altri spazi per l’occupazione.

Queste aziende invece tendono a produrre anche quando non si possa vendere subito e vendere anche quando il pagamento è dilazionato. La democratizzazione comporta che i poteri per licenziare sono delegati non alla direzione ma al Consiglio Operaio, questo tenderà a non licenziare anche in periodo di crisi. Il mantenimento di lavoratori in esubero comporta, soprattutto nelle aziende arretrate, che non si possa introdurre tecnologia moderna creando uno scompenso con quelle avanzate. Siccome c’è riluttanza a licenziare e nel contempo ad assumere si tende a proteggere la parte di lavoratori già assunti arrivando, di fatto, a una discriminazione nei confronti di chi s’immette sul mercato del lavoro che è destinato alla disoccupazione cronica. Questo è il risultato inevitabile della rigidità del mercato del lavoro. Molti che si trasferiscono dalla campagna alla città in cerca di redditi maggiori si trovino senza lavoro. Si assiste all’aumento contemporaneo degli occupati (da 8.834.000 nel 1970 a 9.276.000 nel 1980) e di disoccupati (da 320.000 a 735.000), dovuto alla crescita del settore industriale e al contemporaneo declino dell’occupazione “agro-forestale”. Cresce la disoccupazione dal 5 per cento al 13,7 per cento dal 1960 al 1980 senza i lavoratori che vanno all’estero potrebbe addirittura arrivare al 30 per cento. Nel 1971 la disoccupazione è al 7 per cento ma il 20 per cento della forza lavoro è all’estero. L’80 per cento dei disoccupati sono giovani in cerca di prima occupazione. Il mercato del lavoro è molto rigido, i lavoratori vengono assunti per concorsi che favoriscono i residenti, i più bisognosi e via dicendo. Inoltre i licenziamenti non sono facili nemmeno per comportamenti colposi con la possibilità da parte del Consiglio operaio di condonare la pena (Piccin, 2004).

Il mercato del lavoro può mantenersi in equilibrio solo se accanto alle aziende capital-intensive se ne creino altre labour intensive. Invece la piccola e media azienda che da maggiore flessibilità al mercato del lavoro non viene incentivata. La Jugoslavia è caratterizzata dalla più bassa media di imprese piccole e medie tra i paesi in via di sviluppo preferendo concentrarsi su imprese capital intensive che producono il 94 per cento dei beni di consumo. Le piccole imprese labour intensive hanno il vantaggio che assorbono molta forza lavoro in rapporto al capitale investito, promuovono l’occupazione femminile e mobilitano il risparmio privato. La stagflazione in Occidente porta al ritorno degli emigranti senza che possano efficacemente investire i risparmi e anche le competenze acquisite all’estero, in contesti tecnologici più avanzati. Si immobilizzano le rimesse degli emigranti e i considerevoli risparmi della popolazione (la Jugoslavia ha con l’Italia uno delle più alte percentuali di risparmio privato con il 25 per cento dei risparmi in banca) senza che questi possano essere utilizzati nella formazione di nuove imprese. Dopo la crisi croata l’iniziativa privata invece viene addirittura disincentivata e ciò porta il paese a perdere occasioni di sviluppo e di occupazione.

Un altro importante fattore di occupazione possono essere le joint-venture con aziende straniere, dove si può giocare sul differenziale dei salari più bassi rispetto a quelli occidentali. La Jugoslavia si trova vicina a due importanti mercati quali quello italiano e quello austro-tedesco. Le cose, però, non vanno troppo bene. Siamo in presenza di un ambiente normativo che rende scarsamente appetibili gli investimenti esteri. L’azienda straniera non può avere più del 49 per cento del capitale societario. Non si può ricondurre l’azienda jugoslava ai criteri di produttività occidentali. Si fissa un tetto di profittabilità superato il quale alla società straniera va una parte di profitti sotto forma di pagamento per gli investimenti che portano con il tempo a estromettere la società straniera dall’azienda. Questa regola fu rimossa troppo tardi negli anni Ottanta, quando la Jugoslavia è schiacciata dal debito estero e impossibilitata a rilanciare gli investimenti. Nel 1976 le joint-venture sono un centinaio per un valore di circa 1,1 miliardi di dollari, ma il capitale estero è di appena 200 milioni dollari e partecipa solo per 20 per cento del totale invece del 49 per cento consentito per legge. Gli investimenti sono in media 2 milioni di dollari per impresa, ma per più di un terzo sono dovuti a due imprese straniere la Dow Chemical e la General Motor (Piccin, 2004). Tutto è particolarmente complicato e priva il paese di nuovi sbocchi occupazionali. Ciò comporta un effetto perverso per cui i bassi investimenti stranieri costringono il paese a indebitarsi con l’estero. Infatti, ciascun cittadino ha un debito con l’estero di 82 dollari, mentre gli investimenti stranieri raggiungevano appena i 2,5 dollari per abitante. Se poi si confronta quest’ultima cifra con gli investimenti dei soli Stati Uniti in Lussemburgo (180 dollari), Gran Bretagna (165 dollari), Germania Ovest (180 dollari) si ha un’idea di quanto trascurabile sia il capitale estero investito in Jugoslavia. L’apertura all’investimento straniero potrebbe arginare l’emigrazione poiché le riforme degli anni Sessanta hanno reso teoricamente più facile il licenziamento della manodopera in eccesso, inoltre si potrebbe assorbire manodopera dall’abbandono delle occupazioni agricole. La Jugoslavia investe molto sulla formazione professionale con un’alta percentuale di forza lavoro con istruzione superiore e universitaria in particolare negli anni ‘70-’80. Più di 200 mila tecnici, però, finiscono all’estero di cui molti con un’alta specializzazione. Le joint-venture potrebbero contribuire ad assorbire questo personale qualificato e al miglioramento qualitativo della manodopera. Esse possono portare know-how, tecniche manageriali, tecnologie di punta oltre a capitali che le aziende jugoslave devono comunque procurarsi all’estero. Questa dipendenza dall’estero fu la causa non ultima del crollo del paese. Infatti, venendo a mancare gli strumenti di direzione dell’economia si finisce con dipendere dalla tecnologia straniera per di più pagata direttamente dalle aziende nazionali con un approccio tecnologico che ha una logica territoriale più che settoriale.

La Jugoslavia, come molti altri paesi a basso e medio reddito, prende a prestito grandi quantità petrodollari a interessi bassi che si sono accumulati nei tardi anni Settanta a seguito degli aumenti del prezzo del petrolio. Gli anni che vanno dal 1976 al 1980, infatti, si caratterizzano per una sorta di bolla segnata da un utilizzo spropositato del credito internazionale. Le imprese prendono a prestito ingenti quantità di denaro, dato che non hanno la possibilità di autofinanziarsi con l’emissione di azioni, che servono per rinnovare le aziende favorendo l’export in Occidente, proprio in un periodo difficile anche per le economie occidentali. L’export, anche in conseguenza della spesa energetica, verso Germania e Italia, colpite dalla recessione, crolla. L’afflusso di capitale straniero arriva a superare la crescita del prodotto lordo. Nel 1979 il deficit della bilancia dei pagamenti è di 3,4 milioni di dollari sfiorando nel 1980 i 18 milioni.

E così la Jugoslavia si è trova, come tanti altri paesi, in una crisi finanziaria in cui i bassi tassi di interesse virano verso gli altissimi tassi dei primi anni Ottanta. La svalutazione della moneta porta il debito estero contratto in dollari (il dinaro si svaluta del 40 per cento) ad aumentare enormemente: arrivando a 82 dollari per abitante. L’inflazione è al 20 per cento e i paesi da cui importa ne sono colpiti a loro volta. Il Governo si trova obbligato a garantire prestiti che non ha trattato e di cui non ha goduto, ma che tuttavia devono essere pagati. Tra il 1984 e il 1988 la Jugoslavia paga 14 milioni di dollari di interessi per un debito di 20 milioni. Il 40 per cento degli introiti delle esportazioni sono destinati a pagare il debito.

Le varie repubbliche per limitare l’indebitamento sono vincolate a procurarsi valuta estera attraverso l’export con il risultato che le aziende autogestite si lanciano nel campo dell’export tralasciando il mercato nazionale. La corsa alla valuta estera, riorienta ulteriormente la produzione delle varie repubbliche verso l’esportazione al di fuori dei confini federali, ovviamente a diretto scapito degli scambi interregionali e del mercato interno. Due esempi concreti possono rendere più chiaro tale fenomeno. Nel 1983 l’INA di Zagabria (la principale industria petrolchimica jugoslava) paga un debito contratto con l’estero di 251,1 milioni di dollari attraverso l’esportazione d’ingentissime quantità di nafta grezza, di derivati della nafta e di concimi chimici (in quel periodo la Jugoslavia dipende per 2/3 dall’importazione di petrolio dall’estero). Sempre in quell’anno dalle campagne della Voivodina vengono esportate enormi quantità di grano, zucchero, farina e olio per risanare un debito di 80 milioni di dollari proprio nel momento in cui vi è scarsità di tali prodotti sul mercato nazionale contribuendo all’aumento dei prezzi sul mercato interno (Mangano 2009). Tutto sarebbe reso più facile dall’importazione di capitale tramite joint-venture oppure con l’insediamento diretto di aziende straniere, sistemate in settori non strategici. Il vantaggio del capitale estero è che rischia in proprio, possiede già reti commerciali evolute e un mercato estero verso cui esportare. La formazione poi di società per azioni nelle principali aziende autogestite può evitare i prestiti con l’estero dato l’alto tasso di risparmio nazionale. Nota positiva è la bassa pressione fiscale mentre i servizi sociali sono quasi interamente coperti dalle comunità d’interessi autogestite. Ci sono, però, ben 17.000 organismi che possono introdurre imposte di vario tipo in virtù della decentralizzazione.

Il caso jugoslavo è l’espressione del massimo della democrazia di base con tanto di norme antiburocratiche, di revoca del mandato da parte della base, di non professionalizzazione dei delegati e via dicendo[8]. Le istituzioni dell’autogestione diventano molto complesse con una distribuzione del potere verso la base che presuppongono una classe operaia molto coinvolta e partecipativa e informata sui risultati aziendali. Secondo il dirigente jugoslavo Branko Horvat, le condizioni per il successo dell’autogestione sono il consolidamento della tradizione democratico-rivoluzionaria, una tradizione industriale, alti salari, settimana lavorativa e orario di lavoro ridotti per favorire la partecipazione alla gestione delle aziende e infine un alto tasso d’istruzione (Piccin, 2004).

Inizialmente si parte dalle Imprese Economiche di Stato che secondo il modello diremmo statalista o stalinista dovevano realizzare il piano preparato dal governo. In seguito, soprattutto per queste grandi imprese, si assiste al processo di decentralizzazione che va dall’alto verso il basso e che si concluse negli anni Settanta. In poche parole, dall’impresa centralizzata si passava all’OCLA (Organizzazioni composite del lavoro associato, ossia conglomerati di imprese) da questa all’OLA (Organizzazioni di Lavoro Associato, ossia le singole aziende) e da questa ancora all’OBLA (Organizzazioni di Base del Lavoro Associato, corrispondenti ai reparti di una fabbrica), la cellula di base dell’autogestione nel settore produttivo. Queste imprese in altre parole sono state create dallo stato e non direttamente dai lavoratori e poi in seguito passate all’autogestione dei lavoratori, sebbene teoricamente il processo federativo avrebbe dovuto compiere il processo inverso (Piccin 2004). Le SIZ erano il corrispondente delle OBLA nel settore dei servizi e le MZ nelle comunità locali nel campo istituzionale. Le aziende perdono il loro carattere nazionale e diventano aziende locali. Ciò è particolarmente evidente nei servizi.

I Consigli ai vari livelli si interessano dei salari, delle assunzioni fino a esprimere la direzione e il direttore di fabbrica. Anche a livello politico i delegati delle unità di base partecipano ai consigli comunali che a loro volta eleggono quelli repubblicani e questi l’Assemblea federale ossia il parlamento. La legge del 1978 sul lavoro associato definisce la proprietà sociale in cui i mezzi di produzione collettivi non appartengono né alle singole unità, né allo Stato, né ai gruppi ma alla società intera.

Diviene comunque problematico salvare l’autogestione di fronte ad acuta crisi economico-sociale con tanto di disoccupazione, emigrazione, lavoro nero, scioperi, rivendicazioni nazionali per cui la Lega dei Comunisti cerca in qualche modo di diventare un collante per la stabilità. Le diverse legislazioni repubblicane spesso sono poi in contraddizione le une con le altre. In realtà la teoria della “estinzione dello Stato”, che è alla base delle teorizzazioni dei marxisti jugoslavi, ha finito con l’estinguere lo stato federale ma anche per rafforzare i singoli stati delle varie Repubbliche.

I lavoratori dei settori più arretrati tendono ad aumentare gli introiti personali indipendentemente dalla situazione dell’impresa. La logica alla base dell’autogestione è di eliminare le grandi differenze di reddito tra i lavoratori delle varie imprese. Le aziende meno competitive che hanno pochi capitali tendono ad attingere ai prestiti bancari. Per questa ragione gli accordi sul reddito lo sganciano dalla produttività a scapito degli accantonamenti di riserva e dunque dell’accumulazione di capitali diventando, essi stessi, fonte d’inflazione. Inoltre c’è un’eccessiva tutela per le aziende in perdita (si cerca sempre di evitare il fallimento) che possono accedere a fondi di riserva o addirittura a fondi comunali e repubblicani. I prezzi sono un insieme di mercato, pianificazione, accordi di cartello, contratti di fornitura di enti pubblici, accordi tra produttori e consumatori e altri prezzi imposti a livello regionale o statale. L’energia elettrica ha, ad esempio, prezzi diversi secondo dove viene erogata.

La situazione del mercato (sebbene socialista), non è davvero ideale. Molti degli scambi avvengono all’interno dell’azienda tra le singole unità di base alcune delle quali hanno maggiori privilegi di altre tanto da creare artificialmente un abbassamento dell’offerta interna. I prezzi stabiliti piuttosto arbitrariamente innescano spesso un aumento generalizzato tanto che le vendite interne dell’azienda possono superare il reddito reale della stessa azienda (OLA) (Mangano, 2009).

I salari non sono standardizzati per cui ci possono anche esserci differenze notevolissime all’interno della stessa azienda per la stessa mansione e la stessa anzianità. Alla base c’è la volontà di coinvolgere maggiormente il personale legando lo stipendio alla produttività e all’esito della propria unità di lavoro. Il lavoratore non deve quindi considerarsi un salariato sottoposto a un’omogeneizzazione estraniante ma come autogestore e padrone della propria unità. La redditività dell’unità nel lavoro spesso è legata ai privilegi che essa gode in una situazione di mercato alterata. I lavoratori non gradiscono queste differenze salariali che spesso sono molto forti. Le aziende di maggior successo non applicano questa direttiva e distribuiscono salari standardizzati. La cosa è paradossale perché i salari standardizzati in rapporto alla stessa mansione sono voluti dai manager che li ritengono funzionali al successo dell’azienda, dai lavoratori e banditi dall’ideologia ufficiale perché reintrodurrebbero il “lavoro salariato”.

Da un punto di vista più generale però il rapporto tra redditi massimi e minimi è piuttosto basso, comunque inferiore a quello sovietico, mentre solo la Norvegia ha una ripartizione salariale più livellata (1:2,7-1:4, 1:2,4) (Mangano, 2009). Permangono, invece, forti differenze di reddito tra regioni: uno sloveno ha un reddito più che doppio di un kosovaro, quasi il doppio di un bosniaco e del 20/30 per cento superiore alla media nazionale. Le differenze di reddito sono il risultato a prima vista paradossale proprio dell’eccessiva democrazia di base. Questa favorisce il corporativismo e lo stato manca di strumenti macroeconomici per riparare ai guasti di un’economia lasciata completamente in balia del mercato.

La disciplina sul lavoro nel “lavoro associato” se in un primo momento aumenta tende però a calare verso negli anni Settanta con un forte aumento delle giornate di assenza per malattia. Tra il 1979 e il 1985 la produttività del lavoro crolla del 20 per cento e i redditi dei lavoratori del 25 per cento. Si ha anche un aumento delle frodi nelle pensioni di invalidità, che costituiscono il 51 per cento dei contributi previdenziali erogati dallo Stato. Più del 10 per cento dei lavoratori sono pensionati prima dei 50 anni sebbene ci sia l’obbligo di 40 anni di lavoro. Contemporaneamente si assiste al crollo del PIL del 6 per cento (il 1980 era stato il primo anno a crescita zero), che aumenta ancora di più man mano che si procede verso la caduta della Repubblica. Il livello dei servizi sociali dalla sanità all’educazione è in calo.

L’agricoltura dopo un inizio che segue sostanzialmente la collettivizzazione di tipo sovietico viene ristrutturata e i contadini possono associarsi senza cedere la terra alla cooperativa. Le nuove cooperative si occupano di acquisti e vendite. Dalla cooperativa i contadini possono comprare a prezzi di favore quanto hanno bisogno per il lavoro e anche l’uso personale, inoltre sono favoriti anche nell’uso delle macchine agricole che fino al 1965 non possono essere acquistate da privati. Dal punto di vista della forma proprietaria nel 1960 solo l’8,7 per cento della terra coltivabile è ancora proprietà sociale mentre all’estremo opposto tra i paesi socialisti europei c’è la Bulgaria dove è il 60,5 per cento. Da questo punto di vista la Jugoslavia è la più arretrata e parcellizzata d’Europa persino di più di quanto lo fosse nell’anteguerra. Negli anni Cinquanta gli investimenti nel settore sono scarsi e il paese è costretto a importare. La crescita dell’agricoltura avviene negli anni Sessanta specialmente nelle cooperative agricole che, pur avendo a disposizione meno di un quinto delle terre coltivate, fanno la parte del leone nell’approvvigionamento alimentare e nelle forniture dell’industria (Mangano, 2009). Questa è un po’ la rivincita dell’agricoltura collettivizzata (che ha sempre dato qualche problemuccio in URSS come in Cina) su quella privata.

La riforma costituzionale cerca di armonizzare gli interessi delle varie repubbliche, costringendole a prendere provvedimenti all’unanimità, avendo ogni repubblica diritto di veto. La presidenza collettiva impone di eleggere, ogni anno, uno dei suoi membri secondo il principio di rotazione. Sono elementi che accolgono le istanze provenienti dalla “Primavera croata” ossia le manifestazioni nazionalistiche degli inizi degli anni Settanta ma che alla fine portano nuovi attriti.

La riforma creditizia nel 1977 contribuisce alla disarticolazione del sistema portando al disastro il sistema monetario federale ed è stata tra i fattori determinanti nel collasso del Paese. Le banche si sono organizzate su base territoriale, una banca per ogni repubblica, sostenendo principalmente interessi locali.

Una delle cause principali del fallimento è stata la mancanza di volontà o forse l’impossibilità da parte del governo jugoslavo di attuare una politica restrittiva, in particolare sull’emissione di moneta, combinata con la politica macroeconomica progettata per ampliare le opportunità e gli incentivi per imprese e di operare efficacemente. Il governo che pure avrebbe potuto utilizzare i suoi poteri che precedentemente avevano portato alla stabilizzazione dei prezzi non riuscì a evitare la trustificazione e la feudalizzazione dei mercati repubblicani che trasformarono l’inflazione da fattore importato in un problema nazionale.

Alla fine degli anni Ottanta il piano di austerity del governo Markovic per combattere l’inflazione è vanificato dall’azione dei governi di Lubiana e Belgrado, che emettono abusivamente moneta, inoltre l’intreccio tra industrie e banche crea debiti inesigibili. Mentre la situazione economica peggiora, i debiti pesano sul bilancio statale dato che sono garantiti del governo. Nel 1987 lo scandalo Agrikomerc, il colosso agroalimentare, con l’emissione di cambiali aziendali per il valore di un miliardo di dollari costituisce di per sé una componente dell’inflazione. Ormai siamo alla fine e il FMI impone lo smantellamento dell’autogestione.

Con la morte dei padri della patria Tito e Kardelj è venuto a mancare il perno dato dai fondatori del sistema. Questo è stato molto importante in Cina dove a progettare le riforme fu uno dei fondatori della Patria, Deng Xiaoping, che però ha favorito un ricambio della classe dirigente nella continuità e nella stabilità.

Kardelj aveva parlato del “pluralismo degli interessi” della comunità socialista di Stati degli “slavi del Sud” e anche della classe operaia come “classe per sé”, ma alla fine prevalsero gli interessi corporativi o particolaristici delle singole classi operaie e dei singoli stati (Filippi, 2006). Il modello jugoslavo non ha voluto essere un modello “stalinista” riformato ma l’esatto contrario, come quello stalinista ambì a essere l’esatto contrario di quello capitalista. Questo alla lunga non funziona quasi mai. La Cina trasse molti insegnamenti da queste esperienze e in particolare da quella jugoslava che le riassume un po’ tutte.

Ma di questo parleremo nella seconda parte di questo saggio.


Note
[1] Conoscevo Domenico dalla fine degli anni Settanta. Fui frequente ospite nella sua casa a Pesaro. Io ero giovanissimo e il suo pensiero mi ha profondamente influenzato negli anni seguenti. Una grande perdita per i comunisti, non solo italiani, ma di tutto il mondo. Grazie Mimmo.
[2] Movimento gradualista socialdemocratico fondato nel Regno Unito da Sidney e Beatrice Webb alla fine dell’Ottocento.
[3] Il meccanismo della pianificazione vincolante a livello strategico fu utilizzato da Walter Rathenau nell’organizzazione dell’economia di guerra in Germania nel periodo 1914-1918. Se questo è l’antecedente dell’economia pianificata staliniana, bisogna dire che essa non fu “arbitraria” ma il risultato di un paese che, come dice Domenico Losurdo (e come ricordava Davies), vive in un costante stato d’eccezione.
[4] Secondo il già citato economista sovietico Feldman in teoria i tassi di crescita dell’economia nazionale basati sugli investimenti in beni capitali, consente una maggiore produzione dei beni di consumo che se si investisse direttamente nella produzione degli stessi. Questo può essere vero per un certo periodo, ma alla lunga le storie dei paesi socialisti non confermano questa previsione.
[5] Varga nello stesso articolo citato ricorda come uno degli errori della Rivoluzione ungherese del 1919 fosse stato la costruzione di aziende agricole statali invece della distribuzione delle terre ai contadini. Il maggiore successo economico del Nuovo Meccanismo Economico ungherese fu lo sviluppo dell’agricoltura che nel 1970 ebbe la maggiore crescita mondiale dopo l’Olanda.
[6] Il concetto di “Democrazia popolare” viene fatto risalire proprio all’elaborazione maoista.
[7] Indice che misura la percentuale di spese per l’alimentazione su quelle totali.
[8] Edvard Kardelj traccia in questo modo il radicale antiburocratismo della Lega dei Comunisti: «è fuori dubbio che nel periodo rivoluzionario di transizione dal capitalismo al socialismo, il ruolo determinante spetta ai dirigenti del partito proletario […]. Ma è altrettanto chiaro che lo stato maggiore rivoluzionario può raggiungere il successo solo a patto di basarsi sull’attività creatrice di larghe masse lavoratrici […] A nostro avviso non si può lavorare senza commettere errori, ma riteniamo meno pericolosi gli errori che si commettono quando l’iniziativa dal basso si fa liberamente sentire che non quelli commessi dai burocrati che si sono messi in testa di essere infallibili […]. Non tenere conto di questi principi significa giungere inevitabilmente al burocratismo, all’isolamento dell’apparato burocratico rispetto alle masse popolari, all’assoggettamento di tali masse all’apparato burocratico stesso» (Scotti, 1973: 150-152).

 
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