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Quale economia oggi per il bene comune?

di Luca Benedini

Una serie di approfondimenti e riflessioni – riferiti eminentemente al mondo attuale – su Marx, l’evoluzione scientifica e la storia, sui “fallimenti del mercato”, sulla “economia del prendersi cura” (caring economics), sull’economia pluralistica, su lotta di classe e difesa dell’ambiente all’epoca della globalizzazione, su catena di montaggio e organizzazione del lavoro, su economia e qualità della vita

economia bene comune 2I

Fondamenti economici e bene comune: una sintesi anche pratica

Quando politici ed economisti presentano attraverso i maggiori mass-media di un paese i modelli economici da loro caldeggiati o sponsorizzati, spessissimo si tratta semplicemente di tentativi di manipolare l’opinione pubblica insistendo su fasulle idee di facciata o su ideologie prive di effettivi riscontri nella realtà. Un rapporto onesto, corretto e autentico con le persone sull’economia richiede invece, innanzi tutto, di cercare di renderle consapevoli delle sue dinamiche effettive e dei suoi meccanismi reali [1]. E ciò a partire dalla questione che da tempo appare più scottante: il mercato.

 

Gli attuali pregi del mercato

Paradossalmente, uno degli effetti delle economie statalizzate che nel ’900 hanno cercato di ridurre a livelli minimi o addirittura nulli il mercato (dopo rivoluzioni come quelle russa, cinese, cubana, vietnamita, ecc., o dopo occupazioni militari come quella sovietica nei paesi del “patto di Varsavia” e in Corea del Nord) è stato proprio una crescente puntualizzazione dei meriti attualmente insostituibili del mercato.

Tra le innumerevoli voci che hanno notato questo, sintetizzava nel dicembre 1991 su Scientific American Nathan Rosenberg – docente di economia alla Stanford University – nel suo saggio Marx wasn’t all wrong: «Le economie centralizzate si sono dimostrate incapaci di condurre a livelli elevati di benessere materiale le masse socialiste», tanto più partendo da società scarsamente industrializzate.

Diversamente, in paesi come quelli dell’Occidente «il capitalismo [...] ha fornito potenti impulsi per l’avvio del cambiamento tecnologico» e «sono stati gli speciali incentivi del mercato capitalistico che hanno portato ad applicare su vasta scala la conoscenza scientifica all’industria. Quest’ultimo punto è uno di quelli che sono stati trascurati a un altissimo costo dalle società socialiste del 20° secolo».

Altrettanto paradossalmente, sin dall’Ottocento proprio filosofi socialisti come Karl Marx e Friedrich Engels – ancor più di economisti borghesi come Adam Smith o Charles Babbage – si erano focalizzati sul ruolo specifico dell’economia di mercato e della società borghese nel rapido sviluppo tecnologico moderno. Ha sottolineato acutamente Rosenberg: «Per Marx le realizzazioni storiche compiute dal capitalismo erano un risultato della sua capacità unica di generare ed utilizzare i cambiamenti tecnologici. [...] Marx comprese chiaramente che la crescita nella produttività viene ottenuta non mediante la semplice inventività ma per mezzo delle pressioni che spingono a mantenere quegli alti tassi di investimento che portano alla rapida diffusione delle tecnologie. In tal modo, le aziende e le economie che pur essendo molto innovative sono incapaci di raggiungere elevati livelli di investimento sono destinate a soccombere». Inoltre, «Marx argomentò che la scienza stessa era un’attività che emergeva dalle necessità del processo produttivo. Mentre gli economisti prima e dopo di Marx sono stati inclini a trattare la scienza come un’attività con delle conseguenze economiche ma non con degli espliciti fattori antecedenti o determinanti di tipo economico, il modo di vedere di Marx era molto diverso. Egli vedeva la scienza moderna come qualcosa che emergeva dalla struttura di incentivi caratteristica del capitalismo». E dato che, anche per questi motivi, «nella sua visione della storia il socialismo sarebbe emerso solo dalle società a capitalismo avanzato», «così – per lo meno da questo punto di vista, limitato ma essenziale – il collasso delle economie socialiste [novecentesche, N.d.R.] serve a dimostrare che Marx aveva ragione, non che aveva torto». In tal modo, «occorre svincolare Marx dai disastrosi esperimenti economici fatti col socialismo nel 20° secolo» [2]....

Del resto – in un mondo in cui vi è una continua proliferazione di innovazioni tecnologiche (come appunto il mondo attuale) – senza un mercato che metta in costante contatto produttori e consumatori come potrebbero realizzarsi efficacemente processi come, da un lato, lo stimolo reciproco tra gli uni e gli altri che facilita e accentua in molti modi lo sviluppo delle innovazioni e, dall’altro, la cernita e selezione che è quanto mai necessaria perché si possa determinare in modo funzionale quali tecnologie interessano di più all’insieme della società e quali di meno?

 

I fallimenti del mercato

Sull’onda del neoliberismo, oggi in politica è molto di moda tessere lodi infinite del mercato deregolamentato il più possibile. Tuttavia, come ha osservato un gran numero di economisti e di commentatori, in economia sono assodate da ben più di mezzo secolo numerose «cause di insufficienza del mercato», dalle quali conseguono quelli che si possono definire i veri e propri «fallimenti del mercato» [3]. Eccole in breve, come le ha riassunte p.es. Joseph E. Stiglitz – premio Nobel nel 2001 – in Economia del settore pubblico (Hoepli, 1989):

  1. la «insufficiente concorrenza» che può essere presente in molti settori economici – specialmente in quelli dove vi sono posizioni monopolistiche o cartelli oligopolistici – nei quali vi è la necessità di investimenti particolarmente elevati per poter entrare efficacemente nel mercato oppure la possibilità concreta di consistenti “economie di scala” che all’aumentare degli investimenti permettono una marcata riduzione dei costi per unità di prodotto;

  2. l’interesse molto scarso del mercato per i cosiddetti «beni pubblici puri», cioè i beni e servizi che, una volta posti in opera da qualcuno, sono utili in pratica a chiunque (come gli argini fluviali che proteggono dalle inondazioni, i fari costieri per la navigazione, ecc.);

  3. le cosiddette «esternalità negative», cioè le conseguenze pubblicamente dannose di azioni compiute da soggetti privati (come p.es. l’inquinamento che un’azienda può produrre colpendo i lavoratori, la comunità in generale, l’ambiente, le generazioni future, ecc.);

  4. i «mercati incompleti», cioè i settori dell’attività economica che senza un intervento pubblico risultano solo parzialmente appetibili per l’impresa privata, perché caratterizzati da notevoli rischi (come p.es. il credito e le assicurazioni) o perché basati sulla necessità di precedenti elaborazioni su vasta scala prive inizialmente di una certezza di tornaconto economico (come p.es. i programmi di risanamento urbano);

  5. le «carenze di informazione» dei cittadini di fronte alle proprie scelte ed attività (come nel caso dei consumatori al momento di fare acquisti e poi di farne uso), col potenziale effetto di molteplici svantaggi per loro, inclusa la possibilità di pericoli per la salute e per la vita stessa;

  6. i «periodici fenomeni di elevata disoccupazione» e di «disequilibrio» economico – come in particolare le recessioni e altre forme di crisi – che colpiscono sistematicamente le economie in cui il mercato è lasciato ampiamente a se stesso;

  7. la possibilità di una «distribuzione del reddito molto sperequata», che può lasciare fasce consistenti della popolazione nell’indigenza e addirittura con «risorse insufficienti per vivere»;

  8. il fatto che nella società vi siano anche situazioni in cui «l’individuo possa compiere azioni che non sono nel suo interesse», e ciò per motivi – come l’inesperienza, l’immaturità o il presentarsi di temporanee difficoltà personali – che il mercato molto difficilmente ha occasione di prendere in considerazione (con l’effetto che in una pura economia di mercato gli individui si ritrovano in pratica maggiormente soli e abbandonati di fronte alle proprie difficoltà, e tanto più quando queste dovessero divenire particolarmente intense).

Un’ulteriore e fondamentale “causa di insufficienza del mercato” che è stata comunemente trascurata dalla cultura maschile e che ha ricevuto invece un’ampia attenzione dal movimento femminista è il vero e proprio conflitto che nell’economia dominata dal mercato tende a istituirsi tra aspirazioni come, da un lato, quelle ad un lavoro retribuito – che eventualmente possa anche contribuire professionalmente al benessere della società umana – e alla carriera e, dall’altro, quelle ad un coinvolgimento in prima persona nella sacrosanta e fondamentale continuazione della specie umana (cioè nell’avere figli e nell’occuparsi della loro crescita) e più in generale nel prendersi cura degli altri specialmente quando malati, molto anziani o colpiti da altre difficoltà. Delle prime di queste aspirazioni il mercato tiene tipicamente conto, soprattutto dal punto di vista delle possibilità che vengono offerte a chi ha particolari capacità professionali o una particolare abilità nel procacciare profitti a sé o ad altri [4]; delle seconde – che pure hanno a che fare con attività che non solo sono basilari per la nostra specie, ma in molti momenti possono anche dare intensissime gratificazioni, soddisfazioni, occasioni di crescita interiore, ecc. – si cura pochissimo, tranne quando l’attenzione è rivolta a esponenti delle classi agiate (che possono spendere molto per la cura e l’accudimento delle persone da parte di altri, come baby-sitter, insegnanti, medici, infermieri, fisioterapisti, ecc....). Ma a questo punto la cosa ha anche già perso tendenzialmente un’ampia parte della sua spontaneità, della sua autenticità e del suo stesso significato, in quanto “costretta” – per lo meno secondo il mercato – a dirigersi appunto soltanto verso le persone abbienti [5]....

Tra i “fallimenti del mercato” che derivano da questa serie di insufficienze, su molti dei quali c’è una letteratura ormai vastissima, ve n’è un tipo che – pur essendo decisamente grave e pur riguardando un campo chiaramente cruciale per l’umanità – è stato messo pochissimo in luce: l’incapacità del mercato di assicurare uno sviluppo scientifico, un’innovazione tecnica e una diffusione della scienza realmente adeguati agli effettivi interessi della popolazione. Tale incapacità – collegata a diverse delle insufficienze generali in questione e paradossalmente speculare al più evidente dei pregi del mercato capitalistico – ha tre radici di fondo: 1) tipicamente le imprese si dedicano ad attività di ricerca scientifica e/o tecnica solo se ritengono di poterne ricavare un sostanzioso vantaggio economico sulle altre imprese e, naturalmente, se possiedono mezzi finanziari sufficienti o ne trovano da altre fonti; 2) tutto quello che nel campo tecnico-scientifico potrebbe apportare consistenti svantaggi economici a qualche ricco settore imprenditoriale viene molto spesso frenato, circoscritto, insabbiato e nascosto il più possibile ad opera di esponenti di quel settore (p.es., acquistando un brevetto e seppellendolo in qualche cassaforte, oppure ricattando economicamente o pagando sottobanco centri di ricerca, università, pubblici amministratori, dirigenti aziendali, ecc. perché dedichino una scarsa attenzione ai temi che danno fastidio a tale settore); 3) anche la divulgazione si trova alle prese con analoghe situazioni costrittive legate al rapporto con gli interessi specifici dei vari settori imprenditoriali e alla profittabilità, ma stavolta quest’ultima rimanda ad un’ulteriore questione fondamentale, cioè il pubblico degli acquirenti (in altre parole, quanti – e tanto più in un’economia basata sulla deregolamentazione dei mercati e quindi tendenzialmente caratterizzata da forti diseguaglianze di reddito, spesso da elevata disoccupazione e da una diffusa miseria, ecc. – sarebbero disposti a spendere per acquistare materiali divulgativi su argomenti come i progressi della scienza e della tecnica...? E quanto ciascuno di loro sarebbe disposto a spendere...? E, nel caso, come contattarli senza dover investire cifre spropositate in pubblicità, marketing, ecc.?). Tutto ciò vale ovviamente – e spesso accade concretamente – anche nel caso di scoperte ed invenzioni (già effettuate, o ancora semplicemente possibili a patto però di dedicare energie umane ed investimenti a tale possibilità) che venendo applicate in modo diffuso potrebbero arrecare grandi vantaggi generali alla popolazione e magari anche all’ambiente planetario [6]....

 

Integrare pluralisticamente il mercato

Se il mercato appare avere inequivocabilmente ampi meriti – per lo meno all’epoca attuale – e pesantissimi limiti, ne deriva oggi per l’umanità la necessità pratica sia di mantenerlo in azione sia di affiancarlo con delle complementari attività pubbliche che siano svolte in maniera sostanzialmente puntuale, efficace, coscienziosa, competente e trasparente (giacché altrimenti possono diventare controproducenti [7]). Una tale complementarità consente anche di far esprimere al mercato feconde e più complesse potenzialità che altrimenti rimarrebbero silenti e ignorate e delle quali può tendenzialmente beneficiare l’intera società: p.es., mentre il mercato lasciato a se stesso va in molti settori verso forme di oligopolio o monopolio economicamente inefficienti, la tutela della concorrenza lo rende un fattore che favorisce l’efficienza. Dal punto di vista strettamente concreto, fra le attività pubbliche in questione è inclusa in modo particolare la realizzazione sia di molteplici servizi, sia di opere infrastrutturali e miranti alla sistemazione del territorio e del patrimonio artistico-architettonico, sia di iniziative ed investimenti in campi come la sanità, l’istruzione e l’assistenza sociale.

Nel contempo, a nostra disposizione nell’economia non ci sono solo l’iniziativa privata capitalistica (basata sul lavoro dipendente) e l’intervento pubblico. Oltre ovviamente al lavoro autonomo e artigianale, da più di un secolo sono ben sperimentate anche nel mondo industrializzato l’economia effettivamente cooperativistica – cioè quella che in un’azienda cooperativa consente soltanto “soci alla pari” (in quanto la presenza di soci “di serie A” e “di serie B”, o addirittura di lavoratori dipendenti, appartiene in pratica all’economia privata) – e sue reti come quelle del “commercio equo e solidale” e dei “distretti di economia solidale”, mentre in numerose circostanze si è ampiamente dimostrata l’efficacia dell’economia comunitaria [8]. Queste forme economiche consentono di ovviare più o meno ampiamente al senso di alienazione che può derivare dal lavoro dipendente [9], all’ingiustificabile frattura eccessiva spesso esistente tra lavoro intellettuale e lavoro manuale e al fatto che la cultura borghese è comunemente caratterizzata da un pesante predominio dell’“io” sul “noi” e da una pressante competitività tra le persone.

Attraverso le varie possibilità offerte dai sistemi istituzionali sostanzialmente democratici in cui viviamo oggi in molte nazioni, dovremmo dunque aprire e mantenere ampi spazi per un’economia pluralistica che includa la presenza del mercato, ma vada culturalmente oltre di esso e lo integri profondamente in vari modi.

 

*

II

Tracce per un’economia verso il bene comune

Come ricordava Joseph E. Stiglitz in In un mondo imperfetto (Donzelli, 2001), messi di fronte all’eclatante questione dei «fallimenti del mercato» i sostenitori del liberismo tipicamente mettono in evidenza i «fallimenti dello Stato» ed «esprimono [...] scarsissima fiducia nella possibilità di sanare le carenze del settore pubblico». In questo, tuttavia, essi ogni volta fingono di non saper nulla dei diversi paesi in cui da tempo vi è un efficace “Stato sociale” e trascurano in particolare una cruciale affermazione di John Maynard Keynes, che dello “Stato sociale” può essere considerato la levatrice: «L’azione più importante dello Stato si riferisce non a quelle attività che gli individui privati esplicano già, ma a quelle funzioni che cadono al di fuori del raggio d’azione degli individui, a quelle decisioni che nessuno compie se non vengono compiute dallo Stato. La cosa importante per il governo non è fare ciò che gli individui fanno già, e farlo un po’ meglio o un po’ peggio, ma fare ciò che presentemente non si fa del tutto» (da La fine del laissez-faire, del 1926).

In tal senso, l’attività fondamentale di uno Stato moderno dovrebbe essere evidentemente indirizzata – oltre che ad una regolamentazione equa, imparziale e trasparente degli organismi pubblici stessi e dei vari settori del mercato (nella quale si dovrebbe evitare accuratamente di cadere nell’estremo opposto del liberismo, cioè in una burocratizzazione esasperante, piena di inutili lungaggini e costosa per i cittadini che interpellano le istituzioni) [10] – agli interventi miranti ad ovviare adeguatamente a ciascuno dei “fallimenti del mercato”, i quali non solo danneggiano direttamente la qualità della vita di molti, ma generalmente favoriscono anche le stagnazioni e recessioni economiche.

 

Far fronte alla globalizzazione

In questi interventi, il punto più debole oggi è tutto ciò che ha a che fare con la globalizzazione [11], gestita sinora secondo la logica liberista che produce società deregolamentate dove abbondano il caos e crisi di vario genere e dove vincono sistematicamente i pochi più ricchi, più forti e più furbi (che si espandono sempre più in privilegi, potere e ricchezze a danno degli altri, i molti “perdenti” sempre più emarginati ed esclusi).

A patto di cominciare ad occuparsene, nel medio-lungo termine sarà possibile mettere a punto degli strumenti per riuscire a gestire in maniera umana la globalizzazione, che come figlia dell’evoluzione tecnologica è in sé inevitabile: strumenti internazionali (oggi inesistenti) e nazionali (finora attuati ampiamente solo in pochissimi paesi).

Su scala nazionale vi possono essere metodologie combinate che diano sostegno alla concorrenzialità in ambito internazionale e che incoraggino le imprese innovative: p.es., sostegni alla ricerca, all’innovazione e al credito per le imprese; collegamenti tra università e attività produttive; contributi concreti a progettare e realizzare efficienti “reti produttive integrate” in cui varie aziende locali si completino vicendevolmente; corsi di formazione professionale attenti anche alle tecniche produttive più recenti; forme di assicurazione sociale che facilitino il passaggio da un tipo di lavoro ad un altro; efficaci ammortizzatori sociali. Inoltre – sulla base di norme adeguate che tra l’altro dovrebbero addebitare gli eventuali costi operativi agli importatori e non ai contribuenti – si possono compiere rigorosi controlli per garantire che la qualità delle merci importate non sia inferiore alla qualità richiesta ai prodotti locali.

Su scala internazionale, è soprattutto questione di inserire delle clausole sociali e ambientali negli accordi commerciali e una serie di diritti umani e di prescrizioni ecologiche in specifici trattati, in modo da tutelare la qualità della vita dei lavoratori, l’ambiente e il clima [12]: qualora un produttore che intendesse esportare merci in un paese non rispettasse tali clausole oppure qualcuno di questi trattati vigenti in quel paese, ciò dovrebbe implicare per le merci in questione un bando commerciale o per lo meno delle sanzioni equiparabili a dei marcati dazi doganali.

In attesa di strumenti complessi come questi, appare però indispensabile riuscire a difendersi anche nell’immediato da scelte aziendali drammatiche e contestate come la decisione di delocalizzare o chiudere impianti economicamente funzionali. Come extrema ratio e come fattore-chiave, alla fin fine occorrerebbe la disponibilità degli Stati a nazionalizzare tali impianti – di solito in via provvisoria, in attesa di trovare imprese cooperative o private interessate a gestirli – indennizzando la proprietà solamente all’osso [13]. Questa disponibilità permetterebbe anche di sottrarre alle multinazionali il loro attuale potere di giocare con l’apparato produttivo mondiale in maniera ricattatoria e speculativa come se si trattasse di un gioco da tavolo, tipo Risiko o Monòpoli. Inoltre, qualora un’impresa intenda delocalizzare o chiudere degli impianti si potrebbe obbligarla a restituire tutte le eventuali forme di aiuto pubblico collegate ad essi e stanziate durante i precedenti 15-20 anni [14].

 

Altri aspetti-chiave

Dallo specifico punto di vista delle dinamiche macroeconomiche e delle prospettive di evoluzione della società, appaiono nodali anche ulteriori interventi pubblici attualmente quanto mai insufficienti nel mondo:

  1. una redistribuzione e regolamentazione dei redditi e del lavoro, indirizzata a tutti, che ponga rimedio alla possibilità di sperequazioni economiche molto intense nella popolazione, che tuteli il diritto dei lavoratori di non essere licenziati senza una “giusta causa” e che faciliti il part-time (come basilare forma di personalizzazione del lavoro), le cooperative e l’economia comunitaria [15];

  2. efficaci forme di fiscalità inerenti alla tassazione delle transazioni finanziarie, alla carbon tax sulle emissioni dei gas-serra, alla web tax sui guadagni realizzati tramite Internet e – nei periodi di recessione economica – a specifiche imposte sui grandi patrimoni (mediante le quali è possibile tutelare dalla crisi i bilanci pubblici senza deprimere ulteriormente i redditi bassi e medi, che costituiscono il fulcro della domanda interna di beni e servizi) [16];

  3. l’effettiva messa al bando dei paradisi fiscali (che fanno enormemente comodo alla criminalità organizzata, agli evasori fiscali e alle speculazioni finanziarie);

  4. possibilità pubbliche di credito e microcredito per famiglie e piccole e medie imprese (spesso sfavorite dagli istituti creditizi privati), evitando parallelamente nel settore bancario e finanziario un ritorno alla deregolamentazione neoliberista che negli anni scorsi ha consentito la “crisi dei mutui”;

  5. iniziative concrete per la ricerca, l’innovazione e l’informazione nelle varie aree tecnico-scientifiche che, pur potendo essere di grande utilità generale, difficilmente otterrebbero sufficienti finanziamenti e realizzazioni attraverso il mercato [17];

  6. stringenti normative per un’economia sostenibile, p.es. accelerando quanto possibile la sostituzione dei combustibili fossili (principali cause dell’effetto serra e dello smog) con forme di energia solare ambientalmente corrette, prevedendo l’obbligo di ciascuna industria di programmare in un prossimo futuro tanto il completo riciclo di ciascuno dei suoi prodotti una volta che ne sia terminato l’uso (così da porre tendenzialmente termine a inceneritori e discariche) quanto la fine dell’uso commerciale di prodotti chimici gravemente tossici, prevedendo parallelamente il rifiuto degli organismi geneticamente modificati (ogm) e la prossima abolizione dei pesticidi ed erbicidi sintetici in agricoltura, impegnandosi per bloccare la distruzione di ecosistemi fragili come le foreste pluviali e boreali e – ovviamente – accompagnando tutto ciò con una congrua evoluzione dei programmi scolastici e universitari e dei corsi di formazione e aggiornamento professionale;

  7. la cancellazione del potere che le varie istituzioni nazionali e internazionali riconoscono ufficialmente alle agenzie private di rating.

Per il Terzo mondo appaiono altrettanto cruciali anche altri interventi, che avrebbero comunque ricadute molto positive anche sulle dinamiche sociali ed economiche dei paesi “sviluppati”. La questione forse più fondamentale si impernia sull’attribuzione degli “aiuti allo sviluppo” molto più alle comunità locali che ai governi (i quali molto spesso operano contro le esigenze e gli interessi della loro “popolazione comune”), sull’inserimento di tali aiuti e degli “aiuti umanitari” in più ampie prospettive sociali, ecologiche e produttive che la comunità internazionale dovrebbe tutelare in ogni realtà locale e, soprattutto, sull’incontro con investitori internazionali che sappiano essere dei veri partner economici – consapevoli della valenza civile ed umana dell’attività produttiva (come avviene con particolare attenzione nel “commercio equo e solidale”) – anziché dei cinici sfruttatori e dei corruttori come è solitamente avvenuto p.es. con i tanti speculatori che popolano il mondo della finanza mondiale e con lo stesso Fondo monetario internazionale [18]. L’attività produttiva dovrebbe mirare anche a rendere ciascuna area subcontinentale relativamente autonoma dal punto di vista economico, senza una sua pesante dipendenza da importazioni da paesi lontani.

Particolarmente urgente appare anche l’elaborazione di accordi internazionali che blocchino ovunque il più possibile sia le colture energetiche in agricoltura (di fatto responsabili di aumenti di prezzo delle derrate alimentari per i quali, negli ultimi anni, milioni di persone in più si sono ritrovate alla fame) sia la possibilità di giocare in borsa e speculare sui prezzi correnti e futuri di tali derrate e dei terreni agricoli mettendo artificiosamente a repentaglio la sopravvivenza stessa di ampie fasce di popolazione. Parallelamente – in base a ineludibili ragioni specificamente giuridiche [19], oltre che sociali e umane – andrebbe riavviato un effettivo impegno internazionale per l’abbattimento di un’ampia parte del debito estero attribuito ai paesi del Terzo mondo.

 

Qualità del lavoro, qualità della vita

Nei paesi “sviluppati”, la globalizzazione ha anche interrotto un percorso verso un’organizzazione del lavoro più attenta e sensibile verso i lavoratori, oggi sempre più afflitti dal lavoro precario e dalla possibilità di essere licenziati senza “giusta causa” e sempre meno tutelati rispetto a una variegata gamma di fattori: gli infortuni e le malattie professionali; i danni psicofisici derivanti da ritmi e orari di lavoro eccessivi; gli squilibri muscolo-articolari e il senso di alienazione particolarmente marcata che sono collegati a una divisione del lavoro particolarmente spinta e rigida. Questi ultimi effetti trovano tipicamente la loro massima espressione nella catena di montaggio, purtroppo esportata pressoché ovunque negli ultimi tempi dopo esser stata approvata rapidamente nei primi decenni del ’900 tanto dalla politica occidentale quanto dal leninismo in Russia [20]. Le rivendicazioni sindacali e politiche che a partire specialmente dal ’68 sono state condotte a favore di quel percorso nel mondo “sviluppato” – e che hanno stimolato sia numerose esperienze produttive in cui la catena di montaggio è stata effettivamente superata da ogni punto di vista sia una nuova attenzione per più semplici “tecnologie appropriate” [21] – andrebbero riprese su una scala molto più vasta, in sintonia col peso odierno della globalizzazione.

In questo, non si dimentichi che molteplici esperienze continuano a mostrare – anche nel mercato – la concreta fattibilità economica sia di forme imprenditoriali ispirate sin dalla radice a rapporti di umanità, di correttezza e di effettiva collaborazione reciproca con i lavoratori (rapporti che in certi casi hanno assunto forme particolarmente innovative dal punto di vista sociale, come è avvenuto p.es. con Robert Owen nell’Ottocento e con Adriano Olivetti nel Novecento, e in altri casi hanno raggiunto consapevolezze comunitarie, ecologiche e interiori particolarmente spiccate, come p.es. nell’“economia di comunione”), sia di consimili forme di “finanza etica” [22].

La dinamicità tecnologica del mondo contemporaneo, la desiderabilità di una cultura meno consumistica e più sobria e l’attuale necessità di risanare una serie di pesanti squilibri ambientali suggeriscono anche che nel corso dei decenni possano essere altamente opportuni nella società notevoli cambiamenti sia nell’equilibrio tra le varie occupazioni sia nel monte-ore lavorativo complessivo: cambiamenti che – se l’insieme della società non vuole limitarsi a subirli in modo praticamente passivo tra molteplici e gravi sofferenze ma intende esserne creativamente partecipe con saggezza e sensibilità – implicheranno corposi e ciclici riaggiustamenti nella formazione professionale e nell’orario medio di lavoro. Di questi adattamenti dovrebbe farsi garante l’amministrazione pubblica, così come della basilare azione complementare costituita da un’efficace redistribuzione dei redditi (che in pratica include non solo strumenti di tipo finanziario come da un lato gli assegni familiari e vari altri sussidi e dall’altro i riassestamenti fiscali, ma anche i servizi pubblici accessibili alle persone, e specialmente quelli disponibili a titolo gratuito o comunque a “prezzo ridotto” [23]).

Data la crisi di valori che affligge con gradi diversi molte istituzioni pubbliche, andrebbero rivendicati ovunque la collaborazione tra queste e la “società civile”, il riconoscimento della funzione sociale dei dipendenti pubblici (che dovrebbero avere una rigorosa serie sia di diritti che di doveri) e la “democrazia partecipativa” [24]: tutti aspetti della vita politico-sociale che andrebbero intesi non solo come obiettivi comunemente positivi in sé e per sé, ma anche come spinte verso un quadro generale di servizi e iniziative pubblici, rivolti all’intera popolazione, nei quali da un lato predominino l’efficacia e l’umanità – anziché lo spreco, il clientelismo, la burocrazia, il verticismo e/o l’assistenzialismo [25] – e dall’altro si dia particolare significato alla prevenzione (sanitaria, ambientale, idrogeologica, ecc.) e non solo alle azioni volte ad affrontare le emergenze e le altre problematiche già divenute manifeste.

 

Dall’economia alla qualità della vita

Riconoscere il ruolo fondamentale delle attività pubbliche (inclusa in modo particolare l’attività legislativa e normativa) nella vita concreta di una popolazione implica rendersi conto del ruolo altrettanto fondamentale che hanno la qualità della vita politico-istituzionale e, conseguentemente, la qualità della democrazia. Nel mondo moderno – in cui in gran parte del mondo abbiamo comunemente delle possibilità sia di conoscere, istruirci, studiare, sia di contare nell’ambito del processo democratico grazie soprattutto alle rivendicazioni e alle lotte di generazioni di nostri antenati o comunque predecessori – cercare di operare per il bene comune implica non solo mirare in generale alla qualità dell’insieme della nostra vita nei suoi vari molteplici aspetti di fondo, ma anche più in particolare rendere efficace la democrazia [26].

Se si guarda all’economia attraverso qualche filtro meramente quantitativo (come p.es. l’andamento del Pil nel corso dei decenni), senza interessarsi alla qualità della vita della gente e senza prendere in considerazione aspetti delle dinamiche sociali come i fallimenti del mercato, allora in fondo l’economia non ha alcun bisogno della democrazia o del benessere dei lavoratori, come mostrano p.es. l’ascesa ottocentesca dell’industria britannica, la risalita economica della Germania nazista negli anni ’30 del Novecento e l’espansione produttiva della Cina durante gli ultimi decenni (in cui il paese più popoloso del mondo si è riaperto ampiamente al mercato in concomitanza con una situazione politica di ferreo regime oligarchico). Ma, se non si separa l’aspetto quantitativo dell’economia da tutto il resto della vita sociale, allora il rapporto sostanziale che oggi l’economia ha con la qualità della democrazia diviene quanto mai evidente ed ineludibile.

Tra l’altro, dal momento che tra gli aspetti di fondo della qualità della nostra vita è inclusa palesemente anche l’esigenza di una natura e di un ambiente sani e vitali, ne consegue che questo approccio che non separa i vari aspetti nodali della vita sociale ma li intreccia e li unisce riconoscendo la loro relazione osmotica – così come avviene manifestamente nella vita personale, in cui una grande difficoltà o una grande gioia in qualche singolo aspetto del vivere si riverbera anche su tutti gli altri suoi aspetti – porta pressoché automaticamente con sé anche la tendenza a consegnare alle future generazioni un mondo appunto sano e vitale. In breve, anche la qualità del nostro futuro e di quello dei nostri discendenti dipende in ampia parte dalla qualità del nostro presente e del nostro essere presenti nella vita sociale.


Note
[1] Cfr. p.es., sui temi economici di fondo dell’ultimo decennio, Da Seattle alla crisi dei mutui (Rocca, 15 aprile 2009), Lavoratori e globalizzazione (La Civetta, settembre 2010), Chi ha paura dello Stato sociale? (id., dicembre 2011), Governanti sotto zero - Per un ABC dell’azione pubblica in tempi di crisi economica (pubblicato nell’ottobre 2013 su Internet), Dietro le quinte dell’economia internazionale (Rocca, 15 giugno 2016) e Oltre Keynes (id., 1° luglio 2017). Ecco i rispettivi indirizzi attuali in rete:
“https://share.mail.libero.it/ajax/share/0f57a81608400140fe38c50840014858a61dac2dafc1555e/1/8/MjY/MjYvNg”; “http://www.civetta.info/download/civetta_08_10.pdf” (pag. 16);
“http://www.civetta.info/download/civetta_11_11.pdf” (pag. 13);
“https://share.mail.libero.it/ajax/share/0eae6ece0720d94be1a4a88720d94f90ae113b2f722d7d3e/1/8/MjY/MjYvMg”;
“https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/7398-luca-benedini-non-una-vera-crisi-economica-ma-una-strategia.html”;
“https://www.sinistrainrete.info/keynes/10306-luca-benedini-oltre-keynes.html”.
[2] Per approfondimenti cfr. alcuni altri interventi di Rosenberg: Karl Marx on the economic role of science (Journal of Political Economy, luglio-agosto 1974), un’ampia analisi ricca di riferimenti agli scritti marx-engelsiani originari; la sua intervista effettuata nel 1994 da William A. Sundstrom e pubblicata in Reflections on the Cliometric Revolution: Conversations with Economic Historians, a cura di John S. Lyons, Louis P. Cain e Samuel H. Williamson (Routledge, 2008); Property rights and economic growth, un intervento presentato il 15 e il 16 gennaio 2003 a Stoccolma in un convegno svoltosi presso la sede del Parlamento svedese e in un seminario organizzato dal Ratio Institute e dalla Camera di Commercio di Stoccolma. Per un inquadramento storico, cfr. in particolare Il secolo breve, di Eric J. Hobsbawm (Rizzoli, 1995).
Sulla concezione storica sviluppata progressivamente da Marx ed Engels cfr. in special modo, dei due autori assieme, il capitolo su Feuerbach nell’Ideologia tedesca (del 1846), il capitolo iniziale del Manifesto del partito comunista (del 1848) e la prefazione alla sua edizione russa del 1882; di Marx, il Discorso sulla questione del libero scambio (del 1848), la prefazione a Per la critica dell’economia politica (del 1859), il Discorso sul congresso dell’Aja (del 1872) e la Critica al programma di Gotha (del 1875); di Engels, I princìpi del comunismo (del 1847), Le condizioni sociali in Russia (del 1875), L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza (del 1880), la Prefazione all’edizione statunitense del 1888 dell’appena citato Discorso di Marx sul libero scambio, Per la critica del progetto di programma socialdemocratico 1891 e l’Introduzione alla ristampa del 1895 del testo marxiano Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850. Come emerge da questi materiali, è una concezione che – diversamente da quelle delle principali correnti politiche della sinistra novecentesca – appare aver ricevuto ampie conferme dalla storia dell’ultimo secolo e mezzo, tanto più se si tiene conto della compatibilità esistente tra le tattiche economiche espresse da Marx ed Engels e le politiche keynesiane (cfr. in particolare su ciò Oltre Keynes, cit.). E tra questi testi – tutti alquanto attuali in realtà – ve ne sono alcuni che risultano tuttora di un’attualità estrema, come il capitolo iniziale del Manifesto (la cui descrizione delle tendenze della società si applica al mondo di oggi con grande corrispondenza) e l’Introduzione engelsiana del 1895.
Tra l’altro, come ha sottolineato piuttosto recentemente Immanuel Wallerstein in una conversazione con Marcello Musto pubblicata col titolo Leggete Karl Marx! (La Lettura, suppl. del Corriere della Sera, 8 aprile 2018), bisognerebbe «leggere direttamente i suoi scritti», «per la molteplicità delle tematiche da lui trattate, [...] per la qualità della sua analisi» e perché nel corso del tempo sono state diffuse «molte interpretazioni semplicistiche delle sue idee. [...] Marx, a seguito dei suoi continui studi, non di rado mutò idee e opinioni [...] e, a differenza di tanti che si sono richiamati al suo pensiero, fu profondamente antidogmatico». Tutte cose che valgono in grandissima parte anche per Engels, che rispetto a Marx appare esser stato un po’ meno profondo (come Engels stesso dichiarò più volte), ma un po’ più pratico, e che soprattutto fu un suo strettissimo amico e collaboratore dalla metà degli anni ’40 in poi.
[3] Ma già nell’Ottocento erano state ampiamente descritte molte di queste problematiche del mercato capitalistico, evidenti in quell’epoca liberista. I primi tre libri del Capitale, di Marx (il I del 1867 e il II e il III apparsi postumi, rispettivamente nel 1885 e nel 1894, grazie all’opera di sistemazione e di completamento compiuta da Engels) sono – a parte la loro “devastante” lunghezza – ricchissimi di osservazioni originali e di citazioni su tali problematiche. Grazie agli indici analitici (decisamente preziosi), è magari possibile per i “non addetti ai lavori” interessati all’argomento spulciare qua e là questo vastissimo materiale e immergersi in alcune sue parti senza dover necessariamente scorrerlo dall’inizio alla fine. Da Keynes in poi, gli strumenti a disposizione dell’attività pubblica – e quindi in generale della società – per ovviare a posteriori a tali problematiche e soprattutto per anticiparle cercando a monte di impedire delle loro grandi espansioni si sono ampliati di molto, giungendo ad includere obiettivi e forme d’azione non solo sostanzialmente politici e normativi (come si era ampiamente compreso già appunto nell’Ottocento e come attestano al meglio i programmi socialisti del 1880 e del 1891 già ricordati in Oltre Keynes, cit.) ma anche più strettamente economici, in rapporto con le crescenti risorse messe in moto nel frattempo dall’evoluzione scientifica e tecnologico-produttiva.
[4] Negli ultimi decenni è stato incluso in questo anche lo sport, che in concomitanza soprattutto con la diffusione del professionismo, della televisione, delle scommesse, delle tifoserie e della pubblicità di massa è diventato sempre più spesso un’ampia occasione per “fare affari” ed è stato sostanzialmente aggregato così al “mondo dello spettacolo” e a tutto il suo contorno mediatico incentrato in buona parte sul divismo. Quest’ultimo – in piena corrispondenza col famoso detto di Marshall McLuhan «il medium è il messaggio» (cioè, in sostanza, il messaggio principale trasmesso da un mezzo di comunicazione di massa nelle sue varie espressioni è il mezzo stesso) – serve in pratica al “sistema” per annullare il più possibile ogni eventuale significato sovversivo nella vita di artisti, musicisti, sportivi, ecc. e più in particolare nelle creazioni artistiche e musicali e per indirizzare il più possibile all’interno del “sistema” stesso e non contro di esso le frustrazioni sociali di molti esponenti delle classi popolari....
[5] In altre parole: senza una specifica legislazione che garantisca la possibilità sia di lunghi permessi di assenza dal lavoro per maternità (retribuiti almeno parzialmente), sia di contratti part-time e di orari flessibili per chi ha figli in minore età, sia di assenze giustificate dal lavoro per malattie di parenti, sia di consistenti assegni familiari per chi si occupa di figli minorenni oppure di parenti con qualche inabilità, sia di consistenti sussidi per le persone disabili, sia eventualmente dell’opportunità di usufruire della presenza diffusa di asili ben gestiti, nei ceti popolari tutte queste situazioni collegate alla maternità, alla crescita dei figli e alla malattia verrebbero lasciate sostanzialmente a se stesse dal mercato – come avviene in misura più o meno grande in molti paesi – innescando un’ampia serie di gravi sofferenze in larghe fasce di popolazione e un vasto spreco di risorse umane da molti punti di vista, incluso quello strettamente produttivo.
Sulla tematica cfr. in particolar modo Immagina che il lavoro, un manifesto scritto da un gruppo di lavoro della “Libreria delle donne” di Milano (Sottosopra, ottobre 2009), Una vita buona per tutti, in tutto il mondo! (Via Dogana, dicembre 2014) e L’economia è cura (Iod, 2016), entrambi di Ina Praetorius, The Real Wealth of Nations: Creating a Caring Economics, di Riane Eisler (Berrett-Koehler, 2007), ed Ethical Markets: Growing the Green Economy, di Hazel Henderson con Simran Sethi (Chelsea Green Publishing Co., 2006) (in particolare il capitolo “The unpaid ‘love’ economy”). Cfr. anche Ribellatevi!, del Dalai Lama Tenzin Gyatso con Sofia Stril-Rever (Garzanti, 2018) e Caring Economics: Conversations on Altruism and Compassion, between Scientists, Economists and the Dalai Lama, a cura di Tania Singer e Matthieu Ricard (Picador, 2015). Anche l’Organizzazione internazionale del lavoro cerca comunemente di dare espressione a questa tematica nella vita sociale: cfr. p.es. il rapporto Care Work and Care Jobs for the Future of Decent Work, realizzato da Laura Addati, Umberto Cattaneo, Valeria Esquivel e Isabel Valerino (ILO, 2018).
[6] Cfr. p.es. La minaccia dei pesticidi, di Robert van den Bosch e Jean-Paul Aeschlimann (Muzzio, 1989), L’inganno a tavola, di Jeffrey M. Smith (Nuovi Mondi Media, 2004), Sani fino a 100 anni, di John Robbins (Corbaccio, 2008), e ’68: le critiche alla scienza, di Pietro Greco (Rocca, 1° aprile 2018). Alcuni esempi particolarmente eclatanti: i prototipi automobilistici caratterizzati da un consumo particolarmente basso di carburante e mai messi in produzione, come la Vesta 2 della Renault (del 1987), la Smile realizzata dalla Wenko per Greenpeace nel 1996 (e offerta inutilmente alle case automobilistiche) e la 1-liter Car della Volkswagen (del 2002), un’auto da più di 100 km per litro di gasolio; la sempre più diffusa “obsolescenza programmata” dei prodotti in commercio; il colossale ritardo degli Stati nel regolamentare e finanziare un’economia sostenibile. Anche altre questioni appaiono collegate a questa problematica: p.es., l’organizzazione del lavoro spesso gratuitamente vessatoria nei confronti dei lavoratori (in collegamento col fatto che molti imprenditori e dirigenti d’impresa utilizzano le innovazioni produttive solo in modalità che accrescano la posizione di potere che essi detengono); l’enorme numero sia di incidenti sul lavoro e malattie professionali (di solito ampiamente prevenibili) sia di incidenti stradali (la cui prevenzione è ancora quanto mai trascurata); l’inaccessibilità che la scienza medica avanzata, l’istruzione di un livello elevato e persino l’acqua potabile e l’alfabetizzazione hanno per un gran numero di esseri umani ancora oggi; la vasta attività progettuale, produttiva e commerciale che ha luogo in settori divenuti in gran parte dannosi per il benessere dell’umanità (dagli armamenti ai prodotti chimici tossici, dalla pubblicità ai videogiochi, ecc.).
Dal suo punto d’osservazione nella seconda metà dell’Ottocento, quando il liberismo imperversava praticamente senza alcun limite nelle fasi ancora iniziali di quell’industrializzazione che oggi sta diventando planetaria e quando lo sviluppo scientifico era enormemente più limitato di oggi e il consumismo era ancora lontanissimo dal comparire, Marx appare esser stato essenzialmente consapevole della profonda e appunto paradossale difficoltà del mercato capitalistico di fronte alla questione della scienza. A questo proposito Rosenberg, nel suo articolo già ampiamente citato, facendo riferimento al Libro III del Capitale ha aggiunto che «Marx ha esplicitamente riconosciuto l’estrema vulnerabilità dei capitalisti nel loro ruolo sociale di portatori di innovazione tecnologica, principale fonte della dinamica capitalistica». Lì, alla fine del 5° capitolo, Marx parlava infatti dei «costi molto più elevati che comporta la gestione di un impianto organizzato sulla base di nuove invenzioni» e sottolineava che «si arriva al punto che i primi imprenditori [che lavorano con nuove tecnologie, N.d.R.] nella maggior parte dei casi falliscono e soltanto i successivi, nelle cui mani finiscono a buon mercato edifici, macchinario, ecc., cominciano a prosperare. Ne consegue che in genere è la categoria più indegna e spregevole di capitalisti monetari quella che trae il maggior profitto da tutti i nuovi sviluppi del lavoro universale dello spirito umano e dalla loro applicazione sociale operata mediante il lavoro combinato»....
[7] Cfr. p.es. Chi ha paura dello Stato sociale?, cit., e Oltre Keynes, cit..
[8] Tra gli scritti di epoca relativamente recente, cfr. p.es. La cooperazione - Tra mercato e democrazia economica, di Stefano e Vera Zamagni (Il Mulino, 2008), Un mercato diverso - Guida al commercio equo e solidale, a cura di Andrea Reina (Emi, 1998), Il popolo dell’economia solidale, di Davide Biolghini (Emi, 2007), Il consumo critico, a cura di Luisa Leonini e Roberta Sassatelli (Laterza, 2008), Governare i beni collettivi (Marsilio, 2006), di Elinor Ostrom, premio Nobel nel 2009, Beni comuni vs. merci, di Giovanna Ricoveri (Jaca Book, 2010), e Il Québec scommette sull’economia sociale, di Nadia Koromyslova (Internazionale, 21 luglio 2017). Si tratta comunque di tematiche prese molto ampiamente in considerazione sin dal movimento socialista ottocentesco. Il maggiore – e decisamente prezioso – sviluppo innovativo novecentesco è costituito dal “commercio equo e solidale”.
Tra le varie forme economiche a nostra disposizione, l’economia comunitaria è solitamente quella più ignorata e meno riconosciuta a livello giuridico e legislativo nel mondo di oggi, essendo supportata culturalmente quasi solo da entità – soprattutto comunità tribali, montane o di villaggio – che nelle dinamiche attuali della società risultano relativamente marginali. Spesso, così, risulta particolarmente complicato dare attuazione a tale forma di economia anche dove e quando essa appare la più efficace di fronte a determinate circostanze (tra le quali in primo luogo la salvaguardia del territorio, dell’equilibrio idrogeologico e della biodiversità in aree scarsamente popolate come certe zone montane o forestali) e alle difficoltà che ne potrebbero derivare anche per la popolazione di altre regioni. Fornire alle possibilità di economia comunitaria un quadro giuridico chiaro – a partire dal diritto dei cittadini di ricorrere alla forma comunitaria nelle loro attività (un diritto che appare quanto mai evidente nella cornice generale posta in particolare dalla “Dichiarazione universale dei diritti umani” del 1948) – e una legislazione adeguata, che corrisponda con semplicità e congruità alle esigenze organizzative e pratiche che tale economia può presentare nel mondo moderno, dovrebbe diventare quindi un obiettivo riconosciuto non solo per quelle comunità ma anche per i vari movimenti della “società civile” impegnati nella tutela dell’ambiente e della qualità della vita e, più in generale, per la società umana nel suo complesso, alla fin fine. Un esempio storicamente recente di trasformazione esplicita e consapevole del quadro giuridico in questa direzione è la nuova Costituzione approvata in Bolivia con un referendum popolare nel 2009; cfr. su ciò, p.es., Constitución Política del Estado plural, di Féliz Patzi Paco (in: Miradas - Nuevo Texto Constitucional, a cura dell’Instituto Internacional de Integración del Convenio Andrés Bello, IDEA Internacional / Universidad Mayor de San Andrés / Vicepresidencia del Estado Plurinacional de Bolivia, 2010)
Per evitare equivoci, va puntualizzato che – come del resto è comune oggi – l’espressione “società civile” è qui usata nella sua accezione, relativamente moderna, di settore della società nel quale si formano aggregazioni (gruppi informali, comitati, movimenti, associazioni, organizzazioni di categoria, ecc.) caratterizzate in sostanza dal non essere direttamente istituzionali, dal non avere tra i loro scopi principali né la realizzazione di attività economico-produttive a fini di guadagno né il perseguimento di altri vantaggi personali o di privilegi e dal non essere coinvolte nella negazione di diritti civili di altri.
[9] Anche se per parecchi lavoratori la presenza di rilevanti diritti pratici e sindacali e di forme di consultazione operativa tra direzione aziendale e dipendenti può risultare soddisfacente, per altri il lavoro dipendente tende a risultare alienante di per sé. Sul tema dell’alienazione lavorativa, particolarmente pregnanti appaiono alcuni scritti di Marx (specialmente i Manoscritti economico-filosofici del 1844 – bozza di un libro rimasto poi incompiuto – e i capitoli 13 e 14 del Libro I del Capitale) e Lavoro e capitale monopolistico - La degradazione del lavoro nel XX secolo, di Harry Braverman (Einaudi, 1978).
[10] In molti paesi, peraltro, le leggi elettorali e referendarie e le norme operative delle pubbliche istituzioni appaiono ispirate molto più alla formazione di una vera e propria casta politica – posta su una sorta di piedistallo rispetto ai “cittadini comuni” – che all’equità e alla trasparenza. La supposizione che la conquista del suffragio universale basti a dar corpo a una democrazia funzionante ed effettiva è uno degli equivoci più colossali e controproducenti in cui pare caduta gran parte dell’umanità moderna. Sull’uscire da questo equivoco, cfr. in particolare Oltre il “busillis” dei sistemi elettorali, un intervento pubblicato nel 2014 su Internet e ora disponibile al seguente indirizzo:
“https://share.mail.libero.it/ajax/share/0a3a23510edea145a8e0717edea1427e91ac45089bea79c2/1/8/MjY/MjYvNQ”.
[11] A seconda dei casi, ciascuno dei fallimenti del mercato si può esprimere ovviamente su varie scale, riassumibili indicativamente in quattro livelli: locale, nazionale, continentale, mondiale/globale. In linea di massima, le espressioni di tali fallimenti su scala mondiale sono quelle più complesse da affrontare, sia ovviamente per quanto riguarda la scala mondiale stessa, sia per quanto riguarda gli impatti specifici che da esse derivano su scale più limitate.
P.es., l’effetto serra è una di queste espressioni che operano a partire dalla scala mondiale (che è appunto la scala su cui occorre intervenire per prevenire una prosecuzione e tanto più un peggioramento dell’effetto serra stesso), ma i suoi impatti operano in modi diversi nelle varie parti del mondo (di modo che – finché tale effetto non sarà debellato – per tamponarne appunto gli impatti concreti occorrerà intervenire in ciascuna parte del mondo in modi specifici e tendenzialmente alquanto diversificati).
[12] Per concretizzare questo approccio, un punto di partenza già pronto potrebbe essere costituito da norme, regolamentazioni o impegni internazionali già esistenti. P.es., al primo aspetto potrebbe essere associata una serie di diritti inclusi nella “Dichiarazione universale” del 1948 (in particolare – essendoci un’ovvia enfasi sul lavoro – nei suoi artt. 23 e 24), nel “Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali” entrato in vigore nel 1976 (con uno speciale riferimento ai suoi artt. 6, 7, 8, 9 e 10) o in qualcuna delle convenzioni dell’Ilo. Malgrado la loro piena normatività giuridica basata in molti paesi sui princìpi costituzionali stessi (che danno valore di legge a vari atti internazionali), si tratta di diritti che sono spesso disapplicati da politici e imprenditori e che, tra l’altro, sanciscono inequivocabilmente l’obiettivo pubblico di una pressoché piena occupazione.
[13] Cfr. p.es. gli artt. 1, 2, 3, 4, 35, 41, 42, 45 e 46 della Costituzione italiana.
[14] Soprattutto negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso, un’epoca in cui la scala nazionale aveva un peso molto forte nell’insieme delle dinamiche economiche, nei paesi industrializzati i lavoratori avevano trovato delle maniere notevolmente efficaci di rispondere al tradizionale classismo di molti imprenditori (e ciò grazie anche alle politiche economiche keynesiane e, ovviamente, alla sostanziale collaborazione – o per lo meno disponibilità – di un gran numero di governi, che applicavano appunto tali politiche). A partire specialmente dagli anni ’80 – caratterizzati dal crescente appoggio del ceto politico all’“edonismo reaganiano” delle classi privilegiate e al neoliberismo – le classi lavoratrici si sono invece ritrovate sempre più scoperte e indebolite alle prese con tale classismo. E questa debolezza è poi esplosa negli anni ’90, quando con la globalizzazione lasciata liberisticamente a se stessa la possibilità dei governi di incidere sulla loro economia nazionale ha incontrato sempre più difficoltà e complicazioni. Molti governi hanno deliberatamente ingigantito queste difficoltà nelle proprie dichiarazioni pubbliche, allo scopo di far credere alle classi lavoratrici di non avere alcuno strumento a disposizione per difenderle dagli effetti di una globalizzazione neoliberista definita da quasi tutto il mondo politico come qualcosa di ineluttabile. L’obiettivo “nascosto” di questa manfrina quanto mai fasulla e artificiosa era – ed è tuttora – far sì che i lavoratori si convincessero di non poter far altro che subire sempre più i “ricatti occupazionali” loro rivolti da gran parte della classe imprenditoriale, impegnata a ridurre il più possibile le retribuzioni, i diritti dei lavoratori e i costi della prevenzione antinfortunistica, della protezione ambientale e della manutenzione industriale: insomma, un banale trucco dei politici per servire meglio le élite economiche più ciniche e più affariste (e più disposte a ricompensarli), senza che il popolo se ne renda conto....
Affrontare con decisione, con perseveranza e con convinzione la globalizzazione, opponendosi alla sua attuale impostazione neoliberista, è un passo fondamentale per poter riprendere con forza le lotte dei movimenti sindacali, ambientalisti, femministi, per i diritti civili e per un’equità Nord-Sud e smettere di subire pressoché supinamente – per disperazione – i ricatti e le pressioni di quelle élite economiche e dei tantissimi politici che (non solo nei governi ma anche in istituzioni intergovernative come il Fmi e il WTO o sovranazionali come l’UE) si sono messi a disposizione di tali élite, rimanendo del tutto incuranti del benessere della “gente comune” di quasi tutto il mondo.... Oltre ad essere ovviamente indispensabile per la concretizzazione di strumenti internazionali che contrastino quell’impostazione, un’azione coordinata ampiamente internazionale faciliterebbe anche nei vari paesi l’attuazione di iniziative pubbliche che contrastino le delocalizzazioni e/o le chiusure di impianti economicamente funzionali, in quanto la diffusione della disponibilità a prendere queste iniziative renderebbe più difficile alle multinazionali spostare i loro impianti da un paese all’altro a proprio piacimento.
Nonostante il vasto “movimento di Seattle” di 15-20 anni fa, in tutti i paesi del mondo la cosiddetta “sinistra” ha preferito continuare a non uscire sostanzialmente dalla propria rispettiva scala nazionale: in pochissimi paesi è riuscita per lo meno a trovare un significativo compromesso tra una sostanziale accettazione del neoliberismo internazionale e un efficace atteggiamento creativamente neokeynesiano sul piano nazionale, sapendo così salvaguardare in considerevole misura gli abitanti di quei paesi dalla corrosività sociale ed ambientale di tale neoliberismo; ma nel resto del globo non ha saputo fare altro che continuare a coltivare ripetitivamente – e vuotamente – i propri soliti orticelli politici risalenti a 50 o 100 anni fa e ormai pressoché impotenti e inutili di fronte alla società mondiale divenuta sempre più “villaggio globale”. Per alcuni commenti su quel compromesso, cfr. in particolare il paragrafo “Un po’ ‘anomalia nazionale’, un po’ ‘questione internazionale di fondo’” in La caduta della politica in Italia (e non solo) (Mantova Beppe Grillo Meetup Group, 2007) e Due Nobel per lo Stato sociale (La Civetta, gennaio 2012). Si tratta di interventi disponibili rispettivamente ai seguenti indirizzi:
“https://grillimantovani.files.wordpress.com/2008/01/dossier-benedini-la-caduta-della-politica-in-italia.pdf”;
“http://www.civetta.info/download/civetta_01_12.pdf” (pag. 10).
[15] Una tale redistribuzione consentirebbe anche di avviare una progressiva riduzione del peso abnorme e socialmente “patologico” che hanno oggi il capitale finanziario e la finanza speculativa. Cfr. p.es. Dietro le quinte dell’economia internazionale, cit..
[16] Cfr. p.es. Imposta patrimoniale per chi ha di più, di Pietro Modiano (Corriere della Sera, 8 luglio 2011), dove si suggerisce anche un eccellente modo di ovviare a vari aspetti dell’evasione fiscale.
[17] Un passo estremamente significativo sarebbe anche l’approvazione di norme – il più possibile internazionali – che riescano ad impedire efficacemente ai proprietari di brevetti non pericolosi di tenere segrete e/o deliberatamente inutilizzate le tecnologie brevettate. La questione potrebbe essere risolta attraverso il passaggio dall’attuale impostazione normativa ad una simile a quella impiegata per i diritti d’autore in ambito musicale.
[18] Cfr. p.es. Una pietra al collo, di Roberto Bosio (Emi, 1998), L’illusione umanitaria, di M. Deriu e al. (Emi, 2001), La carità che uccide, di Dambisa Moyo (Rizzoli, 2010), Da Seattle alla crisi dei mutui, cit., e Aiuti ai paesi poveri: solo parole (La Civetta, dicembre 2010). Cfr. anche le attività concrete di Emergency, di Survival International, della Leonardo Di Caprio Foundation e di varie altre associazioni di volontariato nel Terzo mondo. L’articolo della Civetta è disponibile all’indirizzo “http://www.civetta.info/download/civetta_11_10.pdf” (pag. 16).
[19] Cfr. p.es. Debito estero: le ragioni per non pagarlo (Rocca, 15 novembre 2002) e gli articoli di David C. Gray (Devilry, Complicity, and Greed: Transitional Justice and Odious Debt) e di Kunibert Raffer (Odious, Illegitimate, Illegal, or Legal Debts - What Difference Does It Make for International Chapter 9 Debt Arbitration?) apparsi su Law and Contemporary Problems rispettivamente in estate e autunno 2007. L’articolo di Rocca è disponibile all’indirizzo “https://www.peacelink.it/pace/a/8892.html”.
[20] Sulla questione soprattutto del taylorismo industriale e della catena di montaggio, cfr. Lavoro e capitale monopolistico, di H. Braverman, cit., Lenin, i contadini e Taylor, di Robert Linhart (Coines, 1977), No logo, di Naomi Klein (Baldini&Castoldi, 2001, 2002), e Behemoth: A History of the Factory and the Making of the Modern World, di Joshua B. Freeman (W. W. Norton & Co., 2018). Tra parentesi, il disprezzo che i due fondatori del “socialismo scientifico” avrebbero avuto per la catena di montaggio è implicito da quanto essi scrivevano p.es. nei testi di Marx qui ricordati nella nota 9 e in La situazione della classe operaia in Inghilterra, di Engels (del 1845). Per un discorso più generale, cfr. anche p.es. Lavoro - Usa & getta: cosa c’è dietro l’ottimismo «americano», di Marco Revelli (Il Manifesto, 21 giugno 1997), Non è lavoro, è sfruttamento, di Marta Fana (Laterza, 2017), Nuove schiavitù nel mondo del lavoro, di Giannino Piana (Rocca, 15 gennaio 2018), e i ciclici rapporti dell’ILO (specialmente su temi come la sicurezza e la salute sul lavoro e l’occupazione) e della “Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro”, con sede a Dublino (con uno speciale riferimento alle sue indagini sulle condizioni di lavoro in Europa).
[21] Cfr. p.es. Aspetti evolutivi nella progettazione delle soluzioni organizzative, di Marco Giannini (Giappichelli, 2014), e Piccolo è possibile, di George McRobie (Gruppo Abele, 1987).
[22] Su molti di questi argomenti, cfr. p.es. il Dizionario di economia civile, a cura di Luigino Bruni e Stefano Zamagni (Città Nuova, 2009).
[23] La portata potenziale di questa redistribuzione dei redditi ha evidentemente come indicativa e approssimata cornice nazionale di fondo il valore del “prodotto interno lordo” (Pil) pro-capite. Pur con tutti i suoi limiti (soprattutto in quanto misura e registra le attività che sono oggetto di compenso ma non quelle che fanno parte p.es. della vita familiare o dell’autosufficienza rurale, non considera l’eventuale creazione o distruzione di risorse naturali né l’effettiva utilità di ciò che viene prodotto e scambiato, non valuta in alcun modo l’effettivo benessere delle persone, ecc.), questo valore è appunto in un dato paese una sorta di cornice che consente sia di comprendere meglio le effettive dinamiche reddituali e le sperequazioni tra i vari ceti e classi sociali, sia di suggerire quanto ampi siano gli spazi redistributivi disponibili per l’azione pubblica. A tale valore si può aggiungere anche quello della ricchezza patrimoniale privata pro-capite nelle sue varie forme, dal quale si possono trarre ulteriori dati sulle possibilità di redistribuzione della ricchezza, mediante – a seconda dei casi – p.es. qualche riforma agraria o qualche imposta patrimoniale.
[24] Su quest’ultima, cfr. in particolare la parte conclusiva del paragrafo “Ulteriori dettagli” in Oltre il “busillis” dei sistemi elettorali, cit..
[25] Se con la burocrazia si mira spesso a costituire a spese dei contribuenti un ampio ceto impiegatizio fedelissimo ai partiti al potere, aggiungendole una spiccata gerarchia amministrativa si finisce comunemente con l’elargire esorbitanti e quanto mai ingiustificate retribuzioni a vari gradi di funzionari pubblici, verosimilmente strapagati anche perché chiudano gli occhi sull’affarismo clientelare che è tipico della “casta politica” e che, ovviamente, è visibile ai dipendenti pubblici che lavorano a più stretto contatto con essa.... L’effetto complessivo di tutto questo è la moltiplicazione degli sprechi, del malgoverno, ecc.. Quando i governanti di paesi non certo poveri asseriscono di non avere soldi per un efficace operare di sanità, scuola, previdenza sociale, protezione civile, riequilibrio idrogeologico, ecc., ecco in quali rivoli sono finiti in moltissimi casi i soldi pubblici....
[26] Alla fin fine, in qualsiasi epoca, in qualsiasi territorio e in presenza di qualsiasi forma di governo l’effettiva qualità della vita politico-istituzionale traspare proprio dalla sua più o meno ampia capacità di assecondare, favorire e incoraggiare la qualità della vita della popolazione del territorio in questione (qualità che include anche una componente evolutiva, dal momento che la vita stessa – come mostra p.es. l’evoluzione delle specie studiata in modo particolare da Charles Darwin nell’Ottocento e come suggeriva già nel 5° secolo a.C. Eraclito col suo “Tutto scorre” – non appare accontentarsi di un’eterna e immutabile staticità...).
Un’eventuale “bassa qualità” della vita politico-istituzionale può derivare certo, come in pratica avviene in molti casi, da una scarsa connessione delle pubbliche istituzioni con l’insieme della popolazione (una situazione che in termini moderni potrebbe essere chiamata una scarsità di democrazia, oppure una democrazia di scarsa qualità), ma può anche derivare da una scarsa qualità nella visione del mondo – o in altre parole nella mentalità, nell’atteggiamento esistenziale – predominante all’interno della popolazione stessa. In breve, da una popolazione in cui predomina p.es. una mentalità molto superficiale e preda di ideologie fasulle e fuorvianti nemmeno una democrazia ben funzionante può trarre una vita politico-istituzionale qualitativamente elevata, e nemmeno può farlo di per sé un qualche “politico illuminato”.... Un testo particolarmente espressivo a questo proposito è il racconto Imparare a insegnare, nella raccolta Saggezza islamica - Le novelle dei sufi, di Gabriele Mandel (Paoline, 1992).
Ovviamente il bene comune è un’entità sfaccettata, variegata, dai confini sfumati, che può essere immaginata dalle diverse persone in modi notevolmente differenti. Vi sono tuttavia diverse caratteristiche di fondo che dovrebbero caratterizzarlo perché possa essere effettivamente definito come “comune”: 1) non dovrebbe essere forzoso, quindi dovrebbe prevedere la piena salvaguardia di diritti umani e libertà fondamentali come quelli sanciti nella già citata “Dichiarazione universale” del 1948; 2) compatibilmente – com’è ovvio – con le conoscenze scientifiche correnti, dovrebbe cercare di essere sostenibile dal punto di vista ambientale, così da non danneggiare sensibilmente altri, non pregiudicare le possibilità vitali delle generazioni future e non produrre radicali conflitti tra la specie umana e il resto della natura; 3) dovrebbe comunque essere argomento di pubbliche discussioni in cui venga garantita a chiunque sia la libertà d’espressione (per lo meno finché non si finisce in asserzioni calunniose e/o incitanti alla concreta distruzione dei diritti altrui) sia la sostanziale possibilità di accedere direttamente o indirettamente ai mezzi di comunicazione; 4) fatti salvi tutti questi diritti, libertà, esigenze e possibilità di ciascuno, dovrebbe tener conto della volontà popolare; 5) dovrebbe essere il più possibilmente compatibile con la ricerca della felicità di ciascuno (come si ricorda esplicitamente p.es. nella Costituzione degli Usa).
Va sottolineato che non c’è alcuna contraddizione di fondo tra la nozione di bene comune e quella di lotta di classe. Ci può essere un punto d’incontro di volta in volta tra queste due nozioni: punto d’incontro che nell’ambito della vita sociale corrisponde all’area intermedia e centrale tra i vari tipi di estremi e di eccessi – e di reazioni eccessive ed esagitate che tali estremi ed eccessi potrebbero innescare – che ci potrebbero essere nella vita sociale stessa. Questo punto d’incontro corrisponde anche alle “migliori” tattiche e strategie che un movimento di tipo socialista può elaborare in una particolare e specifica situazione storica, come suggeriscono p.es. i testi marx-engelsiani qui indicati nella nota 2 e i già menzionati programmi socialisti del 1880 e del 1891.
In un mondo come quello attuale, p.es., tra un estremo costituito da un mercato strabordante e deregolamentato in cui tipicamente stravincono i ricchi e perdono non solo i lavoratori dipendenti nel loro insieme ma anche buona parte dell’eventuale “ceto medio” (situazione che tra l’altro potrebbe innescare reazioni rabbiose di questo ampio insieme di “perdenti”, stanchi di perdere...) e l’altro estremo costituito da un’economia poverissima di mercato e ampiamente statalizzata in cui quasi tutta la popolazione tende a vivere con poche disparità di reddito e in modo statico e relativamente poco soddisfacente dal punto di vista economico, esiste un’area intermedia in cui vi è la possibilità che tutti possano godere notevolmente dei vantaggi del mercato senza soffrire pesantemente dei fallimenti del mercato.
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Una versione ridotta e lievemente modificata della seconda parte di questo intervento è stata pubblicata su Rocca del 15 gennaio scorso (n.2/2018) col medesimo titolo con cui è presentata qui: Tracce per un’economia verso il bene comune. Per contatti con l’autore: “This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.”. Il sito Internet della rivista è “www.rocca.cittadella.org”. Come si può rilevare dalle note, tutti i miei precedenti interventi qui menzionati sono attualmente disponibili in rete.
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