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Un travet dello sterminio

Alberto Burgio

Nell'aprile del 1961 si apriva a Gerusalemme il celeberrimo processo all'ex tenente colonnello delle SS. Le polemiche che l'altrettanto famoso reportage di Hannah Arendt suscitò in quegli anni non si sono spente, a dimostrazione che le tesi della filosofa tedesca sulla «banalità del male» coinvolgono nodi tuttora elusi sul concetto di democrazia

 Il processo all'ex-tenente colonnello delle SS Adolf Eichmann si aprì l'11 aprile di cinquant'anni fa nell'aula della modernissima Casa del Popolo di Gerusalemme. A capo della sezione Ivb4 della Gestapo, Eichmann aveva diretto la realizzazione della «Soluzione finale» garantendo efficienza alla macchina dell'«emigrazione forzata» e dello sterminio degli ebrei. Al termine del conflitto era fuggito in Sud America. Nel 1960 agenti del Mossad l'avevano scovato in Argentina e tradotto clandestinamente in Israele.

Alla vigilia del processo vennero sollevate questioni di legittimità, in parte già sorte in occasione del processo di Norimberga. Si sostenne l'illegalità del rapimento (anche l'American Jewish Committee si associò alla richiesta di consegnare Eichmann a un tribunale internazionale, mentre il «Washington Post» accusò Israele di applicare la legge della giungla) e si mise in dubbio la competenza del tribunale israeliano. La corte ribatté che ogni Stato ha il diritto di processare «un criminale in fuga dalla famiglia delle nazioni» e che i crimini di Eichmann avevano coinvolto anche ebrei che durante la guerra si trovavano in Palestina.

Nonostante nel 1953 Israele avesse abolito la pena di morte, il dibattimento si concluse, dopo quattro mesi, con la condanna dell'imputato alla pena capitale per crimini contro il popolo ebraico e l'umanità. Contro la decisione del tribunale si pronunciarono intellettuali del calibro di Gershom Scholem e Martin Buber. Eichmann venne impiccato il 31 maggio 1962, dopo che la Corte suprema aveva confermato la sentenza di primo grado e respinto la domanda di grazia.

Fermamente voluto da Ben Gurion, il processo sconvolse Israele, la cui popolazione era allora composta per un terzo da sopravvissuti alla Shoah. Fu un dramma legale ad alta tensione. Le 108 testimonianze dei superstiti scatenarono un dibattito estremo, tale da mutare la percezione che gli israeliani avevano degli avvenimenti verificatisi durante la guerra. Emerse la tragica situazione in cui gli ebrei si erano trovati in Germania e nei paesi occupati dai nazisti. Si cominciò a parlare della resistenza ebraica. Entrò così in crisi la tesi (sino ad allora prevalente) secondo cui gli ebrei europei sarebbero stati colpevolmente passivi al cospetto dei loro carnefici. Fu una svolta nella storia nazionale di Israele, di cui lo sterminio nazista divenne episodio centrale (in tempi più recenti si sarebbe detto «fondativo»). Al tempo stesso, celebrare il processo a Gerusalemme valse a sancire il fatto che il nuovo Stato rappresentava la nazione ebraica in ogni questione relativa alla Shoah ed era il legittimo erede dei milioni di ebrei assassinati nei campi nazisti.

Si trattò anche di un evento di rilevanza mondiale. Come osserva nell'ultimo libro sul processo Deborah Lipstadt (la studiosa statunitense del negazionismo divenuta celebre con la causa per diffamazione intentatale nel 2000 da David Irving), l'affaire Eichmann impose lo sterminio ebraico all'attenzione del mondo. A quindici anni dalla fine della guerra l'opinione pubblica internazionale venne costretta a prendere coscienza delle sconvolgenti dimensioni della Shoah e pure il governo tedesco cominciò a portare in giudizio decine di criminali nazisti lasciati sino a quel momento indisturbati. Ma il processo ebbe un'enorme eco anche per le infuocate polemiche seguite alla pubblicazione (febbraio-marzo 1963) delle corrispondenze da Gerusalemme scritte da Hannah Arendt per il «New Yorker» e all'uscita (maggio) del volume che le raccolse (con non poche varianti) sotto il celebre titolo Eichmann in Jerusalem. A Report on the Banality of Evil.


La pietra dello scandalo

Il libro consacrò rapidamente l'autrice alla fama, ma anche - per anni - all'infamia. Arendt venne subito raggiunta da minacce e roventi accuse. Sulla prestigiosa rivista «Commentary» uscì una recensione a firma del direttore, Norman Podhoretz, sarcasticamente intitolata A Study in the Perversity of Brilliance. In una lettera del 13 marzo Arendt informò William Shawn (il direttore del «New Yorker» che l'aveva inviata a Gerusalemme) di essere sommersa da lettere colme di rabbia e di insulti. «Sembra - commentava - che gli ebrei abbiano finalmente scoperto che il loro principale nemico non è "il tedesco", sono io: e naturalmente i tedeschi concordano». Ma perché tanto rumore? Arendt considerava legittimo il processo e riteneva giusta e inevitabile la condanna a morte di Eichmann. Allora qual era la pietra dello scandalo?

Vennero impugnate (ma anche stravolte) due tesi del libro, indubbiamente forti. La prima riguarda il ruolo dei Consigli ebraici. Gideon Hausner, il procuratore generale che conduceva gli interrogatori, chiedeva ossessivamente perché gli ebrei dei ghetti si fossero lasciati «condurre come pecore al macello». In questo contesto era emersa la vicenda della collaborazione degli Judenräte, incaricati di compilare le «liste di trasporto» e talvolta (a Berlino e nel ghetto di Theresienstadt) di effettuare i rastrellamenti degli ebrei destinati ai campi. Arendt ne rese conto e riportò le dichiarazioni di Eichmann, secondo il quale la collaborazione degli ebrei era stata la «pietra angolare» dell'operazione. Era evidentemente una questione cruciale. Le vittime avevano collaborato coi carnefici? Peggio: una parte delle vittime aveva accettato di cooperare nella speranza di trarne vantaggi a spese degli altri? Consapevole della sua delicatezza, nell'affrontare l'argomento Arendt ricordò che già Raul Hilberg se ne era occupato nella prima edizione (1961) della sua opera fondamentale. Eppure il fatto di averne parlato le attirò accuse infamanti. L'amico Scholem le imputò di essere «dura di cuore» e irrispettosa nei confronti dei defunti, di avere ceduto a una «demagogica tendenza all'esagerazione» e addirittura di avere usato più riguardo verso i nazisti che nei confronti delle vittime.

A questa prima ragione di scandalo se ne aggiunse un'altra, non meno dirompente: appunto l'idea della «banalità del male». A giudizio di Arendt, Eichmann era indiscutibilmente colpevole di crimini immani. Ma a colpirla di più durante il processo fu il contrasto tra l'«incontestabile malvagità» delle azioni e la «mancanza di moventi» nel colpevole, oltre che la sua «evidente superficialità». Si sarebbe aspettata di vedere l'incarnazione demoniaca del «male radicale». Al contrario, quello che comparve sulla scena era un uomo di assoluta mediocrità. Non un mostro né un sadico. Né Jago né Macbeth. E nemmeno uno stupido (Arendt si guarda bene dal concedere a Eichmann l'attenuante dell'ingenuità). Solo, un individuo incapace di pensare in proprio, quindi moralmente sordo. Una persona ignara del senso delle proprie azioni e per questo capace letteralmente di tutto.


Mancanza di pensiero

Questa scoperta (Arendt sottolinea: dalla «macabra commedia» del processo emerge «una lezione, non una teoria») impone di rivedere gli schemi correnti. Perde valore l'idea classica del male radicale. Il male - anche quello estremo - è piuttosto il nulla: mancanza di pensiero, quindi di radici e di limiti. E cade la rassicurante tesi della mostruosità del carnefice, che impedisce di capire cosa davvero sia successo (e potrebbe ancora succedere). Eichmann è un travet dello sterminio, privo di grandezza demoniaca; un diligente assassino senza passioni né convinzioni né motivazioni; un uomo «quanto mai ordinario», ciecamente aggrappato ai «codici d'espressione e di condotta» dominanti. Per il quale (conforme all'idealtipo della «personalità autoritaria») basta che una norma sia legale e non ha importanza se sia anche palesemente ingiusta. Il che non significa affatto che egli sia innocente, poiché nessuno, mai, è «semplicemente costretto» a compiere crimini. Obbedire alla legge è sempre una scelta, come dimostra il fatto che diverse SS opposero un rifiuto. Per questo Arendt giudica inconsistente la tesi della «rotella dell'ingranaggio» sostenuta dalla difesa di Eichmann e dallo stesso imputato, che durante il processo aveva badato a presentarsi come «uno dei numerosi cavalli che avevano tirato la carretta», colpevole «soltanto» di avere obbedito a ordini superiori.

I due temi (la collaborazione dei Consigli e la «coscienza di Eichmann»), tra loro indipendenti, vennero collegati e per ciò stesso fraintesi. Ad Arendt si attribuì l'intento di scaricare sugli ebrei parte della responsabilità del loro sterminio al fine di attenuare le responsabilità di Eichmann, se non proprio di assolverlo. Costate anni di solitudine, queste polemiche sortirono anche un effetto positivo, poiché spinsero Arendt a chiarire il proprio pensiero morale e politico. Pressoché tutti i suoi principali scritti successivi mettono a fuoco questioni essenziali quali la responsabilità individuale e collettiva; i rapporti tra libera scelta e obbedienza, verità e menzogna, crimine e potere e tra norma morale e norma giuridica; e i temi della resistenza attiva e passiva, del pensiero e della capacità critica, del conformismo, della viltà, dell'indifferenza e del cinismo. Ma perché - tornando alla «banalità del male» - tanta asprezza e tante falsificazioni?


Massacri amministrativi


In più occasioni Arendt parlò di polemiche «spropositatamente gonfiate» e di «campagne orchestrate dall'establishment ebraico in America e in Israele». Oggi, sebbene la discussione resti accesa, possiamo notare che il rigetto delle tesi arendtiane consentiva di non aprire lo scottante dossier del «collaborazionismo ebraico» e soprattutto permetteva di rappresentare i colpevoli dello sterminio come esseri demoniaci, il che sembrava necessario per rendere ben chiara l'enormità dei crimini e prevenire qualsiasi riduzionismo. Questa posizione tradizionale piaceva anche in Germania. Individuare i soli colpevoli negli architetti dello sterminio (gli Himmler, gli Heydrich, i Frank) o nei loro diretti sottoposti teneva lontane due questioni decisive, affrontate con coraggio da Arendt: il consenso di massa al regime nazista e l'attiva partecipazione (o la complice indifferenza) ai «massacri amministrativi» da parte delle élites (passate indenni dalla dirigenza militare e burocratica del nazismo a quella della Repubblica Federale) e di tanti «uomini comuni» (non mostri né «volonterosi carnefici» bensì, appunto, ligi e «spassionati» esecutori).

Chi comprese alla perfezione la posta in gioco fu Karl Jaspers, che a caldo (25 luglio 1963) scrisse ad Arendt: «I tuoi critici ti odiano perché li hai colpiti nella menzogna della loro esistenza». Opinioni? Certo, tant'è che la discussione continua e continuerà. Per fare un esempio, uno dei massimi storici della Shoah, Saul Friedländer, rimprovera ad Arendt di sostenere, a proposito degli Judenräte, tesi «largamente infondate». Anche la Lipstadt è dura con Arendt, che giudica superficiale e poco obiettiva e accusa di sottovalutare il ruolo dell'antisemitismo. Ma è un fatto che dai primi anni '60 la psicologia sociale fa i conti con la comune propensione all'obbedienza incondizionata all'autorità (l'esperimento di Milgram si svolse proprio mentre Eichmann era sotto processo) e che molta recente storiografia ha variamente mostrato la fecondità delle posizioni di Arendt documentando stermini compiuti da «uomini comuni», indagando il funzionamento di un sistema statale criminale amministrato dai membri più rispettati della società, e provando che il regime nazista riposava su un consenso attivo di massa, senza il quale Hitler non sarebbe durato neanche pochi mesi.

Insomma, la tesi arendtiana della normalità del mostruoso (della sordità morale e della violenza senza ragioni né limite) appare sempre più convincente. Il che, per venire a noi, pone intorno a ciò che chiamiamo «democrazia» questioni sistematicamente eluse nel dibattito politico. Se persino regimi criminali e sterminatori (non parliamo di piccoli dittatorelli trafficoni e sessuomani) possono contare su un vasto consenso, può il consenso costituire un criterio inappellabile? Ma è una domanda scabrosa, che apre scenari imprevedibili. Meglio, per il momento, fermarsi qui, e confidare in tempi meno bui.

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