Jean-Claude Michéa, “L’impero del male minore”
di Alessandro Visalli
Questo importante, ed estremamente denso, libro di Jean-Claude Michéa parte da una conferenza del 2007 e viene portato a compimento nello stesso anno. Si tratta di un insieme di saggi brevi sulla “civiltà liberale” che compiono un esercizio di storia ricostruttiva delle idee strettamente ed indissolubilmente intrecciata ad un giudizio sulla contemporaneità. Come più volte Michéa ricorda, nessun autore del XVII secolo, o del XIX, sarebbe d’accordo con questa analisi, la vedrebbe in effetti come una perversione di una teoria che voleva ottenere altro. Ma è proprio questo il punto del nostro: la perversione, ovvero gli effetti radicalmente de-socializzanti della forma sociale liberale, è nella matrice originaria per come si è dispiegata nel suo sviluppo storico.
Michéa definisce il suo lavoro sulla base di una scelta che potrebbe essere intesa come idealista[1], o come anti-materialista: per lui è il progetto filosofico liberale, scaturito da uno specifico ambiente storico, ad aver portato alla sua ‘realizzazione logica’, ovvero alla verità secondo il suo concetto, nella società moderna. E quindi è questo ad essere l’agente decisivo del movimento storico che ha trasformato, e continua a trasformare le società, conducendole alla modernità.
L’economia è invece letta da Michéa, secondo la lezione di Polanyi[2], non come fondamento e sfera separata della società, tanto meno dipendente dallo sviluppo della tecnologia o delle ‘forze produttive’[3], ma incorporata nelle condizioni ideologiche, negli ideali sociali.
Naturalmente la filosofia liberale, nella forma storica che gli è stata attribuita originariamente da Adam Smith, Ferguson, Bastiat, Locke, etc., non aveva come intenzione di produrre la società moderna realmente esistente, con tutti i suoi effetti dissolventi il legame sociale e la sua contraddizione interna, ma ne è stato l’effetto secondo la logica del suo principio[4].
Il liberalismo di cui parla è, infatti, un ideale politico che rimanda al progetto di una trasformazione radicale dell’ordine umano la cui attuazione necessariamente deve basarsi su precise politiche di governo. Come dirà al termine del suo excursus: il liberalismo presume la naturalità della sua antropologia apparentemente minimalista (in realtà in-umana), ma in realtà deve forzarla attraverso il governo; ovvero attraverso la creazione dell’ambiente sociale nel quale questo ‘uomo nuovo’ di fatto si crea.
La novità storica del liberalismo è di “considerare il lavoro di modernizzazione compiuto dalle società europee come una tappa storicamente necessaria dei progressi della Ragione (o dello ‘sviluppo delle forze produttive’) e quindi come un movimento ineluttabile e irreversibile al tempo stesso, al quale tutte le altre civiltà esistenti non hanno (o non avevano) né il diritto, né il potere di opporsi” (p.21). È chiaro che questa concezione si radica profondamente anche nell’invenzione della scienza sperimentale della natura, nella fisica galileiana e nei suoi risultati e nella sua assiomatica[5].
Il contesto storico nel quale questa potente ideologia prende forma è, come normalmente confermato, il ciclo drammatico di instabilità aperto nella lunga fase di nascita della modernità occidentale e che riassumiamo con il termine di ‘guerre di religione’[6]. Si tratta di un periodo drammatico, che rende manifesta la distruzione di ogni fiducia e la restrizione solo a ‘simili’ sempre più ristretti.
Il liberalismo è interamente attraversato da questo potente spirito: il rifiuto del fanatismo religioso e l’aspirazione ad una vita tranquilla.
La soluzione, che è naturalmente coeva alla presa di centralità di altri ceti e di altre forme sociali, è di dirottare le energie verso il lavoro e l’industria. Si tratta di una configurazione indissolubilmente politica e psicologica che si connette alla rimozione della morte. Come voleva Lasch[7] la fiducia nel progresso, che è centrale nello spirito liberale, non è quindi tanto una “versione secolarizzata del millenarismo cristiano”, ma il segno di una aspirazione a vivere semplicemente in pace, dedicandosi ai propri affari. Come dice Michéa, “in questo senso l’ideale moderno del progresso è originariamente radicato molto più nel desiderio di sfuggire a tutti i costi all’inferno della guerra civile e ideologica, cioè di sottrarsi finalmente al ‘peggiore dei mali’, che nell’attrazione verso qualsiasi paradiso terrestre” (p.29).
Come si vede continuamente ancora oggi, quando la retorica dell’apertura commerciale è contrapposta al fantasma della guerra, la questione della pacificazione ideologica della società è ciò che rende originale il progetto moderno e istituisce un’antropologia ben specifica, radicata nelle due forme principi del Mercato e del Diritto.
Il secolo ritiene che le cause della guerra sono radicate in due essenziali predisposizioni culturali e nell’antropologia che le forma: il desiderio di gloria dei Grandi[8], e la pretesa di detenere la Verità sul Bene[9].
Si tratta, quindi, con la centralità della formazione sociale borghese, ed il suo tipo umano, di scoprire o inventare meccanismi in grado di generare ordine ed armonia senza appellarsi alla virtù dei soggetti.
L’idea è espressa in modo chiarissimo ed esemplare da Kant, in “Per la pace perpetua”, quando annota che la meccanica del Diritto può essere sufficiente, in condizioni ideali, ad assicurare la coesistenza pacifica persino per un popolo di demoni.
Ma qui sorge il problema, perché il popolo di demoni evocato rischia di essere provocato proprio dal dominio del Diritto. La cui autorità è legittima in quanto si limita ad arbitrare il movimento delle libertà concorrenti facendo esclusivo riferimento alle risorse delle libertà astratta. La libertà, nel senso liberale, è ridotta, infatti, alla sola necessità di non nuocere al prossimo. Si tratta di un criterio di difficilissima applicazione. Ad esempio, si apre la questione di come, ed in che termini, si potrebbe criticare l’uso delle droghe, o, in altro caso, la commercializzazione del corpo[10].
Come dice Michéa: “che cosa autorizza un liberale autentico a credere che per gli uomini compiranno da soli le scelte più auspicabili e che non preferiranno piuttosto adottare un comportamento egoista, se non additassero decidere cinicamente di comportarsi da ‘demoni’?” La liberazione degli scambi economici si incarica da sola di questo straordinariamente difficile compito, tramite un processo puramente meccanico.
Su questo sfondo si apre lo scontro ideologico con i socialisti che, secondo la visione di Bastiat riportata da Michéa, “credono nell’antagonismo essenziale degli interessi”, mentre i liberali “credono all’armonia naturale, o piuttosto all’armonizzazione necessaria e progressiva degli interessi”.
La differenza è essenziale: il progetto di pacificazione del liberalismo prevede di appoggiarsi solo sul “dolce commercio” e per questo necessita del requisito complementare che l’autorità stia entro limiti stretti. È solo l’economia, per i liberali conseguenti, che rende felici, fraterni e anche buoni (p.49).
Questa idea si vede anche ai suoi esordi, già con il primo “progetto di pace universale”, “Il nuovo Cinea”, del 1623, di Emery de Lacroix, è la libertà di commercio, che prevede la rivalutazione dei mercanti, e la messa di accordi de “il turco e il persiano, il cristiano e l’ebreo o il maomettano”. Il mercante “accresce legittimamente i propri mezzi a rischio della propria vita, senza danneggiare né offendere alcuno: in quanto egli è degno di maggior lode del soldato, la cui avanzata dipende dalle spoliazioni e dalle rovine inflitte al prossimo.” Quando Boisguilbert[11], che precorrerà i fisiocratici, opponendosi al mercantilismo di Colbert enuncerà il concetto di ordine economico naturale, trasponendo la fisica cartesiana, con il quale i due temi moderni de ruolo pacificatore del commercio e del meccanismo di autoregolazione del mercato si congiungessero. A questo punto arriva il progetto di Adam Smith, che dimostra come il gioco delle leggi del mercato può generare di per se stesso un mondo pacificato, prospero e felice.
La compresenza di un’autorità giusta e di demoni in libertà, l’aporia costitutiva del liberalesimo, richiede questa fede, messa in forma da Smith. Senza di essa si rischia di non tenere ferma “l’idea che lo Stato che si trattenga dal pronunciare alcun giudizio sulla morale e la vita retta sia il solo di cui si può avere la certezza che non tenterà mai di imporre la salvezza o la felicità agli individui contro il loro volere”. Si rischia, cioè, di ricadere negli incubi, per i borghesi, delle guerre di fazione o, peggio, nel terrore giacobino.
Ma ‘l’ordine morale’ è davvero espulso in questo modo? Cacciato dallo Stato non c’è rischio che esso rientri attraverso il Mercato? Come la mette Michéa:
“perché se l’economia ha ormai la vocazione, in luogo e a nome di antiche teologie, di definire la via da seguire per l’umanità – quella della Crescita illimitata, questo nuovo ‘balsamo per tutte le ferite’ – in realtà è perché sotto la maschera intimidatoria della ‘necessità’ essa sin dall’inizio non costituisce null’altro che un’ideologia invisibile e una religione incarnata. Infatti non è forse il Mercato che ora monopolizza – attraverso la sua immensa industria del divertimento e la sua onnipresente propaganda pubblicitaria – il diritto di insegnare a tutti gli esseri viventi, a cominciare dai bambini, ciò che possono sapere, cioè che debbono fare e ciò che è a loro consentito sperare?”
Questo modello dell’equilibrio autoregolato, fondamentalmente incarnato nel liberalesimo, al punto di congiunzione della sua politica con la sua economia, o del processo senza soggetto[12], è alla fine presente in ogni sua versione: politica, economica o scientifica. Ad esempio, nel secondo dopoguerra Norbert Wiener sviluppò con l’espresso appoggio delle autorità americane una nuova scienza il cui verso scopo era di liberare l’umanità dalle ‘ideologie’, ponendo le condizioni per un governo ‘scientifico’ dell’umanità e quindi la pace universale[13]. Di seguito il programma cibernetico trova una sua espressione mimetica nello strutturalismo[14], e da questo, sempre a parere di Michéa, transita nella nuova estrema sinistra.
Qui la questione filosofica centrale diventa l’articolazione tra il determinismo (creato da leggi di mercato cui i singoli devono inchinarsi, ad esempio alla concorrenza) ed il libero arbitrio. La vera libertà, con Spinoza, sta nella intelligenza della necessità.
Dunque il liberalismo si presenta sulla scena come il progetto di una società minima in cui il Diritto determinerebbe la forma e l’Economia il contenuto, senza poggiare affatto su valori morali e culturali condivisi. È necessaria anche una clausola ad hoc, la ‘società aperta’ o ‘meticcia’, interpretata a questo punto come unico possibile esempio di progresso morale dell’umanità e quindi l’unico riferimento accettabile per una persona che possa dirsi moderna.
Anche qui si ripresenta ancora la “strategia del male minore”: per vivere in pace bisogna astrarsi dalle proprie convinzioni, secondo una sorta di metafisica della necessità (p.74) che porta all’arte di gestire in maniera strumentale l’insieme dei problemi, producendo in definitiva solo la “meno peggiore delle società possibili”.
La cosa sta in questi termini:
“essere ‘moderni’ significa fondamentalmente essere convinti che le nuove risorse della Ragione (di cui la Scienza fornisce il modello privilegiato) sono ormai in grado di risolvere tale problema, indicando le linee di una duplice strategia: da una parte la destituzione di tutte le figure tradizionali dell’autorità politica e dall’altro la collocazione progressiva dell’esistenza collettiva degli individui sotto il controllo di meccanismi impersonali e ideologicamente ‘neutri’, meccanismo il cui libro gioco potrà produrre automaticamente tutto l’ordine politico auspicabile, senza che questi individui debbano mai venire convocati a titolo di soggetti” (p.88).
La logica ferrea di questa modernità porta allora, come disse Hobbes, al diritto di tutti su tutto. Ovvero al continuo gioco di scoprire un nuovo ‘diritto’ nella lotta contro “tutte le discriminazioni e tutte le esclusioni”. Ad esempio la discriminazione ed esclusione a far crescere un bambino, di cui ci si assicurato a mezzo contratto i diritti, nel ventre di una madre-veicolo[15]. Peccato che nel Leviatano Hobbes descrivesse questo stato come guerra di tutti contro tutti.
Una guerra priva di limite.
Non sarà dunque per Michéa un caso se Deleuze e Guattari, in “L’anti-Edipo”, 1972, scriveranno la formulazione filosofica più coerente del programma liberale contemporaneo:
“quale via rivoluzionaria, ce ne è forse una? Ritirarsi dal mercato mondiale, come consiglia Samir Amin ai Pesi del terzo Mondo, in un curioso rinnovamento della ‘soluzione economica fascista’? Oppure andare in senso contrario? Cioè andare ancora più lontano nel movimento del mercato, della decodificazione e della deterritorializzazione? Forse, infatti, i flussi non sono ancora abbastanza deterritorializzati, abbastanza decodificati, dal punto di vista di una teoria e di una pratica dei flussi ad alto tenore schizofrenico. Non ritirarsi dal processo, ma andare più lontano, ‘accelerare il processo’, come diceva Nietzsche: in verità, su questo capitolo, non abbiamo ancora visto nulla”.
Ora, può benissimo essere che nel 1972 non si fosse visto molto, ma ora abbiamo visto a sufficienza. Il secolo è diventato Deleuziano, come profetizzava Foucault. Sfortunatamente, per la maggior parte degli uomini[16], questo non ha portato emancipazione.
Mentre abbiamo oggi visto, possiamo anche apprezzare come Mercato e Diritto siano insufficienti per fondare le proprie basi[17], perché non basta incanalare l’energia dei vizi privati e liberare l’egoismo razionale per avere una società ordinata. Almeno non appena uno dei due simulacri del sacro posti a guardia della costruzione viene meno: la crescita.
Mercato e Diritto sono solo forme di socializzazione secondarie, si basano infatti, e presuppongono, la capacità di essere leali oltre l’interesse e l’egoismo. Di avere fiducia, una cosa che non può per sua propria definizione essere fondata sul calcolo egoistico. La società, per essere in grado di produrre la sua coesione, deve stare su basi culturali ed antropologiche diverse, su quelle che Mauss chiamava “ciclo del dono”[18] e Orwell la “common decency”.
Il liberalismo, quando trionfa, come volevano Deleuze e Guattari, dunque non porta alla società in cui le forze produttive sono pienamente dispiegate e quindi il socialismo è realizzabile, ma ad una società della modernizzazione integrale della vita che smantella inconsapevolmente, ma necessariamente, le stesse precondizioni antropologiche che impediscono di precipitare nella hobbesiana lotta di tutti contro tutti. Precondizioni che sono l’esistenza di figure oggi per lo più derise, e giudicate impossibili, come il giudice incorruttibile, i funzionari integri, gli educatori che si dedicano comunque alla loro vocazione, gli operai professionali…
È chiaro che diventa allora indispensabile tenere in costante servizio, ed accelerante, la macchina per fabbricare comunque dei sostitutivi: la crescita come scopo del Mercato e conferma della sua divina bontà, e i diritti, come appoggio di un indispensabile moralismo del ‘politicamente corretto’[19].
E’ questa la doppia mistica del liberalismo.
Ma resta al contempo ineludibile un lavoro continuo di ‘autoistituzione’ che si deve appoggiare su moralità già esistenti, che cerca di radicalizzare, interiorizzare e universalizzare in nome di una continua lotta ‘progressista’ contro le figure della tradizione.
A questo punto Michéa compie, nel saggio “L’inconscio delle società moderne”, che da solo vale l’acquisto, una digressione di alta densità sulle forme di autorità che presiedono all’evoluzione dall’egoismo originario del bambino (e bambina) allo sviluppo compiuto dell’adulto, in grado di prendere e mantenere il proprio posto nell’ordine umano, ovvero “di entrare a sua volta nelle catene socializzanti del dono e della reciprocità” (p.159). Quando si manifesta il desiderio di onnipotenza è perché sono fallite le funzioni ‘paterne’ o ‘materne’ in grado di incoraggiarlo verso l’emancipazione e lo sviluppo. Un simile individuo resta “una monade egoista, incapace di dare, ricevere e ricambiare, se non in maniera del tutto formale”[20].
Se la tradizione anarchica, con la sua attenzione specifica e approfondita alla educazione antiautoritaria, è valorizzata dall’autore, si chiede perché la sua giusta critica si sia fermata a metà strada:
“Dal XIX secolo tutte le forme ‘patriarcali’ del dominio sono state abbondantemente descritte e ricusate, fino a diventare un luogo comune trito e ritrito della critica sociale e dei gender studies. Viceversa non si potrebbe dire altrettanto di quelle forme di assoggettamento e manipolazione del prossimo che trovano il loro modello inconscio nell’influenza materna.
Questa “dimenticanza” è particolarmente strana. Infatti proprio nel preciso istante in cui la dinamica delle società moderne cominciava a minare il fondamento culturale degli antichi dispositivi patriarcali[21] – screditando tutti i riferimenti alla legge simbolica a vantaggio dei meccanismi del Diritto e del Mercato – l’attenzione della critica sociale è giunta a focalizzarsi quasi esclusivamente su quest’unica modalità di dominio” (p.162)
Come ricorda anche Zizek, il riflusso dell’autorità patriarcale, ovvero della sua legge simbolica, ha come effetto la liberazione del suo doppio, il super-io. Questa figura che si lascia identificare nel tipo della madre possessiva (che può benissimo anche essere un uomo[22]) e castrante. Invece di comandare l’obbedienza, paternalisticamente, si trova la traccia nascosta, e quindi tanto più potente, di una medesima volontà di potenza basata sulla colpevolizzazione ed il ricatto affettivo. Le modalità non sono l’ordine, ma la lamentela, il rimprovero e l’accusa.
Se la forma di volontà di potenza ‘patriarcale’ pretende il disciplinamento tramite la sottomissione del comportamento esteriore, la volontà di potenza ‘matriarcale’, istituisce un controllo ancora più radicale: “esige che il soggetto ceda al suo desiderio e aderisca con tutto se stesso alla sottomissione richiesta, dietro la minaccia di vedersi distrutto nella propria autostima, poiché il rifiuto di accettare quell’influenza totale sulla sua vita significherebbe solo un’inettitudine colpevole a ricambiare adeguatamente i ‘sacrifici’ compiuti per lui”.
Questo dominio è enormemente più difficile a riconoscere come tale.
La rivolta verso il primo, l’ordine ‘patriarcale’, si esprime verso l’esterno, ovvero nella modalità della consapevolezza, mentre l’ordine ‘matriarcale’, che si nasconde, spinge a rivolgere verso sé l’insuccesso, attribuendosi ingratitudine e indegnità morale. La volontà di potenza si percepisce, dal lato dell’emittente, come forma di amore esemplare e di abnegazione sacrificale, e dal lato del ricevente come indegnità.
Questo “impero delle madri”[23] ha qualcosa a che fare, ad un livello piuttosto profondo, con la logica liberale, che destituisce tutti i meccanismi normativi costruiti, nel ‘vecchio mondo’, in riferimento alla legge simbolica, ovvero all’ordine ‘patriarcale’ dell’autorità esplicita e frontale, a vantaggio di dispositivi nascosti e “assiologicamente neutri”, fondati su Mercato e Diritto.
“Di conseguenza è condannata a determinare in cambio lo sviluppo selvaggio di nuovi meccanismi normativi, questa volta ancorati in via prioritaria all’immaginario dei soggetti, cioè direttamente governati dall’inconscio stesso (e più particolarmente da quello che Zizek definisce, dopo Melanie Klein e Christopher Lasch, le ‘figure superegoiche feroci’). Ecco perché il lento smantellamento storico delle società disciplinari, che costituisce l’opera principale della modernità avanzata, non si traduce mai nell’accesso della collettività alla bella autonomia promessa. In mancanza di una critica integrale dei meccanismi di dominio, che il materialismo liberale vieta per principio, questo smantellamento metodico porta al contrario alla progressiva installazione di società di controllo, sottoposte all’autorità crescente degli ‘esperti’ e immerse in uno strano clima di autocensura, di pentimento e di colpa generalizzati. Il che in definitiva corrisponde alla guerra di tutti contro tutti, alla quale si aggiunge la nuova guerra di ciascuno contro se stesso. In ultima analisi sembra proprio questa la base antropologica inconscia di questa civiltà regressiva del ‘progresso’ che Christopher Lasch era stato tra i primi a saper riconoscere come la civiltà del narcisismo” (p.167).
Anche attraverso questi strani dispositivi diagonali, ormai il vecchio “impero del male minore”, che intendeva essere solo un pessimismo dell’intelligenza, chiede, come farebbe una madre possessiva, di essere accettato come il migliore dei mondi, ed il più generoso.