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liberazione

Dalla fabbrica degli oggetti alla fabbrica delle parole

di Marcello Cini

Facendo riferimento alle considerazioni sull'origine del profitto nel processo di accumulazione del capitale da me esposte in un precedente articolo su Liberazione, è intervenuta, sul manifesto, Rossana Rossanda. Con molta simpatia e stima osserva tuttavia che, "insistendo sul ‘luogo' di accumulazione del capitale e negando con buone ragioni che essa avvenga ormai soprattutto sul tempo di lavoro. [io scorderei] che non è sul dilemma di dove si formi, ma sulla mercificazione della forza lavoro, la sua spersonalizzazione e riduzione a cosa, che è cresciuta la rivolta del proletariato industriale".

Non mi pare tuttavia che questa sia la differenza fra i nostri punti di vista. Anzi è proprio dalla certezza che la "mercificazione della forza lavoro - come dice la stessa Rossanda - si è estesa... sull'insieme della produzione materiale e immateriale, su gran parte della riproduzione e sul complesso dei rapporti umani", che parte il mio tentativo di contribuire a dar vita a una sinistra "senza aggettivi" come nuovo soggetto politico. Il punto essenziale è tuttavia per me distinguere fra produzione di merce materiale e produzione di merce immateriale, perché è fondamentalmente diverso nei due casi il meccanismo di accumulazione del capitale attraverso lo sfruttamento della forza-lavoro.

Il lavoro, nella fase della produzione delle merci materiali nelle fabbriche capitalistiche del XX secolo, è infatti oggettivo, parcellizzato, quantitativamente misurabile come somma dei tempi di atti elementari successivi prestabiliti, compiuti dall'operaio tipo, indifferenziato, impersonato dallo Charlot di Tempi Moderni. Questa forma specifica del lavoro in questa fase del capitalismo spiega perché la mitica "classe operaia" del Novecento non è stata un'invenzione ideologica, ma un soggetto sociale reale concreto, creato e tenuto insieme dalla presa di coscienza dei singoli operai che soltanto per mezzo suo avrebbero potuto contrastare, in nome di tutti, gli interessi e i poteri del capitale, di fronte al quale ognuno di loro era soltanto un erogatore di lavoro astratto, inesistente come persona dotata di proprietà e di capacità individuali.

Il lavoro, nella produzione capitalistica di merci immateriali non è invece riducibile a pura quantità. In ogni forma, anche la più semplice, di produzione di nuova informazione - uso questo termine in senso generico - c'è una componente individuale qualitativamente essenziale e non quantificabile in termini di tempo. Mentre nella fabbrica di oggetti il lavoratore deve annullare la propria individualità per eseguire automaticamente e sempre più in fretta lo stesso gesto prestabilito e programmato su un pezzo di materia inerte, nella fabbrica di parole è il lavoratore singolo che deve sfruttare la propria individualità per inventarsi il modo più efficace per comunicare, direttamente o indirettamente, con un interlocutore umano. E' chiara la differenza.

Devo aggiungere per chiarezza che so bene che i due casi estremi (fabbrica degli oggetti e fabbrica delle parole) sono in genere intrecciati nel processo produttivo, in modo diverso a seconda dell'industria interessata e delle tecnologie utilizzate. Alle volte possono essere due fasi successive dello stesso processo, altre volte esse coesistono contemporaneamente. Ma la tendenza prevalente nel XXI secolo del processo di accumulazione del capitale è certamente quella di investire nella produzione di "parole" cioè di merci immateriali.

Nella fabbrica degli oggetti dunque l'origine del profitto sta nella quantità di lavoro salariato (e quindi marxianamente, nel plusvalore). mentre nella fabbrica delle parole sta nella sua qualità. Se la sinistra lo ignora, non può capire perché in quest'ultima gli "operai" agiscono come individui singoli, mentre la classe operaia è sparita perché è sparito il collante collettivo che la teneva insieme.

Da questa differenza di punto di vista nasce anche un disaccordo tra me e Rossanda sulla possibilità di unificare sotto l'etichetta di "conflitto di classe" il conflitto che nasce fra l'estensione del dominio del capitale a tutti gli aspetti della vita individuale e collettiva della società e le reazioni dei molteplici soggetti schiacciati, sfruttati o semplicemente emarginati da questa inesorabile avanzata. Personalmente sono convinto che questa unificazione sia impossibile.

Non si sentivano e non si sentono di appartenere alla stessa "classe", tanto per rimanere in Italia, gli operai della Thyssen bruciati vivi, il coltivatore di ortaggi avvelenati dai rifiuti tossici delle industrie del nord sotterrati dalla camorra nei terreni adiacenti e la ragazza precaria costretta a sgomitare fra i suoi colleghi/concorrenti per non essere fatta fuori. Né gli immigrati che affollano le carceri perché vendono merce con marchio contraffatto, o i ricercatori italiani che emigrano perché non trovano un lavoro adeguato alle loro capacità. E tanto meno, se ci allarghiamo al mondo intero, si sentono di appartenere alla stessa classe gli affamati dei paesi poveri e i lavoratori dei paesi ricchi, anche se all'origine delle rispettive difficoltà, più o meno drammatiche, c'è sempre la classe - questa sì, unificata - dei detentori del capitale ormai globalizzato.

E' proprio il carattere locale e parziale degli interessi concreti e immediati di ognuno di essi che può dare forza a un processo comune - nei fatti piuttosto che nelle intenzioni - indirizzato a sottrarre al dominio di poche decine di multinazionali il potere di decisione su come devono vivere oggi e soprattutto dovranno vivere domani, i sei o sette miliardi di abitanti del pianeta.

L'obiettivo del capitalismo nella fase dell'economia della conoscenza è dunque di ridurre le differenze di qualità alla misura uniforme della quantità. Ma la sua contraddizione fondamentale sta da un lato nella spinta a ridurre tutto all'omogeneità indifferenziata della forma di merce, e dall'altro nell'indurre la necessità di soddisfare attraverso il mercato bisogni individuali e collettivi che investono tutto l'arco infinito delle esperienze umane, dall'altro.

Non insisto sulle conseguenze drammatiche di questa contraddizione, perché ne ho già scritto diffusamente altrove ma non posso non ricordare di sfuggita quanto ha scritto di recente nel suo libro intitolato Breve storia del futuro Jacques Attali - ma ancora non era scoppiata la crisi finanziaria che ha innescato la grande crisi che tutti aspettano facendo scongiuri - sui prevedibili esiti della alla quale va incontro l'attuale impero americano. «L'acqua e l'energia si faranno più scarse, il clima verrà posto in pericolo le disuguaglianze e le frustrazioni si aggraveranno, i conflitti si moltiplicheranno, si innescheranno grandi movimenti di popolazione. Il mondo diverrà provvisoriamente policentrico, un "iperimpero", controllato da una striminzita decina di potenze regionali». Le recenti vicende della Georgia e il conflitto tra India e Pakistan ne sono segnali inequivocabili.

Verrà poi - sempre secondo l'analisi di Attali - un periodo di "iperconflitto" caratterizzato da scontri drammatici, catastrofi ecologiche ed umanitarie. «Ci batteremo per il petrolio per l'acqua per conservare un territorio per lasciarlo, per imporre una fede, per combatterne un'altra, per distruggere l'Occidente, per far prevalere i suoi "valori". Prenderanno il potere dittature militari, confondendo eserciti e polizie».

E' possibile scongiurare questo scenario? Lo stesso Attali ne immagina uno in cui, dopo il diluvio, «istituzioni, mondiali e continentali, organizzeranno, grazie alle nuove tecnologie, la vita collettiva. Porranno dei limiti all'artefatto commerciale alla modificazione della vita e alla valorizzazione della natura, favoriranno la gratuità, la responsabilità, l'accesso al sapere. Renderanno possibile la nascita di una "intelligenza universale", mettendo in comunicazione le capacità creatrici di tutti gli esseri umani, per superarle. Si svilupperà una nuova economia, detta "relazionale" producendo servizi senza cercare di trarre profitti, in concorrenza con il mercato».

C'è però anche qualcuno che crede possibile cominciare a fare qualcosa in questa direzione fin da adesso. Per esempio Muhammad Yunus, premio Nobel per la pace e fondatore del microcredito - una forma di economia senza profitto che, partita più di trenta anni fa da un piccolo villaggio del Bangladesh raggiunge oggi l'80% dei poveri di quel paese, e con l'attuale tasso di crescita coinvolgerà in tutto il mondo nel 2015 centosettantacinque milioni di persone al disotto della soglia di povertà - è uno che ha già cominciato

Ci sono infatti oggi pratiche, esperienze, forme organizzative già presenti nelle pieghe del tessuto sociale che, sia pure minoritarie, coinvolgono milioni di uomini e donne impegnate nell'obiettivo di arrestare la mercificazione della società nei diversi punti del globo e nei diversi settori produttivi più colpiti, indebolendo la trama che connette globalmente il tessuto del capitale e tessere localmente nei modi più adeguati il patchwork (non trovo l'equivalente in italiano) di una società più equa, più sicura e più pacificata.

Vale la pena di provarci.

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