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Creare beni comuni

George Caffentzis e Silvia Federici

Ovunque gli spazi urbani vengono privatizzati, le strade commercializzate ed è proibito persino sdraiarsi su di una spiaggia senza pagare. I fiumi intanto vengono contenuti dalle dighe, le foreste disboscate, l’acqua imbottigliata e messa sul mercato, i sistemi di conoscenza tradizionali saccheggiati attraverso norme di proprietà intellettuale e le scuole trasformate in imprese volte al profitto. Ciò spiega perché l’idea dei beni comuni esercita una forte attrattiva sull’immaginario collettivo. Del resto, in ogni angolo del mondo gruppi di persone hanno cominciato a costruire insieme beni comuni: orti urbani, banche del tempo, gruppi di acquisto solidale, monete locali, licenze “creative commons”, pratiche di baratto, cucine popolari, esperienze di pesca comunitaria… Creare e difendere beni comuni è più di un argine contro gli assalti neoliberisti alle nostre vite. È la forma embrionale di un modo diverso di vivere, è il seme di una società oltre il mercato e lo stato. “Il nostro compito è comprendere come possiamo connettere queste diverse realtà – spiegano in questo splendido saggio George Caffentzis e Silvia Federici – E come possiamo assicurarci che i beni comuni che creiamo siano realmente trasformativi delle nostre relazioni sociali e non possano essere cooptati”

capitalismo noAbstract

Il documento mette a confronto la logica sottostante la produzione dei “beni comuni” con quella delle relazioni capitaliste e descrive le condizioni in base a cui i beni comuni divengono semi di una società oltre lo stato e il mercato. Mette anche in guardia rispetto al pericolo di cooptazione dei beni comuni per fornire forme di riproduzione a basso costo e analizza come poter prevenire tale esito.

 

Introduzione

I “beni comuni” stanno diventando una presenza costante nel linguaggio politico, economico e persino in campo edilizio, dei nostri tempi. Sinistra e destra, neoliberisti e neokeynesiani, conservatori e anarchici utilizzano il concetto nella loro propria accezione politica.

La Banca mondiale li ha adottati chiedendo, nell’aprile 2012, che tutte le ricerche interne o supportate da fondi della banca stessa fossero “open access e sotto licenza Creative Commons – un’organizzazione non-profit le cui licenze di copyright sono progettate in modo da consentire un pieno accesso alle informazioni offerte da internet” (Banca mondiale, 2012). Persino l’Economist, giornale campione di neoliberismo, si è mostrato favorevole elogiando Elinor Ostrom – esperta di studi sui beni comuni – nel suo necrologio:

“Per Elinor Ostrom il mondo conteneva un grande nucleo di buon senso. Le persone, se lasciate a se stesse, si sarebbero organizzate in modo razionale per sopravvivere e andare d’accordo. Sebbene nel mondo terre coltivabili, foreste, acqua potabile e pescato siano limitati, è possibile condividerli senza depredarli e averne cura senza entrare in conflitto. Mentre altri avevano pessimisticamente parlato di tragedia dei beni comuni, vedendo nell’accessibilità a tutti solo un sovra-sfruttamento del pescato e delle terre coltivabili, la Ostrom, con la sua forte risata, dava un taglio allegro e anticonformista” (Economist, 2012).

Infine, è difficile ignorare il prodigo uso di “comune” e “beni comuni” nei discorsi correlati a campus universitari, centri commerciali e comunità recintate. Le università di elite che richiedono dagli studenti le rette annue di 50.000 dollari, chiamano poi le biblioteche “informazione comune”. È quasi una legge della vita sociale contemporanea che, più i beni comuni vengono attaccati e più essi vengono celebrati.

In questo articolo, esamineremo le ragioni di questi sviluppi e solleveremo alcuni interrogativi che oggi i comunardi anticapitalisti devono affrontare:
Cosa intendiamo per “beni comuni anticapitalisti”?

Come possiamo creare, al di fuori dei beni comuni a cui diamo vita con la lotta, un nuovo modello di produzione non basato sullo sfruttamento del lavoro?

Come possiamo evitare che i beni comuni vengano cooptati e divengano piattaforma su cui una classe di capitalisti in declino possa ricostruire le proprie fortune?

 

Storia, capitalismo e beni comuni

Iniziamo con una prospettiva storica, tenendo a mente che la storia stessa è un bene comune persino quando testimonia i modi in cui siamo stati divisi, se è narrata attraverso una molteplicità di voci. La storia è la nostra memoria collettiva, il nostro corpo esteso che ci connette a un più ampio mondo di lotte che conferiscono significato e potere alla nostra pratica politica.

La storia, inoltre, ci mostra come quello dei “beni comuni” sia un principio attraverso cui gli esseri umani hanno organizzato la propria esistenza per centinaia di anni. Come ci ricorda Peter Linebaugh, non vi è società che non abbia nel proprio cuore I beni comuni (Linebaugh, 2012). Persino oggigiorno, persistono sistemi di proprietà collettiva in molte parti del mondo e in special modo in Africa e tra gli indigeni dell’America Latina. E tuttavia, quando parliamo del principio del “comune” o dei “beni comuni”, come immaginato o nelle forme esistenti di benessere condiviso, non ci riferiamo solo ad esperimenti in piccola scala. Ci riferiamo piuttosto a formazioni sociali su larga scala che nel passato coinvolgevano interi continenti, come una rete di società comunitarie che esistevano nell’America precoloniale, che andava dall’attuale Cile fino al Nicaragua e al Texas, connessi da una vasta gamma di scambi economici e culturali. In Inghilterra, le terre comuni costituirono un importante fattore economico fino alla fine del XX secolo. Linebaugh stima che nel 1688, un quarto dell’area totale di Inghilterra e Galles era costituita da terre comuni (Linebaugh, 2008). Dopo più di due secoli di recinzioni che portarono alla privatizzazione di milioni di acri di terreno, secondo l’undicesima edizione dell’Enciclopedia Britannica, la quantità di terre comuni ancora rimaste nel 1911 era tra il milione e mezzo e i due milioni di acri, corrispondenti a circa il 5 per cento del territorio inglese. Verso la fine del XX secolo, le terre comuni erano ancora il 3 per cento del territorio totale (Naturenet, 2012).

Queste considerazioni sono importanti per dissipare la convinzione che una società basata sui beni comuni sia un’utopia o che i beni comuni possano limitarsi solo a progetti di piccola scala, incapaci di fornire le fondamenta di un nuovo modello di produzione. Non solo i beni comuni sono esistiti per centinaia di anni, ma elementi di società basata sulla proprietà collettiva permangono tutt’oggi, anche se sono sotto costante attacco, poiché lo sviluppo capitalista necessita la decostruzione delle relazioni e delle proprietà collettive.

In riferimento alle recinzioni del XVI e XVII secolo, cha hanno espulso i contadini in Europa dalle loro terre – l’atto di nascita della società capitalista moderna – Marx parlò di accumulazione “primitiva” o “originaria”. Ma noi abbiamo imparato che questa non fu una condizione irripetibile, circoscritta sul piano spaziale e temporale, ma è un processo che continua anche nel presente (Midnight Notes Collective, 1990). L’accumulazione primitiva è la strategia con cui la classe capitalista risorge sempre in tempi di crisi, quando necessita di riaffermare il proprio potere sul lavoro e, con l’avvento del neoliberismo, questa strategia è stata estremizzata, in modo tale che la privatizzazione si estende ad ogni aspetto della nostra esistenza.

Viviamo ora in un mondo in cui ogni cosa, dall’acqua che beviamo alle cellule e genoma del nostro corpo, hanno sopra un cartellino con il prezzo e nessuno sforzo è tralasciato per far si che le imprese possano avere il diritto di recintare fino all’ultimo spazio libero sulla terra e di costringerci a pagare per potervi avere accesso. Non solo terre, foreste e pescato sono stati sottratti per scopi commerciali in quello che appare come un nuovo “accaparramento di terre” di proporzioni mai viste. Da New Delhi a New York, da Lagos a Los Angeles, lo spazio urbano viene privatizzato, le strade commercializzate ed è proibito persino sedersi lungo i marciapiedi o sdraiarsi su di una spiaggia, senza pagare. I fiumi vengono contenuti dalle dighe, le foreste disboscate, l’acqua imbottigliata e messa sul mercato, i sistemi di conoscenza tradizionali vengono saccheggiati attraverso norme di proprietà intellettuale e le scuole pubbliche vengono trasformate in imprese volte al profitto. Ciò spiega perché l’idea dei beni comuni esercita una tale attrattiva sull’immaginario collettivo: la loro perdita sta ampliando la nostra presa di coscienza del significato della loro esistenza e accresce il nostro desiderio di conoscerli meglio.

 

Beni comuni e lotta di classe

Nonostante tutti gli attacchi subiti, i beni comuni non hanno smesso di esistere. Come ha sostenuto Massimo De Angelis, vi sono sempre stati beni comuni “fuori” dal capitalismo che hanno giocato un ruolo nella lotta di classe, alimentando l’immaginario radicale così come i corpi di molti comunardi (De Angelis, 2007). Le società di mutuo soccorso del diciannovesimo secolo ne sono un esempio (Bieto, 2000). Ma ancor più importante, nuovi beni comuni vengono costantemente creati. Dal software libero al movimento dell’economia solidale, un intero mondo di nuove relazioni sociali sta nascendo sulla base del principio della condivisione comunitaria (Bollier and Helfrich, 2012), sostenuto dalla presa di coscienza che il capitalismo non ha nulla da darci al di fuori di più miseria e divisioni. Sicuramente, in un periodo di crisi permanente e di costanti assalti al lavoro, gli stipendi e gli spazi sociali, la costruzione dei beni comuni – banche del tempo, giardini urbani, Community Supported Agriculture (agricoltura sostenuta dalla comunità), gruppi di acquisto solidale, monete locali, licenze “creative commons”, pratiche di baratto – rappresentano strumenti cruciali di sopravvivenza. In Grecia, negli ultimi due anni, mentre salari e pensioni venivano tagliati di una media del 30 per cento e la disoccupazione giovanile ha raggiunto il 50 per cento, si sono sviluppate diverse forme di mutualità come i servizi medici gratuiti, la distribuzione gratuita dei prodotti contadini nei centri urbani e il riallaccio dei cavi elettrici staccati per morosità.

Tuttavia, le iniziative di commoning sono qualcosa di più di un semplice argine contro gli assalti neoliberisti alle nostre vite. Esse sono semi, forme embrionali di un modo alternativo di produzione in divenire. È così che dovremmo considerare anche i movimenti di occupazione di case che sono emersi in molte periferie urbane, segni di una crescente popolazione di cittadini “scollegati” dal mondo dell’economia formale, che ora riproducono se stessi fuori dal controllo dello stato e del mercato (Zibechi, 2012).

La resistenza degli indigeni delle Americhe alle continue privatizzazioni delle loro terre e dell’acqua ha dato nuovo impulso alla lotta per i beni comuni. Mentre la richiesta degli zapatisti per una nuova costituzione che riconoscesse la proprietà collettiva è stata ignorata dallo stato messicano, il diritto degli indigeni ad utilizzare le risorse naturali nei loro territori è stato sancito dalla Costituzione venezuelana dal 1999. Anche in Bolivia, nel 2009, una nuova Costituzione ha riconosciuto la proprietà collettiva. Citiamo questi esempi non perché confidiamo sull’apparato giuridico statale per promuovere la società dei beni comuni che noi vogliamo, ma per dimostrare quanto potente sia la richiesta che viene dal basso per la creazione di nuove forme di socialità organizzate secondo il principio della cooperazione sociale e la difesa delle forme comunitarie già in essere. Come hanno mostrato Raquel Gutiérrez (2009) e Raúl Zibechi (2012), la “guerra dell’acqua” del 2000 in Bolivia, non sarebbe stata possibile senza l’intricata rete di relazioni sociale delle ayllu e altri sistemi comunitari che regolano la vita tra gli Aymara e i Quechua.

Le iniziative dei movimenti di donne hanno giocato un ruolo speciale in questo contesto. Come dimostrato da una crescente letteratura femminista, per via della loro precaria relazione con l’occupazione stabile, le donne sono sempre state più interessate degli uomini alla difesa dei beni comuni naturali e in molte regioni sono state le prime a mobilitarsi contro la distruzione ambientale: contro la deforestazione, contro la vendita di alberi per scopi commerciali e la privatizzazione dell’acqua. Le donne hanno anche dato la vita a diverse forme di condivisione delle risorse come le “tontine”, che sono la forma più antica e diffusa di banche popolari ancora esistente. Queste iniziative si sono moltiplicate a partire dagli anni ’70 quando, in risposta agli effetti combinati di piani di austerità e repressione politica in diversi paesi (es. Cile, Argentina), le donne si sono messe insieme per creare forme comunitarie di riproduzione, consentendo loro di incrementare il loro budget e al tempo stesso di spezzare quel senso di paralisi che l’isolamento e la sconfitta produce. In Cile, dopo il colpo di stato di Pinochet, le donne hanno messo su cucine popolari – comedores populares – per cucinare collettivamente con il vicinato, fornendo i pasti per le loro famiglie così come per la gente della comunità che non riusciva a sfamarsi da sé. L’esperienza delle cucine popolari è stata così potente nel riuscire a rompere la cortina di paura che aveva avvolto il paese dopo il colpo di stato, che il governo la proibì, mandò la polizia a distruggere le pentole e accusò di comunismo le donne che mettevano su i comedores (Fisher 1993). Seppure in modo diverso, si tratta di un’esperienza ripetuta nel corso degli anni ’80 e ’90 in varie parti dell’America Latina. Come riferisce Zibechi (2012, leggi La calce del nuovo mondo ndr), centinaia di organizzazioni popolari, cooperative e spazi comuni, connessi con i temi di cibo, terra, acqua, salute, cultura, organizzati principalmente da gruppi di donne, sono emerse anche in Perù e Venezuela, gettando le basi per un sistema cooperativo di riproduzione, basato sul valore d’uso e operando autonomamente rispetto allo stato e al mercato. Anche in Argentina, dopo il recente crack economico del paese nel 2001, le donne hanno portato avanti iniziative di “commoning” nelle autostrade così come nei barrios, portando le pentole di cibo ai piquetes, per consentir loro di resistere nelle barricate in strada, e organizzando assemblee popolari e comitati cittadini (Rauber 2002).

Anche in molte città degli Stati Uniti, come Chicago, sta emergendo una nuova forma di economia sotto il radar di quella formale, in parte per via della necessità e in parte per il desiderio di ricreare il tessuto sociale che la ristrutturazione economica e il processo “gentrificazione” hanno sovvertito; in particolar modo, le donne stanno portando avanti varie forme di commercio, baratto e mutuo soccorso che sfuggono dalla portata delle reti commerciali.

 

Cooptazione dei beni comuni

Di fronte a questi sviluppi, il nostro compito è di comprendere come possiamo connettere queste diverse realtà e come possiamo assicurarci che i beni comuni che creiamo siano realmente trasformativi delle nostre relazioni sociali e non possano essere cooptati. Il pericolo di cooptazione è reale. Per anni, parte dell’establishment capitalista internazionale ha portato avanti un modello di privatizzazione più morbido, appellandosi al principio dei beni comuni come rimedio al tentativo neoliberista di sottomettere ogni relazione economica ai dettati del mercato. Si è compreso che, se portata all’estremo, la logica del mercato diviene controproducente persino da un punto di vista di accumulazione del capitale, precludendo la cooperazione necessaria per un efficiente sistema di produzione. Ne è un esempio la situazione che si è sviluppata nelle università statunitensi, dove la subordinazione della ricerca scientifica agli interessi commerciali ha ridotto la comunicazione tra gli scienziati, costringendoli alla segretezza sui loro progetti di ricerca e i relativi risultati.

Desiderosa di apparire come benefattrice del mondo, la Banca mondiale ha persino usato il linguaggio dei beni comuni per dare un impulso positivo al processo di privatizzazione e smussare le previste resistenze. Facendosi passare come protettrice dei “beni comuni globali”, ha espulso da boschi e foreste coloro che vi vivevano da generazioni, mentre vi consentiva l’accesso – una volta trasformati in parchi giochi o altre iniziative commerciali – a coloro che potevano pagare, con la giustificazione che il mercato è lo strumento più razionale di conservazione (Isla, 2009). Le Nazioni Unite hanno imposto il loro diritto a gestire i principali ecosistemi mondiali – l’atmosfera, gli oceani e la foresta amazzonica – e aprirli allo sfruttamento commerciale, ancora una volta in nome della preservazione del patrimonio comune dell’umanità.

“Comunitarista” è anche il gergo utilizzato per reclutare lavoro non pagato. Un tipico esempio è il programma “Big Society” del Primo ministro inglese Cameron, che fa appello alle energie delle persone per programmi di volontariato volti a compensare i tagli nei servizi sociali che la sua amministrazione ha introdotto in nome della crisi economica. Rompendo ideologicamente con la tradizione a cui Margaret Thatcher ha dato inizio negli anni ’80, quando proclamava che “Non esiste un qualcosa come la Società”, il programma “The Big Society” indica alle organizzazioni statali (dalle scuole materne, alle biblioteche e le cliniche) di reclutare artisti locali e giovani che, senza essere pagati, siano impiegati in attività che aumentano il “valore sociale”, definita come coesione sociale e soprattutto riduzione dei costi dei servizi sociali. Questo significa che le organizzazioni non-profit che forniscono programmi per i più anziani possono accedere a fondi pubblici se riescono a creare “valore sociale”, misurato in base a specifici fattori aritmetici a vantaggio di una società sostenibile dal punto di vista sociale e ambientale incorporata all’interno dell’economia capitalista (Dowling, 2012). In questo modo, gli sforzi collettivi di costruire solidarietà e forme di esistenza cooperative, fuori dal controllo del mercato, possono essere utilizzati per abbattere i costi di produzione e persino accelerare i licenziamenti nel pubblico impiego.

 

Beni comuni produttori di merci

Un altro tipo di problema per la definizione dei beni comuni anticapitalisti si presenta con l’esistenza di beni comuni che producono per il mercato e sono mossi da “motivi di profitto”. Un classico esempio è costituito da quei prati alpini svizzeri, non recintati, che ogni estate si trasformano in campi da pascolo per mucche, che forniscono latte per la grande industria svizzera casearia. Le assemblee dei produttori di latte, che sono molto cooperative nei loro intenti, gestiscono questi campi. Sicuramente Garret Hardin non avrebbe potuto scrivere il suo “La tragedia dei beni comuni” se avesse studiato come il formaggio svizzero arriva al suo frigorifero (Netting, 1981).

Un altro esempio spesso citato di beni comuni che producono per il mercato sono quelli organizzati dai più di mille pescatori di aragoste del Maine, che operano lungo le centinaia di miglia di acque costiere dove milioni di aragoste vivono, si riproducono e muoiono ogni anno. In più di un secolo, i pescatori di aragoste hanno costituito un sistema comunitario di condivisione della pesca delle aragoste sulla base di una divisione concordata della costa in zone separate, gestite da gruppi locali e sulla base di limiti auto-imposti sul numero di aragoste da pescare. Non è sempre stato un processo pacifico. Gli abitanti del Maine si vantano del loro vigoroso individualismo e gli accordi tra i differenti gruppi sono stati talvolta infranti. Sono scoppiati casi di violenza nella competizione per espandere le zone assegnate o infrangere i limiti di pesca. Ma i pescatori hanno presto imparato che queste lotte finivano per distruggere la riserva disponibile di aragoste e hanno ripristinato in tempo il regime comunitario (Woodward, 2004).

Persino il dipartimento statale della pesca del Maine, ora riconosce questa pratica di pesca comunitaria, ritenuta per decenni illegale perché violava le norme antitrust (Caffentzis, 2012). Uno dei motivi di questo cambio di rotta nell’atteggiamento ufficiale è stato il contrasto tra lo stato dell’industria ittica di aragoste rispetto a quello della “pesca di profondità” (es: la pesca di merluzzo, asinello, platessa e altre specie simili) effettuata nel Golfo del Maine e a Georges Bank dove il golfo si va a unire con l’oceano. Mentre nell’ultimo quarto di secolo i primi sono riusciti a costruire un sistema sostenibile e a mantenerlo (anche durante i più gravi periodi di recessione economica), a partire dagli anni ’90, una specie dopo l’altra di pesci da fondo sono stati periodicamente oggetto di pesca eccessiva, portando ogni volta all’ufficiale chiusura per anni della Georges Bank. (Woodward, 2004).

Al cuore del problema ci sono le differenze di tecnologie utilizzate per la pesca di profondità e quella delle aragoste e, soprattutto, la differenza delle aree in cui avviene la caccia. La pesca delle aragoste ha il vantaggio di avere la propria risorsa comune vicino alla costa e all’interno delle acque territoriali statali. Ciò rende possibile demarcare le zone per i gruppi locali, mentre le acque profonde della Georges Bank sono difficilmente soggette a ripartizione. Il fatto che la Georges Bank si trovi al di fuori del limite delle venti miglia nautiche ha comportato che venisse consentita la pesca anche a esterni, che utilizzano grandi pescherecci, fino al 1977 quando i limiti territoriali arrivavano fino alle duecento miglia nautiche. Prima del 1977 non era possibile tenere fuori i grandi pescherecci, contribuendo così in modo sostanziale a un depauperamento del pescato. Infine, la tecnologia alquanto arcaica utilizzata in modo uniforme dai pescatori di aragoste, scoraggia la concorrenza.

Di contro, a partire dai primi anni ’90, i “miglioramenti” nella tecnologia della pesca di profondità – “migliori” reti e equipaggiamento elettronico capace di individuare i pesci in modo più “efficace” – hanno portato al caos l’industria, organizzata sul principio del libero accesso (“fatti una barca e potrai pescare”). La disponibilità di una tecnologia di localizzazione e cattura più avanzata ed economica, si è scontrata con l’organizzazione concorrenziale dell’industria governata dal motto: “tutti contro tutti e la Natura contro ognuno”, che chiude “La tragedia dei beni comuni” che Hardin immaginò nel 1968. Questa contraddizione non è specifica solo della pesca di profondità del Maine, ma ha afflitto diverse comunità di pescatori del mondo, che ora si ritrovano sempre più scalzati dall’industrializzazione della pesca e dalla potenza dei grandi pescherecci, le cui reti da strascico svuotano gli oceani (Dalla Costa, 2005). I pescatori di Newfoundland hanno dovuto affrontare una situazione simile a quella di Georges Bank, con disastrose conseguenze per la vita delle loro comunità.

Finora i pescatori di aragoste del Maine sono stati considerati un’eccezione inoffensiva che conferma la regola neoliberista per cui i beni comuni possono sopravvivere solo in particolari e limitate circostanze. Guardando, però, attraverso le lenti della lotta di classe, il caso delle aragoste del Maine presenta elementi anticapitalisti in quanto comporta il controllo da parte dei lavoratori di alcune importanti decisioni concernenti il processo lavorativo e i suoi risultati. Questa esperienza, poi, costituisce un’inestimabile banco di prova, fornendo esempi di come anche beni comuni su larga scala possano funzionare. Allo stesso tempo, il destino delle “aragoste bene comune” è ancora condizionato dal mercato del pesce internazionale all’interno del quale è inserito. Se il mercato americano crolla o lo stato dovesse consentire le perforazioni off-shore per il petrolio nel Golfo del Maine, essi verrebbero spazzati via. Le aragoste del Maine, pertanto, per noi non possono rappresentare un modello di beni comuni.

 

I beni comuni come “terzo settore”: una coesistenza pacifica?

Mentre i beni comuni per il mercato possono essere visti come le vestigia di vecchie forme di lavoro cooperativo, un crescente interesse per i beni comuni viene anche da un’ampia fascia di forze social democratiche che sono preoccupate dell’estremismo del sistema neoliberista e/o riconoscono i vantaggi di relazioni comunitarie per la riproduzione della vita quotidiana. In questo contesto, i beni comuni appaiono come un possibile “terzo” spazio che si colloca a fianco e allo stesso livello di stato e mercato. Come hanno detto David Boiller e Burnes Weston nella loro discussione sulla “green governance”: “L’obiettivo generale deve essere la riconcettualizzazione del modello neoliberista Stato/Mercato come una “triarchia” – Stato/Mercato/Beni comuni – in cui i Beni comuni ridefiniscono l’autorità e forniscono modalità nuove e più vantaggiose. Lo stato dovrebbe mantenere i propri impegni di governo rappresentativo e nella gestione della proprietà pubblica proprio come le imprese private dovrebbero continuare a detenere il capitale per produrre beni vendibili e servizi nel settore di mercato” (Bollier and Weston, 2012, p. 350).

Sulla stessa linea, molti gruppi, organizzazioni e intellettuali guardano oggi ai beni comuni come una fonte di sicurezza, socialità e potere economico. Tra questi gruppi vi sono quelli dei consumatori che credono che la “messa in comune” possa fargli ottenere migliori termini di acquisti, così come gli acquirenti di case che, insieme all’acquisto dell’immobile, cercano una comunità come garanzia di sicurezza e una più vasta gamma di possibilità per quanto riguarda lo spazio e le attività previsti. Anche molti orti urbani rientrano in questa categoria, visto il crescente desiderio di cibo fresco e di cui se ne conoscano le origini. Anche le residenze assistenziali possono essere considerate come forme di beni comuni. Tutte queste istituzioni sicuramente parlano per legittimare i propri desideri. Ma il limite e pericolo di tali iniziative risiede nel fatto che esse possono facilmente generare nuove forme di recinzioni, dal momento che questi beni comuni sono costruiti sulla base dell’omogeneità tra tutti i suoi membri, producendo spesso delle comunità chiuse, che forniscono protezione dagli “altri”, che è l’opposto di quello che per noi deve essere il principio di base dei beni comuni.

 

Ridefinire i beni comuni

Cosa qualifica allora i “beni comuni anticapitalisti”? In contrasto con gli esempi sopra riportati, i beni comuni che noi vogliamo costruire hanno l’obiettivo di trasformare le nostre relazioni sociali e creare un’alternativa al capitalismo. Non sono intesi solo a fornire servizi sociali o ad agire come tampone contro l’impatto distruttivo del neoliberismo, e sono molto di più di una gestione comune delle risorse. In sintesi, non sono un passaggio verso un capitalismo dal volto umano. O divengono strumento di creazione di società egualitarie e cooperative oppure rischiano di allargare ancor più le differenze sociali, creando un rifugio per coloro che possono permetterseli e possono pertanto più facilmente ignorare la miseria da cui sono circondati.

I beni comuni anticapitalisti, pertanto, devono essere concepiti come spazi autonomi da cui reclamare un controllo sulle condizioni di riproduzione, e come base da cui contrastare il processo di recinzione e liberare sempre più le nostre vite dalla morsa dello stato e del mercato. Per questo essi differiscono da quelli proposti dalla scuola della Ostrom, in cui i beni comuni vengono immaginati in una relazione di coesistenza con il pubblico e il privato. Idealmente, essi incarnano la visione a cui marxisti e anarchici hanno aspirato ma che hanno fallito nel realizzare: quella di una società costituita da “libere associazioni di produttori”, autogestiti e organizzata in modo tale da assicurare non un’astratta uguaglianza ma la piena soddisfazione dei bisogni e dei desideri delle persone. Oggi vediamo solo i frammenti di questo mondo (nello stesso modo in cui nell’Europa tardo-medioevale possano aver visto solo frammenti di capitalismo), ma i beni comuni che costruiamo possono già consentirci di ottenere più potere rispetto al capitale e lo stato ed embrionicamente prefigurano un nuovo modello di produzione, non più costruita sul principio della competizione, ma su quello della solidarietà collettiva.

Come possiamo raggiungere questo scopo? Una risposta a tale domanda può essere individuata in una serie di criteri, tenendo però conto che in un mondo dominato da relazioni capitaliste, i beni comuni che creiamo sono necessariamente delle forme di transizione.

i. I beni comuni non sono dati, ma conquistati (N.d.T.: nel testo originale è scritto “prodotti”, ma qui preferiamo riportare la dicitura usata nei movimenti di lotta per i beni comuni in Italia). Anche se diciamo che i beni comuni sono intorno a noi – l’aria che respiriamo e le lingue che parliamo possono essere degli esempi chiave di ricchezze condivise – è solo attraverso la cooperazione nella pratica delle nostre vite che possiamo crearli. Questo perché i beni comuni non sono essenzialmente materiali ma sono relazioni sociali, pratiche sociali costitutive. Ecco perché parliamo di “messa in comune” o “comune”: è proprio per sottolineare il carattere relazionale di questa pratica politica (Linebaugh, 2008). Tuttavia, i beni comuni posso garantire la riproduzione delle nostre vite. L’esclusiva dipendenza da beni comuni “immateriali”, come internet, non posso riuscire nello scopo. Sistemi idrici, terre, foreste, spiagge, così come le varie forme di spazio urbano, sono indispensabili alla nostra sopravvivenza. Anche qui ciò che conta è la natura collettiva del lavoro di riproduzione e i mezzi di riproduzione coinvolti.

ii. Per garantire la nostra riproduzione i “beni comuni” devono comportare “benessere comune”, nella forma di risorse naturali o sociali condivise: terre, foreste, acqua, spazi urbani, sistemi di conoscenza e comunicazione, devono tutte essere utilizzate non a scopo commerciale. Noi usiamo spesso il concetto di “beni comuni” in riferimento a una gran varietà di “beni pubblici” che nel tempo abbiamo imparato a considerare come “nostri”, come il sistema pensionistico, quello sanitario, l’istruzione. Tuttavia, c’è una cruciale differenza tra i beni comuni e il pubblico, dal momento che il secondo è gestito dallo stato e fuori dal nostro controllo. Questo non significa che non dobbiamo preoccuparci della difesa dei beni pubblici. Il pubblico è il luogo in cui risiede gran parte del nostro lavoro ed è nel nostro interesse che le imprese private non vi mettano le mani sopra. Ma ai fini della lotta per i beni comuni anticapitalisti, è fondamentale che non perdiamo di vista la distinzione.

iii. Una delle sfide che oggigiorno dobbiamo affrontare è di connettere le lotte per la difesa del pubblico con la costruzione dei beni comuni, in modo da rafforzarsi l’un l’altra. Questo è più che non un semplice imperativo ideologico. Lo ribadiamo: ciò che noi chiamiamo “pubblico” in realtà è costituito da ricchezze che abbiamo prodotto noi e per questo ce ne dobbiamo riappropriare. È anche evidente come la lotta dei lavoratori pubblici non può avere successo senza il supporto della “collettività”. Al tempo stesso, la loro esperienza ci può aiutare a ricostruire il nostro modello di riproduzione, decidendo (ad esempio) cosa costituisce un “buon servizio sanitario”, di che tipo di conoscenze abbiamo bisogno e così via. Di nuovo, è molto importante mantenere una distinzione tra pubblico e comune, perché il pubblico è un’istituzione statale che prevede l’esistenza di una sfera di economia privata e relazioni sociali su cui noi non abbiamo il controllo.

iv. I beni comuni presuppongono una comunità di riferimento. Questa comunità non può essere selezionata su base di privilegi identitari ma sulla base del lavoro di cura svolto nella riproduzione dei beni comuni e nella rigenerazione di quanto ad essi sottratto. I beni comuni, infatti, implicano obblighi tanto quanto diritti. Pertanto, il principio di fondo deve essere che coloro che appartengono ai beni comuni contribuiscano al loro mantenimento: ecco perché (come abbiamo visto) non possiamo parlare di “beni comuni globali”, poiché questi prevederebbero l’esistenza di una collettività globale che oggigiorno non esiste e forse non esisterà mai, poiché non pensiamo sia possibile o desiderabile. Pertanto, quando diciamo “Non vi sono beni comuni senza comunità” pensiamo a come una specifica comunità si crea nella produzione di relazioni attraverso cui uno specifico bene comune nasce e si mantiene.

v. I beni comuni richiedono regole che stabiliscano come le ricchezze condivise devono essere utilizzate e amministrate, posto che i principi di organizzazione devono essere un equo accesso, la reciprocità tra quanto dato e quanto ricevuto, processi decisionali collettivi e forme di potere dal basso, derivato da abilità verificate e da una rotazione a seconda degli incarichi da svolgere.

vi. Equo accesso ai mezzi di (ri)produzione e processo decisionale egualitario devono essere alla base dei beni comuni. È necessario insistere su questo punto perché storicamente i beni comuni non sono stati ottimi esempi di relazioni egualitarie. Al contrario, sono spesso stati organizzati in modo patriarcale, rendendo le donne sospette di comunitarismo. Anche oggi, molti beni comuni esistenti, discriminano sulla base dei generi. In Africa, la terra disponibile è sempre meno e per questo sono state introdotte delle regole per proibirvi l’accesso a coloro che non appartengono per origine al clan. Ma in questi casi, le relazioni non egualitarie costituiscono la fine dei beni comuni, dal momento che generano diseguaglianze, gelosie e divisioni, fornendo la tentazione per alcuni comunardi di cooperare con i privati.

 

Conclusioni

In conclusione, i beni comuni non sono solo un mezzo attraverso cui possiamo condividere in modo egualitario le risorse che produciamo, ma un impegno nella creazione di soggetti collettivi, nel perseguire interessi comuni in ogni aspetto della nostra vita. I beni comuni anticapitalisti non sono il punto finale della lotta nella costruzione di un mondo anticapitalista, ma il suo strumento, perché nessuna lotta può avere successo nel cambiare il mondo se non organizziamo la nostra riproduzione in modo comunitario e non ci limitiamo a condividere lo spazio e il tempo delle assemblee e delle manifestazioni, ma mettendo le nostre vite in comune (leggi anche Mettiamo in comune di John Holloway, ndr), organizzate sulla base dei nostri diversi bisogni e possibilità, e rigettando ogni principio di esclusione o gerarchizzazione.

 

Ringraziamenti
Gli autori desiderano ringraziare Upping the Anti: a Journal of Theory and Action per il permesso concesso nella riproduzione di questo articolo che è apparso per la prima volta sul numero15 (Sept. 2013), pp. 83–97, del giornale, e poi su diversi siti tra cui http://cdj.oxfordjournals.org (con il titolo Commons against and beyond capitalism). La pubblicazione su Comune è stata autorizzata da George Caffentzis (traduzione di Virginia Benvenuti).
* Docente univeristario di filosofia negli Stati uniti, autore di molti articoli e libri tradotti in diverse lingue (tra cui La guerra dei mondi. Scenari d’Occidente dopo le Twin Towers, scritto con Jean Baudrillard e Jeremy Brecher per DeriveApprodi), George Caffentzis è tra i fondatori di Midnight Notes Collective. Silvia Federici, nata a Parma nel 1942, ha insegnato a lungo in Nigeria ed è docente di filosofia politica negli Usa: punto di riferimento per il movimento femminista statunitense e di molti altri paesi del mondo è autrice di numerosi saggi sulla teoria femminista e sulla globalizzazione. Con Caffentzis e molti altri e altre, Silvia Federici condivide il suo impegno nell’area marxista dell’autonomia.
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