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manifesto

Pagine partigiane per indagare il nuovo capitalismo

Benedetto Vecchi

Che fare? Una radicale innovazione è l'unico strumento per salvaguardare l'autorevolezza

jolly culturaLa lettera di Marcello Cini a proposito delle pagine culturali (sul manifesto di ieri) pone problemi di grande rilevanza. Cini scrive che c'è stato un cambiamento di rotta della sezione «cultura» di questo giornale. Ha ragione. Proverò a spiegare come questo cambiamento sia dovuto a un principio di realtà e non a un esecrabile mutamento genetico. Rispetto al periodo cui Cini fa riferimento il mondo è cambiato e gli elementi di discontinuità prevalgono nettamente su quelli di continuità. Questa trasformazione aveva bisogno di essere analizzata e compresa, ed è quanto le pagine culturali del manifesto hanno cercato di fare, partendo dalla convinzione che i paradigmi acquisiti erano diventati armi spuntate. Chi ha lavorato alle pagine culturali ha infatti spesso puntato con caparbietà a creare uno spazio pubblico di discussione dove la posta in gioco non fosse la flebile difesa di un punto di vista che mostrava i tratti di una vuota ripetizione del già noto. Semmai, l'obiettivo, talvolta tacito, spesso esplicitato, era di contribuire a formare un forte punto di vista sul presente. La necessità di una radicale innovazione teorica è stata considerata l'unico strumento per salvaguardare l'autorevolezza del manifesto. In questo le nostre sono state e sono pagine «partigiane».

Questo è stato il clima che ho respirato da quando, nel 1988, ho cominciato a lavorare a queste pagine. In quasi venti anni, insieme a tanti altri abbiamo parlato dei cambiamenti del mondo del lavoro, della produzione e circolazione del sapere, del rapporto tra scienza e società, delle caratteristiche della «rivoluzione del silicio», del profilarsi all'orizzonte, e poi dell'affermarsi, della riproduzione tecnica della vita. Senza dimenticare che una sezione «cultura» deve registrare e selezionare quanto propone il contesto culturale, dagli scrittori che emergono nel panorama editoriale ai saggi che vengono a mano a mano pubblicati.

 

Ma la domanda da porsi è: siamo riusciti a produrre un punto di vista forte, innovativo sul capitalismo contemporaneo? Io penso che abbiamo accumulato un bel po' di materiali in questa direzione. Non c'è stata dunque nessuna deviazione dalla retta via, quanto l'accettazione di una sfida che carsicamente si pone al giornale: quale manifesto per i prossimi decenni?

Ma veniamo ai punti «caldi» dell'intervento di Cini. Pagine eclettiche per nascondere una visione tradizionale della pratica culturale? Più che eclettiche, ribadisco: pagine partigiane, di chi ritiene necessaria una presa di congedo dalle culture politiche del movimento operaio, senza per questo approdare né a visioni romantiche sull'emergere di una nuova figura militante individuata nel volontario, né alle sciocchezze del fare società. Credo che l'uso inflattivo del termine postfordismo fatto in anni passati alludesse non tanto al tramonto del conflitto tra capitale e lavoro, ma al fatto che in quel rapporto conflittuale si rifletteva un mutamento - questo sì radicale - nella prestazione lavorativa. Sempre più è il cervello la materia prima non solo nella prestazione lavorativa ma dei rapporti sociali capitalistici. E sarebbe spia di miseria intellettuale affermare che siccome aumentano i salariati classici nel resto del mondo tutto è rimasto uguale. Questo mutamento qualitativo nella prestazione lavorativa ha come contraltare l'aumento dello sfruttamento, un governo autoritario del mercato del lavoro, di cui la precarietà è la spia più evidente e drammatica. In questo occorreva capire come ciò si riflettesse sulla produzione scientifica. Da qui la richiesta a diversi collaboratori di intervenire sul venire meno del confine tra ricerca di base e applicata, con il predominio della seconda sulla prima. Abbiamo inoltre svolto inchieste sulla ricerca scientifica in Italia, mettendo al centro la dismissione dello stato in questo settore e la crescente precarietà dei rapporti di lavoro: fenomeni intrecciati, ma che hanno nelle università riconsegnato il potere nelle mani dei baroni, senza però che ci fosse l'equivalente supporto finanziario. Su questa «miseria della condizione universitaria» varrebbe la pena di scrivere un pamphlet.

Arriviamo al rapporto tra la ragione e la fede. Il riferimento all'articolo sul papa ha colpito un nervo scoperto non delle pagine culturali, ma del manifesto tutto. Spesso la critica al fondamentalismo di Woytila prima e di Ratzinger ora ha coinciso con un ritorno ai fondamenti dell'illuminismo, mettendo sullo sfondo la «dialettica dell'illuminismo» di adorniana memoria, ma anche l'elaborazione di quei marxismi eterodossi che hanno costituito il marchio di fabbrica del manifesto.

Pagine ondivaghe, nostalgiche di una divisione tradizionale del sapere? Non credo proprio. Semmai, rispetto al pieno che io vedo, manca sempre un qualcosa. Per me il qualcosa che manca si riassume in questo: a quale nuova interrogazione della realtà le pagine culturali sono chiamate? Detto più semplicemente: il manifesto tutto è chiamato a rispondere a una vecchia domanda, tuttavia cruciale quando si è di fronte a una situazione che chiede di non fermarsi al già noto: che fare? La globalizzazione è la realtà data, il postfordismo ha vinto, la produzione culturale vive di una specializzazione flessibile che ha nel piccolo schermo la sua riduzione a rumore di fondo. Inoltre, negli ultimi tempi sono usciti libri che insistono su concetti di bio-capitale, bio-economia, individuando nella «nuda vita» il punto da cui partire per indagare il capitalismo così come è diventato. Non è solo il risultato della mercificazione della vita attraverso la mappatura del genoma, ma un cambiamento di fondo del capitalismo. Il manifesto dovrebbe decisamente indirizzare la sua prua verso quella direzione.

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