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"I misteri della sinistra" di Michéa

di Alessandro Visalli

Jean-Claude Michéa, “I misteri della sinistra. Dall’ideale illuminista al trionfo del capitalismo assoluto”

mantegna san sebastiano 1478 80 smallIl piccolo libro del filosofo francese Jean-Claude Michéa è di quelli che disturbano le nostre abitudini e ci costringono a riconsiderare il nostro modo di vedere il mondo. La tesi è chiara e semplice: il movimento socialista non è, e non è mai stato “di sinistra”.

Prima di spiegare a cosa si riferisca Michéa in particolare consideriamo un poco di quadro: con alcune letture, come l’ultima, di Honneth che riflette sulla crisi dell’idea di “socialismo” nella sua evoluzione storica, arrivando a proporne una integrale riscrittura in direzione più comunitaria, o di Richard Sennett, in “Insieme”, che pone il tema della socialità e dell’esistenza di “due sinistre” nello sviluppo del movimento del socialismo, o, ancora, di Leonardo Paggi e Massimo d’Angelillo, che su un piano più storico e più limitato tematicamente e geograficamente si interrogano sulle ragioni della crisi dell’ideale socialista nel caso italiano, e con il largo quadro interpretativo fornito da Karl Polanyi, per restare solo ad alcuni nodi di discorso recentemente mobilitati, abbiamo cercato di avviare una riflessione sulla questione del senso del movimento socialista in una chiave prevalentemente di riflessione retrospettiva. Ci sono alcune letture di cui nell’immediato sarà dato conto e confluiscono in questo campo problematico, sono: il libro di Barba e Pivetti, “La scomparsa della sinistra in Europa”, un aggressivo atto di accusa al repentino piegarsi alle ragioni ed alla forza del liberismo da parte dei movimenti socialdemocratici europei e delle loro cause; il libro-testamento di Bruno Trentin, “La città del lavoro”, in cui con toni anche autocritici vengono ripercorsi alcuni scivolamenti nella fase che va dagli anni settanta ai novanta in Italia e riletti in questo senso anche classici come Antonio Gramsci, rintracciandone insufficienze e debolezze di analisi; la proposta pragmatista di Richard Rorty, in “Una sinistra per il prossimo secolo”, che pur datato come si vede bene dal titolo, conserva degli spunti di riflessione.

Da questo nodo di lettura proveremo, in seguito, ad enucleare alcune questioni su cui avviare una riflessione più ordinata, è probabile che emerga l’urgenza di risistemare alcuni concetti sparsi, e letture, sul tema dell’individuo e della comunità. Per diversi aspetti nodali nella definizione del campo d’azione e della logica distintiva di ogni possibile “socialismo”.

Propongo di farlo rileggendo, da una parte, l’ormai lungo e per certi verso stanco, ma sempre riemergente dibattito tra “liberali” e “repubblicani” (o “comunitaristi”, come in prima fase si etichettavano) in ambito anglosassone, alcuni autori sono MacInthyre, Sandel, Walzer, Taylor, ma anche Robert Putnam e Robert Bellah. Il campo disciplinare è filosofia politica.

D’altra parte bisognerà leggere ancora Sennett (“L’uomo artigiano” e “Lo straniero”), rileggere Hannah Arendt (almeno “Vita activa”) farci avvisare da Merker sui rischi di alcune accezioni di “populismo”, e riandare ad alcuni testi storici, come Durkheim, probabilmente alcuni parti di Dewey, ed alcune parti della costruzione della posizione avversa, come Banfield (“Le basi morali di una società arretrata”), Hayek (almeno “La via della schiavitù”), Ropke (“Al di là dell’offerta e della domanda”) senza dimenticare una sempre difficile lettura di Rawls, che ha una posizione in qualche modo mediana. Probabilmente varrà la pena di leggere anche Foucault (“Nascita della biopolitica”) chiamato aggressivamente in campo da Barba e Pivetti, come vedremo.

Questo è il programma. Bisognerà a tutta evidenza avere pazienza perché ci vorrà un poco di tempo, ma bisogna cercare di chiarirsi a cosa si pensa, pur nella varietà e dispersione inevitabile di temi e angoli di lettura, quando si nominano termini chiave per pensare come “individuo”. Oppure quando si riferisce la propria azione a “comunità”.

La ‘questione del socialismo’ muove da qui.

Ora, su un primo piano la tesi di Michéa è molto semplice e facile da concedere: il socialismo non è il liberalesimo. Cioè storicamente il termine “sinistra”, nella Francia di cui parla, intendeva il liberalismo radicale di provenienza rivoluzionaria, più o meno passato al setaccio dei movimenti ('20, '30, '48) dell'ottocento. Da un certo punto in poi, ben dopo Marx, liberalesimo più o meno radicale e socialismo diventano alleati contro nemici comuni (la reazione ed il tradizionalismo), in sostanza dall'epoca dello “affaire Dreyfus”, ma non coincidono mai. Una tesi quindi precisa, limitata, ma da tenere sempre presente. Un altro autore rilevante che ci riflette tempestivamente è il Durkheim delle famose elezioni del 1896, di cui parla Honneth in “Il diritto della libertà”, che a suo tempo leggeremo.

Per Michéa, tenendo a mente il punto, occorre anche considerare che la destra, contro la quale si saldò l’alleanza tra liberali e socialisti, è oggi cambiata. Nel primo ottocento e poi via via in modo sempre più residuale, essa era organizzata dalla difesa delle strutture semifeudali dell’antico regime, ma da allora si è vestita di altre vesti. Possono ad una prima impressione sembrare quelle degli “alleati”, di qui la confusione in chi viene dalla tradizione socialista: essa si affida oggi al mito del progresso, rappresentato dalla crescita economica illimitata e auto programmata, alle pratiche proprie delle forme più rapaci di individualismo.

Dall’altra parte, la “sinistra” finisce per rappresentare gli eredi di troppe tradizioni diverse. La cosa non ha mai fatto grande problema fino a che l’etichetta unificava sotto una sola bandiera forze che in comune avevano l’obiettivo di far cadere la reazione precapitalistica. Fino a che è sembrato che lo “spirito del capitalismo” (sul quale abbiamo compiuto il precedente ciclo di letture, da “Scritti corsari” di Pasolini, a “La grande trasformazione”, di Polanyi, alle conferenze di Sombart del 1932, l’Hirschmann di “Passioni ed interessi”, Braudel di “La dinamica del capitalismo”, ovviamente il Max Weber di “L’etica protestante”, Luigino Bruni, “Il mercato e il dono”, Sombart, “Il capitalismo moderno”) procedesse alla liberazione delle forze represse nelle forme sociali feudali, e dunque potesse essere ascritto complessivamente sotto il segno della modernizzazione questa alleanza ha avuto corso. In una complessa relazione, che ha attraversato ottocento e novecento, socialismo e liberalesimo si sono quindi intrecciate nell’agenda riformista. Anche quelle forze che spingevano per un radicale superamento del capitalismo partivano comunque dal riconoscimento del suo ruolo progressivo rispetto alla reazione.

Michéa riconosce questo ruolo, ma lo considera superato. Oggi l’agenda dovrebbe essere di mobilitarsi, come dice: “contro un società capitalistica ormai pienamente moderna i cui poteri di seduzione e manipolazione sono cresciuti in modo smisurato” (p.14). Se questo fosse, allora (è il suo punto): “sono giunto a pensare che il nome di sinistra non è oggi più in grado di svolgere efficacemente questa funzione”. Quando infatti si tratta di mobilitare quella che chiama “l’immensa maggioranza delle classi del popolo”, contro una società capitalista ormai moderna, l’etichetta di “sinistra” è troppo “divisoria”. Su un piano di semplicità, insomma, invita ad andare in modo radicalmente diverso “oltre la destra e la sinistra”, evidentemente verso uno schema “alto/basso”.

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Non vorrei prendere qui questo spunto, che necessita di ben altre valutazioni e più propriamente politiche, ma seguire il flusso principale dell’argomentazione. Teniamo quindi fermo il suo “forse” che mette davanti allo “inutilmente divisorio”.

La cosa si può vedere secondo una semplice descrizione: questa modernità contemporanea, verso la quale occorre mobilitare le forze, ha il segno di un continuo sradicare e rendere flessibili. Cioè fare mobili. È un poco la tesi, con tutt’altri materiali di “Espulsioni”, di Saskia Sassen. Questo rendere costantemente “mobili” e dunque sradicare, è il segno di quella che Michéa, evidentemente senza timore di essere annoverato nella schiera dei conservatori, identifica con una permanente “rivoluzione culturale”, che, lontana dall’essere una versione post’68 dello slogan di Mao, ha il segno della moda. ‘Progresso’, ‘modernità’, sono diventate in questo contesto potente parole che servono a smontare ciò che permane, che è sacro, e disciogliere le eredità, le Costituzioni, in quella che Marx chiamava “le gelide acque del calcolo egoista”, come scrive l’autore ne “Il complesso di Orfeo”.

Ma come si verifica il fatto storico per il quale, ad un certo punto, i movimenti socialisti e quelli della borghesia “illuminata” di un Thiers (che nel maggio 1871 reprimerà nel sangue il movimento, egemonizzato dai residui giacobini, ma esaltato da Marx in alcune delle sue più decisive opere nel creare il mito della “rivoluzione”, della Comune di Parigi) o di Benjamin Constant, Frédéric Bastiat, si trovano uniti sotto le stesse bandiere in una difesa repubblicana contro la reazione? E, da allora, affinano un’alleanza di fatto? Il punto per l’autore è che Jaurès e Guesde, i leader socialisti, si risolvono, dopo molte esitazioni, ad intervenire in quella che inizialmente vedevano come una “guerra civile borghese”, perché la destra monarchica e clericale, intorno all’Affaire Dreyfus, si stavano compattando in un attacco generale alle libertà conquistate. Questa alleanza ha finito per diventare un’identificazione.

C’è un atro libro che leggeremo, quello di Aldo Barba e di Massimo Pivetti, che sostiene la relazione causale tra la rapida conversione della sinistra, dagli anni settanta ad ottanta, plasticamente rappresentata dalla svolta a U condotta da Mitterrand (di cui avevamo parlato qui) nel 1982-3, e l’irresistibile emergere della globalizzazione liberista. Cioè di quel clima politico ed economico di acritica esaltazione della competitività, del progresso come mobilitazione, e della crescita quantitativa che è profondamente problematica rispetto alla ispirazione comunitaria del socialismo (cfr Honneth, ad esempio). Leggeremo anche l’ultimo libro di Bruno Trentin in cui il tema è trattato per certi versi in modo sorprendente.

La metafisica del ‘progresso’ che definisce un senso alla storia, è allora quella che incorpora il piano di alleanza più profondo tra le due formazioni ideali; Michéa lo qualifica come “lo zoccolo duro di tutte le concezioni borghesi del mondo”, ed ovviamente lo è. Ma non manca di avere profonde radici anche in buona parte del movimento socialista (tradendone l’origine borghese di tutti suoi esponenti principali), di sua sponte, e in Marx (come Honneth convincentemente documenta). Questo “operatore filosofico” si irrigidisce poi nelle opera di Plekhanov o di Kautsky (il vecchio segretario di Engels che Marx trovava appunto “dottrinario”) e, rinforzando la sua matrice positivista e scientista, conduce a quegli esiti aporetici che sia Honneth come Trentin denunciano. Le idee che costituiscono il ponte e che si trovano oggi trasfigurate ma incardinate profondamente nella versione “di sinistra” del liberismo, sono che il “metodo di produzione capitalista” (cioè, nella versione novecentesca, il fordismo ed il taylorismo, oggi il postfordismo della flessibilizzazione e mobilitazione di ogni risorsa) sia sempre nella sostanza una forma della ragione, e dunque una “tappa storicamente necessaria” verso il pieno dispiegarsi di qualsiasi, futura, società liberata. Insisterà molto su questo punto l’ultimo Trentin, questa forma di filosofia della storia prende la forma dell’industrialismo e dell’organizzazione scientifica del lavoro, con esiti intrinsecamente autoritari. Ma anche tracima verso il mito della crescita illimitata, e della portata emancipante della tecnologia (per esempio una versione particolarmente semplice ed indicativa si trova in questo pamplet di Chicco Testa).

Passa in secondo piano allora la critica, pur così presente nel primo Marx, ed in diverse correnti proto socialiste, della reificazione dell’uomo nei processi produttivi. E passa in secondo piano, e svalutata, la resistenza delle classi medie, cosiddette “piccolo borghesi” che restano ancorate alle loro piccole proprietà, ai mestieri, a quello spirito artigiano di cui parlerà Sennett nel libro che leggeremo (o Hannah Arendt). E viene in primo piano la “classe centrale”, motore della storia, il cui tramonto relativo funzionerà come una confutazione decisiva nella logica semplice del marxismo popolare e ‘volgare’. Ma anche, da ultimo, quella profezia di ineluttabile fine del capitalismo, che ogni tanto risale (in termini molto mutati, ad esempio, in Paul Mason), e che anch’essa è imputata di falsificazione.

La “sinistra” finisce per avere così un tratto fisiognomico inconfondibile: per essa ogni passo “avanti”, lungo la direzione di una crescita quantitativa dei beni e dello sviluppo della tecnologia secondo la sua propria logica, è “per definizione un passo nella giusta direzione” (p.27). Ne consegue che la direzione della Storia è comunque apprendimento ed emancipazione, per essa anche quelle larghe vicende storiche come il processo di unificazione europeo (abbiamo cercato di rileggere in parte in questa chiave problematica le tracce, persino in autori densi e consapevoli come Habermas, di questa radicata idea in “La costruzione dell’Europa come sentiero di progresso”). La potenza, nella semantica della sinistra, dell’accusa di essere “conservatori” nasce da qui.

Ma anche nasce la visione dell’emancipazione come rottura e liberazione da ogni vincolo, in primo luogo comunitario. In quella che Honneth in “Teoria della libertà”, caratterizzerà in modo convincente come una parziale ed insufficiente libertà solo “negativa”, da oltrepassare sia in senso “riflessivo” (è libero ciò che effettivamente scelgo senza essere costretto neppure da passioni e costrizioni acquisite) sulla scorta delle lunghe riflessioni in questo senso (da Aristotele alle riprese di Rousseau e dello stesso Kant) sia e più profondamente dalla “libertà sociale” (sono libero solo quando mi oriento verso l’altro e insieme sosteniamo i reciproci piani d’azione). Ecco che una emancipazione come libertà di essere solo, in concorrenza con tutti gli altri, invece attiva inevitabilmente forme di schiacciamento dell’altro, di mancato riconoscimento come persona e di riduzione ad oggetto, a strumento, e di potenziamento delle ineguaglianze. Insomma ci porta all’oggi.

Andremo a leggere questa faglia in profondità, attraverso le mirate letture di filosofia politica, per saggiarne i confini, ma giova ora restare su Michéa: le conseguenze che trae da questa caratterizzazione, certo un poco schematica, l’autore è che “nessun liberale autentico – ovvero nessun liberale psicologicamente capace di accettare tutte le implicazioni logiche delle sue convinzioni – potrà mai ritrovarsi in un’altra ‘patria’ (se con tale nome ormai demonizzato s’intende ogni primaria struttura di appartenenza che –come la famiglia, il paese di origine, o la lingua madre- non può derivare, per definizione dalla libera scelta degli individui) che non sia quella ormai costituita dal mercato globale senza frontiere” (p.31).

I liberali sono, cioè, naturaliter cosmopoliti.

È chiaro che non bisogna andare neppure eccessivamente nell’altra direzione (un esempio di sforzo di bilanciare i temi è in Bauman, ad esempio qui), ma il “cosmopolitismo borghese”, contrapposto al “internazionalismo proletario” è un tema certo non nuovo alla cultura socialista.

Si tratterebbe allora di assumere fino in fondo questa logica di liberazione attraverso la riflessione, e “pensare con gli illuministi contro gli illuministi”. Oppure, come propone Honnet, non a caso a partire da una rilettura di Hegel, di andare ad un’attuazione radicale in direzione di quella “fraternità” che è in posizione dialettica con la “libertà”, se ben intesa.

È per questo che, in modo molto più profondo di quanto possa sembrare, se non si riflette su questo nodo e si resta inviluppati nella logica ferrea dell’emancipazione liberale come modernizzazione, l’astratto individualismo porta a posizioni incompatibili con qualunque nozione di confine o di “identità nazionale”, quindi di attaccamento, volontà di conservare relazioni. Anche da qui, se non principalmente da qui, nasce il particolare internazionalismo cosmopolita intrinsecamente mercatista e quindi orientato alla competizione che caratterizza ogni liberalismo pienamente sviluppato. Ovvero ogni liberalismo reale.

La conclusione di Michéa è prettamente politica: accettando questa analisi, ne deriva che il ‘significante principale’ intorno al quale schierare un fronte avverso al selvaggio liberalismo trionfante dei nostri tempi non può limitarsi alla “sinistra”, ma deve riprendere quelle che chiama “bandiere a priori” molto più larghe ed unificanti. Che abbiano senso per tutte le classi popolari e per i loro alleati. E’ chiaramente la questione del populismo. Occorreranno strumenti intellettuali più precisi per farci i conti (alcuni tentativi con Canfora, Del Savio, Iglesias, Urbinati).

In queste condizioni, determinate dalla dinamica del capitale che forza nella direzione in cui scorre meglio tecnologia e forze della politica, che si avvicinano sempre più ad un “momento Polanyi” (ed a numerosi, seriali “momenti Minsky”) il populismo è destino. Ne è una particolare, bastarda in senso etimologico, versione lo stesso governo italiano attuale. 

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