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sinistra

‘Popolo’ e ‘moltitudine’ nel pensiero politico di Concetto Marchesi

di Eros Barone

bozzetto di saro intelisanoPer situare nella giusta direzione interpretativa un tema come quello del rapporto tra ‘popolo’ e ‘moltitudine’ nel pensiero politico di Marchesi e per penetrare esattamente il significato che questo grande intellettuale comunista attribuisce ai due termini or ora indicati, la ricerca deve prendere le mosse dalla formazione politica e letteraria di Marchesi, fissando con la massima nettezza un punto essenziale: la precedenza che ebbe, nell’itinerario intellettuale di Marchesi, la formazione politica rispetto alla formazione letteraria. Che è poi quanto La Penna, nel suo icastico profilo biografico di Marchesi, ha definito, con espressione non meno precisa che elegante, come l’importanza degli “incunabula catanesi”1 . Nella ricostruzione genetica del significato dei termini ‘popolo’ e ‘moltitudine’ non è possibile prescindere dal mondo storico-culturale in cui essi affondano le loro radici, e questo mondo è quello del carduccianesimo giacobino, alimentato dalla poesia anticonformista e anarchicheggiante di Heine, è quello del tardo romanticismo e della scapigliatura, il cui eroe eponimo era l’intellettuale socialista catanese Mario Rapisardi, poeta di Lucifero e traduttore di Lucrezio, professore nella locale università non solo di letteratura italiana, ma anche di letteratura latina, il quale trasmise al giovane Concetto alcune idee-forza, che si ritroveranno poi nella sua riflessione più matura, come quella dell’opposizione tra l’uomo e il cittadino, come la rivendicazione dell’originalità della letteratura latina rispetto a quella greca ed il binomio costituito dalla congiunta avversione per l’arido filologismo e per il bieco autoritarismo tedeschi. Ma un peso determinante ebbe la partecipazione appassionata del giovane Concetto alle lotte sociali e politiche del movimento popolare e socialista in anni drammatici per la Sicilia, quali furono gli anni della reazione contro i Fasci siciliani (1892-94), anni nei quali il giovane intellettuale catanese maturò concezioni fondamentali che non avrebbe più abbandonate e che sarebbero diventate forze vive ed efficaci della sua personalità. In tal senso, Marchesi può essere qualificato come ‘l’uomo delle invarianti’, anche se, come poi vedremo, sarebbe riduttivo pensare ad un sistema di invarianti statico ed immutabile (il sistema — non lo si dimentichi — illuministico della natura umana), poiché le invarianti sono nel Marchesi (che non è Verga) determinazioni storiche di lunga durata, connesse a quel sistema della proprietà privata e dello sfruttamento che è la fonte di due mali perenni dell’umanità divisa in classi: la malvagità e l’invidia.

Così, Marchesi scrive, all’inizio degli anni ’10 del nostro secolo, a proposito di Orazio e della poetica delle Satire:

«La società umana si svolge per la forza della produzione e per impeto di moltitudini. Chi più lavora si affermerà su chi meglio lavora. Dicono sarà questo un bisogno morale e storico della collettività. Possiamo riconoscerlo anche noi; ma niuno ci distoglierà per questo dalle considerazioni e dai sorrisi amari; niuno c’impedirà dal reclamare sempre per ciascuno di noi il divorzio spirituale dalle moltitudini. Anche oggi si può essere socialisti per dottrina economica e per buona notizia dei procedimenti sociali; così come il geologo può prevedere una eruzione e il fisico una tempesta: senza che affermi perciò il beneficio o la bellezza del fenomeno naturale che si compirà»2.

Dove emerge con chiarezza una lettura (o una ricezione) del materialismo storico fortemente curvata in senso oggettivistico, una visione del rapporto fra teoria e politica che attribuisce alla prima l’individuazione delle leggi del processo storico, delle sue risultanti generali (risultanti generali in cui rientra - si badi - quel fattore, anch’esso di natura oggettiva, che Marchesi chiama “impeto di moltitudini”), e alla seconda l’intervento sul piano della propaganda e dell’organizzazione, orientato ad accelerare il raggiungimento di quegli esiti oggettivi che coincidono con le risultanti generali del processo storico previste dalla teoria. D’altronde, si tratta di una lettura del materialismo storico che costituisce - e ciò non è detto che sia sempre un limite (anzi, in tempi di soggettivismo dilagante può essere un salutare contravveleno) - la base teorica del socialismo scientifico nel periodo a cavallo tra i due secoli. Basti osservare l’assonanza che si nota subito con la coeva asserzione, fatta da un esponente di primo piano del movimento socialista siciliano come Nicola Barbato, organizzatore di contadini e protagonista del grande moto popolare dei Fasci: «Il socialismo è qualche cosa di fatale che trae la sua forza da tutti i fattori sociali riconosciuti. Noi socialisti nulla creiamo».

Dunque, Marchesi, servendosi di quelle lenti di Marx e di Engels che hanno permesso di conferire un carattere scientifico allo studio dei fenomeni sociali, osserva con occhio disincantato i “procedimenti sociali”, cioè l’ascesa irresistibile delle ‘moltitudini’, che hanno fatto del nostro secolo il ‘secolo delle masse’ e hanno portato, sotto la spinta della lotta fra le classi, alla costituzione di regimi di massa sia rivoluzionari che reazionari, e prevede che siffatti “procedimenti” condurranno, attraverso ciò che gli storici e i sociologi hanno poi definito con i termini di ‘massificazione’ e ‘secolarizzazione’, ad un mutamento radicale della cultura.

Marchesi sa congiungere (e nel contempo distinguere) con profondo acume teorico le proposizioni scientifiche all’indicativo e le proposizioni morali e politiche all’imperativo. Egli, nella frase or ora citata, rivendica la necessità, per il saggio, del “divorzio spirituale dalle moltitudini”. A questo proposito, dovrebbe essere avviata una ricerca sull’influsso stoico che, attraverso il suo amato Seneca, permea, in una sorta di ‘concordia discors’ con quello epicureo, la sensibilità e gli scritti di Marchesi. Tale ricerca svelerebbe l’inconsistenza delle critiche di certi detrattori del grande intellettuale catanese riguardo all’abuso delle metafore, che per questi novelli Aristarchi farebbero aggio, nella prosa marchesiana, sui concetti3 . In realtà, lungi dall’essere un limite del pensiero di Marchesi, le metafore ne costituiscono invece una forza. La natura degli ‘orationis lumina’ non è solo sorgiva, staremmo per dire vulcanica, etnea (e barocca nella misura in cui, come ci avverte Marchesi, l’anima stessa è barocca4 ), bensì anche mediata, per via di consapevole riflessione, dal ruolo che le metafore svolgono nel linguaggio degli stoici sia in rapporto alla ‘phantasía kataleptiké”, cioè a quella rappresentazione comprensiva che, in quanto tappa intermedia del processo conoscitivo, conserva il suo saldo e determinante legame con la conoscenza del singolo individuo, sia in rapporto alla comunicazione con i semplici, con gl’indotti, sia, infine, in rapporto alla dottrina della ‘sympathia universalis’, la cui presenza, insieme con il panteismo che ne è il fondamento, è sicuramente ravvisabile negli scritti marchesiani e, con la correlativa impossibilità di distinguere tra lo statuto ontologico delle cose divine e lo statuto ontologico delle cose umane, rende filologicamente vuoti e filosoficamente ciechi i conati interpretativi tendenti ad attribuire a Marchesi una sensibilità religiosa di tipo teistico.

Può essere allora opportuno ricordare, né ci si accuserà per questo di pedanteria, che lo stesso Marchesi nel suo splendido saggio su Seneca ricorda non solo che il pensatore di Cordova distingue tra la sapienza e la filosofia, ma, richiamando la definizione stoica della sapienza come ‘scienza delle cose divine ed umane’, chiarisce anche come la scienza fisica sia da classificare quale scienza delle cose divine in quanto queste ultime comprendono le opere della divinità che non dipendono dall’attività umana, mentre la logica e la morale rientrano nella scienza delle cose umane in quanto comprendono l’attività umana del pensare e del volere5 .

Sempre in tale saggio incontriamo una definizione della democrazia che rientra nell’àmbito di una critica radicale dello Stato rappresentativo moderno (critica che, per quanto disconosciuta, è una delle fonti del pensiero comunista:

«Questa concezione della democrazia si è arricchita di nuovi e di nuovissimi dati [la prefazione della monografia su Tacito da cui traggo la citazione è quella del 1933, l’anno fatale in cui dal ventre della repubblica di Weimar viene partorito il mostro della dittatura nazista]: ma non è ancora superata né superabile nella sua fondamentale definizione di esercizio molesto e spensierato di libertà che tende alla soppressione di se stessa [nel trattato De Clementia Seneca indicava il principato di Nerone quale “laetissima forma reipublicae, cui ad summam libertatem nihil deest, nisi pereundi licentia” — la forma più lieta di governo: un regime di assoluta libertà a cui manca soltanto la possibilità di morire6]; perché nelle lotte dei partiti, degl’interessi e delle ambizioni la libertà democratica trova la sua ragione di essere e la sua ragione di morire; perché ancora oggi la democrazia è la più insidiosa potenza conservatrice che alleva liberamente e tumultuosamente il proprio gregge per sgozzarlo e lasciarlo sgozzare»7 .

Più avanti, troviamo un pregnante giudizio sulla moltitudine, che non consuona, pur in un contesto di grande ammirazione per la sagacia del suo pensiero, con quello di Seneca:

«Ma non si accorgeva [Seneca] che il saggio può solo rivolgersi fruttuosamente a un saggio, e che alla moltitudine è vano parlare in nome della ragione. La moltitudine vuole essere sempre trascinata ad una conquista, o in terra o in cielo: e può ascoltare la parola di Gaio Gracco o di Cesare o di S. Paolo, non quella di Seneca»8 .

Lo stesso disprezzo per il ‘volgo’ incontriamo nel saggio su Tacito, là dove viene ribadito il disgusto per il volgo “avido di piaceri”, talché Marchesi, osservando che Tacito aveva «sperimentato tutta l’abiezione della moltitudine», aggiunge che l’autore delle Historiae offriva ben altri spunti per riflessioni amare dello stesso tipo e parla della ‘moltitudine’, identificata con la ‘populace’ di ascendenza illuministica, come di «una comparsa storica che accorre sempre dove c’è da festeggiare il padrone che abbia con sé la pompa maestosa dei grandi servitori»9 . E nel saggio su Arnobio, che vede la luce nel medesimo lasso di tempo (cioè sotto la dittatura fascista), Marchesi scrive:

«Non c’è così cupo pessimismo che non possa ancora più oscurarsi al contatto degli uomini. Ma è da vedere se la umanità, come elemento squisito e intraducibile di distinzione spirituale, non sia da ricercare nell’individuo piuttosto che nel gregge degli uomini»10.

Laddove il senso aristocratico della distinzione spirituale potrà stupire chi pensa che il comunismo si identifichi con il socialismo sentimentale. Quel sentimentalismo socialista che, invece, Marchesi demolisce, attaccando nel contempo il positivismo borghese, in un articolo scritto per la Rassegna comunista del 31 maggio 192211 . Una posizione che ha perfettamente compreso un intellettuale grande-borghese del primo '900, interprete intelligente del socialismo scientifico, quale fu Schumpeter, che fece lo stesso tipo di osservazione in un libro che meriterebbe di essere rimeditato [Capitalismo, socialismo e democrazia, 1954]:

«Marx non versò lacrime sentimentali sulla bellezza dell’ideale socialista...[e] nulla era più lontano da lui della tendenza a corteggiare l’operaio... E’ questo uno dei suoi titoli di superiorità su quelli che Marx chiamò socialisti utopisti»12.

Dunque, il “divorzio spirituale dalle moltitudini” che Marchesi rivendica può stupire solo chi non tenga conto del clima storico in cui gli scritti, ove queste ed altre consimili espressioni ricorrono, videro la luce. Un clima in cui la resistenza morale degli antifascisti attingeva la sua forza anche dal disprezzo per i “bandarlog”, la tribù di scimmie del Libro della jungla di Kipling, il “popolo delle scimmie” di cui parla con disprezzo Gramsci13 : una colluvie di elementi sradicati e distruttivi, costituenti la feccia della borghesia, un ‘servum pecus’. E va detto che quel gregge asservito non si identificava, nel pensiero politico di Marchesi durante gli anni ’20 e ’30, con la povera gente, ma con la piccola borghesia, naturale strumento dei propositi controrivoluzionari degli industriali e dei proprietari terrieri che costituivano la classe dirigente.

In Marchesi non vi è, insomma, traccia di populismo, ma nemmeno di quell’elitismo che, nella veste formale della teoria della classe politica di Mosca o in quella della ‘massa di manovra’ di Pareto o in quella, più volgarizzata, della Psicologia della folla di Le Bon, aveva incontrato tanto successo come anello di congiunzione tra l’ideologia grande-borghese e le ideologie piccolo-borghesi coinvolte in quel micidiale processo di estetizzazione della politica, così lucidamente individuato da Walter Benjamin, che aveva richiesto, per contrastarlo, la politicizzazione dell’arte14 . Un processo che continua a svolgersi sotto i nostri occhi, moltiplicato ed esteso dagli odierni ‘mass media’, un processo che risponde a un disegno di colonizzazione delle menti, lucidamente indicato nell’epigrafe che Guy Debord ha tratto da Feuerbach e premesso al suo libro sulla Società dello spettacolo, non a caso oggi riproposto dagli editori più avvertiti:

«E senza dubbio il nostro tempo... preferisce l’immagine alla cosa, la copia all’originale, la rappresentazione alla realtà, l’apparenza all’essere... Ciò che per esso è sacro non è che l’illusione, ma ciò che è profano è la verità. Anzi il sacro s’ingigantisce ai suoi occhi via via che diminuisce la verità e l’illusione aumenta, cosicché il colmo dell’illusione è anche per esso il colmo del sacro»15 .

Gli effetti deformanti ed alienanti di questo duplice processo di colonizzazione delle menti e di estetizzazione della politica furono chiaramente previsti da Marchesi, il quale non si sorprenderebbe troppo nel guardare l’attuale ‘popolo degli iloti’ (per usare la potente espressione coniata dal suo conterraneo Luigi Russo)16 : un popolo che si degrada in ‘plebe’ — plebe con il telecomando in mano e con il telefonino nella fondina, plebe isolata nelle villette unifamiliari — , cioè in un piccolissima borghesia egoista e ringhiosa, meschina ed astiosa, incolta e stordita dalle sirene del consumismo.

A questo “grande piatto di sabbia sparsa” (come lo definisce negli stessi anni lo scrittore comunista cinese Lu Hsun)17 , cui ben si applica il rilievo fatto già nel secolo scorso dal Constant, per cui «la democrazia fa degli individui una polvere di atomi che, non appena viene il temporale, si converte in fango»18 , il Marchesi contrappone il ‘popolo’ che si rivela capace di riscatto, il “ pauper plebeius atque proletarius ”, «attore di un immenso e incompiuto dramma storico»19 , che egli evoca nelle pagine della sua Storia della letteratura latina dedicate ai fratelli Gracchi.

La documentazione che abbiamo esibito costituisce solo una parte della vasta esemplificazione che si potrebbe addurre, ma è sufficiente a motivare uno schema interpretativo, in virtù del quale la base del pensiero politico di Marchesi (che è cosa differente dall’origine) risulta essere un’antropologia tendenzialmente animalistica, che non a caso trova riscontro nell’interesse dedicato dallo studioso catanese ad Esopo e a Fedro (un’antropologia non lontana dal principio hobbesiano dello ‘homo homini lupus’, ritenuto il principio descrittivo più adeguato allo studio del comportamento e dell’animo degli esseri umani nelle società divise in classi); ma l’orientamento del suo pensiero politico è una teleologia ed una axiologia rivoluzionarie, che trovano le loro motivazioni, da un lato, nel materialismo storico e, dall’altro, nell’inveramento dei valori positivi del mondo classico per opera della classe storicamente progressiva, per opera cioè del proletariato.

Marchesi è un profondo conoscitore dell’animo umano, che ha appreso dal lungo e amoroso studio della cultura classica, e in particolare della civiltà latina, il senso delle invarianti, il senso che oggi si chiamerebbe della ‘lunga durata’, ma egli è anche, insieme, un marxista, che ha appreso dal materialismo storico e da quella geniale sintesi teorico-politica che è il Manifesto a ragionare in termini di continenti e di generazioni. La stessa antropologia non è disgiunta, conforme alla lezione di Labriola, da quella psicologia sociale che funge da mediazione e filtro tra la struttura e le sovrastrutture; né l’atteggiamento con cui Marchesi guarda ai moti profondi delle moltitudini risulta in contrasto con il punto di vista raccomandato dalla grande rivoluzionaria polacca Rosa Luxemburg in una sua lettera del 16 febbraio 1917 a Mathilde Wurm:

«Non c’è nulla di più mutevole della psicologia umana. Soprattutto la psiche delle masse racchiude in sé, come “thálatta”, il mare eterno, tutte le possibilità allo stato latente: mortale bonaccia e bufera urlante, la più abietta vigliaccheria ed il più selvaggio eroismo. La massa è sempre quello che deve essere a seconda delle circostanze storiche, ed è sempre sul punto di diventare qualcosa di totalmente diverso da quello che sembra. Bel capitano sarebbe uno che dirigesse il corso della nave solamente in base all’aspetto momentaneo della superficie delle acque e che non sapesse prevedere l’arrivo delle tempeste in base ai segni del cielo e del mare. Bambina mia, essere “delusi dalle masse” è sempre il peggiore attestato delle qualità di un capo politico. Un dirigente in grande stile regola la sua tattica non in base all’umore momentaneo delle masse, ma in base a leggi eterne dello sviluppo, si attiene alla sua tattica a dispetto di qualunque delusione e quanto al resto lascia tranquillamente che la storia porti a maturazione la sua opera»20.

La teleologia indica, perciò, la direzione obiettiva di un ‘processo senza soggetto’; l’axiologia esprime invece, se così possiamo dire, il ‘soggetto in processo’: da un lato, un divenire necessario; dall’altro, un dover-essere; da un lato, il “Müssen”, dall’altro il “Sollen”. Da un lato, l’avvento di un mondo nuovo, liberato dallo sfruttamento e dall’oppressione; dall’altro, per esprimerci con le parole stesse di Marchesi, «gli intellettuali al servizio della classe operaia: il più alto e generoso degli umani rapporti»21 . Il concetto di ’moltitudine’ si pone allora come il luogo geometrico dei punti equidistanti da due possibilità: per un verso, quella rappresentata dal ‘popolo unito’ e dalla classe operaia, avanguardia del popolo lavoratore; per un altro verso, quella rappresentata dal ‘volgo’, che non ha avanguardia che non sia reazionaria o controrivoluzionaria, poiché è una massa di gregari atomizzati, la quale tende per forza intrinseca verso il capo carismatico, verso il ‘duce’ o il ‘Führer’. Il binomio “Gesellschaft” - “Gemeinschaft”, elaborato da Tönnies22 , è quello che meglio si presta a rappresentare le due possibilità. La diade si rivela così una triade: questa ha la forma di una Y, dove la radice è costituita dalla ‘moltitudine’ (un mobile aggregato atomico che, in ogni specifica formazione sociale, è, come afferma la Luxemburg, quello che è, ma è anche quello che non è, in quanto può mutare) e la biforcazione rappresenta le due possibilità (rispettivamente evolutiva ed involutiva) del ‘popolo’ e del ‘volgo’. La moltitudine è allora suscettibile o di evolversi in popolo, unificandosi sotto la direzione dalla classe operaia, o di involversi nel manzoniano “volgo disperso che nome non ha”, riducendosi a massa di manovra eterodiretta.

Marchesi dimostra di conoscere e saper usare la dialettica marxista, anche se non ne fa uno specifico oggetto di studio, sia quando, come si è notato più sopra, mostra di considerare lo sviluppo dell’attività della masse come un fattore oggettivo, sia quando applica il fondamentale asserto marxiano secondo cui “l’idea, allorché si incarna nelle masse, diventa una forza materiale23 . Egli sa che i fattori oggettivi si trasformano in fattori soggettivi. D’altronde, Marx non ha forse dimostrato che tale conversione dialettica è riconducibile in ultima istanza al ‘Doppelcharakter’ del lavoro nel sistema capitalistico, per cui esso non è solo il prodotto attuale della riduzione della forza-lavoro a merce, ma è anche la potenza virtuale del lavoro associato, che diviene attuale attraverso la formazione della coscienza di classe, cioè grazie ad un atto eminentemente soggettivo posto in essere dal partito rivoluzionario della classe operaia? Ci sia consentito di aggiungere, a questo proposito, che tale precisazione ha una portata dirimente rispetto alla ‘querelle’ sul carattere più o meno ortodosso del marxismo di Marchesi. Se per ortodossia si intende il rigore del pensiero e l’aderenza all’oggetto, non si vede allora come il marxismo di Marchesi possa essere qualificato in altri termini che non siano quelli dell’ortodossia così intesa. Occorrerà invece rovesciare le Linee per l’interpretazione di un uomo inquieto tracciate da Ezio Franceschini, l’allievo cattolico di Marchesi, puntualizzando che questi non fu per nulla un’anima “naturaliter christiana”, ma fu, semmai, una mente ‘naturaliter marxiana’ — una mente, cioè, che sapeva rispecchiare fedelmente gli interessi morali e materiali della “factio miserorum” — , come dimostrano la sua chiara consapevolezza, tagliente come la lama di una spada, dell’insanabile conflitto tra classi sfruttate e classi sfruttatrici e del suo necessario esito, al di fuori del quale non esiste altro che la regressione ad una moderna barbarie, nel socialismo e nel comunismo. Se, poi, questo marxismo, oltre che ortodosso, sia stato anche di matrice o di ispirazione bordighiana - come sostiene il Canfora, che per marxismo intende una generica filosofia del conflitto sociale - è questione del tutto oziosa, giacché il marxismo è, per Marchesi, una lampada fumivora che dissolve le nebbie artificiali delle ideologie e permette ai lavoratori (mutuando da Hegel un’espressione veramente icastica) di “fissare negli occhi” - per poi strapparglieli e mozzargli la testa - “questo signore del mondo” che è il capitale. Giacché Marchesi ha colto perfettamente il punto essenziale del marxismo, quel punto archimedico che Lenin ha formulato in modo esemplare nel breve scritto che reca il titolo I destini storici della dottrina di Karl Marx, ove afferma, fin dall’inizio: “Il punto essenziale della dottrina di Karl Marx è l’interpretazione della funzione storica mondiale del proletariato come creatore della società socialista”24 .

Orbene, questo non è né bordighismo né stalinismo, questa è la dottrina di Marx e di Engels, il cui succo vitale Marchesi assimilò e trasfuse tanto nel suo pensiero politico quanto nella sua esegesi della civiltà classica.

Ci avviciniamo così alla conclusione del nostro ragionamento, che si propone di dimostrare la piena conformità del pensiero politico di Marchesi al marxismo e al leninismo. La precisazione fatta poc’anzi ha perciò una portata dirimente rispetto alla ‘querelle’ sul carattere più o meno ortodosso del marxismo di Concetto Marchesi, negato, con significativa unità dei contrari, tanto dal cattolico Franceschini quanto dal ‘marxista’ (a scartamento ridotto) Canfora. Quest’ultimo non ha alcun diritto di rivendicare la validità dell’insegnamento di un maestro, che egli ha cercato costantemente di porre in cattiva luce sia sul piano della filologia antica sia su quello della condotta politica e della coerenza ideologica (Canfora è, fra l’altro, l’autore di un infame libello denigratorio contro Marchesi, su cui “il tacere è bello”). Sicché, certi epigoni bene farebbero a non dimenticare quanto sia relativa la superiorità del coniglio che si trova in cima alla montagna dell’Himalaja rispetto all’elefante che si trova nella pianura.

La centralità, di origine schiettamente leniniana e gramsciana, del tema del partito nel pensiero politico di Marchesi può essere ancor più apprezzata, se si tiene conto che la primazia del partito deriva dal fatto che il partito è l’espressione teoricamente, ideologicamente e politicamente organica di quel soggetto sociale — il popolo lavoratore — che è, per definizione, l’avanguardia di se stesso. Il che equivale a dire che la moltitudine dei lavoratori salariati è, in potenza, una classe storicamente rivoluzionaria perché svolge un ruolo avanzato sul piano economico — la creazione della ricchezza sociale —, ma sul piano politico e ideologico resta, essendo esclusa dalla scienza e dalla cultura, una classe non solo economicamente sfruttata, ma anche spiritualmente oppressa, che, priva della guida del partito, non è in grado, con le sue lotte e con i suoi movimenti, di andare oltre il terreno delle rivendicazioni economiche immediate e, sul piano politico, è lo strumento di qualsiasi politica borghese (vuoi riformista vuoi reazionaria). Non solo, ma il significato dell’asserto “il popolo è l’avanguardia di se stesso” diviene ancora più chiaro, se si considera che, solo negandosi come classe sfruttata ed oppressa, cioè negandosi come ‘volgo-moltitudine’, il popolo può liberare se stesso. Ma il popolo libera se stesso solo con la lotta per il comunismo, cioè per una società senza classi. E l’unica negazione produttiva è questa per il popolo, giacché le altre negazioni, in quanto lasciano sussistere immutata e intatta la fonte della disuguaglianza economica e sociale, cioè lo scambio fra lavoro salariato e capitale, sono per il popolo negazioni meramente illusorie di una condizione che rimane subalterna e gregaria: dalla tarda democrazia borghese con le ideologie interclassiste dello ‘Stato di tutto il popolo’ e con le pratiche indotte dal consumismo di massa al fascismo con le ideologie razziste e scioviniste di tipo romaneggiante o padaneggiante. Dunque, solo con la lotta per una società senza classi il popolo può diventare protagonista di una liberazione reale e non simulata. Ma, per condurre una simile lotta, il popolo ha bisogno della sua avanguardia, cioè della classe operaia, e questa ha bisogno del suo partito, cioè del partito comunista. Ancora una volta, la ‘moltitudine’ oscilla, per usare il linguaggio di Sartre, fra la ‘serializzazione’ e il ‘gruppo in fusione’25 o, per usare il linguaggio di Marchesi, fra il ‘volgo’ e il ‘popolo’. Sicché, per usare un paradosso, che risulta tuttavia utile come illustrazione di una verità dialettica, il popolo è veramente tale solo se si nega come popolo; ma esso può anche negarsi senza liberarsi, e si riduce allora ad una moltitudine gregaria e subalterna, “polvere di atomi che, non appena viene il temporale, si converte in fango”26 . In questo senso, spetta all’axiologia rivoluzionaria, che il partito di classe incarna, il compito (politico e insieme morale) di realizzare, lungo l’intero arco della transizione rivoluzionaria dal capitalismo al comunismo, la teleologia che fermenta nello stato antropologicamente inquieto della materia sociale27 . Al contrario, tutta la odierna società borghese opera, mediante il sistema della democrazia rappresentativa, per dissociare il ‘civis’ dallo ‘homo’, per smembrare le classi negli individui ed impedire a questi di prendere coscienza dei legami reali e concreti che li uniscono non già soltanto alla classe cui appartengono in virtù di una parentela storica, ma altresì alla stessa famiglia umana cui appartengono in virtù di una parentela naturale. Ed io vorrei qui ricordare come della grande triade rivoluzionaria, sotto il segno della quale è nato il mondo moderno — libertà, uguaglianza, fraternità —, Marchesi pone un particolare accento sul terzo termine, sulla fraternità (come non evocare, anche a questo proposito, la 'oikéiosis' degli stoici?): egli è veramente lo scrittore e il politico della fraternità, cioè, ancora una volta, lo scrittore e il politico della ‘humanitas’ nella sua più alta accezione. Perciò, Marchesi difende la cultura classica con la stessa intransigenza e con lo stesso amore con cui difende gli sfruttati e gli oppressi e il suo ottimismo si pone in aperto contrasto sia con il cupo pessimismo antropologico (Marchesi non è Verga) sia con il disperato pessimismo apocalittico (Marchesi non è Cioran) sia con il vacuo ottimismo tecnologico (Marchesi non è Eco).

Marchesi muove da questa premessa, che ha in un certo senso, una volta assunta la teoria scientifica dello sfruttamento, il valore di una proposizione analitica (si pensi alla dilemmatica nettezza con cui lo stesso Marx assevera che «la classe operaia o è rivoluzionaria o non è nulla»28 ) e alla nozione sociologica di ‘popolo-moltitudine’ ne contrappone una etico-politica, che ha il suo centro nel partito della classe operaia, ossia nel partito della classe di avanguardia del popolo lavoratore. Marchesi giunge, per questa via, ad affermare che «nell’anima operaia» sono da ricercare «i caratteri genuini e perfettibili dell’umanità»29 e che «non c’è libertà fino a che al lavoro umano non sia conferito tutto il diritto, tutto il beneficio, tutto l’onore». Guidato dalla “lezione degli antichi” e dalla “esperienza dei moderni”, egli identifica nei lavoratori il principio di una nuova civiltà, capace non già di attuare la sintesi di umanesimo e comunismo (giacché una sintesi implica, se non la eterogeneità, certamente la esteriorità degli elementi che la sintesi ha il compito di congiungere), ma di fare, da un lato, del comunismo la manifestazione più moderna e storicamente attuale dell’umanesimo e dell’umanesimo quella eredità storica che solo il comunismo può assumere ed inverare, giacché solo il comunismo ha il suo asse di gravitazione, ad un tempo teleologico ed axiologico, nell’ideale dell’uomo onnilaterale. Ma, se Marchesi sa bene che tra l’umanesimo e il comunismo non intercede un rapporto di sintesi, ma di implicazione reciproca, egli sa poi altrettanto bene che sintesi è propriamente la “humanitas”: sintesi di “sapientia” e di “elegantia”, di contenuto e di forma. Quella sintesi polifonica della grande ed eterna “humanitas”, che lo stesso Marx aveva assunto come propria divisa, se è vero, come è vero, che il motto preferito di Marx era il terenziano “Homo sum et nihil humani a me alienum esse puto”.

Riteniamo pertanto di aver offerto dati ed argomenti bastevoli per confermare, come ha riconosciuto lo stesso La Penna, che Marchesi ha fornito “una riflessione non superficiale sul marxismo30 e che, come prima ancora di questo prestigioso antichista ebbe ad affermare in un suo corsivo Roderigo-Togliatti, fu “il solo che seppe essere assieme, in modo inscindibile, il più profondo degli umanisti e il più audace dei pensatori moderni”31 .

Le prese di posizione, che con coraggio politico pari alla lucidità intellettuale Marchesi venne assumendo nel corso degli anni ’40 e ’50, derivano tutte, in modo rigorosamente consequenziale, da queste premesse. Così accade con l’audace discorso inaugurale dell’anno accademico 1943-44, quando Marchesi, nella sua qualità di rettore dell’università di Padova, sfida il governo nazifascista; così accade nel dicembre del 1943 con il fiero appello agli studenti, chiamati dal loro ex-rettore, ormai operante nella clandestinità, a condurre “insieme con la gioventù operaia e contadina”32 la lotta armata contro gli occupanti tedeschi ed i loro servi fascisti; così accade anche con quelle prese di posizione che hanno, per i socialdemocratici e i liberali ma non per i comunisti, ‘sapor di forte agrume’, come la definizione di “democrazia fascista”33 applicata al regime politico italiano nell’agosto del 1948, due mesi dopo il varo della Costituzione e all’indomani dell’attentato a Togliatti; come il secco giudizio sui moti ungheresi, considerati, a causa del loro preminente carattere antisocialista e antisovietico, opera di “ciurme di servi”34 , giacché, come si è mostrato, per la ‘forma mentis’ giacobina di Marchesi non può esservi dubbio sul fatto che ‘vulgus vult decipi’ e il popolo, non diretto dal suo partito di avanguardia, è canaglia su cui è lecito sparare; come il memorabile paragone, tracciato nell’intervento all’VIII congresso del PCI, all’indomani del XX congresso del PCUS e al termine dell’’indimenticabile’ 1956, fra “Tiberio, uno dei più grandi e infamati imperatori di Roma”, che “trovò il suo implacabile accusatore in Cornelio Tacito, il massimo storico del principato”, e “Stalin, meno fortunato, [cui] è toccato Nikita Krusciov”35 .

Per penetrare correttamente il senso di queste prese di posizione bisogna riflettere, ancora una volta, sul binomio di umanesimo e comunismo, su quella che abbiamo definito l’implicazione reciproca di umanesimo e comunismo nel pensiero di Marchesi. In effetti, al centro di tale pensiero vi è il convincimento che l’umanista possa comunicare, di là dal filtro tecnico dell’indagine filologica, i valori di cui è detentore, poiché i valori, ossia le forme e i contenuti della civiltà antica (greca e romana), costituiscono un patrimonio oggettivo. Un patrimonio che lo studioso, se non vuole ridursi ad un mero specialista, ossia al ‘cuoco di una mensa senza commensali’, deve mettere in luce e porre in rilievo. Proprio nel 1956 la polemica tra Marchesi e Banfi illumina questo nodo centrale del pensiero del grande intellettuale catanese. Nel corso di tale polemica, infatti, Marchesi definisce il classicismo “un patrimonio unico di tutte le età e di tutte le genti a cui l’umanità possa sempre attingere come ad una perenne sorgente di suggestione spirituale”36 e caratterizza così la sua nozione di ‘classicità’: “Classico è ciò che continua e non ciò che comincia o s’improvvisa: è quella nobiltà intellettuale che discende dal passato cioè dall’antico, e dell’antico ritiene non gli echi ma la sostanza vitale”37 . Laddove vale la pena di osservare che Marchesi afferma un nuovo principio aristocratico fondato sui meriti e sulla virtù, lo stesso principio che il suo amato Seneca aveva espresso contro l’aristocrazia castale, quindi contro il principio aristotelico che schiavi si è per natura, nei seguenti termini: “nemo altero nobilior nisi cui rectius ingenium et artibus bonis aptius”38 . Perciò, di fronte alla apologia della civiltà moderna svolta da Banfi, che esalta tale civiltà “per sua natura priva di barriere” ed osserva che la ‘tradizione classica’ è “l’ideale di una élite privilegiata”, Marchesi, che appartiene alla schiera di coloro che non hanno mai scambiato l’accessibilità alla cultura con l’accessibilità della cultura, afferma, senza mezzi termini, con carducciana durezza, che “questa élite esisterà sempre” e “sarà quella dell’intelligenza, privilegio anch’esso largito dalla natura”39 . Ma sarebbe unilaterale insistere sulla concezione dell’uomo sottesa alla tendenziale svalutazione della civiltà moderna ed ignorare o trascurare un’altra fondamentale componente critica di tale giudizio, che va ravvisata nella giusta convinzione, propria di Marchesi e della tradizione teorico-politica terzinternazionalista, secondo cui la borghesia come classe e come cultura è condannata ad una inarrestabile decadenza.

Al contrario, il fascino grande, profondo e duraturo della critica letteraria di Marchesi e del pensiero che la innerva risiede proprio in quello che per taluni acidi interpreti è un limite, mentre per noi costituisce la sua forza, vale a dire la capacità di rendere moderno il mondo classico. E se, come tutti i lettori sensibili ed intelligenti della Storia della letteratura latina possono testimoniare, quest’opera si legge senza quasi accorgersi della sua ispirazione dottrinale, se si legge perché appare, ed è, semplicemente stupenda, ciò accade in quanto si realizza in essa una fusione così organica dell’istanza del rigore e dell’istanza della divulgazione, da rendere del tutto congruo, se non per il significato storico-culturale certamente per il valore umano, civile e morale, l’accostamento alla grande opera di De Sanctis. E se è vero che un fine interprete come La Penna può affermare che “l’aspetto di Marchesi che sente più attuale è il suo pessimismo esopico”40 , pur soggiungendo che per Marchesi dall’ingiustizia dei millenni, dall’eterna oppressione dei potenti sugli umili, materia della favolistica antica, si può e si deve uscire attraverso la rivoluzione, è altrettanto vero che l’antropologia animalistica non s’identifica mai con la rinuncia alla lotta per la trasformazione della società e per il miglioramento morale e materiale dell’uomo, come attesta il modo, non meno fulminante che rivelatore, con cui Marchesi riferisce e commenta una favola di Esopo, da cui ricava un insegnamento fondamentale, relativo, per un verso, alla necessità del partito rivoluzionario e, per un altro verso, alla condizione prima del prodursi della rivoluzione. Quelle rivoluzioni che - come sostiene lo stesso Marx e come mostra Marchesi con l’’exemplum fictum’ della favola - non vengono determinate dalla debolezza dei forti, ma dalla forza dei deboli.

Scrive Marchesi che

in una favola disperatamente triste e vera di Esopo ci sono due protagonisti: un uomo, il beccaio, e una moltitudine di castrati. L’uomo afferra e sgozza , siccome è suo mestiere e suo interesse: gli altri vedono sgozzare, e restano cheti e fiduciosi; perché la bestia del gregge è così: sente la mano dell’uccisore quando è afferrata alla gola. L’uomo spesso non la sente neppure allora. Narra il favolista: « I castrati erano tutti in branco coi montoni. Entrò il beccaio e finsero di non vederlo. L’uomo ne afferrò uno, lo trasse fuori e lo sgozzò. Gli altri vedevano e dicevano tra loro: « Me, non mi tocca; te, non ti tocca: e lasciamo che acchiappi chi vuole ». Così ne restò alla fine uno solo. Diceva al beccaio: «Come siamo stati pazzi! Quando eravamo tutti insieme potevamo fracassarti a testate. Ora invece...». E naturalmente fu sgozzato anche lui» ”41.

Memorabile è, infine, la postilla con cui Marchesi chiude il suo commento:

Questa favola prova... che vanno incontro alla rovina coloro che non hanno saputo a tempo misurare la propria forza. Già, anche Seneca, ad ammonimento dei padroni, domandava: «E se i servi si contassero?», dimenticando che i servi non si contano mai da sé: a far questo hanno bisogno di un altro, non servo, ma uomo libero che insegni loro l’addizione. Questa favola proverebbe, se mai, che due sono le massime sorgenti del male nel mondo: l’egoismo e la stupidità”42.

Ad un critico, ad un pensatore, ad uno scrittore come Marchesi, che ci offre con la sua opera uno ‘ktêma es aéi’, ossia un’acquisizione perenne, sembra alquanto fatuo porre il problema dell’‘attualità’, problema che giustamente La Penna liquida come «problema da giornalisti»43 . Verrebbe la tentazione di rispondere a una domanda siffatta che il vero è sempre attuale e che l’attualità è assai spesso la misura inversamente proporzionale del grado di intelligenza della verità dimostrato in un certo periodo dalla cultura predominante in un certo paese.

Orbene, se si considera la cultura oggi predominante in Italia, è del tutto legittimo concludere che l’attualità di Marchesi consiste nella sua pressoché totale ‘inattualità’ per almeno due ragioni: in primo luogo, perché Marchesi rappresenta con il suo marxismo duro, geometrico, spigoloso, dicotomico, rivoluzionario, un’alternativa alle miserie dell’attuale cultura di sinistra; in secondo luogo, perché il nesso di umanesimo e comunismo, pur affiorando come esigenza profonda della lotta delle classi e dei popoli oppressi, non ha ancora trovato un soggetto socio-politico ed un progetto ideologico-culturale capace di incarnare tale binomio.

E’ opportuno, infine, ricordare che il marxismo costituisce il nerbo del pensiero di Marchesi e che in esso è centrale la tesi della conversione delle armi della critica in critica delle armi, perché centrale è nel marxismo il nesso fra teoria e pratica, fra pensiero e azione. In un momento tragico della storia del nostro paese, Concetto Marchesi dimostrò di saper usare mirabilmente la critica delle armi. L’obiettivo di tale critica fu il filosofo Giovanni Gentile, oggi inserito dagli esponenti del pensiero post-moderno, post-comunista, post-fascista e post-intelligente nel novero dei personaggi (come Nietzsche e come Heidegger) da riabilitare. Dal 1944 tante notti e tante aurore sono trascorse, e non è ultimo merito di Marchesi averci trasmesso, ponendosi nel solco aperto da Marx, da Engels e da Lenin, un insegnamento che conserva intatta la sua validità. Si tratta di un insegnamento fondato sulla consapevolezza che per portare a termine un processo di radicale trasformazione della società la critica teorica è necessaria, ma non sufficiente. Marchesi ha osservato una volta che “di parole che tutti dicono sono fatte le frasi che non si udirono mai”44 . Parimenti, della stessa materia, cioè di pensieri espressi con parole comuni, sono fatte le frasi che egli scrisse in una delle congiunture più drammatiche della guerra di liberazione. E se concludessimo la nostra ricerca sul pensiero politico di Marchesi senza rammentarle, sentiremmo di aver tralasciato qualcosa di essenziale. Grande è, infatti, la loro importanza per chi non le conosca, salutare è il rimeditarle per chi già le conosca.

Così, nel gennaio del 1944, Marchesi concludeva una Lettera aperta al senatore Giovanni Gentile, che con un articolo pubblicato nel Corriere della Sera aveva fatto appello alla ‘concordia nazionale’:

«Quanti oggi invitano alla concordia, invitano a una tregua che dia temporaneo riposo alla guerra dell’uomo contro l’uomo. No: è bene che la guerra continui, se è destino che sia combattuta. Rimettere la spada nel fodero, solo perché la mano è stanca e la rovina è grande, è rifocillare l’assassino. La spada non va riposta, va spezzata. Domani se ne fabbricherà un’altra? Non sappiamo. Tra oggi e domani c’è di mezzo una notte e un’aurora»45 .


Note

1 Cfr. A. La Penna, Concetto Marchesi. La critica come scoperta dell’uomo, Firenze, 1980, cap. I, pp. 1-13.

2 Rivista d’Italia, 1911, 14, vol. I, p. 740 ss.

3 L’addebito è mosso da L. Canfora nell’articolo Il Marchesi di La Penna in «Rivista di filologia e istruzione classica », a. 1981, vol. 109, pp. 246-247.

4 C. Marchesi, Seneca², Principato, Messina, 1934, p. 232.

5 Ibidem, pp. 237-38 (si veda in particolare la nota 4).

6 Ibidem, p. 73, nota 1.

7 Ibidem, p. 73.

8 Ibidem, p. 86.

9 Ibidem, p. 56.

10 C. Marchesi, Voci di antichi, Roma, 1946, p. 177.

11 C. Marchesi, Sentimentalismo socialista e positivismo borghese, in « Rassegna comunista », 31 maggio 1922.

12 J. A. Schumpeter, Capitalismo, socialismo e democrazia², Milano, 1964, p. 6.

13 Cfr. A. Gramsci, Socialismo e fascismo (« L’Ordine Nuovo » 1921-1922), Einaudi Torino, 1970, pp. 9-12.

14 Il saggio di Benjamin sull’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica termina esattamente con queste parole: «All’estetizzazione della guerra il comunismo risponde con la politicizzazione dell’arte». E’ evidente che il rapporto tra ‘estetizzazione della guerra’ ed ‘estetizzazione della politica’ è omologo al rapporto tra capitalismo nazifascista e capitalismo liberaldemocratico.

15 G. Debord, Commentari sulla società dello spettacolo, Milano, 1990, p. 83.

16 L. Russo, De vera religione, Torino, 1949, pp. 324-330.

17 Lu Hsun, Cultura e società in Cina, Roma, 1962, p. 144.

18 Cfr. G. De Ruggiero, Storia del liberalismo europeo², Milano, 1966, p. 164.

19 C. Marchesi, Storia della letteratura latina, vol. 1°, Messina-Roma, 1925, p. 145.

20 R. Luxemburg, Lettere 1893-1919, Roma, 1979, pp. 221-222.

21 La citazione marchesiana funge da epigrafe per la seconda sezione, intitolata Momenti della vita e della lotta politica, del volume Umanesimo e comunismo² (a cura di M. Todaro­Faranda), Roma, 1974, p. 121, che raccoglie larga parte degli scritti e discorsi politici svolti da Marchesi lungo l’arco di tempo che va dal 1943 al 1956.

22 F. Tönnies, Comunità e società, 1887.

23 K. Marx, Introduzione a Per la critica della filosofia del diritto di Hegel in K. Marx-F. Engels, Opere scelte², Roma, 1969, pp. 64-65.

24 V.I. Lenin, Opere scelte, Roma, 1968, p. 481.

25 Cfr. J.P. Sartre, Critica della ragione dialettica, Milano, 1960.

26 Cfr. nota 18.

27 Questo nesso viene così declinato in una conferenza sulla Persona umana nel comunismo (cfr. C. Marchesi, Umanesimo cit., pp. 43-44): “Noi vogliamo che la folla non sia numero; vogliamo ridurre la quantità in qualità: cioè vogliamo che ciascuno porti la propria coscienza a quel punto cui la natura gli consente di arrivare. Il volgo ci sarà sempre: il volgo da cui può convenire talora appartarsi; ma non sarà più costituito da quel plebeo pezzente e proletario di 25 secoli addietro”.

28 Lettera di Marx a Johann Baptist von Schweitzer del 13 febbraio 1865 in K. Marx-F. Engels, Opere, XLII, Roma, 1974, p. 490.

29 C. Marchesi, Umanesimo cit., p. 354.

30 A. La Penna, Concetto Marchesi cit., p. 96.

31 Cfr. il corsivo di Roderigo (pseudonimo di Palmiro Togliatti) Tramonto della cultura classica?, su « Rinascita », 6 ottobre 1962, 3.

32 C. Marchesi, Umanesimo cit., p. 130.

33 Ibidem, p.359.

34 Ibidem, p. 115. Il giudizio fu espresso da Marchesi nel Discorso all’VIII Congresso del P.C.I. È opportuno inserirlo nel suo esatto contesto: “Sotto la corteccia della Repubblica democratica, in Ungheria, restavano forse ciurme di servi che aspettavano i vecchi padroni, per opprimere altri servi”.

35 Ibidem, p. 114.

36 Ibidem, p. 393.

37 Ibidem, p. 356.

38 Seneca, De Beneficiis, l. III, cap. 28.

39 C. Marchesi, Umanesimo cit., p. 394.

40 A. La Penna, Concetto Marchesi cit., p. 95.

41 C. Marchesi, Favole esopiche, Milano, 1951, p. 8.

42 Ibidem, pp. 8-9.

43 A. La Penna, Concetto Marchesi cit., p. 95.

44 C. Marchesi, Seneca², Messina-Milano, 1934, p. 232.

45 C. Marchesi, Umanesimo cit., p. 134.
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