Cosa accomuna il rapinatore bolscevico Kamo, l’operaio nero delle Pantere Nere che difende il quartiere, la studentessa negli anni Settanta che occupa la scuola o l’università? Cosa condividono la staffetta partigiana che sfida gli infami repubblichini, la miliziana nordirlandese che prepara i Troubles contro gli inglesi, il conricercatore degli anni Sessanta che inchiesta la fabbrica per sovvertirla?
La militanza: una forma totale di guardare al mondo e agire al suo interno, per ribaltarlo. Punto di vista, parzialità, conflitto, odio per il nemico, fratellanza con i propri compagni. Baricentro tra spontaneità e organizzazione, il militante si colloca lì dove l’azione modifica la teoria e la teoria indirizza l’azione.
Ripercorrendo la storia e le lotte di questa figura chiave del Novecento, cosa rimane del militante oggi? Quali ricchezze e limiti ha espresso? Che tipo di militante potrà raccogliere le sfide ancora aperte?
Sono queste le domande che ci siamo posti e abbiamo condiviso con Franco Milanesi, autore di un vecchio libretto molto interessante poiché inattuale (Militanti. Un’antropologia politica del Novecento, edito nel 2010 da Punto Rosso) e ospite del primo appuntamento di MILITANTI, ciclo di incontri sulla militanza di ieri e di oggi.
Quelli che seguono, in forma di appunti, sono alcuni dei nodi e delle categorie di riflessione teorico-politica toccati da Franco nella discussione, che ha visto anche confliggere punti di vista ed esperienze di militanza differenti, perfino opposti – compresi i nostri, soprattutto per quanto riguarda i potenziali terreni del conflitto e le ambivalenze dei soggetti sociali che la nostra idea, e prassi, di militanza vuole inchiestare, presidiare, scomporre e ricomporre.
A metà del 1800, Marx ritenne che fossero maturi i tempi per sostituire la filosofia con la scienza, anche nella conoscenza del pensiero umano giungendo alla geniale formulazione del paradigma del materialismo storico. Al tempo stesso formulò il criterio per distinguere la filosofia da quella che d’ora in avanti sarebbe stata la scienza, e lo identificò con la capacità di cambiare consapevolmente la realtà.
La sintesi marxiana fu dunque che la politica, cioè l’attività umana che cambia le stesse relazioni sociali, dovesse d’ora in poi basarsi sulla “scientificità”, cioè fare i conti con i cambiamenti sociali, che l’umanità avrebbe potuto realmente produrre, in relazione al livello effettivo di produttività raggiunto e non sulla “ideologia” dell’antropos di se stesso, cioè sulla “utopia”. Per questo sostenne l’idea di un comunismo “scientifico”, contrapposto a quello “utopistico” di quelli che ritenevano che gli esseri umani fossero capaci, per natura, di cooperare tra loro.
L’opera di Giovanni Mazzetti rivela gli elementi comuni delle analisi economiche di Marx e di Keynes, entrambe basate sulla produttività e, al tempo stesso, riprende il paradigma del materialismo storico, ne ridefinisce con precisione i contorni evidenziando la simultaneità tra i processi di “formazione delle (nuove) relazioni sociali produttive e riproduttive” e la “autodeterminazione del pensiero”. Con questa operazione culturale, Mazzetti riporta lo storicismo dall’ambito filosofico a quello scientifico e lo ripropone come chiave dell’analisi dello sviluppo della civiltà umana.
Pubblichiamo alcuni, importanti, estratti dall'intervista con Maria Zakharova - condotta da Thomas Röper per il suo sito ANTI-SPIEGEL e per il suo canale YouTube. La traduzione è stata effettuata da Nora Hoppe.
Röper: Grazie per il tempo e l'opportunità di parlare con lei. Vorrei iniziare con la questione del confronto tra Occidente, Russia, Ucraina e così via. I media occidentali molto spesso ritraggono tutto questo come se Putin si svegliasse un giorno di cattivo umore e decidesse di attaccare l'Ucraina. Forse, dal suo punto di vista, come portavoce del ministero degli Esteri e del governo russo, può spiegare al pubblico tedesco, che non ne sa molto, i retroscena di questo conflitto: perché è nato, come si è sviluppata questa situazione.
Zakharova: Se uno vuole solo capire questa parte della nostra storia, il nostro rapporto con l'Occidente, e "perché è iniziata l'operazione militare, come è successo?"… vorrei precisare che dal 2014 c'è stato un continuo spargimento di sangue, per otto anni, nel Donbass – quella regione che faceva parte dell'Ucraina dopo gli anni '90 e ora fa parte delle nuove regioni russe.
Non si trattava qua di morti isolate, sporadiche. Questo è stato un massacro incentrato su civili, cioè gente comune: donne, bambini e persino uomini… che avrebbero dovuto andare al lavoro, a scuola. Sono stati tenuti in ostaggio da questa situazione politica, e per 8 anni sono state uccise tante persone lì.
Lei conoscerà molto bene le statistiche… Non so se la gente in Occidente lo sappia, ma nel corso degli 8 anni, secondo stime diverse, 11.000, 13.000, 15.000 persone sono state uccise da entrambe le parti. Questi erano rappresentanti del regime di Kiev e residenti del Donbass e anche quelli che sono venuti al popolo del Donbass dalla Russia che erano volontari. E a proposito, ci venivano persone non solo dalla Russia.
Le nuove tecnologie ti stanno dando la libertà di non dover scegliere.
Spot televisivo TIM, 2016
La vicenda del liceo Pilo Albertelli (con il suo consiglio d’istituto che rifiuta i progetti di scuola digitale finanziati coi fondi del PNRR) sta assumendo una dimensione molto ampia ed offre a tutti noi – genitori, docenti, studenti, esperti, studiosi – la preziosissima occasione di riflettere sul tema delle trasformazioni implicate nella coazione al digitale imposta massicciamente dal PNRR, a scuola e oltre.
Se il dibattito sollevato trascende il dato concreto e investe questioni politiche, come è stato giustamente osservato, direi che questo non costituisce un limite. Mi permetto di sottolineare che molte nostre scelte di vita trascendono il dato concreto e rimandano a questioni politiche. Comprare un libro nella libreria di quartiere o su Amazon; utilizzare su Internet piattaforme proprietarie o pubbliche; segnare nostro figlio in una scuola piuttosto che in un’altra; invitare a un dibattito un relatore e non un altro; approfondire in classe o in famiglia un certo argomento e tralasciarne altri; indossare una maglietta di un brand noto, di una cooperativa equa e solidale oppure anonima; comprare il latte al supermercato o al negozietto sotto casa: sono tutti gesti concreti che implicano scelte di natura politica, ove politica rimanda a polis, politiké, ovvero al nostro modo di essere cittadini e di vivere nel mondo.
A maggior ragione, nella scuola e nella dimensione didattica e pedagogica che le appartiene costitutivamente, ogni nostra scelta è e deve essere “politica”.
Del resto, tutto il PNRR – nel suo modo di declinare per l’Italia i fondi europei del Next Generation Eu – sottende una visione politica della società che si risolleva dopo la crisi della pandemia facendo una precisa scelta di campo che orienta gli investimenti economici: imboccando la strada della transizione digitale in tutti gli ambiti dell’organizzazione sociale.
"La distruzione delle risorse materiali dell’Ucraina è la prerogativa per l’accaparramento delle sue risorse materiali e umane nella fase di ricostruzione". Giulio Palermo, economista autore con la nostra casa editrice di "Il conflitto russo-ucraino" (LAD, 2023), ci rilascia una lunga e illuminante intervista per argomentare e attualizzare le sue tesi ad oltre un anno dall'inizio dell'operazione speciale russa.
"Il continente europeo costituisce la scacchiera ma gli scacchi sono per lo più americani e russi e, sullo sfondo, cinesi. La strategia europea per l’Europa semplicemente non esiste. Esistono interessi economici convergenti e divergenti tra settori e tra stati". Stiamo vivendo una fase di cambiamenti epocali ma per quel che riguarda i processi finanziari Giulio Palermo invita alla prudenza perché il ruolo del dollaro nel breve e medio periodo resta ancora forte. Ma nel lungo periodo i movimenti tellurici saranno inevitabili. "Anche se per il momento questo processo sembra portare alla progressiva chiusura tra blocchi contrapposti, la crescita di un sistema di relazioni internazionali meno sbilanciata su un singolo attore è vista da molti paesi con interesse. La Cina e la Russia hanno le carte in regola per guidare questo processo, sia economicamente, sia politicamente, sia anche militarmente. E a un certo punto anche i paesi europei dovranno fare le loro scelte. È nel corso di queste trasformazioni reali dei rapporti economici, politici e militari che si ridefinirà nel tempo il ruolo del dollaro, il suo ridimensionamento e la fine della sua egemonia, non attraverso semplici accordi per denominare i contratti in rubli o in renminbi.", chiosa l'economista.
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D. Nel suo "Conflitto russo-ucraino" porta avanti la tesi che l'imperialismo Usa abbia come obiettivo principale l'Europa attraverso il pretesto ucraino. Ad oltre un anno dall'inizio del conflitto a che punto siamo?
Si tratta di un organismo antidemocratico che usa il suo potere storico per imporre i propri interessi ristretti a un mondo che è alle prese con una serie di dilemmi più pressanti
Durante il vertice del Gruppo dei Sette (G7) del maggio 2023, i leader di Canada, Francia, Germania, Italia, Giappone, Regno Unito e Stati Uniti hanno visitato il Museo della Pace di Hiroshima, vicino al luogo in cui si è tenuto l'incontro. Non farlo sarebbe stato un atto di immensa scortesia.
Nonostante le numerose richieste di scuse da parte degli Stati Uniti. da parte degli Stati Uniti per aver sganciato una bomba atomica su una popolazione civile nel 1945, il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha rifiutato. Ha invece scritto nel libro degli ospiti del Peace Memorial: "Che le storie di questo museo possano ricordare a tutti noi i nostri obblighi di costruire un futuro di pace".
Le scuse, amplificate dalle tensioni del nostro tempo, assumono interessanti ruoli sociologici e politici. Le scuse suggerirebbero che i bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki del 1945 sarebbero stati sbagliati e che gli Stati Uniti non avrebbero concluso la loro guerra contro il Giappone assumendo la superiorità morale.
Le scuse contraddirebbero anche la decisione degli Stati Uniti, sostenuta pienamente da altre potenze occidentali oltre 70 anni dopo, di mantenere una presenza militare lungo la costa asiatica dell'Oceano Pacifico (una presenza costruita sulla base dei bombardamenti atomici del 1945) e di usare questa forza militare per minacciare la Cina con armi di distruzione di massa ammassate in basi e navi vicine alle acque territoriali cinesi.
È impossibile immaginare un "futuro di pace" se gli Stati Uniti continuano a mantenere una struttura militare aggressiva che va dal Giappone all'Australia, con l'intento esplicito di disciplinare la Cina.
“Hegel è un pensatore aperto”, così argomenta Zizek alla presentazione del suo testo Hegel e il cervello postumano, e ancora: “più che il pensatore della sintesi, per me è il vero teorico dell’assioma che se pianifichi qualcosa, non importa quali sono i tuoi piani, le cose andranno sempre per il verso sbagliato. Un esempio viene offerto dalla rivoluzione francese, in cui la voglia di libertà è sfociata nel terrore. Rinconciliazione per Hegel non significa arrivare a un punto in cui va tutto bene, ma è il momento in cui ci si riappacifica con il fallimento”.
La sintesi non è luogo di appiattimento o di negazione delle profonde rotture e delle laceranti ferite, ma è manifestazione di queste nel loro ricomporsi.
La sintesi presuppone dunque una presa d’atto, per questo non si può rinunciare al soggetto, che è l’espressione non del vuoto compromesso, ma del pieno vivere dello Spirito nel mondo anche senza mediazioni alcune.
L’atto del sintetizzare non deriva dalla pura ragione, ma la supera, va ben oltre la stessa.
La Ragione che trova quindi fondamento nella non-Ragione, ovvero la verità noumenica come non tutto, o ancora più precisamente come eterna parzialità del Tutto.
Hegel non nasconde mai il negativo, anzi è il primo a farlo affiorare, quindi ne dà una lettura tendente al superamento (Aufhebung), così che si possa realizzare, in un punto di apparente quiete, il mondo.
Il moto si arresta solo per una frazione d’attimo e poi riprende la sua vorticosa ed incessante marcia.
La Giornata della liberazione dell’Africa, il 25 maggio, segna la fondazione dell’Organizzazione dell’unità africana (Oua) nel 1963. Sebbene l’idea di "liberazione" sia stata da allora rimossa nella lettera, e anche nello spirito, dalle commemorazioni ufficiali della giornata, le forze radicali l’hanno mantenuta nella loro lotta contro il capitalismo.
Sessanta anni fa, il 25 maggio, il primo ministro e presidente del Ghana, il leader rivoluzionario anticoloniale Kwame Nkrumah si presentò davanti ad altri 31 capi di Stato africani nella capitale etiope di Addis Abeba e dichiarò: "La lotta contro il colonialismo non finisce con il raggiungimento dell’indipendenza nazionale".
"L’indipendenza è solo il preludio di una nuova e più impegnativa lotta per il diritto di gestire autonomamente i propri affari economici e sociali... senza essere ostacolati da controlli e interferenze neocoloniali schiaccianti e umilianti".
“Dobbiamo essere uniti o periremo”, sottolineava Nkrumah, riconoscendo che, mentre i paesi del continente africano si stavano "liberando dal giogo del colonialismo", a questi successi "corrispondeva un intenso sforzo da parte dell’imperialismo per continuare a sfruttare le nostre risorse creando divisioni tra di noi".
Nkrumah parlava in occasione della fondazione dell’Organizzazione dell’Unità Africana (OUA) nel 1963, sforzandosi, insieme ad altri leader, di costruire una visione panafricanista di un continente unito sotto una moneta, una zona monetaria e una banca centrale comuni, nonché di un governo unito e di una difesa comune sotto un Alto comando africano.
Grecia, Spagna, Turchia… La vittoria etno-nazionalista è irreversibile. Ma è una vittoria scritta sull’acqua
L’irreversibile
Tra gli innumerevoli eventi deprimenti di questo anno 2023, quello forse più triste è la conclusione del processo costituente cileno. Talmente triste che mi pare nessuno ne voglia parlare, come se avessimo dimenticato quel che il Cile ha rappresentato nel passato lontano e in quello recente: dopo l’estallido dell’autunno 2019 avevamo (flebilmente) sperato che fosse possibile cancellare il lascito pinochettista del nazi-liberismo. Ma come ogni altro tentativo di riforma democratica, anche quello di Boric si è rivelato un fallimento. Il peso dell’eredità coloniale e del razzismo, il peso della disperazione dei marginali hanno reso ingovernabile quel processo e consegnato la vittoria al discendente politico di Pinochet.
Poi sono venute le elezioni turche in cui il progetto ultra-reazionario di restaurazione del Califfato vince sull’opposizione di un avversario che si presentava come democratico, ma poi proponeva misure di tipo razzista contro i rifugiati siriani.
Poi le elezioni greche, in cui stravince Mitsotakis, rappresentante dell’alleanza tra dittatura finanziaria europea e oligarchia locale. Tsipras paga il prezzo della delusione seguita al referendum del 2015, e con la sconfitta di DIEM25 sprofonda l’illusione di democratizzare l’Europa, come se fosse possibile democratizzare il cuore di tenebra del suprematismo razzista e colonialista.
Infine il franchismo riconquista la Spagna.
Nella primavera del 2022 il governo Sanchez siglò un accordo infame con il Marocco: un tradimento del popolo saharoui in cambio del contenimento carcerario dei migranti africani. Sperava di ingraziarsi così i nazionalisti spagnoli, e come al solito non ha funzionato.
«Le acque stan via anni e mesi, poi tornano ai loro paesi.»
«L’acqua rosica anche il ferro.»
(Proverbi delle terre del Delta padano)
Mentre, dopo lo shock, ci si rende conto della gravità fuori scala di quel che è accaduto e sta accadendo in Emilia-Romagna, è necessario mettere in fila e smontare le retoriche a cui è ricorsa la classe dirigente della regione dai primi di maggio, fin dalle prime ore di alluvione.
Qui useremo l’espressione «classe dirigente» in un’accezione ristretta, per riferirci ad amministratori e amministratrici del PD.
Certo, in Emilia-Romagna non governa solo il PD, ci sono anche giunte di destra dichiarata, caratterizzate da politiche, superfluo dirlo, bieche. Nello specifico, spargono cemento quanto Bonaccini, Lepore o De Pascale. Del resto, basta vedere la situazione in Lombardia e Veneto, dove governano quasi ovunque. Su quel piano, la sola differenza è che la destra agisce con meno ipocrisia, meno lavaggi-in-verde.
Ad ogni modo, la destra dichiarata in Emilia-Romagna è ancora l’eccezione, mentre il PD è la regola. Oltre a essere forza di pregresso – discende in linea diretta dai partiti (PCI, PDS e DS) che hanno amministrato il territorio per una sessantina d’anni – il PD governa la Regione, il capoluogo di regione con la sua Città metropolitana, sette capoluoghi di provincia su nove con le relative Province, e la maggior parte dei più di trecento Comuni.
Il PD è dunque, senza alcun dubbio, il principale referente politico dell’economia reale emiliano-romagnola. Rappresenta precisi interessi economici, gli stessi che hanno devastato ambiente e territorio con le conseguenze che abbiamo sotto gli occhi.
Una proposta di riforma costituzionale e civile
In questo articolo critico la presunta “indipendenza” delle banche centrali; inoltre critico il fatto che quasi sempre le banche centrali, nonostante la loro fondamentale importanza e il loro grande potere, non siano neppure previste dalle Costituzioni nazionali. Propongo dunque che la loro missione e i loro compiti siano fissati dalle Costituzioni democratiche. Le banche centrali non dovrebbero più essere “torri d’avorio” tecnocratiche, opache e avulse dalla società, organi in simbiosi di fatto con il sistema bancario privato. Propongo che il sistema monetario nel suo complesso venga radicalmente democratizzato e che sia gestito dalle organizzazioni plurali della Società Civile, e dunque non dallo Stato né dai mercati. Le Costituzioni democratiche dovrebbero prevedere la banca centrale come organo indipendente governato dalla Società Civile e dalle parti economiche interessate per gestire il bene comune della moneta. Le banche centrali dovrebbero aprirsi al pubblico sfruttando l’opportunità legata all’avvento ormai prossimo delle monete digitali di banca centrale, le Central Bank Digital Currencies.
Nel loro ruolo di monopoliste della moneta legale e di direzione della politica monetaria e bancaria le banche centrali sono al centro del capitalismo finanziario. Gli Stati hanno affidato alle banche centrali il monopolio di emissione di moneta legale; in cambio queste, nel corso della loro storia, hanno cessato di avere scopo di lucro, come invece avevano all’inizio in quanto possedute da finanzieri privati.
1. Nel panorama delle analisi italiane sulla guerra si devono segnalare il volume di Brancaccio, Giammetti e Lucarelli, “La guerra capitalista” (Mimesis), quello di Raffaele Sciortino, “Stati Uniti e Cina allo scontro globale” (Asterios) e infine quello di Carlo Formenti, in due volumi, “Guerra e rivoluzione”.
In estrema sintesi l'analisi di Brancaccio, Giammetti e Lucarelli ci presenta un conflitto inquadrabile come uno scontro interimperialistico tra i debitori in declino e i creditori in ascesa, mosso dalla tendenza ineliminabile del capitalismo alla concentrazione.
Considerare, come fanno gli autori, anche il cosiddetto “socialismo di mercato con caratteristiche cinesi” come un tipo nuovo di imperialismo ha suscitato critiche e perplessità, a mio avviso legittime, tra cui quelle, pur differenti, di Sciortino e Formenti.
L'interpretazione di Brancaccio e coautori si colloca nella scia di una lettura “classico marxista” della realtà economica e sociale e anche, si potrebbe dire, “classico leninista”, dove con “classico” intendo un approccio logico che seppur ben fondato su poderose categorie fatica ad adeguarsi ai processi storici e quindi è in difficoltà a cogliere lo snodo politico della crisi.
È utile capire la natura di questo tipo di errore.
Lo scorso ottobre in un articolo apparso su Sinistrainrete (“La caduta. Lineamenti e prospettive del prossimo futuro”) ho presentato il conflitto globale in corso, di cui l'Operazione Militare Speciale in Ucraina è la parte ad oggi più drammatica - ma l'attacco proxy e a volte diretto degli Usa alla Siria non è stato meno drammatico - come un contrasto tra due “modi di essere” nello spazio economico globale:
In questa decima puntata del Diario della crisi - progetto nato dalla collaborazione tra Effimera, Machina-DeriveApprodi ed El Salto - Stefano Lucarelli riflette sull'inopportuno susseguirsi di crisi che, spiazzando ed eliminando le cause e dunque le possibilità d’intervenire sulle conseguenze di quelle precedenti, fanno sì che gli effetti di queste ultime si accumulino e si articolino con quelli delle prime in modo sempre più intrattabile. L'economia dell'attenzione è quindi legata alla formazione di un potere politico sempre più autoritario, che ci invita a pagare il «prezzo della libertà» (Josep Borrel) e ad accettare la creazione di circuiti economici definiti in termini strettamente geopolitici (friend-shoring) legati all'opzione della guerra come orizzonte normalizzato. Le politiche economiche, monetarie e fiscali sono di conseguenza concepite dalle attuali classi dirigenti secondo questi parametri reazionari, con assoluta indipendenza dai loro effetti nocivi sulle classi lavoratrici e povere. Nel frattempo, l'Unione Europea segue docilmente il disegno delle classi dominanti egemoniche globali, imprigionata nella propria impotenza nazionalista.
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1. Esistono dei collegamenti fra la Pandemia e il nuovo scenario militare ̶ uno scenario in cui la guerra appare sempre più vicina all’Europa, e diviene una parte via via più rilevante dell’insieme informativo che condiziona le scelte politiche, ma anche le scelte di chi subisce le politiche?
Non si tratta di una domanda oziosa se in ballo c’è la comprensione del fenomeno della crisi. Redigere un diario della crisi significa innanzitutto non arrendersi alla logica degli shock esogeni, gli eventi del tutto inattesi che non dipendono dalla responsabilità di nessuno. A tal riguardo appare molto interessante l’editoriale che Kamran Abbasi, editor in chief del British Medical Journal ha redatto il 16 Marzo 2022.
«La lotta contro la frantumazione della classe operaia è al tempo stesso la lotta contro il pregiudizio nazionale o razziale» (Losurdo, Introduzione, “Manifesto del Partito Comunista”, p. XXIV)
1. Introduzione
Il 175° anniversario della pubblicazione del Manifesto del Partito Comunista cade in un’epoca nella quale lo sviluppo del processo storico, da una parte, ha dimostrato come – a dispetto dei trionfali proclami dei liberali all’indomani del dissolvimento dell’Unione Sovietica – il socialismo e l’ideologia Marxista-leninista siano ben vivi e abbiano acquisito più forza e ricchezza di quanta mai ne avessero creata prima, soprattutto nella Repubblica Popolare della Cina, e dall’altra parte, invece, ha segnato in Occidente l’inizio di una profonda crisi di credibilità, diffusione, e radicamento nelle popolazioni dei vari Stati europei, per quegli stessi movimento e pensiero.
Gli ultimi trent’anni hanno visto un ridimensionamento, non distante da una completa cancellazione dal panorama politico nell’Occidente capitalistico, delle formazioni comuniste o socialiste la cui influenza sulla società e sulle culture nazionali, nonostante il continuo deterioramento delle condizioni di vita e di lavoro, si è sempre più ridotta, sotto l’attacco costante e sistematico del revisionismo storico e delle incessanti ondate contrarie dei prodotti culturali di massa.
Quella che segue è la traduzione in italiano della lettera aperta originale rivolta dal sottoscritto a questo gruppo o organizzazione informale degli Stati Uniti denominata Spirit of May 28 (SM28.org), un gruppo consolidatosi in conseguenza del movimento di ribellione generale del proletariato giovanile nero e di tanti proletari meticci e bianchi successivo all’assassinio di George Floyd. L’originale inglese della lettera aperta è già presente sul blog la causalità del moto qui.
Questo gruppo composito di militanti, già aveva prodotto diversi e preziosi contributi circa quegli avvenimenti durante quei mesi estivi ed immediatamente dopo, sia sotto forma di articoli pubblici che come contributi di anonimi (molti di questi tradotti in italiano sono presenti su questo blog, sul sito dell’Internazionale Vitalista, e recentemente anche raccolti nel libro “RIOT! George Floyd Rebellion 2020” curato da Calusca City Lights e Radiocane.info). Recentemente SM28.org ha pubblicato sul loro sito un bilancio della loro esperienza ed insieme a quello del movimento di George Floyd, nonché le ragioni per le quali hanno deciso il loro dissolvimento come gruppo organizzato informale. A breve verrà fornita la traduzione in italiano del loro bilancio proprio per l’importanza generale che il movimento spontaneo di George Floyd costituisce nonostante il suo inevitabile riflusso.
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Riconoscere che un movimento è nato, si è sviluppato e poi è rifluito è una grande saggezza, oltre che determinismo nel suo stato “latente” (avrebbe detto Lenin), cioè inconsapevole come concezione teorica ma corretto approccio ai fatti.
La discussione è partita parlando dell’ultimo disastro ambientale in Emilia Romagna, perché c’è da interrogarsi con serietà su un problema così gravoso.
Chi è Gerardo? Uno preso a campione fra i tanti militanti e simpatizzanti della sinistra, pensionato dopo anni di peregrinare tra collegi, seminari, Italia, Germania e Svizzera, di insegnamento e una vita spesa in cultura, che alle mie argomentazioni sul determinismo e la vacuità del libero arbitrio pone la domanda non priva di senso «ma allora siamo degli automi»?
Cercherò di rispondere a questa ed altre domande, ch’essa presuppone, senza ambiguità.
In premessa dico che la domanda di Gerardo presuppone l’uomo come soggetto esclusivo rispetto al movimento generale della materia, dunque alle altre specie della natura. Pertanto se è sbagliata la premessa tutto il ragionamento frammezzato di domande non può che seguire il percorso della premessa.
Distinguiamo due concetti fondamentali da cui partire: fatalismo e determinismo. Per fatalismo si intende una concezione filosofica per cui il mondo è governato da una necessità ineluttabile e del tutto estranea alla volontà e all’impegno dell’uomo. Mentre per determinismo si intende una concezione per cui tutto accade secondo rapporti di causa-effetto.
Il punto da aggredire, perciò, almeno per chi scrive queste note, è lo studio del rapporto causa-effetto in rapporto alla casualità che è anch’essa l’effetto di un rapporto. Dunque siamo in presenza di più fattori confluenti che contribuiscono a determinare un fatto, ovvero il participio passato del verbo fare.
La notizia è stata ben censurata dai media di regime, che si concentrano sul caro affitti degli studenti fuori sede in tenda, come se per tutto il resto la scuola italiana non avesse altri problemi, e addirittura Repubblica prova maldestramente a manipolarla.
Tre giorni fa, infatti, Valentina Lupia su Repubblica scrive che il liceo classico Albertelli di Roma rifiuta i fondi del PNRR per il voto contrario di soli due genitori del consiglio d'istituto.
Risponde il liceo classico Albertelli con un comunicato stampa che riportiamo di seguito.
"COMUNICATO STAMPA
Insegnanti, genitori e studenti del Liceo Pilo Albertelli di Roma difendono la scuola pubblica.
Siamo genitori del Liceo Classico Pilo Albertelli di Roma e abbiamo letto l’articolo a firma di Valentina Lupia apparso su la Repubblica di ieri, 15/05/2023, in cui la decisione del Consiglio di Istituto del 4 maggio scorso di non approvare i progetti del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza – Next generation – Labs e Classrooms viene descritta come il risultato di una scelta ideologica fatta da genitori contrari alla tecnologia e agli investimenti nella scuola: vi chiediamo lo spazio di una replica.
Innanzitutto sgombriamo il campo da una mistificazione: non sono stati due genitori a bocciare i progetti del PNRR, ma la maggioranza del Consiglio di Istituto, organo unitario di indirizzo della scuola in cui sono rappresentate tutte le componenti: a favore dei progetti hanno votato solo il dirigente scolastico e un genitore.
Abstract: Il lavoro affronta una questione centrale nella storia del pensiero economico: quella del rapporto fra teoria economica e scelte politiche. Lo fa studiando il pensiero economico di Paolo Baffi (1911-1989), Governatore della Banca d’Italia dal 1975 al 1979, còlto in un momento particolare della storia europea e italiana: quello che precede immediatamente l’avvio del Sistema monetario europeo (SME), nel 1978, e gli anni successivi. Sono i primi passi dell’integrazione monetaria europea. Il ruolo di Baffi nel negoziato sullo SME è centrale, ma ne esce sconfitto. Allora come ora, gli esperti erano criticati in nome della democrazia. Lo fu anche l’esperto Paolo Baffi, per le perplessità pubblicamente espresse sulla costruzione di un sistema monetario a guida tedesca che avrebbe comportato l’adesione a una politica monetaria di alti tassi di interesse. Una riflessione sul pensiero e sull’azione istituzionale di Baffi può essere utile nella ricerca di una sintesi fra tecnica e politica, oggi quanto mai urgente.
Per uso pubblico della propria ragione io intendo quello che un individuo può esercitare in quanto esperto della materia di fronte al pubblico intero del mondo dei lettori. Chiamo, invece, uso privato quello che è consentito a un individuo in quanto gli è stata affidata una determinata carica civile o funzione pubblica.
Immanuel Kant, Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo? (Kant, 1997, pp. 26-27)
1. Paolo Baffi e l’uso pubblico della ragione
Quello del rapporto fra i tecnici e la politica è un tema centrale nel dibattito pubblico odierno. Lo è in particolare in relazione al progressivo scollamento fra i due ambiti, della crescente sfiducia reciproca. Non è una novità.
Secondo la teoria delle relazioni internazionali nota come realismo (o neorealismo), che ad avviso dello scrivente più di altre consente di decifrare gli accadimenti in corso, protagonista della scena internazionale è lo Stato e il conflitto, politico o militare ne costituisce il carattere dominante. Essendo il potere la posta in gioco, ogni stato mira ad accrescere forza e influenza a danno di altri. Si tratta di una teoria in essenza a-valoriale, che a dispetto dello stupore dissenziente del cosiddetto Occidente non fa distinzione alcuna tra sistemi democratici (liberalismo politico/economia di mercato) e autocrazie o dittature. Secondo tale ermeneutica, i canoni di condotta dei soggetti internazionali sono costanti, a prescindere da tempi e luoghi, i momenti di cooperazione rari e instabili e le difformità da contesto a contesto toccano solo aspetti minori.
In seno a tale scuola di pensiero le leggi identificano le tendenze, le invarianze e le possibili associazioni, mentre le teorie spiegano le ragioni di tali associazioni. Per i realisti, in sostanza, la storia tende a riproporsi ovunque sulla scorta di simili modelli e canoni di comportamento.
Diversamente, per la scuola idealista il mondo procede costantemente in direzione del progresso, come lo storicismo in filosofia. L’essere umano è al centro dell’azione dello stato e la pace perpetua costituisce il fine da perseguire tramite le istituzioni internazionali, l’interazione bilaterale e l’impegno valoriale. Tale obiettivo presuppone l’impegno etico a battersi contro il cinismo e l’indifferenza, anche quando il successo è faticoso e la battaglia un’apparente scelta d’ingenuità.
Roberto Finelli, Filosofia e tecnologia. Una via di uscita dalla mente digitale, Rosenberg&Sellier, 2022
Il nuovo libro di Roberto Finelli, Filosofia e tecnologia. Una via di uscita dalla mente digitale (Rosenberg & Sellier, 2022), ci pone di fronte a un problema quanto mai attuale, quello di quale sia il modo più adeguato di rapportarsi alle nuove tecnologie digitali, per poterne utilizzare le straordinarie opportunità che mettono a disposizione dell’uomo, senza che quest’ultimo ne diventi una mera appendice. E’ del resto plausibile, dal mio punto di vista, quanto tali tecnologie stiano inducendo, soprattutto nei più giovani, una trasformazione del rapporto con la realtà, delle relazioni sociali e finanche della mente, del corpo e della psiche umane. In particolare, la connettività planetaria, attraverso “l’automa cognitivo globale” della rete, come ci ricorda Franco Berardi, porta con sé conseguenze su diversi piani: “c’è un legame tra connettività e prossemica sociale, c’è un legame tra connettività e perdita dell’empatia, c’è un legame tra connettività e precarietà del lavoro, e dissoluzione del sentimento sociale della solidarietà […] c’è un rapporto tra connettività e suicidio”[1]. Sembra quindi si stia realizzando una sorta di cablatura digitale dell’essere umano, una “modellazione biosociale della sensibilità, ovvero un’incorporazione di automatismi cognitivi nella percezione, nell’immaginazione, nel desiderio”[2].
Lo sviluppo più recente dell’intelligenza artificiale (AI), dal canto suo, comincia a nutrire l’ambizione di poter duplicare le funzionalità fisico cognitive dell’essere umano, attraverso replicanti robotizzati la cui anima è un algoritmo evoluto che autoapprende (learning machine), il cui corpo è composto da materiali sintetici e la cui alimentazione è a base di sterminate basi di dati[3].
Quando si tratta di comprendere le trasformazioni del capitalismo, non si può fare a meno della ricerca e dello sguardo teorico di Enzo Rullani. Economista e Senior Researcher alla Ca' Foscari, autore di molti e importanti volumi, è stato tra i primi e tra i più acuti studiosi ad afferrare i nodi sociali, economici e politici del passaggio, a cavallo degli anni Ottanta, dal paradigma fordista a quello postfordista. In questa intervista, che ci ha gentilmente concesso e che va collocata all'interno della ricerca sui decenni perduti inaugurata da Machina, Enzo Rullani ripercorre quella transizione che, per le organizzazioni rivoluzionarie dell'epoca, rappresentò un problema irrisolto con cui ancora oggi abbiamo la necessità di confrontarci. Per quali ragioni il capitale riuscì a integrare, a loro discapito, quegli stessi operai che fino a poco tempo prima avevano dato vita al più importante ciclo di lotta di classe del Novecento in Europa, ed espresso tra le più radicali forme di rifiuto del lavoro? Perché il protagonismo rispetto al proprio destino, da rifiuto di classe del destino capitalistico, si è trasformato in sua entusiastica accettazione individualistica? Una pista che può valere la pena di seguire è quella che Enzo Rullani indica con il concetto di «ri-personalizzazione delle imprese e del lavoro», un processo che segna ancora oggi il rapporto con il lavoro di una fetta consistente della composizione sociale. La ricerca di una risposta a queste domande non va però intesa come un semplice esercizio storiografico, bensì come la condizione per uscire, oggi, dall'impasse politica in cui ci troviamo, pur con la consapevolezza che altre trasformazioni (come la digitalizzazione), nel frattempo, sono sopraggiunte. Di fronte a esse, la ricostruzione della loro genealogia e l'individuazione di un orizzonte strategico sono le due condizioni per evitare il rischio del «presentismo», come viene sapientemente chiamato nell'intervista, e per rovesciare le tendenze dello sviluppo che, come scrive ancora Rullani, non hanno nulla di necessario.
Premessa
Ci aspetta il decoupling, ossia il “disallineamento di sistema”? Quelli che si erano illusi che con la globalizzazione il mondo fosse diventato per sempre “uno” si devono ricredere perché invece corre velocemente verso il “due”, verso il West and the Rest, l’Occidente contro il Resto, come dal titolo di un del libro di Niall Ferguson. Colpa certamente della guerra russo-ucraina, ma pure degli alti tassi d’interesse della Federal Reserve che manda in default le banche e spinge il dollaro alla “de-dollarizzazione”.
Per capirci qualcosa pubblichiamo l’articolo di Toni Iero appena comparso sulla rivista bolognese “Cenerentola” (Aprile 2023, n. 262) [Giorgio Gattei].
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Il recente fallimento di Silicon Valley Bank (SVB) ha riportato alla memoria quello avvenuto nel settembre del 2008 della Lehman Brothers. Fino a che punto si tratta di episodi simili? Siamo di fronte ad un’altra tempesta finanziaria in grado di scuotere i sistemi economici mondiali? Cominciamo col dire che, in realtà, il dissesto di SVB ha origini diverse da quello che travolse la Lehman. Circa quindici anni fa, la banca d’affari americana venne messa in ginocchio dall’insolvenza dei clienti cui aveva prestato il suo denaro. Oggi la banca californiana è stata colpita dal ritiro di ingenti quantità di dollari depositati sui suoi conti correnti. Nel primo caso il problema sorse dal lato dell’attivo (prestiti), questa volta dal lato del passivo (depositi). Per chiarire, in estrema sintesi, una banca raccoglie denaro (conti correnti, depositi) e lo presta (finanziamenti alle imprese, mutui), guadagnando sulla differenza dei tassi di interesse applicati (quello su conti correnti e depositi è, usualmente, molto minore di quello sui prestiti).
“Marx aveva avuto ragione una prima volta, l’aristocrazia aveva ceduto il passo alla borghesia, ma aveva avuto ragione una seconda, la borghesia si dimostrò immediatamente incapace di ricoprire il ruolo di classe dirigente egemone, non essendo stata in grado di soffocare sul nascere la rivoluzione bolscevica in Russia prima e quella comunista in Cina poi”
Premessa: la rivoluzione borghese ha fallito
Una rilevante parte dell’opera di Karl Marx si è imperniata sulla descrizione della rivoluzione borghese ai danni dell’aristocrazia di origine feudale, che ancora nel XIX secolo occupava posti di comando in Europa, e con la quale la borghesia trionfante della Rivoluzione francese e della successiva epopea napoleonica doveva ancora spartire il controllo dello stato. Lo abbiamo sottolineato in passati articoli, sotto un certo punto di vista, nel vecchio continente il delicato equilibrio tra borghesia ed aristocrazia, tipico ad esempio dell’élite britannica, ha determinato la nascita della Banca d’Inghilterra prima e del Gold Standard poi; negli Stati Uniti, dove la classe aristocratica con le sue patenti regie ed i suoi privilegi derivanti era inesistente, la borghesia poté esprimere liberamente la propria visione politica e quindi, nonostante due tentativi, una Banca degli Stati Uniti paragonabile a quella inglese non esistette mai, ed il “dollar standard” fu il modello finanziario per la conquista dell’ovest, fatta cioè con carta moneta. In Europa, l’equilibrio tra borghesia ed aristocrazia si ruppe definitivamente a favore della prima con la fine della Grande Guerra, ed il tramonto di antiche dinastie come quella degli Asburgo, degli Hohenzollern e dei Romanov portò con sé la classe che aveva governato dai tempi della caduta dell’Impero romano.
Nella collana «Culture radicali» (a cura del Gruppo Ippolita) delle edizioni Meltemi, è appena uscito il saggio «Riot Sciopero Riot. Una nuova epoca di rivolte» di Joshua Clover (traduzione di Lorenzo Mari e postfazione di Into the Black Box). Secondo l’autore la lotta del popolo contro lo stato è scesa in strada inaugurando una nuova epoca di rivolte. Queste sono state la principale forma di protesta nel XVII e XVIII secolo. Soppiantate dagli scioperi all’inizio del XIX secolo, sono prepotentemente tornate alla ribalta a partire dalla crisi economica globale del 1973. Il libro sarà presentato mercoledì 19 aprile alle 19.00 al CSOA Forte Prenestino (via Federico Delpino, Roma), con il Gruppo Ippolita e il Duka. Qui ne anticipiamo un estratto per i nostri lettori, ringraziando l’editore, l’autore e i curatori per la disponibilità.
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I riot stanno arrivando, alcuni sono già qui e altri sono in preparazione. Non c’è dubbio. Ci vuole una teoria adeguata. Una teoria del riot è una teoria della crisi. Questo è vero, in una dimensione locale e specifica, nel momento in cui i vetri vanno in frantumi e scoppiano gli incendi, quando il riot significa l’irruzione sulla scena, per la durata di poche ore o pochi giorni, di una situazione disperata, di un impoverimento estremo, della crisi di una certa comunità o amministrazione cittadina. Tuttavia, il riot può essere compreso soltanto se lo si considera dotato di valenze interne e strutturali e, per parafrasare Frantz Fanon, nella misura in cui possiamo discernere il movimento storico che gli dà forma e contenuto. A quel punto, ci si deve spostare su altri livelli nei quali la chiamata a raccolta tipica dei riot risulta inscindibile dall’attuale crisi sistemica del capitalismo.
Il colonnello Douglas MacGregor rivela la devastante verità sull'esercito permanente dell'Ucraina: è stato cancellato. Il Presidente Zelensky questo fine settimana ha detto che ci sono lunghe file ai centri di reclutamento dell'Ucraina, ma non ci sono prove. La Russia continua a decimare la difesa aerea in tutta l'Ucraina in vista dell'offensiva di giugno.
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Morris: Poche ore fa, la Russia ha scatenato un massiccio attacco aereo sull'Ucraina. L'Ungheria è arrabbiata perché l'Ucraina ha progettato di far saltare il proprio gasdotto verso la Russia. Gli Stati Uniti, il Regno Unito e la Germania hanno intenzione di inviare altri miliardi di armi all'Ucraina. E Rishi Sunak ha abbracciato Zelensky ieri nel Regno Unito. Quindi tutto questo denaro, tutte queste armi, cambieranno qualcosa? Se non cambierà nulla e cosa è successo durante la notte, lo faremo con il colonnello Douglas McGregor che ci fornirà la sua analisi e i suoi approfondimenti… Colonnello, è un piacere vederti, amico mio. Bentornato alla trasmissione.
MacGregor: Il piacere è mio.
Morris: Parliamo prima di tutto di quello che è successo durante la notte, della strategia e della tattica di quello che è successo durante la notte con Putin che ha lanciato una raffica di attacchi. I rapporti dicono che si è trattato di un attacco devastante da parte ucraina. Gli ucraini però dicono di averli abbattuti tutti. Anche sei missili Kinzhal, i missili ipersonici. Quindi l'Ucraina dice: "Non preoccupatevi, abbiamo tutto sotto controllo". La Russia dice che hanno colpito tutti e hanno centrato i loro obiettivi. Cosa ne pensate di quest'ultima raffica di missili contro la capitale?
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