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Fordismo, postfordismo, digitalizzazione: l'orizzonte strategico del capitalismo

Antonio Alia intervista Enzo Rullani

0e99dc 68ec65d43a73443c9b6fa2d6c26b5e6emv2Quando si tratta di comprendere le trasformazioni del capitalismo, non si può fare a meno della ricerca e dello sguardo teorico di Enzo Rullani. Economista e Senior Researcher alla Ca' Foscari, autore di molti e importanti volumi, è stato tra i primi e tra i più acuti studiosi ad afferrare i nodi sociali, economici e politici del passaggio, a cavallo degli anni Ottanta, dal paradigma fordista a quello postfordista. In questa intervista, che ci ha gentilmente concesso e che va collocata all'interno della ricerca sui decenni perduti inaugurata da Machina, Enzo Rullani ripercorre quella transizione che, per le organizzazioni rivoluzionarie dell'epoca, rappresentò un problema irrisolto con cui ancora oggi abbiamo la necessità di confrontarci. Per quali ragioni il capitale riuscì a integrare, a loro discapito, quegli stessi operai che fino a poco tempo prima avevano dato vita al più importante ciclo di lotta di classe del Novecento in Europa, ed espresso tra le più radicali forme di rifiuto del lavoro? Perché il protagonismo rispetto al proprio destino, da rifiuto di classe del destino capitalistico, si è trasformato in sua entusiastica accettazione individualistica? Una pista che può valere la pena di seguire è quella che Enzo Rullani indica con il concetto di «ri-personalizzazione delle imprese e del lavoro», un processo che segna ancora oggi il rapporto con il lavoro di una fetta consistente della composizione sociale. La ricerca di una risposta a queste domande non va però intesa come un semplice esercizio storiografico, bensì come la condizione per uscire, oggi, dall'impasse politica in cui ci troviamo, pur con la consapevolezza che altre trasformazioni (come la digitalizzazione), nel frattempo, sono sopraggiunte. Di fronte a esse, la ricostruzione della loro genealogia e l'individuazione di un orizzonte strategico sono le due condizioni per evitare il rischio del «presentismo», come viene sapientemente chiamato nell'intervista, e per rovesciare le tendenze dello sviluppo che, come scrive ancora Rullani, non hanno nulla di necessario.

Anche noi, quindi, dobbiamo fare nostra la consapevolezza «che non c’è mai vento a favore per il marinaio che non sa qual è il suo porto».

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Nella discussione sulla transizione in corso, sono ancora presenti molti dei concetti e delle istituzioni ereditate dal fordismo del secolo scorso. Qual è la ragione della loro persistente forza, anche in presenza di una situazione che sta andando verso sistemi di produzione e di vita sociale diversi?

Il fordismo è stato, nel periodo 1920-1970, un sistema che ha conseguito un successo straordinario, sia in termini di crescita della produttività che di progressiva costruzione di un sistema coerente di relazione economia-società (diciamo un «paradigma»). Un sistema capace di sfruttare al meglio le potenzialità della tecnologia e al tempo stesso di gestire le contraddizioni economiche e sociali innescate dal loro sviluppo fuori controllo.

Anche se Henry Ford inizialmente considerava il fordismo come un sistema focalizzato solo sulla produzione efficiente ottenuta nella fabbrica, col passare del tempo – e per effetto delle successive crisi che sono intervenute lungo la sua traiettoria di crescita – il paradigma fordista ha sviluppato ordinamenti sociali capaci di consolidare e utilizzare al meglio l’efficienza dalla fabbrica, facendo emergere:

  • un sistema stabile di organizzazione e controllo, articolato in un certo numero di imprese di larga scala, governate da manager capaci di programmare in modo coordinato migliaia di singole operazioni lavorative, fornendo ad un consumatore «fedele» quanto è stato previsto e prodotto;

  • uno Stato sociale finanziato dal prelievo fiscale, che riesce a sviluppare su larga scala servizi di welfare universale (non solo «privato») nella scuola, nella sanità, nei trasporti, nelle utenze energetiche, nell’organizzazione delle città ecc.;

  • un insieme di rappresentanze collettive, che, con la loro mediazione sono capaci di redistribuire tra i diversi co-produttori il valore prodotto in fabbrica, mettendo in relazione i sindacati dei lavoratori e rappresentanze degli imprenditori, attraverso la contrattazione e regolazione dei comportamenti economici e sociali.

Queste istituzioni, insieme alla fabbrica fordista, sono state l’altra faccia del salto di produttività ottenuto con le nuove tecniche della produzione di massa. Nel ruolo di complemento necessario, esse hanno portato allo sviluppo di un paradigma coerente, capace di svilupparsi in forme sostenibili. La redistribuzione del reddito per via politica o sindacale crea infatti le condizioni di domanda necessarie per assorbire la crescente produzione derivata dai guadagni di efficienza in fabbrica.

Oggi possiamo considerare questa evoluzione sinergica col senno di poi, considerandola necessaria. In realtà, la sperimentazione e il consolidamento di tale assetto istituzionale non sono stati frutto di una evoluzione spontanea e non contrastata. Al contrario, il sistema ordinamentale sopra richiamato è stato frutto delle iniziative sperimentali portate avanti da soggettività politico-sociali dotate di visione e disposte a lottare per raggiungere i loro obiettivi. Molte di queste soggettività sono tuttora in campo, anche se oggi la loro visione appare volta più alla conservazione di quanto acquisito in passato che alla creazione di un futuro ispirato ad una logica diversa.

 

Quali sono state le cause fondamentali della crisi del regime fordista e quindi della transizione verso quel «modello» di produzione che all'epoca veniva indicato come post-fordismo?

Per capire le ragioni che – dagli anni Settanta in poi - hanno portato alla crisi del fordismo, bisogna fare riferimento alle contraddizioni che tale modo di produrre e di organizzare la vita sociale ha alimentato sin dal suo avvio, portando avanti le proprie premesse tecnologiche.

La potenza tecnologica del fordismo, in linea con la logica economica scaturita dalla modernità, deriva dalla capacità di usare la conoscenza riproducibile, ossia un tipo di conoscenza che, una volta prodotta, costa poco o nulla replicare in n applicazioni. In ognuno di questi n ri-usi la replicazione della conoscenza posseduta genera un valore utile v (per l’utilizzatore) con un costo c nullo o comunque molto ridotto (rispetto al costo della prima produzione). La differenza tra v e c genera un surplus che si moltiplica in funzione del numero dei ri-usi, dando luogo ad un valore complessivo n(v-c). Un valore che può diventare enorme se n arriva a numeri elevati, come accade nelle grandi e grandissime imprese. Messo a punto il progetto di una macchina efficiente, con la stessa conoscenza si possono infatti produrre cento o mille macchine uguali, capaci di ri-utilizzare a costo zero la conoscenza contenuta nella prima. E ognuna di queste macchine, una volta fissata la procedura per ottenere un prodotto può, con la stessa procedura, fornire cento, mille o un milione di prodotti, a costo marginale zero (dal punto di vista cognitivo).

In questo senso, il fordismo è il paradigma che utilizza al meglio le potenzialità di una modernità basata sulla scienza. Ossia su un tipo di conoscenza che fin dall’inizio viene progettata e prodotta in modo da essere riproducibile, non solo per verificarne la correttezza scientifica, ma anche per poterla propagare e rendere disponibile a tutti i possibili user.

La scienza, tuttavia, ottiene questa performance grazie al fatto che la produzione iniziale di una conoscenza e la sua riproduzione successiva si realizzano in un ambiente «protetto» a bassa complessità: il laboratorio. Un ambiente in cui entrano in gioco solo le cause e gli effetti pertinenti, che devono essere studiati per definire la relazione «verificabile» tra causa ed effetto mentre sono esclusi tutti gli altri.

Nel circuito scientifico, la complessità del mondo reale (che impone livelli non banali di varietà, variabilità, interdipendenza e indeterminazione) viene esclusa dai protocolli di laboratorio che regolano le sperimentazioni ammesse. La varietà, in altri termini, viene ridotta all’unico standard ammesso (escludendo le altre possibili varianti); la variabilità viene ridotta al programma prestabilito (escludendo variazioni nel tempo non previste); l’interdipendenza viene limitata ai soli fattori rilevanti (escludendo dal mondo del laboratorio tutte le relazioni non pertinenti); l’indeterminazione viene ridotta al minimo da fattori che controllano e predeterminando i possibili eventi, che possano intervenire in corso d’opera.

Tuttavia, per creare valore economico, la conoscenza riproducibile deve essere impiegata nel mondo reale (e non solo in laboratorio). Dunque, la scienza (astratta) non può essere usata direttamente per ottenere gli effetti utili voluti, ma essa va tradotta in tecnologia e incorporata in qualche mediatore fisico che possa essere collocato e riprodotto nel mondo reale. Nei due secoli e mezzo di modernità si sono succeduti diversi mediatori cognitivi impiegati per ri-usare a fini pratici la conoscenza riproducibile; la macchina (nel capitalismo industriale dell’800), l’organizzazione (nel fordismo 1920-70), il territorio (nel capitalismo flessibile 1970-2000), gli algoritmi e automatismi digitali (nel capitalismo digitale, post-2000)

Il primo mediatore cognitivo che traduce la scienza moderna in risultato utile (valore) è la macchina, che, nel primo capitalismo industriale rende replicabile la conoscenza in essa incorporata, con effetti produttivistici importanti rispetto alle tecniche agricole e artigianali precedenti.

Il secondo mediatore, emerso col fordismo del novecento, è l’organizzazione, ossia una sequenza coordinata e finalizzata di macchine specializzate che nel loro insieme lavorano la materia prima fino ad arrivare al prodotto finito. Perché l’organizzazione delle linee di produzione fordiste possa riprodurre il sapere tecnologico in essa incorporato bisogna tuttavia predisporre una pre-condizione: il mondo in cui essa è chiamata ad operare deve avere livelli bassi o nulli di complessità.

Di conseguenza, il fordismo genera la sua efficienza facendo leva sul controllo del mondo reale in cui le organizzazioni fordiste si trovano ad operare: sia nel lavoro di fabbrica che negli uffici, standard, programmi, controlli gerarchici e esclusione degli imprevisti sono la regola da osservare. Imponendo così una drastica compressione della complessità a tutti: al lavoro, al contesto sociale e territoriale, al «consumatore fedele» ecc.

Il controllo sull’organizzazione interna e quello (minore ma consistente) sull’ambiente esterno consente alle grandi imprese fordiste di sfruttare al meglio le economie di riproducibilità della conoscenza, aumentando i volumi dei prodotti standard portati al mercato, con le economie di scala conseguenti. La logica che ne deriva è quella della massima integrazione verticale possibile, internalizzando in azienda tutta la filiera necessaria ad ottenere il prodotto finito. E, accanto a questa, la logica della crescita dimensionale, ottenuta anche assorbendo o facendo fallire le piccole e medie imprese pre-esistenti nei diversi settori.

Tutto questo funziona, con ottimi risultati, finché il processo moltiplicativo delle macchine e dei prodotti riesce a mantenere bassa la complessità ammessa, all’interno dell’azienda e nell’ambiente esterno.

In forza di questo criterio fondativo, tutto cambia.

Il lavoro prima di tutto. I compiti dei lavoratori vengono, infatti, fortemente standardizzati e dunque spersonalizzati. Di conseguenza, i soggetti individuali (i singoli lavoratori) perdono rilevanza, mentre prendono vita molti e influenti soggetti collettivi, come i sindacati e le classi sociali attive sul terreno della rappresentanza politica. Questi soggetti collettivi mettono insieme lavoratori standard, che si organizzano nelle fabbriche e nella società, riuscendo così ad avere un potere contrattuale rilevante nei confronti delle controparti contrattuali e politiche.

Un tale sistema richiede, per stabilizzarsi, una forte concentrazione del potere decisionale al vertice, assegnando alle grandi imprese e allo Stato un ruolo di controllo nelle filiere produttive e nei luoghi di produzione, stabilendo una gerarchia piramidale capace di guidare i comportamenti economici e sociali e di garantire il reciproco riconoscimento dei soggetti in campo. Allo scopo, la complessità della vita economica e sociale (in termini di varietà, variabilità, interdipendenza e indeterminazione) deve essere compressa, riducendo a standard le individualità e riportando il loro comportamento al programma prestabilito.

La crisi del fordismo, negli anni Settanta, scatta quando diventa chiaro che lo sviluppo economico e sociale genera, per sua natura, una complessità che – con la sua continua crescita - sfugge al controllo delle grandi organizzazioni che pure promuovono lo sviluppo delle utilità e dei consumi.

La complessità eccedente, negli ultimi decenni del secolo scorso, si manifesta sotto diverse forme: una domanda sempre meno condizionabile, che esplora varianti nuove, diverse da quelle dettate dal marketing; una concorrenza trans-nazionale che, con l’arrivo delle imprese giapponesi, sfugge alla logica collusiva tra giganti già affermati; una condizione di instabilità monetaria che altera i programmi di vendita e acquisto nelle relazioni internazionali. Emergono poi, sempre più importanti rivendicazioni dei lavoratori che promuovono esigenze delle persone, imponendo azioni non programmate (si pensi, in Italia, a tutto quello che ha voluto dire l’ «autunno caldo»). Infine, dovendo operare in questo contesto in ebollizione, lo Stato – che doveva essere il mediatore in ultima istanza dei conflitti interni al paradigma – perde progressivamente la sua capacità di influenza e di direzione, aprendo ad una liberalizzazione dei mercati e dei rapporti sempre più complessa, capaci di minare la stabilità dei rapporti pre-esistenti.

La crisi, a partire dagli anni Settanta, si manifesta sotto forma di una esplosione di dinamiche non previste e fuori controllo, che fanno saltare i piani delle grandi aziende, incapaci di tenere dietro ai cambiamenti emergenti giorno per giorno. In questo contesto prendono forma le prime esperienze di successo di quello che è stato chiamato capitalismo post-fordista.

 

Quali sono i tratti peculiari di questo post-fordismo, soprattutto in termini di trasformazione del lavoro?

Il post-fordismo che, un po’ in tutti i paesi, emerge nel periodo di transizione 1970-2000, si caratterizza per la ricerca di un sistema tecnologico-produttivo capace di garantire risposte efficienti ma al tempo stesso flessibili, per fronteggiare la crescente complessità ambientale che le grandi aziende ereditate dal fordismo devono gestire.

Il primo passaggio per guadagnare margini di flessibilità senza alterare troppo le pre-esistenze è stato il downsizing, che contraddice la precedente regola dell’espansione maggiore possibile. Le maggiori imprese hanno infatti cominciato a decentrare a fornitori esterni tutta una serie di attività, eccedenti le loro consolidate routine e i loro programmi. Salvaguardando il nucleo centrale del sistema produttivo pre-programmato, si è cominciato a fare outsourcing di materiali, componenti, soluzioni, servizi e conoscenze esterne, ricorrendo a fornitori flessibili, in grado di adattare i loro processi in tempi ragionevolmente brevi e di accettare anche commesse di piccola scala o di carattere temporaneo.

Questi fornitori flessibili sono emersi, e si sono progressivamente auto-organizzati, in sistemi sociali in cui il mancato o ritardato sviluppo dell’industrializzazione fordista aveva lasciato in vita una base di piccola imprenditorialità e notevoli riserve di manodopera disponibile. Ad esempio, in Italia, condizioni del genere erano presenti nelle regioni che si sono industrializzate, con successo, solo nel periodo 1970-2000, come il Nordest (Veneto, Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige) e il Centro italia (Emilia Romagna,Toscana, Umbria, Marche), completando il processo di industrializzazione che in precedenza si era concentrato nel Triangolo Industriale (Lombardia, Piemonte, Liguria).

Il capitalismo flessibile che, in questo modo, prende forma in risposta alla crisi del fordismo utilizza le iniziative imprenditoriali di piccole imprese industriali, di artigiani o commercianti, che rispondono alla nuova domanda di flessibilità espressa dal blocco delle grandi aziende ex fordiste (in crisi di rigidità). Nuove aziende di piccola e media scala crescono rapidamente in alcuni settori (tessile-abbigliamento, arredamento, meccanica, occhialeria ecc.), concentrandosi in alcuni luoghi, lontano dai centri industriali precedenti, e possono farlo nelle periferie utilizzando migliaia di lavoratori espulsi dall’agricoltura, per effetto dei nuovi processi di meccanizzazione del lavoro dei campi e di trasformazioni connesse.

Se nel capitalismo della grande impresa il mediatore cognitivo che rendeva la conoscenza replicabile (con le economie di scala conseguenti) era l’organizzazione gerarchica, che controllava l’intero ciclo dall’alto, nel capitalismo post-fordista che valorizza la flessibilità il motore della crescita ha invece due poli costitutivi:

  • l’intraprendenza delle persone, che, dividendosi il lavoro (tra specialisti e clienti focalizzati sullo stesso settore) generano molte filiere locali di impresa diffusa, col risultato di sovrapporsi e competere in risposta alla domanda internazionale di flessibilità e di prodotti di nicchia;

  • il territorio, che – per imitazione e condivisione – concentra e diffonde le conoscenze auto-prodotte dalle diverse esperienze in uno specifico settore di specializzazione, mettendo a disposizione degli imprenditori e dei lavoratori coinvolti (spesso indotti a «mettersi in proprio») un «capitale sociale» di sapere pratico e di relazioni interpersonali affidabili. Due condizioni che consentono a ciascun distretto di creare un sistema efficiente, ma al tempo stesso flessibile, di divisione del lavoro, capace di ri-usare la conoscenza informale sedimentata nell’esperienza del luogo.

Persone e territorio – che consentono l’efficiente divisione del lavoro tra le persone dotate di diverse competenze e funzioni nelle filiere distrettuali – danno luogo, col loro apporto ad un terzo paradigma della modernità (il capitalismo flessibile 1970-2000), seguendo una traiettoria non facile, in forza delle nuove contraddizioni emergenti.

La prima contraddizione deriva dalla forma spontanea di nascita del capitalismo territoriale, che inizialmente si sviluppa sotto traccia e lungo i sentieri a basso costo, appoggiati a forme poco visibili di sfruttamento del lavoro. Non a caso, nei primi anni post Settanta, molti degli osservatori che guardavano a quanto stava emergendo nei territori del primo post-fordismo, parlavano di «capitalismo del sottoscala», orientato a sfruttare il basso costo del lavoro a domicilio in aree povere, ad elevata disoccupazione. Non a caso, in certi territori, viene avviato un meccanismo perverso di segregazione di lavoro dipendente a basso costo, come accade nel distretto tessile di Prato, con migliaia di immigrati cinesi che sono confinati in spazi ristretti di vita e di lavoro e separati dal resto della popolazione locale.

Ma questo accade soprattutto nei difficili anni dell’avvio del nuovo paradigma. Con la crescita delle competenze e delle iniziative imprenditoriali del distretto, il capitalismo distrettuale nei molti luoghi della periferia industriale italiana porta, in seguito, alla valorizzazione del lavoro locale. Si realizza in questi luoghi un lento ma progressivo passaggio dall’agricoltura e dal vecchio terziario all’industria moderna. Inoltre, sulla base dell’esperienza fatta sul campo, nei distretti si apre per molti operai la possibilità di diventare imprenditori, mettendosi in proprio a svolgere lavori imparati come lavoratori dipendenti.

L’antagonismo tra lavoro e capitale, tipico del modello fordista, perde consistenza perché nei distretti industriali l’imprenditore, i suoi lavoratori dipendenti, i suoi fornitori specializzati fanno parte dello stesso ambiente culturale e sociale. Spesso il rapporto interpersonale consolida la relazione professionale, le rispettive famiglie si frequentano, tutti conoscono tutto di quello che accade intorno alle singole attività. Non solo: i lavoratori, differenziandosi per pratica professionale e storia individuale, non sono più riducibili al lavoro standard, ossia al tempo-lavoro del fordismo, indifferente alle qualità e alle aspirazioni dei singoli. Se il lavoro si individualizza, diventa meno facile aggregare centinaia o migliaia di lavoratori in rappresentanze sindacali e in contrattazioni di tipo collettivo.

D’altra parte, il potere contrattuale dei lavoratori assunti dalle diverse imprese del distretto aumenta man mano che la riserva di manodopera ex agricola si esaurisce, cosicché le imprese hanno interesse ad assumere e mantenere nel corso del tempo lavoratori fidelizzati, che si sono formati sul campo specifico in cui l’azienda opera.

In questo senso, i distretti non inibiscono il lavoratore, ma, per molti versi, lo promuovono a protagonista del proprio destino. La professionalità del lavoro cresce, infatti, con l’esperienza pratica di ciascuno e alimenta l’intelligenza e la creatività delle persone, impegnate in compiti che mutano in continuazione e che richiedono una forte capacità di adattamento e di relazione. Nei distretti industriali di maggiore successo, inoltre, i nuclei familiari possono uscire dalla povertà iniziale anche grazie al fatto che la crescita distrettuale crea posti di lavoro per tutti i membri adulti della famiglia, consentendo di sommare i redditi di ciascuno con quello dei familiari conviventi.

Nel corso degli anni Settanta e Ottanta, molti degli economisti più attenti alle novità del postfordismo (tra cui Giacomo Becattini, Sebastiano Brusco, Giorgio Fuà), contribuiscono a delineare, anche sul piano teorico, un paradigma di capitalismo di tipo nuovo, ancorato ai territori. Un capitalismo che dimostra di avere buone performance nel mercato competitivo, ma – come diverrà evidente in seguito – ha comunque un difetto fondamentale: si è affermato d’impulso, senza una grande consapevolezza dei fattori che hanno reso possibile il suo sviluppo durante un periodo particolare (il periodo 1970-2000), dopo decenni di emarginazione e sottovalutazione dei territori periferici e della piccola impresa.

Questa mancanza di auto-consapevolezza viene da Becattini paragonata al «volo del calabrone» che, pur avendo una conformazione fisica che sembra inadatta al volo, riesce lo stesso a volare. Infatti, essendo ignaro di questa diagnosi aprioristica, il calabrone contraddice ogni previsione, e prova a volare, riuscendoci. Ma non sa perché ci riesce.

Nei distretti, la scarsa auto-consapevolezza del «calabrone» che vola senza avere una chiara rappresentazione delle ragioni che, dal 1970 al 2000, gli hanno fornito il vantaggio competitivo, diventa un problema chiave quando, negli anni post-2000, la geografia dei vantaggi competitivi muta, per effetto dell’avvento delle tecnologie digitali, che consentono di sfruttare i vantaggi dell’interconnessione trans-territoriale, superando i confini dei micro-sistemi locali su cui erano cresciuti i distretti industriali.

Il digitale inventa altri modi di offrire la flessibilità che serve alle imprese per fronteggiare livelli crescenti di complessità: le filiere possono allargarsi a reti che vanno oltre il locale (con interconnessioni metropolitane, nazionali o globali); le persone possono e devono accedere a conoscenze che eccedono la propria esperienza pratica, a condizione che sappiano padroneggiare i linguaggi formali della comunicazione trans-territoriale; gli imprenditori possono guardare all’estero non solo per vendere, ma anche per sfruttare condizioni favorevoli di produzione trans-territoriale (dal punto di vista del costo del lavoro, del carico fiscale, delle disponibilità di risorse, della vicinanza ai mercati di sbocco ecc.).

Molte imprese leader o comunque impegnate in progetti innovativi reagiscono a questo nuovo scenario re-inventando il proprio business, attraverso un allargamento della propria filiera e dei riferimenti di mercato allo spazio internazionale, pur conservando nel sistema locale un nucleo portante composto delle attività in quei campi in cui è decisiva, e conveniente, l’integrazione col sapere e con le iniziative presenti nel territorio. Altre imprese, più resilienti, ridimensionano i propri investimenti e obiettivi, selezionando funzioni in cui conservano un vantaggio e adeguandosi al ripiegamento dei circuiti locali. Altre ancora cercano soluzioni di risparmio dei costi decentrando attività più o meno rilevanti in paesi a basso costo del lavoro (come l’Est europeo, la Cina e altri paesi asiatici).

Dal 2000 in poi, insomma, il postfordismo si sta re-inventando, anche nelle aree distrettuali. Il problema chiave che dovrebbe essere affrontato in maniera collettiva – e che spesso non riesce ad essere nemmeno messo a fuoco come dovrebbe - è tuttavia la necessaria trasformazione del capitale umano. Per avere persone (imprenditori e lavoratori) capaci di muoversi nelle nuove reti del business digitale servirebbe infatti un investimento massiccio in formazione professionale sia nella scuola che nel posto di lavoro. Le persone, abituate nei distretti ad usare il sapere pratico e le relazioni inter-personali dirette, devono oggi acquisire la capacità di gestire le conoscenze codificate, andando oltre la propria esperienza diretta, e di gestire rapporti interpersonali e trans-territoriali estesi oltre i confini distrettuali e nazionali.

Da questa insufficienza di investimento e di reazione strategica deriva una perdita di velocità dello sviluppo dei distretti rispetto ad altre forme di capitalismo post-fordista, agganciate alla traiettoria della digitalizzazione globale. Se in Italia la produttività e i livelli salariali sono rimasti indietro, negli ultimi venti anni, rispetto a quelli di molte altre nazioni, nostre concorrenti, è anche per questo venir meno dei nostri vantaggi distrettuali tipici, con il conseguente rallentamento della transizione verso le forme emergenti di capitalismo digitale.

 

Quella transizione è stata caratterizzata dalla crescita del lavoro autonomo che ha connotato l'economia italiana e soprattutto quella del Nordest. Attorno a queste forme di lavoro si è costruito un segmento importante di ceto medio. Che tipo di soggettività ne è emersa (in termini di valori, rapporto con il lavoro, rapporto con le istituzioni e la politica, ecc.) e come si è trasformata oggi?

La crescita distrettuale 1970-2000 genera un arricchimento importante in tutto il sistema italiano, che si industrializza in modo abbastanza omogeneo, salvo il Mezzogiorno. Lo sviluppo si traduce non solo in un consolidamento del reddito e della posizione professionale dei lavoratori dipendenti dell’industria, ma in una redistribuzione della ricchezza prodotta di scala più ampia. Nel corso degli anni, cresce infatti il numero degli imprenditori, e dei loro associati familiari o manageriali; cresce la rosa dei professionisti che seguono dall’esterno le aziende, fornendo servizi di assistenza e indirizzo quasi-manageriali; cresce il numero dei lavoratori dipendenti che in varie forme si autonomizza all’interno delle reti distrettuali, sviluppando ruoli di fornitura fidelizzata e ben pagata. Cresce anche il numero e la varietà degli operatori terziari che vendono servizi di varia natura, e - in genere - di bassa produttività, ad una domanda derivante dal benessere diffuso nel sistema sociale.

Inoltre occorre tenere presente la forma di auto-coscienza che si accompagna ai processi di promozione economica e sociale che le persone sperimentano nel corso del tempo: non solo c’è un forte attaccamento al lavoro che ciascuno compie nella filiera della produzione locale, ma c’è anche la convinzione che il successo ottenuto sia frutto dell’eccellenza imprenditoriale o professionale, nonostante questa convinzione nasca sulla base della propria esperienza soggettiva prima che dal confronto con altri modelli di capitalismo e di vita sociale, esterni al circuito locale e poco conosciuti.

La composizione socio-culturale abbastanza eterogenea, che ne risulta, rende difficile l’integrazione di interessi e di prospettive tra i diversi gruppi sociali, sia sul piano della rappresentanza sindacale che su quello della rappresentanza politica. Sul terreno dei rapporti di lavoro la dialettica di classe appare fuori luogo in un sistema in cui le posizioni individuali sono non solo differenziate e mutevoli, ma intrecciate in molteplici legami familiari, culturali, di co-produzione del valore. Sul terreno politico, la dialettica tra destra e sinistra viene oscurata dalla frammentazione di posizioni che alla fine converge sul centro, in una posizione di sostegno allo sviluppo spontaneo piuttosto che di correzione o indirizzamento strategico dello stesso.

Nel capitalismo distrettuale, lo Stato appare infatti lontano, e abbastanza estraneo alle forze (locali) dello sviluppo spontaneo. La politica ha dunque un forte baricentro locale, ed è abbastanza restia a svolgere ruoli di direzione o di sintesi, anche su base territoriale: basta pensare che le Agenzie per lo sviluppo dei diversi distretti tardano ad affermarsi nel corso del tempo, e prendono corpo solo sul finire del periodo d’oro 1970-2000. Fa eccezione, da questo punto di vista, soprattutto l’Emilia Romagna, che nel suo percorso sperimenta forme interessanti di integrazione tra iniziative politiche regionali e sviluppo spontaneo delle imprese nei settori di piccola e media impresa.

In generale, nel Nordest e nell’Italia distrettuale, si nota una debole presenza di politiche pro-attive, capaci di proporre traiettorie di crescita autonome – e correttive – rispetto a quelle dello sviluppo spontaneo. Questo, tuttavia, non è un grande problema fino a che lo sviluppo del capitalismo flessibile va avanti per via spontanea, senza richiedere forti cambiamenti. Ma, dal 2000 in poi, la carenza di iniziative importanti di tipo sindacale (per il rinnovamento del capitale umano) e di tipo politico (per investimenti consistenti in ricerca, istruzione, infrastrutture, sapere digitale) diventa un handicap, che si fa fatica a superare.

 

Oggi, delle teorizzazioni che provavano ad afferrare i nodi principali della transizione, cosa si può ritenere che abbia funzionato e cosa invece è risultato inadeguato?

In ogni processo di transizione importante, le iniziative dei soggetti si trovano ad operare nello spazio inerziale che si apre tra il «vecchio» che non funziona più e il «nuovo» che non funziona ancora. Questo è accaduto, in Italia, anche nella transizione digitale avviata nel 2000 e tuttora in via di svolgimento: nel capitalismo flessibile ereditato dal periodo 1970-2000, ci si rende conto dei limiti di quanto è stato ereditato dal passato, ma si fa fatica a trovare le idee e i mezzi per andare oltre con investimenti a rischio consistenti in capitale umano, reti di relazione, macchine e automatismi digitali, significati coerenti con la transizione in corso.

Quello che è ancora vitale tra i lasciti dell’esperienza distrettuale è l’avvenuta ri-personalizzazione delle imprese e dei lavoratori, superando la logica impersonale del lavoro standard e della razionalità oggettiva, propria delle imprese fordiste (radicate altrove).

Una parte del sistema produttivo e di consumo si è rapidamente adeguata a questa esigenza di transizione verso forme nuove di capitalismo in rete, andando avanti sulla strada che consente di sfruttare i vantaggi degli automatismi digitali e della trans-territorialità. La flessibilità creativa offerta in precedenza dalle imprese distrettuali deve infatti evolvere, in sintonia con il nuovo ambiente competitivo, aprendosi alla differenziazione del mondo globale e alle innovazioni tecnologiche più promettenti.

Rimane però un’altra parte del sistema che fatica a seguire le trasformazioni emergenti. Nella forbice tra vecchio e nuovo, si sono così create disuguaglianze importanti, tra impresa e impresa, tra lavoratore e lavoratore, tra luogo e luogo. Ricucire questa rete portando al centro dell’evoluzione creativa anche chi è rimasto ai margini dello sviluppo è un compito importante, sia per le imprese leader locali, che per le organizzazioni sociali di rappresentanza, sindacali e politiche.

 

A distanza di 30/40 anni dall'inizio di quella transizione è possibile definire in positivo un nuovo regime di regolazione e produzione successivo al fordismo?

Quando in un contesto dato prendono avvio cambiamenti importanti – di tipo tecnologico, innanzitutto, ma anche di tipo ambientale, demografico, sanitario, culturale ecc. – è inevitabile che le attenzioni di tutti si rivolgano ai problemi immediati che emergono in questo o quel settore, promuovendo azioni correttive che hanno un unico fondamentale limite: restano prigioniere di una forma di «presentismo», ossia di rincorsa verso rimedi a breve termine, mirati a confermare il presente in essere, debitamente rattoppato.

È quello che sta accadendo nella maggior parte dei campi e dei paesi, da quando la transizione in corso ha scompaginato i precedenti ruoli ed equilibri. Ma il «presentismo» è un rimedio assai poco efficace quando si tratta di fronteggiare una traiettoria di sviluppo spontaneo, spinto da cambiamenti di lungo termine, rispetto alla quale non basta inseguire i problemi di volta in volta emergenti.

Riprendendo un detto di Seneca, dobbiamo tenere a mente che «non c’è mai vento a favore per il marinaio che non sa qual è il suo porto». Se non si ha in mente una rotta da mantenere nel lungo periodo, si finisce quasi sempre per girare in tondo, seguendo le contingenze e rimanendo alla fine fermi dove si è arrivati. Occorre dunque adattarsi al mutare dei venti, ma facendo in modo di mantenere la direzione verso un porto di arrivo.

In effetti, il nostro problema, anche nella transizione attuale, è proprio quello di definire il porto verso cui pensiamo di potere e dovere andare, usando la forza della transizione digitale, ma, al tempo stesso, curandosi delle contraddizioni che essa introduce nei diversi aspetti che la nostra attenzione soggettiva ritiene rilevanti: contraddizioni ambientali (insostenibilità), sociali (disuguaglianze), culturali (perdita di senso e di condivisione in molti campi sensibili).

Da questo punto di vista, dobbiamo chiederci: dove ci sta portando la transizione digitale? E quali sono i margini di adattamento, che possano permetterci di andare avanti sanando, al tempo stesso, le contraddizioni emergenti?

A prima vista, il nuovo paradigma che ha preso forma con la digitalizzazione post-2000 sembra basarsi sui grandi moltiplicatori (della conoscenza codificata) che sfruttano la rete delle connessioni globali in tempo reale a costo zero o molto limitato. Sulla base di una leva del genere, il valore viene oggi creato soprattutto da grandi imprese che propongono standard innovativi, destinati a moltiplicare per migliaia o milioni di volte il ri-uso dei codici e degli algoritmi digitali impiegati.

In questa prospettiva dovremmo attenderci una seconda stagione per la produzione di massa (tipica del fordismo), questa volta basata sulla replicazione delle risorse immateriali in rete. Pensiamo, ad esempio, ai molti prodotti e servizi standard che hanno già da tempo invaso la rete, creando un sistema potente e ramificato di Big Business dotati di un potere quasi monopolistico nel loro campo di azione.

Ma, a ben vedere, questa prospettiva è limitata e, alla fine, distorcente. Il digitale non è infatti condannato a replicare la produzione di massa del fordismo, perché la sua base tecnologica è in grado di andare oltre la replicazione di standard prefissati. Grazie allo sviluppo di processi di machine learning, l’economia che impiega algoritmi e i dati digitalizzati è in grado di adattare le soluzioni e le trasformazioni fisiche per far fronte ad un certo grado (limitato, ma importante) di complessità. Si riesce ormai, in molti campi, a gestire a basso costo e in tempi rapidi un certo livello di varietà, di variabilità, di interdipendenza e di indeterminazione.

Questo significa che, dopo la fase iniziale (moltiplicazione globale degli standard di successo), la seconda fase della digitalizzazione che ci attende è quella della personalizzazione dei prodotti e dei servizi, in funzione di esigenze differenziate dei singoli user. I quali, in tal modo, tornano ad essere protagonisti dei processi di generazione di valore, anche se gli algoritmi digitali possono provare a profilare e indirizzare i desideri e i giudizi dei clienti.

Andando avanti, man mano che la moltiplicazione degli standard e la personalizzazione dei prodotti/servizi offerti diventeranno servizi banali, realizzabili a basso costo grazie alla mediazione di collaudati algoritmi digitali, il valore economico si sposterà su una fascia di desideri, esperienze, idee innovative che i singoli potranno mettere in cantiere, utilizzando a tal fine anche le tecnologie digitali come fonte di flessibilità facilmente modellabile e a basso costo. Lungo questa traiettoria, potrà emergere tra qualche tempo un capitalismo diverso, basato sull’esplorazione della complessità non ancora governata. Un capitalismo che utilizzerà come risorsa chiave l’intelligenza umana (e dunque il lavoro degli uomini) per interpretare, proporre visioni del possibile, prendere decisioni a rischio in tutti i campi dotati di rilevanza pratica o emotiva per i soggetti in gioco.

Se vogliamo fin da ora preparare quel momento, è importante definire sin da oggi quale deve essere il porto di arrivo alla transizione digitale in atto, sulla base di una visione del possibile che non si limiti a esaltare la potenza tecnologica o a mettere toppe su questo o quel deficit contingente. Ma che sia capace, invece, di prefigurare un nuovo paradigma coerente e condiviso verso cui indirizzare la modernità emergente nel prossimo futuro.


Enzo Rullani è Senior Researcher di Economia della conoscenza presso Ca' Foscari University Fellow della Venice International University. Socio Onorario della Società Italiana di Management. È autore di moltissimi volumi, tra questi ricordiamo: Il postfordismo. Idee per il capitalismo prossimo venturo, a cura di L. Romano e E. Rullani (Etas Libri, 1998); Economia e conoscenza. Creatività e valore nel capitalismo delle reti (Carocci, 2004); Il capitalismo personale. Vite al lavoro, con A. Bonomi (Einaudi, 2005); Modernità sostenibile. Idee, filiere e servizi per uscire dalla crisi (Marsilio Editore, 2010); Ri-personalizzazione e management nella transizione in corso, con R. Sebastiani, D. Corsaro, C. Mele (Angeli, 2020).

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