Come avevo scritto mesi fa negli ultimi due articoli sulla situazione, il nodo Kosovo sta avanzando a tappe forzate verso l’ultima stazione, come da progetto USA/NATO, con le pressioni, provocazioni, minacce al governo serbo, intensificatesi negli ultimi mesi con il diktat: o con la Russia o con l’occidente. Ora con il fronte ucraino aperto, quanto sta accadendo non è casuale, è un messaggio chiaro, possente, se la Serbia non sceglie “la parte giusta”, andrà verso la sua destabilizzazione e il conflitto
In questi ultimi dieci giorni sono stato quotidianamente in contatto con i nostri referenti sul posto e con gli esponenti politici, sociali, militari, sindacali, religiosi e i rappresentanti delle enclavi, con cui sono in relazione da sempre. Premetto questo per spiegare che questo articolo non è frutto di mie personali convinzioni, ma è una sintesi, sicuramente carente e limitata, di telefonate, scambi di mail, domande, analisi tratteggiate, supposizioni, ma che sono le valutazioni dalla parte dirigente della società serba, anche con differenze politiche tra loro, che ho cercato di riportare, ma che hanno un valore indubbiamente profondo e concreto, perché arrivano “dal campo”.
La situazione è sotto gli occhi di tutti, quindi è inutile sprecare righe, anche perché nelle piazze è in continua evoluzione, ritengo e mi chiedono di sottolineare e far circolare ovunque possibile, la concezione che un concreto impegno di PACE deve fondarsi su alcuni semplici ma fondamentali punti per un negoziato reale e paritario, soprattutto non contestabile da alcuna persona onesta intellettualmente ed eticamente. Con i ferventi fondamentalisti dell’atlantismo e del mondo unipolare egemonizzato dall’occidente, ritengo sia inutile discutere. Questi semplicemente difendono i privilegi occidentali e le ingiustizie perpetrate dai tempi del colonialismo ad oggi.
L’offensiva militare, economica, finanziaria e commerciale scatenata dal cosiddetto “Occidente collettivo” contro la Federazione Russa nasce da una palese sottovalutazione «della coesione sociale della Russia, del suo potenziale militare latente e della sua relativa immunità alle sanzioni economiche». L’intera campagna sanzionatoria imposta da Stati Uniti ed Unione Europea, in particolare, si fondava sulla previsione che la Russia non sarebbe stata in grado di reggere un lungo periodo di pressione economica e finanziaria esterna, in virtù della debolezza strutturale, dell’arretratezza e degli squilibri che caratterizzano il suo sistema produttivo.
I dati indicano che, alla fine del febbraio 2022, la Russia registrava un debito pubblico corrispondente ad appena il 12,5% del Pil, una posizione finanziaria netta fortemente positiva e riserve auree pari a circa 2.300 tonnellate. L’oro riveste una rilevanza particolare, trattandosi del tradizionale “bene rifugio” che tende sistematicamente a rivalutarsi proprio in presenza di congiunture critiche come quella delineatasi per effetto dell’attacco all’Ucraina. Stesso discorso vale per tutte le commodity di cui la Russia è produttrice di primissimo piano, dal petrolio al gas, dall’alluminio al cobalto, dal rame al nichel, dal palladio al titanio, dal ferro all’acciaio, dal platino ai cereali, dal legname all’uranio, dal carbone all’argento, dai mangimi ai fertilizzanti.
L’incremento combinato dei prezzi delle materie prime e dei prodotti raffinati i cui mercati risultano fortemente presidiati dalla Federazione Russa – la cui posizione si è ulteriormente rafforzata con l’incorporazione dei giacimenti di carbone, ferro, titanio, manganese, mercurio, nichel, cobalto, uranio, terre rare di vario genere e idrocarburi non convenzionali presenti nei territori delle repubbliche secessioniste di Donec’k e Luhans’k – ha per un verso penalizzato enormemente la categoria dei Paesi importatori netti, in cui rientra gran parte dell’“Occidente collettivo”.
Pubblico alcune considerazioni riguardanti il mio punto di vista su questa fase politica sul piano nazionale e internazionale. Lo faccio senza peli sulla lingua e considerando che ormai la quasi totalità di quella che ama definirsi “sinistra di classe” o “movimento antagonista” è in totale confusione politica. Buona lettura.
Post:
C’è chi si limita a fare sindacalismo e mutualismo dentro il solito perimetro politico di una sinistra radicale sempre più in confusione agli inizi della peggiore guerra su vasta scala degli ultimi 80 anni in Europa.
Bene, io dico che senza lotta di ampi strati di popolazione per una reale indipendenza nazionale, basata sulla cacciata delle basi USA e NATO, sulla rottura con l’UE, su una moneta sovrana e le necessarie nazionalizzazioni dei settori vitali della nostra economia, può mutualizzare anche il guinzaglio del cane ma resta il guinzaglio del cane.
Per fare questo bisogna coinvolgere i ceti medi che in questi anni sono stati devastati e proletarizzati dalle politiche delle oligarchie di Euroburocrazie e Anglosfera, accettando in un patto, in un’alleanza con le forze politiche che emergono dal conflitto, qualunque esse siano la loro cultura politica la costruzione di un fronte popolare contro la guerra.
Questo è l’abc del leninismo. Kerensky non era tanto diverso dai caratteri politici e culturali della nostra borghesia. Eppure i bolscevichi hanno saputo agire bene nel prima e nel dopo, comprendendo quando si poteva dare il punto di rottura rivoluzionaria.
“Solo se ciò che c’è si lascia pensare come trasformabile, allora ciò che c’è non è tutto”
T.W. Adorno, Dialettica negativa
Tra gli esiti più rilevanti della interminabile pandemia c’è sicuramente quello di aver normalizzato nelle società occidentali lo stato di emergenza, interiorizzato dai più come abitudine e senso comune.
E’ infatti accaduto che una condizione per definizione temporanea quale per l’appunto lo stato di emergenza, in ragione di un evento improvviso da fronteggiare in un tempo delimitato, per effetto della continua reiterazione giustificata dal persistere dell’urgenza in gioco, ha prodotto via via un governo dell’emergenza. Nella sua orbita, la certezza del diritto ha lasciato il posto ad una congerie di provvedimenti di urgenza e misure amministrative, con forza di legge, in continua fluttuazione. Si è andata componendo via via un’alterazione strutturale dell’ordinamento in senso discrezionale ed amministrativo, con un definitivo sbilanciamento a favore dell’esecutivo e di poteri estranei all’architettura istituzionale, con la figura sempre più ricorrente del Commissario straordinario, a scapito del legislativo e dunque in ultima istanza della sovranità democratica quale suo fondamento[1].
Ora, la tesi che si intende argomentare è che l’emergenzialismo nel frattempo riconfermatosi con la guerra in Ucraina, lungi dall’essere una traiettoria accidentale, sia la perversa contromisura, in ambito politico, posta in essere da un tardo capitalismo sempre più contraddittorio.
Una riflessione, a partire da Disertate di Franco “Bifo” Berardi, sulla tentazione di sottrarsi al dibattito pubblico
Già nel 1978, Susan Sontag avvertiva dei rischi di usare la malattia come metafora. Concentrandosi sulle due malattie più metaforizzate dell’epoca, tubercolosi e cancro, Sontag spiegava che l’uso analogico di questi fenomeni non rendeva un buon servizio ai malati in carne e ossa e ci allontanava dalla comprensione dei fenomeni stessi. Ma non solo. A divenire meno comprensibili erano anche le situazioni che pretendevamo di descrivere per mezzo dell’analogia: il cancro metaforico si trasformava in un generico progressivo disfacimento del corpo sociale, perdendo molte delle sue caratteristiche specifiche.
Qualcosa del genere accade nell’ultimo libro di Franco “Bifo” Berardi sulla diserzione. Disertate, uscito nell’aprile del 2023 per i tipi di Time0, si apre con un imperativo alla seconda persona plurale che vorrei prendere sul serio, nonostante i numerosi inviti dell’autore a fare il contrario, a non starlo troppo a sentire perché non vuole convincere nessuno. Un po’ perché, se mi chiede di non ascoltarlo, come vuole il paradosso del mentitore scelgo di non ascoltarlo proprio mentre mi dice questa cosa, prendendo invece per buone le parti del suo discorso in cui esorta alla diserzione e la articola nell’arco di 260 pagine. Un po’ perché una coincidenza significativa mi ha spinto a considerare la diserzione un paradigma di lungo corso di una certa area politica, un paradigma magari sotterraneo ma in circolazione da almeno trent’anni e giunto forse a maturazione.
Insieme al nuovo saggio di Bifo, stavo leggendo un altro libro di recente uscita: Negli anni del nostro scontento, Diario della controrivoluzione, di Paolo Virno, pubblicato nel gennaio del 2022 da Deriveapprodi. Si tratta di una raccolta di articoli usciti su Il Manifesto tra il 1988 e il 1991, quando Virno era redattore della sezione cultura.
Molti economisti parlano oggi di un processo di "de-globalizzazione" in atto; altri parlano del fatto che il regime neoliberista di un tempo non esiste più. Certo, nulla rimane uguale per sempre: come diceva il filosofo greco Eraclito "Non si può entrare due volte nello stesso fiume"; qualche cambiamento nell'ordine neoliberale è quindi inevitabile con il passare del tempo. Ma il punto vero è: la cornice analitica utilizzata per comprendere la realtà economica del mondo contemporaneo, al fine di cambiarla, è diventata obsoleta e quindi necessita di una seria revisione?
La "globalizzazione", va ricordato, non ha mai significato che i diversi Paesi del mondo si riunissero volontariamente per creare un ordine globale che fosse reciprocamente vantaggioso. Oggi quasi 50 Paesi del mondo sono oggetto di "sanzioni" di vario tipo; ad essi viene impedito con la forza di accedere a beni essenziali, tra cui in alcuni casi medicinali salvavita, dal mercato globale. E il numero non era molto inferiore un decennio fa, quando la "globalizzazione" era universalmente riconosciuta come in pieno svolgimento.
La "globalizzazione" ha quindi sempre avuto un significato molto diverso da quello che le viene comunemente attribuito. Significava l'avvento di una fase del capitalismo in cui il capitale, compresa soprattutto la finanza, si era globalizzato aprendo le economie alla sua circolazione illimitata; aveva così limitato la capacità dello Stato nazionale di intervenire in modi che la finanza non approvava; e questo capitale globalizzato aveva goduto dell'appoggio, nelle sue operazioni globali, soprattutto degli Stati metropolitani, e di altri Stati per difetto. Questi Stati metropolitani, in particolare gli Stati Uniti, decidevano su quali Paesi imporre sanzioni, e gli altri si allineavano.
Mentre assistiamo alle prime mosse dell’ormai famosa offensiva ucraina, preludio a quella che sarà probabilmente la più grande battaglia della guerra, a migliaia di chilometri dalla linea del fronte altri schieramenti si muovono, non meno importanti per le sorti del conflitto. All’interno del NATOstan almeno tre diverse posizioni si confrontano, ma tutte assolutamente incapaci – dopo oltre un anno di demonizzazione del nemico – di considerare la Russia al di là della propria semplicistica schematizzazione.
* * * *
Tanto tuonò che piovve. Inevitabilmente, dopo averne parlato per mesi, e sotto la crescente pressione statunitense, l’Ucraina ha rotto gli indugi ed ha avviato la sua offensiva. Siamo in effetti ancora ai preliminari – prima le operazioni di gruppi DRG per sondare il terreno, ora puntate offensive più consistenti (in cui vengono per la prima volta impiegati carri e corazzati NATO) con cui gli ucraini cercano battaglia, in attesa di individuare il punto debole dello schieramento russo, e su cui successivamente lanciare il grosso della forza di sfondamento (5/600 carri MBT, un migliaio di corazzati, forse 20/30.000 uomini, più le riserve).
Questo lungo periodo di incubazione però, non ha fatto che danneggiare le effettive possibilità di successo, sia perché ha ovviamente dato più tempo ai russi di prepararsi (non solo costruendo linee di difesa fortificate in profondità, ma anche accumulando riserve), sia perché ha fortemente logorato la capacità bellica ucro-NATO.
In particolare, sono risultati significativamente deleteri alcuni passaggi, che hanno fortemente indebolito il potenziale offensivo ucraino.
Nella pagina iniziale di The Return of Nature, ho fatto riferimento al «secondo fondamento» del pensiero socialista in questi termini:
«Per la teoria socialista come per l'analisi liberale – e per la scienza e la cultura occidentali in generale – la nozione di conquista della natura e di esenzione dell'uomo dalle leggi naturali è stata per secoli un tropo importante, che riflette l'alienazione sistematica della natura.
La società e la natura sono state spesso trattate dualisticamente come due regni completamente distinti, giustificando l’espropriazione della natura e, con essa, lo sfruttamento della più ampia popolazione umana. Tuttavia, diversi pensatori di sinistra, molti dei quali appartenenti all'ambito delle scienze naturali, le quali costituiscono una sorta di secondo fondamento del pensiero critico, e altri nelle arti, si sono ribellati a questa concezione ristretta del progresso umano, generando una più ampia dialettica dell'ecologia e un materialismo più profondo che ha messo in discussione le depredazioni ambientali e sociali della società capitalistica».[1]
Le origini e lo sviluppo di questo secondo fondamento del pensiero critico nella filosofia materialista e nelle scienze naturali e il modo in cui esso ha influenzato lo sviluppo del socialismo e dell'ecologia costituiscono la storia centrale raccontata in The Return of Nature. La sfida iniziale di un'analisi di questo tipo è stata quella di spiegare come il materialismo storico, nella concezione dominante del XX secolo in Occidente, sia stato inteso come strettamente confinato alle scienze sociali e umane, dove era avulso da qualsiasi autentica dialettica materialista, in quanto tagliato fuori dalla scienza naturale e dal mondo fisico-naturale nel suo complesso.
Innanzitutto un saluto ed un ringraziamento agli oltre 50 compagni/e, docenti, intellettuali, quadri operai e dirigenti del movimento comunista, operaio e sindacale, sui 62 che sinora hanno aderito al nascente Centro Studi Nazionale che oggi – domenica 28 maggio 2023 – sono presenti a quest’assemblea on-line di costituzione del Centro Studi.
Sintetizzando in una sorta di formula, potremmo asserire che l’obiettivo strategico del Centro Studi che oggi prende forma è quello di contribuire a riprogettare e riconsegnare un pensiero forte, marxista, comunista, rivoluzionario, al movimento comunista e antimperialista italiano.
Un obiettivo che non potrà che incardinarsi, essenzialmente, su due pilastri analitici, su due questioni centrali:
-primo, l’odierna, inequivocabile pulsione alla guerra, e persino alla guerra mondiale, del fronte imperialista guidato dagli Usa e dalla Nato e, conseguentemente, la questione dell’abbandono, da tanta parte della “sinistra” italiana, dell’analisi e della prassi dell’antimperialismo e dunque la necessità di ricostruire un senso comune di massa antimperialista come necessaria avanguardia per un movimento unitario e di massa contro la guerra;
– secondo, la ricostruzione di un pensiero e di una prassi della rivoluzione in Occidente.
Di conseguenza, vi sono due problematiche da mettere a fuoco: l’attuale quadro internazionale e i suoi “movimenti” carsici e di superficie che lo caratterizzano e la lotta contro il neopositivismo e il neoidealismo di ritorno che oggi gravano, in Italia, su tanta parte della “sinistra”, a volte anche su parti non secondarie di quella comunista.
Nel volume 24/7. Il capitalismo all’assalto del sonno (Einaudi 2015) Jonathan Crary, docente alla Columbia University e tra i fondatori delle edizioni indipendenti Zone Books, ha argomentato come attraverso le innovazioni tecnologiche digitali il capitalismo sia giunto a inediti livelli di dissoluzione della distinzione tra tempo di lavoro e tempo di non-lavoro. In continuità con quanto esposto in 24/7, Jonathan Crary, Terra bruciata. Oltre l’era del digitale verso un mondo postcapitalista (Meltemi 2023), evidenzia come le disuguaglianze e il dissesto ambientale siano correlati al capitalismo digitale, da lui indicato come fase terminale del capitalismo globale votato alla finanziarizzazione dell’esistenza sociale, all’impoverimento di massa, all’ecocidio e al terrore militare.
Ritenendo assurda la pretesa di poter perseguire il cambiamento sistemico ricorrendo ai medesimi apparati che garantiscono la sottomissione a concessioni e regole imposte da chi detiene il potere, lo studioso denuncia come, a differenza di quanto sostenuto da alcuni ambienti di tecno-attivismo1, lungi dal poter essere strumento di cambiamento radicale, l’universo di internet sia del tutto incompatibile con una Terra abitabile e con le relazioni umane di stampo egualitario.
Ritenendo del tutto illusoria «l’idea che internet possa funzionare indipendentemente dalle dinamiche catastrofiche del capitalismo globale», lo studioso sostiene che la dissoluzione di tale sistema non possa che comportare «la fine di un mondo guidato dal mercato e modellato dalle odierne tecnologie in rete».
Il 5 giugno 2023 ricorre il 140° compleanno dell'economista britannico John Maynard Keynes (1883-1946). La sua opera principale, "Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta" (1936) e il keynesianesimo da essa derivato hanno fortemente influenzato il capitalismo del XX secolo e l'antisocialismo nella politica economica - Riportiamo una riflessione di Tibor Zenker, leader del Partito del Lavoro dell'Austria (PdA), da lui scritta nel 2016 in occasione del 70° anniversario della morte di Keynes
Nel quadro della macroeconomia borghese, l'opera di Keynes assume inizialmente una posizione di opposizione alle idee classiche e neoclassiche prevalenti nel primo quarto del XX secolo. Con esse, si attribuisce al "libero mercato" il merito di equilibrare domanda e offerta non solo nella produzione e nella vendita di beni, ma anche in termini di livello dei prezzi e soprattutto di disoccupazione. Si ipotizza quindi una tendenza alla piena occupazione. Keynes, invece, sosteneva l'idea di una tendenza all'equilibrio in presenza di sottoccupazione e attestava la teoria neoclassica come velleitaria e imprecisa quando affermava che "i postulati della teoria classica sono validi solo in un caso speciale, ma non in generale, perché la condizione che essa presuppone è solo un punto limite delle possibili situazioni di equilibrio "(1).
La disoccupazione involontaria, logicamente esclusa nel sistema neoclassico, è per Keynes il risultato di una mancanza di investimenti dovuta alle basse aspettative di profitto del capitale, per cui egli tiene conto anche di criteri decisionali soggettivi e psicologici oltre che oggettivi per quanto riguarda la disponibilità a investire. Keynes scrive: "Il rapporto tra il rendimento atteso di un bene capitale e il suo prezzo di fornitura o il suo costo di sostituzione, cioè il rapporto tra il rendimento atteso di un'ulteriore unità di quel tipo di capitale e i costi di produzione di quell'unità, ci fornisce l'efficienza marginale del capitale"(2).
Le conseguenze della guerra non sono solo quelle visibili a occhio nudo, quelle denunciate dalle innumerevoli immagini che raccontano la tragica quotidianità di chi sopravvive e muore sotto le bombe. Non sono da meno gli effetti su chi viene apparentemente risparmiato dal conflitto perché vive in Paesi non direttamente coinvolti nei combattimenti. Semplicemente sono meno riconoscibili, sebbene coinvolgano il complessivo modo di stare insieme come società e in ultima analisi i fondamenti di quanto siamo soliti chiamare Occidente.
A mutare profondamente è l’ordine politico: la guerra richiede decisioni rapide e unanimi, a monte processi deliberativi opachi, e questo incide profondamente sulla qualità della democrazia, che vive al contrario di conflitti, di tempi scanditi dai ritmi della partecipazione e soprattutto di trasparenza. E anche l’ordine economico viene travolto: la produzione di armamenti e altri beni funzionali al conflitto deve procedere con modalità per certi aspetti incompatibili con il capitalismo, che tra i propri fondamenti vanta l’avversione verso il dirigismo e la pianificazione, utile invece a concentrare lo sforzo produttivo.
La guerra introduce insomma uno stato di eccezione, a ben vedere incrementando dinamiche che hanno preceduto il conflitto in corso[1]. Questo incide invero su un ordine politico e un ordine economico già pregiudicati dalla pandemia, e ancora prima dalle crisi economico finanziarie che hanno scosso il pianeta a partire dal 2008. Forse la novità dell’attuale stato di eccezione si coglie al meglio considerando una deriva che non era finora emersa con la stessa nettezza con cui si sta mostrando ora: la transizione verso l’economia di guerra, ovvero «un sistema di produzione, mobilitazione e allocazione di risorse finalizzate al sostegno della violenza»[2].
In un commento al post di Michael Roberts sull’intelligenza artificiale (IA) e le nuove macchine per l’apprendimento del linguaggio (LLM), l’autore e commentatore Jack Rasmus ha sollevato alcune domande, che mi sono sentito in dovere di riprendere.
Jack ha detto: “l’analisi di Marx sulle macchine e il suo punto di vista secondo cui le macchine sono un valore del lavoro condensato che viene trasferito nella merce quando si deprezza, si applicano completamente alle macchine basate su software AI che hanno la capacità crescente di auto-mantenersi e aggiornare il proprio codice senza l’intervento del lavoro umano – cioè di non deprezzarsi?“
La mia risposta alla legittima domanda di Jack presuppone lo sviluppo di un’epistemologia marxista (una teoria della conoscenza), un’area di ricerca che è rimasta relativamente inesplorata e poco sviluppata.
A mio avviso, una delle caratteristiche principali di un approccio marxista è la distinzione tra “produzione oggettiva” (la produzione di cose oggettive) e “produzione mentale” (la produzione di conoscenza).
La cosa più importante è che la conoscenza deve essere vista come materiale, non come “immateriale”, né come un riflesso della realtà materiale. Questo ci permette di distinguere tra mezzi di produzione (MP) oggettivi e MP mentali; entrambi sono materiali.
Marx si è concentrato principalmente, ma non esclusivamente, sui primi. Ciononostante, nelle sue opere ci sono molti spunti su come dovremmo intendere la conoscenza.
Nell’ambito del programma sui «decenni smarriti», come da intenti di questa rubrica (https://www.machina-deriveapprodi.com/post/il-lavoro-nei-decenni-smarriti-una-bozza-di-programma), si è richiesto ad autori che negli anni Ottanta e Novanta, per diverse ragioni, concorsero nel proporre rappresentazioni e immaginario della transizione, di «ritornare» sulle loro elaborazioni e analisi del periodo. Di Aldo Bonomi, sociologo e direttore del centro di ricerche territoriali Consorzio Aaster di Milano, fondato negli anni Ottanta insieme (tra gli altri) a Lapo Berti e Alberto Magnaghi, riprendiamo tre testi della seconda metà degli anni Novanta, intitolati Il trionfo della moltitudine (Bollati Boringhieri, 1996), Il capitalismo molecolare (Einaudi, 1997), Il distretto del piacere (Bollati Boringhieri, 2000). Volumi in cui, in modo diverso ma con reciproci e continui rimandi, l’autore prendeva programmaticamente congedo dalle macerie del fordismo (nel lessico di Bonomi, «il non più») e si addentrava nel «non ancora» (che perlopiù, all’epoca, ci si accontentava di definire postfordismo) secondo una prospettiva peculiare. Questi libri avevano un robusto sottostante di osservazione empirica delle società al lavoro nel capitalismo che stava cambiando pelle. La chiave di accesso al campo di analisi non muoveva tuttavia da una fredda e «oggettivistica» ricostruzione di queste trasformazioni. I «prototipi mentali» proposti muovevano piuttosto dai cambiamenti soggettivi e procedevano per successivi (e differenti, nei tre libri) gradi di astrazione, mantenendo perlopiù un forte ancoraggio nei luoghi indagati, coincidenti in questi testi principalmente con le piattaforme produttive in formazione del Nord Italia. Erano gli anni del leghismo in ascesa e dell’affermazione elettorale di Forza Italia, fenomeni interni alla politica che non costituivano il bersaglio del lavoro di Bonomi, ma che indubbiamente ne fecero da «quinta».
La guerra tra Russia e Ucraina, e in termini più complessivi tra Russia, Nato e Stati Uniti, viene spesso presentata come un ritorno alla “guerra fredda”. Il paragone però è fuorviante, non regge. Nella “guerra fredda” vi erano due sistemi, politici, economici e sociali ben definiti: da una parte il capitalismo, dall’altra parte il socialismo realizzato. Tutta la diplomazia e le relazioni internazionali ruotavano attorno a questa realtà, anche i numerosi paesi cosiddetti non allineati, come la Jugoslavia, l’India e la stessa Cina, si muovevano dentro questo contesto. E pure le strategie militari, compresa la corsa al riarmo delle due superpotenze, Usa e Urss, non prescindevano dai rapporti di forza usciti dalla Seconda Guerra Mondiale. Tant’è che, nonostante la contrapposizione tra blocchi, vi erano spazi, per una serie di paesi, anche europei, per poter condurre iniziative diplomatiche in parte autonome, che comportavano anche scambi commerciali e relazioni economiche. Si pensi all’azione delle socialdemocrazie, in primis di quelle tedesche e scandinave, o ai rapporti economici fruttuosi che i governi italiani di centro-sinistra stabilivano con l’Unione Sovietica e gli altri paesi socialisti. Nessuno statista occidentale, in quegli anni, fece mai dichiarazioni bellicose nei confronti dell’Urss o tentò di praticare una linea volta a smembrarla. Unica eccezione fu Churchill, che subito dopo il ’45, sconfitta la Germania nazista, si avventurò in dichiarazioni forti di aggressione militare all’Urss di Stalin, che non aveva ancora la bomba atomica, ma rimase una voce isolata e non fu ascoltato, per fortuna, dagli statunitensi. Tutti gli Stati di entrambi i blocchi si muovevano all’interno di quanto stabilito dagli accordi di Yalta che sancivano la presenza di due sfere di influenza, quella degli Usa e quella dell’Urss.
1. Insomma, sul pianeta Marx, questo inedito corpo astronomico comparso nel cielo dell’economia politica sul finire del XVIII secolo, si producono sia grano che tulipani e la loro contemporanea presenza ne modifica in maniera indelebile il paesaggio. Ma dettagliamo: mentre il grano è “merce-base” (secondo la nomenclatura introdotta da Piero Sraffa) perché serve alla produzione di ogni altra merce essendo l’alimento dei lavoratori impegnati nelle loro produzioni, il tulipano è invece “merce non-base” dato che non vi partecipa (a che serve un tulipano se non a rimirarlo?) e che noi considereremo, facendo nostra una esagerazione sraffiana, che non entri nemmeno nella produzione di se stesso, così da «non trovarsi fra i mezzi di produzione di nessuna industria». E a questo proposito Sraffa ha fatto il caso, in una corrispondenza privata, degli elefanti bianchi, mentre in Viaggio di merci per merci pubblicato nel 1960 ha indicato le uova di struzzo e i cavalli da corsa (cfr. H. D. Kurz, Neri Salvadori, White elephants and other non-basic commodities: Piero Sraffa and Krishna Bharadwaj on the role and significance of the distinction between basics and non-basics, “The Indian Economic Journal”, June 3, 2021). Però a me è piaciuto prendere il tulipano a tipo ideale di “merce non base”, anche perché nel XVII secolo in Olanda è stato fatto oggetto della prima speculazione finanziaria della storia moderna (vedi l’immagine ch ho posti in apertura: Il trionfo di Flora/Tulipano di Hendrik Pot, circa 1640). E a chi venisse da sorridere su simili esempi strampalati, basterebbe ricordargli che anche gli armamenti sono “merci non base” e che un carro armato non serve alla produzione di alcunché, men che meno di se stesso, eppure lo si produce e fa danni.
Non si fa la rivoluzione senza rivoluzionari e rivoluzionarie.
È la lezione, ancora oggi tutta da conquistare, dei bolscevichi, che con l’Ottobre sovietico incendiarono il Novecento. Lenin ha speso l’intera propria opera a formare questo tipo di nuovo militante politico. Ogni sua riga è rivolta ai militanti, anche quando essi erano ancora di là da venire. Ipocriti e professori, invece, li voleva fuori dai piedi.
È questo il Lenin di cui abbiamo voluto parlare, nel secondo incontro del ciclo MILITANTI: giovane e sovversivo, audace e sognatore, pieno di intelligenza e odio di parte, lucida rabbia e realismo rivoluzionario, dentro il proprio tempo ma contro di esso, con gli stessi problemi, errori e contraddizioni da affrontare dei militanti di oggi – tra guerra, sfruttamento, mancanza di un orizzonte di trasformazione e l’urgenza del “Che fare?”. Un Lenin quindi ancora vivo, perché non mummificato dalle tristi parrocchie (e spesso inquietanti sette) “marxiste-leniniste-trozkiste-maoiste-sinistre” e chi più ne ha più ne metta, che hanno finito per renderlo inoffensivo.
L’idea-prassi centrale di Volodja, il nucleo della sua forza, è infatti l’«attualità della rivoluzione», la sua declinazione e articolazione concreta in ogni passaggio, momento, sia tattico che strategico, della militanza comunista: dall’inchiesta in fabbrica all’insurrezione nelle strade, dalla stesura di un volantino alla guerra civile. Una rivoluzione che scoppia e vince in Russia non perché fossero mature le condizioni storiche ed economiche del suo capitalismo, ma perché lì era più forte la lotta di classe e l’organizzazione politica degli operai. La lezione leniniana ci dice insomma che c’è da cogliere l’occasione quando si presenta – non solo: l’occasione c’è da prepararla.
Si svolge questo nostro incontro sullo sfondo di un Paese segnato da una decadenza pluridecennale, nel corso della quale conformismo e opportunismo sono dilagati ben oltre l’orto della politica politicante. Non mancano, però, focolai di rivolta o movimenti monotematici che perseguono obbiettivi sacrosanti, episodi straordinari di protagonismo operaio (GKN) e minuscoli partiti antisistema invisibili e immobili, insomma “non tutto è di plastica, qualcosa ancora freme, frigge” per dirla con Paolo Volponi, ma il panorama è desolante e, apparentemente, senza via d’uscita. Costituire un Centro Studi intitolato a un grande del marxismo, fondato su inequivocabili premesse teoriche, mirato a socializzare conoscenze, a proporre temi di ricerca e a preparare, in definitiva, un programma di alternativa di società, è un progetto ambizioso e impegnativo che va realizzato con umiltà e tenacia.
“Solo da un lavoro comune e solidale di rischiaramento, di persuasione e di educazione reciproca nascerà l’azione concreta di costruzione”, questa asserzione, contenuta in un articolo intitolato “Democrazia operaia” apparso ne L’ordine nuovo del 21 giugno 1919, ci ricorda lo straordinario esordio di un intellettuale collettivo formato da giovani eccezionali studiosi e da addetti alla produzione, l’avanguardia operaia torinese, che insieme progettarono di governare le fabbriche e lo Stato.
Potrà sembrare stravagante, a questo punto della relazione, un panegirico della memoria finché non si consideri che la memoria è un nemico giurato del trasformismo, del malgoverno, della criminalità organizzata, del fascismo e dell’imperialismo ed è chiaro che la Storia e il suo uso pubblico sono un grande, importante, terreno di lotta tra progresso e reazione.
Quando si profila una tempesta mai vista all'orizzonte, hai voglia a chiuderti in casa e nasconderti sotto le coperte: la tempesta arriverà comunque perché la natura ha deciso così. Abbiamo messo in moto quel vortice di algoritmi che chiamiamo intelligenza artificiale e il turbine ora sta rapidamente montando alle dimensioni di uragano, ed è una tempesta che ci travolgerà inevitabilmente perché ormai così è nella natura delle cose. Buona fortuna a tutti!
Bene, dopo questa umile premessa, in effetti una promessa, proviamo ad affrontare uno degli argomenti più ostici di questo tempo ossia la creazione da parte nostra di una intelligenza artificiale in grado di risolvere tutti i nostri problemi, oppure - chi lo sa - di distruggerci e magari anche estinguerci.
Purtroppo, in gran parte delle discussioni a riguardo si dicono un sacco di scemenze, frutto del fatto che nessuno sa di che cosa si stia parlando. Probabilmente, nemmeno io lo so bene. E ad ascoltare gli stessi progettisti di queste intelligenze artificiali scopriamo con sconcerto che neppure loro lo sanno con esattezza. Ma il problema vero non consiste tanto in ciò che non sappiamo, quanto piuttosto in ciò che non sappiamo di non sapere. È riguardo a questo che ovunque si esagera.
A beneficio degli ultimi arrivati sull'argomento, facciamo quindi un breve riassunto delle puntate precedenti. Già nel 1950 Church e Turing formularono l'ipotesi che una macchina calcolatrice relativamente semplice sarebbe in grado di emulare un cervello umano, a patto di disporre di tempo e memoria infiniti. Ovviamente, questi non sono infiniti, per lo meno dalle nostre parti, quindi, è ovvio che dobbiamo scordarci la semplicità.
Pubblichiamo qui, nella traduzione di Afshin Kaveh, l’appendice presente a chiusura del libro La société autophage di Anselm Jappe, éd. La Découverte, 2017, ancora inedito in Italia
Il sistema capitalista è entrato in una grave crisi. Quest’ultima non è soltanto ciclica, ma finale: non nel senso di un crollo imminente ma come disintegrazione di un sistema plurisecolare. Non è la profezia di un evento futuro, ma la constatazione di un processo divenuto visibile agli inizi degli anni Settanta e le cui radici risalgono all’origine stessa del capitalismo.
Non assistiamo al passaggio a un altro regime d’accumulazione (come nel caso del fordismo), né all’avvento di nuove tecnologie (come nel caso dell’automobile), né a un trasferimento del centro di gravità verso altre regioni del mondo, ma all’esaurimento della fonte stessa del capitalismo: la trasformazione del lavoro vivo in valore.
Le categorie fondamentali del capitalismo, quelle che Karl Marx ha analizzato nella sua critica dell’economia politica, sono il lavoro astratto e il valore, la merce e il denaro, che si riassumono nel concetto di “feticismo della merce”.
Una critica morale, fondata sulla denuncia dell’“avidità”, non coglierebbe il punto essenziale.
Non si tratta di essere marxisti o postmarxisti, o d’interpretare l’opera di Marx o completarla con altri apporti teorici. Piuttosto, si deve ammettere la differenza tra il Marx “essoterico” e il Marx “esoterico”, tra il nucleo concettuale e lo sviluppo storico, tra l’essenza e il fenomeno. Marx non è “superato”, come dicono i critici borghesi. Anche se manteniamo innanzitutto la critica dell’economia politica, e al suo interno soprattutto la teoria del valore e del lavoro astratto, essa costituisce sempre il contributo più importante per comprendere il mondo in cui noi viviamo.
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Come scrive il filosofo Slavoj Žižek (Žižek 2022, 285), non mancano più Cinque Minuti a Mezzanotte, ma è già Mezzanotte e Cinque! Oramai, perfino l'ultimo degli imbecilli dev'essersi reso conto che il cambiamento climatico è un dato di fatto (per quanto i dettagli possono essere discutibili), e che esso rappresenta una seria minaccia per l'umanità [*1]. Così come è anche evidente che le emissioni di CO2 e degli altri gas serra vanno radicalmente e rapidamente ridotte, se non vogliamo che la catastrofe climatica assuma delle proporzioni ancora più catastrofiche. Ciò implica una completa ricostruzione delle infrastrutture e un completo adeguamento, vale a dire, un rivoluzionamento del nostro modo di produzione e di vita. È pertanto all'ordine del giorno un programma di abolizioni e di cancellazioni. Nel suo percorso, la "locomotiva" dello sviluppo delle forze produttive sta bruciando tutti. Per dirla con Walter Benjamin, a meno che non si voglia rischiare di trovarsi di fronte alla morte dei "passeggeri", è diventato inevitabile tirare il "freno d'emergenza" (cfr. Böttcher 2023). Senza affrontare la questione di come possa essere abolito il modo di produzione capitalistico, di come si possa creare un corrispondente «movimento di trasformazione», con quale «società di transizione» (?) si debbano fare i conti (anche nel caso che il "convoglio" dovesse essere solo fermato), rimane comunque il problema del rifiuto emotivo, da parte di molte persone, nei confronti di tutti questi fatti. La consapevolezza - la quale potrebbe essere realmente acquisita, e che dovrebbe portare a ripensare e a "reagire" - viene invece rimossa emotivamente.
Karl Marx è stato a lungo criticato per il suo cosiddetto “prometeismo” ecologico, per la sua eccessiva attenzione riservata alla produzione industriale, indipendentemente dai limiti naturali. Questo punto di vista, sostenuto anche da alcuni marxisti, come Ted Benton e Michael Löwy, è diventato sempre più difficile da accettare dopo una serie di analisi attente e stimolanti degli aspetti ecologici del pensiero di Marx, elaborate sulle pagine della «Monthly Review» e altrove.
Il dibattito sul prometeismo non è una mera questione filologica quanto fortemente pratica, poiché il capitalismo affronta crisi ambientali su scala globale, senza soluzioni concrete. Qualsiasi soluzione del genere potrà provenire probabilmente dai vari movimenti ecologisti emergenti in tutto il mondo, alcuni dei quali mettono esplicitamente in discussione il modo di produzione capitalistico. Ora più che mai, quindi, la riscoperta di un'ecologia marxiana è di grande importanza per lo sviluppo di nuove forme di strategia di Sinistra e di lotta contro il capitalismo mondiale.
Eppure non c'è un accordo univoco nella Sinistra sulla misura in cui la critica di Marx può fornire una base teorica per queste nuove lotte ecologiche. Gli «ecosocialisti della prima generazione», secondo la classificazione di John Bellamy Foster, come André Gorz, James O'Connor e Alain Lipietz, riconoscono in una certa misura i contributi di Marx riguardo alle questioni ecologiche, ma allo stesso tempo sostengono che le sue analisi del XIX secolo sono troppo incomplete e datate per essere di reale attualità. Al contrario, gli «ecosocialisti della seconda generazione», come Foster e Paul Burkett, sottolineano il significato metodologico contemporaneo della critica ecologica di Marx al capitalismo, fondata sulle sue teorie del valore e della reificazione.[1]
Lelio La Porta e Francesco Marola (eds.): L’Europa di Gramsci. Filosofia, letteratura, traducibilità - “Per Gramsci”, Roma, Bordeaux, 2022, 272 pp.
Il volume L’Europa di Gramsci. Filosofia, letteratura e traducibilità, a cura di Lelio La Porta e Francesco Marola, è il primo volume della nuova serie della collana “Per Gramsci” della International Gramsci Society, che prosegue le sue pubblicazioni con l’editore Bordeaux, peraltro segnalatosi in questi anni per una robusta ripresa delle pubblicazioni di area marxista sia in campo politico che critico-letterario.
Quello degli studi gramsciani a livello mondiale (figurano del resto tra gli autori e autrici nomi di assoluto rilievo come Derek Boothman, Guido Liguori, Giuseppe Guida e Lelio La Porta) non è però il solo contesto in cui si inserisce questa raccolta. Esiste indubbiamente una filiazione diretta con un precedente volume di saggi ispirati al pensatore sardo: Il presente di Gramsci: letteratura e ideologia oggi, edito da Galaad nel 2018; ciò non solo perché nell’elenco degli autori ritroviamo, assieme al co-curatore Marola, Paolo Desogus, Lorenzo Mari, Mimmo Cangiano e Marco Gatto (ai contributi da parte dei due gruppi menzionati vanno aggiunti quelli di Pietro Maltese, Noemi Ghetti, Lavinia Mannelli e Fortunato Maria Cacciatore per comporre il ricco affresco di L’Europa di Gramsci), ma soprattutto perché del libro del 2018 il volume qui recensito fonda criticamente, arricchendole con varietà di riferimenti, una parte delle tesi allora date per presupposte. Se Il presente di Gramsci era nel suo intento un libro di posizionamento, non privo di qualche aspetto che lascia perplessità, inteso a riportare in auge uno sguardo di tipo estetico, critico e politico, questo è un volume scritto per saggiare e approfondire quei nessi politico-estetici e per radicare ulteriormente il pensiero gramsciano nel panorama critico contemporaneo.
Come l’AntiDiplomatico abbiamo avuto l’onore di intervistarlo più volte sul conflitto in Ucraina. La prima intervista, in particolare, è stata letta da oltre 100 mila italiani, che hanno così trovato un valido antidoto alla propaganda martellante e a senso unico.
Un conflitto che aveva previsto, per le scelte scellerate della Nato, e del quale ne ha da subito indicato rischi, portata e scenari, poi tutti effettivamente realizzati.
Dalle pagine del Fatto Quotidiano e con le sue interviste, il generale Fabio Mini si è imposto come una delle voci più credibili e autorevoli. Con il suo libro “L’Europa in guerra” (Paper First) ha offerto informazioni imprescindibili da cui partire per ogni discussione seria sull'argomento.
L’Europa è in guerra in Ucraina. Ma c’è un altro scenario che inquieta e molto in queste ore. Come ex capo di Stato Maggiore del Comando NATO per il sud Europa, nonché comandante delle operazioni di pace a guida NATO in Kosovo, dall’ottobre 2002 all’ottobre 2003, nessuno più del Generale Mini può aiutarci a comprendere quello che sta accadendo in questi giorni in Kosovo. Quante possibilità ci sono che si possa infiammare questo nuovo (vecchio) fronte?
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Generale in Kosovo, i disordini di lunedì hanno visto il coinvolgimento e il ferimento di circa 30 militari della KFOR, tra cui 11 soldati italiani. Il contingente italiano della KFOR è visto con grande stima dalla popolazione serba di Kosovo. Nella dispersione dei manifestanti nel comune di Zvecani sono stati esposti in prima linea proprio i militari italiani. Ritiene che ci siano specifiche considerazioni dietro questa scelta?
Gli esiti della competizione internazionale sull'intelligenza artificiale e il modo di utilizzare le potenzialità delle nuove tecnologie avranno ripercussioni profonde su chi eserciterà il potere nel prossimo futuro, su quale modello di società potrà affermarsi e su quali diritti saranno garantiti
Nel 1950 Alan Turing, celebre per aver decifrato il codice di comunicazione dei nazisti nel corso della guerra, affermò che in futuro le macchine potranno conversare come gli esseri umani. La prova di ciò sarebbe venuta nel momento in cui un essere umano non sarebbe stato più in grado di distinguere se teneva una conversazione con una macchina o con una persona. Il problema del linguaggio è sempre stato uno dei più difficili da trattare, e il test di Turing è rimasto uno scoglio non superabile, ma Chat GPT rappresenta un indubbio avanzamento verso il superamento della differenza tra un testo prodotto da un essere umano e quello prodotto da un programma. Come si è arrivati a questo? Possiamo affermare che presto le macchine potranno sviluppare capacità cognitive pari o superiori a quelle umane? Gli sforzi per approdare ai risultati attuali datano diversi decenni. Dapprima si è tentato di fornire alle macchine le conoscenze del mondo e le regole della sintassi, ma presto si è visto quanto questo compito fosse irrealizzabile. Le informazioni necessarie, infatti, erano così tante da superare qualsiasi possibilità di catalogarle e di inserirle nei programmi. Con l’avvento dei big data si è passati ad un approccio statistico. Fornendo alle macchine testi, traduzioni e conversazioni, grazie a metodi di apprendimento automatico (machine learning) esse hanno cominciato a registrare delle regolarità nelle sequenze delle parole, poi nella formulazione e delle frasi, riuscendo a generare testi sempre più complessi e privi di errori. In futuro, grazie all’uso che faremo tutti noi, si potranno raggiungere risultati sempre più raffinati.
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