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iltascabile

La metafora della diserzione

di Alessandro Lolli*

Una riflessione, a partire da Disertate di Franco “Bifo” Berardi, sulla tentazione di sottrarsi al dibattito pubblico

8 LOZAN32193 1Già nel 1978, Susan Sontag avvertiva dei rischi di usare la malattia come metafora. Concentrandosi sulle due malattie più metaforizzate dell’epoca, tubercolosi e cancro, Sontag spiegava che l’uso analogico di questi fenomeni non rendeva un buon servizio ai malati in carne e ossa e ci allontanava dalla comprensione dei fenomeni stessi. Ma non solo. A divenire meno comprensibili erano anche le situazioni che pretendevamo di descrivere per mezzo dell’analogia: il cancro metaforico si trasformava in un generico progressivo disfacimento del corpo sociale, perdendo molte delle sue caratteristiche specifiche.

Qualcosa del genere accade nell’ultimo libro di Franco “Bifo” Berardi sulla diserzione. Disertate, uscito nell’aprile del 2023 per i tipi di Time0, si apre con un imperativo alla seconda persona plurale che vorrei prendere sul serio, nonostante i numerosi inviti dell’autore a fare il contrario, a non starlo troppo a sentire perché non vuole convincere nessuno. Un po’ perché, se mi chiede di non ascoltarlo, come vuole il paradosso del mentitore scelgo di non ascoltarlo proprio mentre mi dice questa cosa, prendendo invece per buone le parti del suo discorso in cui esorta alla diserzione e la articola nell’arco di 260 pagine. Un po’ perché una coincidenza significativa mi ha spinto a considerare la diserzione un paradigma di lungo corso di una certa area politica, un paradigma magari sotterraneo ma in circolazione da almeno trent’anni e giunto forse a maturazione.

Insieme al nuovo saggio di Bifo, stavo leggendo un altro libro di recente uscita: Negli anni del nostro scontento, Diario della controrivoluzione, di Paolo Virno, pubblicato nel gennaio del 2022 da Deriveapprodi. Si tratta di una raccolta di articoli usciti su Il Manifesto tra il 1988 e il 1991, quando Virno era redattore della sezione cultura.

Dire che Virno e Bifo si conoscono è un eufemismo. La storia del loro rapporto si fa tutt’uno con la Storia con la esse maiuscola, maturata all’interno di quel movimento spesso ricordato con una data, “il ‘77”, che li ha visti protagonisti, nella teoria e nella militanza, di una stagione politica entrata nella leggenda. Entrambi, all’epoca di quelle vicende, sono stati perseguitati e – come amano sottolineare – sconfitti dalla repressione: Bifo scappò a Parigi quando nel ‘77 la polizia chiuse Radio Alice e spiccò un mandato nei suoi confronti per “istigazione all’odio di classe per mezzo radio”, Virno fu invece arrestato il 6 giugno ’79 assieme ad altri compagni, militanti e teorici, nella coda lunga di una serie di arresti iniziati il 7 aprile dello stesso anno, le cui vicende giudiziarie -durate quasi un decennio- sono oggi ricordate appunto come Processo del 7 aprile, il processo all’Autonomia. Entrambi, in questi due testi, raccontano quegli anni: Virno elaborando e rivendicando quella sconfitta subita appena dieci anni prima, Bifo affrescando le possibilità inespresse di quel periodo, ormai lontano cinquant’ anni, che senza mezzi termini ricorda come il più felice della sua vita. Entrambi infine, ed è qui la coincidenza, ci parlano di diserzione in modo metaforico. Virno lo fa in un articolo scritto alla fine del 1989, a ridosso di un evento politico globale che non occorre neppure nominare, Bifo nel corso dell’intero testo. Partiamo quindi da lui e vediamo dove ci porta questa metafora che infesta una certa tradizione militante.

Come l’essere per Aristotele, la diserzione per Bifo si dice in molti modi. Si apre una distanza tra l’atto del soldato che rifiuta di arruolarsi e l’uso metaforico di questo gesto che però, nel suo farsi analogia, si moltiplica come descrittore psicologico, politico, sociologico, psicologico e così via. In Bifo la diserzione diventa un modo di intendere l’etica, la politica e la vita stessa. E qui avviene una prima importante scissione, sottolineata dall’autore stesso, tra la diserzione come orientamento da perseguire – l’imperativo del titolo – e la diserzione come condizione in cui la nostra società già versa. Prendendo in prestito le parole di Paul Watzlawick, Bifo lo definisce “prescrivere il sintomo”. Da un lato, dice Bifo, stante le condizioni globali che ci troviamo a vivere, “disertare” è l’unica strategia razionale, dall’altro, sempre più persone hanno già reagito “disertando”, componendo il paesaggio psico-sociale che abbiamo davanti. Ma quindi, cosa vuol dire “disertare”, non fuori ma nella metafora?

In Bifo la diserzione diventa un modo di intendere l’etica, la politica e la vita stessa.

Difficile dirlo con certezza, ma sembra avere a che vedere con il rifiuto a prendere parte a un conflitto che non ci riguarda e/o sul quale è impossibile intervenire in modo significativo. Nella prima parte del libro, Bifo tratteggia un’etica della diserzione che muove dalla constatazione dell’impotenza di ogni agire politico significativo in un mondo che accelera verso la catastrofe. Nella metafora della diserzione, il conflitto che si rifiuta è il mondo intero.Come abbiamo anticipato, questo rifiuto di partecipare al gioco del mondo, nella seconda parte del libro Bifo lo rintraccia come tendenza già in atto. Qui diserzione inizia a fare rima con depressione, rassegnazione e disperazione.

La sua esortazione a disertare può quindi essere letta come un prendere parte a un “movimento” già dato di disperati, ad accettare la depressione che è l’unica risposta razionale al disastro psicosociale che ci troviamo a vivere, a unirsi a coloro che si “rassegnano” dal lavoro (gioco di parole bilingue con la cosiddetta Great Resignation) e cercare da qui modi di vivere, o forse semplicemente di essere, alternativi. Verso la fine, propone un elenco pratico di diserzioni da mettere in campo, che riportiamo brevemente:

Non votare

Non lavorare

Non consumare più niente che non sia prodotto da comunità di autoproduzione

Non procreare

Non partecipare a nessuna guerra, non aggredire, ma neppure difendersi, abbandonare il campo sociale

Immediatamente Bifo si affretta a dire che nessuno può applicare davvero queste norme che vanno invece lette più come principio da perseguire. Eppure non si può evitare di notare che questi rifiuti non sono sullo stesso piano di fattibilità, e i vari sensi che abbiamo attribuito alla diserzione iniziano a entrare in contraddizione insanabile. Se infatti è relativamente semplice non votare o non procreare (basta in fondo astenersi dal farlo) diverso è immaginare e organizzare la propria vita al di fuori del lavoro, vivendo di sola autoproduzione. Qui l’ideale della diserzione sembra essere fondare o prendere parte a una comune. Ebbene, è questo un gesto di cui il depresso, il rassegnato, il disperato è in grado?

Non ci vuole forse un’enorme forza di volontà, una fiducia nel mondo e in se stessi smisurata, per lanciarsi in un’avventura che riscrive completamente i confini della tua vita e i cui rischi sono imponderabili? Se disertare vuol dire sottrarsi davvero alla macchina sociale, organizzandosi in un altrove, questo non è un atto che si improvvisa da rassegnati. A costo di sembrare provocatorio direi che a livello psicologico, chi molla tutto e va a vivere in una comune ha molto più da spartire con chi chiede un prestito per lanciare una start-up o ritira tutti i risparmi per investirli in cryptovalute. Al di là degli esiti opposti e comunque la si pensi, sono atti coraggiosi e vitali che poco hanno a che vedere con chi, depresso e rassegnato, si trascina giorno dopo giorno lavorando in precarietà.

Se è relativamente semplice non votare o non procreare, diverso è immaginare e organizzare la propria vita al di fuori del lavoro, vivendo di sola autoproduzione.

Giunti a questo punto, occorre uscire dalla metafora e andare a verificare la diserzione reale a quale di questi tanti sensi più attagli. È forse superfluo dirlo, ma la riflessione di Bifo muove da un evento reale con i suoi disertori in carne e ossa, ed è il conflitto Russo-Ucraino scoppiato il 23 Febbraio del 2022. Cosa fa il disertore ucraino o russo che non risponde alla chiamata del suo governo e fugge dal paese? A cosa somiglia il suo gesto reale se confrontato con i suoi equivalenti metaforici? Di certo non a rassegnazione, passività, depressione. Disertare è un atto deliberato, un proposito preciso che necessita determinazione e coraggio per essere portato a termine, correndo tutti i rischi del caso. Ed emerge una ulteriore e più fondamentale distinzione tra la figura suggestiva del disertore metaforico e l’azione del disertore reale.

La diserzione metaforica si presenta come il rifiuto di sostenere l’una o l’altra parte di un conflitto: ci sono due posizioni, due schieramenti, una polarizzazione come va di moda dire oggi, e il disertore inventa una terza via, si sottrae alla scelta, reputa il tavolo truccato. Ebbene questo non è affatto ciò che fa il disertore in carne e ossa. Esclusi casi eccezionali di tradimento che riguardano solo le spie, il disertore non ha di fronte a sé la scelta per chi parteggiare e quindi la possibilità terza di non parteggiare per nessuno. Il disertore ha il suo governo che lo raggiunge con un ordine. Di fronte a questo ordine ha una scelta binaria, polarizzata, mutualmente escludente: obbedire e arruolarsi, disobbedire e fuggire.

La diserzione reale non contempla l’atteggiamento rassegnato, depresso, passivo di chi rifiuta le sirene dell’una e dell’altra parte perché è invece uno di quei momenti in cui la politica si fa reale, personale, ti viene a bussare a casa e ti chiama all’azione, qualunque sia: fai questo o fai quest’altro e entrambe le opzioni avranno conseguenze pesanti. Se la diserzione metaforica elude i binarismi, le polarizzazioni, le scelte binarie; la diserzione reale è invece una scelta all’interno di un’opposizione ineludibile: o qui o lì. Perché è così importante questa distinzione tra il terzismo della diserzione nella metafora e la scelta concretissima che compie chi diserta davvero?

Dirò quindi cosa penso sia la diserzione metaforica che seduce le menti di molti contemporanei: una strategia retorica che allevia un preciso stress psicologico sorto nella nostra società. Recentemente il linguaggio giornalistico l’ha sintetizzata con un’espressione come al solito cacofonica ma centrata: “nénéismo”. Né con A, né con B, rifiuto assoluto di prendere parte oppure invenzione di una terza posizione irriducibile alle prime due. Questo modo di porsi è sempre più comune ed è soprattutto un modo di argomentare, cioè una retorica. Bifo ne fa largo uso all’interno del testo e il saggio si apre proprio con un paradosso nénéista che ora è il momento di rivelare. Nelle primissime pagine, nel tentativo di coprire la distanza tra la diserzione metaforica e quella reale, Bifo compie l’esperimento mentale intitolato “COSA AVREI FATTO SE VIVESSI A KIEV”, ovvero immaginarsi della nazionalità e dell’età giusta per essere chiamato ad arruolarsi nell’esercito ucraino. Ebbene, una volta postosi con la fantasia nei panni di un giovane ucraino, Bifo non sa dire se diserterebbe o meno. Trova condivisibile sia quella diserzione che compare come esortazione in copertina, sia scegliere di resistere per difendere la propria piccola patria, a patto che non lo si faccia in onore dei valori astratti occidentali (Libertà, Democrazia eccetera).

Il disertore non ha di fronte a sé la possibilità terza di non parteggiare per nessuno, ha il suo governo che lo raggiunge con un ordine. Di fronte a questo ordine ha una scelta mutualmente escludente: obbedire e arruolarsi, disobbedire e fuggire.

Un po’ singolare che l’autore di un libro intitolato Disertate, che di questo comportamento tesse le lodi per 260 pagine, immedesimatosi nella situazione reale non abbia idea di come agire, no? Questo ci dice molto della già sviscerata distanza tra la metafora e la realtà, ma ci dice anche qualcosa sull’uso della metafora intesa come strategia retorica. Perché non è vero che Bifo non si schieri all’interno del saggio, lo fa eccome. Semplicemente si schiera sulla VERA questione che gli è stata posta, non su quella immaginaria.

La diserzione come strategia retorica, il nénéismo, fa proprio questo: dichiara di non voler rispondere a una domanda a risposta binaria che nessuno però ti ha posto. Mi spiego meglio. Bifo effettivamente non vive a Kiev. Nessuno l’ha chiamato in guerra. Nessuno gli ha neppure chiesto di scrivere una dichiarazione d’amore alla Nato, a Biden o a Putin e quando dice di disprezzare profondamente tutti questi soggetti, di non stare “né dall’una né dell’altra parte”, io gli credo. No, la questione che riguarda Bifo e tutti noi Europei è molto precisa, concreta e binaria: sostenere o non sostenere militarmente l’Ucrania.

E su questo Bifo ha un’opinione chiara che ripete per tutto il testo: no, inviare le armi è criminale e serve solo a prolungare il massacro. Questa è la sua posizione e questa è la sola posizione che conta. La retorica della diserzione risponde “né né” a false domande, a dicotomie di comodo, come l’adesione spassionata ai valori occidentali o il sostegno politico all’autocrazia Putiniana, questioni ideologiche e astratte che non hanno valore ma vengono evocate al preciso scopo di rappresentarsi come “disertore” della contrapposizione polarizzata e nascondere il momento in cui si dà la risposta alla vera domanda.

Ho scritto che la diserzione come retorica nasce da un preciso stress psicologico sorto nella nostra società che esula la questione ucraina e risponde a un contesto più generale. Mi riferisco alla profonda trasformazione antropologica che i social network hanno imposto al discorso pubblico. All’interno del testo, Bifo dedica molte riflessioni all’infosfera e ai cambiamenti financo cognitivi che l’esposizione continuata a schermi interattivi ha prodotto tanto nelle nuove quanto nelle vecchie generazioni. Manca di concentrarsi però su un aspetto che ritengo fondamentale, cioè la trasformazione che è stata impressa al nostro rapporto con i discorsi e quindi con l’Altro.

La diserzione come retorica nasce da un preciso stress psicologico sorto nella nostra società: la profonda trasformazione antropologica che i social network hanno imposto al discorso pubblico.

L’Altro non è mai stato così presente nella nostra vita dall’alba dei tempi. La riduzione dei rapporti interpersonali fisici, conseguenza della loro smaterializzazione digitale, ne ha anche moltiplicato la frequenza nel virtuale e questo sfugge a molte critiche che si spendono sul network. Abbiamo l’Altro sempre in tasca. Si manifesta a noi in vari modi ma sostanzialmente come Altro che rappresenta la sua vita (su Instagram) e Altro che la commenta (su Facebook). Le parole dell’Altro sono continuamente con noi, il suo discorso è onnipresente e gli eventi stessi si presentano già circondati da tutte le opinioni che è possibile tenere in merito. Tutto ciò non ha precedenti nella storia della nostra specie ed è esclusiva conseguenza della diffusione dei media bottom-up di massa, cioè il cosiddetto internet 2.0. Non è un caso che questa famosa e tanto criticata polarizzazione venga sempre ricondotta ai “social network”, quasi fossero la causa del dividersi intorno a notizie, temi e valori. Prima non eravamo polarizzati? Ma non eravamo noi marxisti a dire che la società è attraversata da conflitti e contraddizioni irriducibili?

Ciò che fa il social network non è creare questa divisione ma ipervisibilizzarla rendendocela intollerabile. Quando ci si confronta con l’Altro nell’arena del social network non si incontra solo chi la pensa diversamente ma anche chi la pensa proprio come noi. Il disgusto per questo vociare ininterrotto dell’Altro diventa quindi disgusto per noi stessi che ci percepiamo come parte del coro, disgusto di me in quanto portatore di un’opinione. Da qui la fantasia escapista della diserzione, la fuga dalla polarizzazione. Un numero crescente di prese di parola del network corrisponde alla fantasia della diserzione, si danno come metaopinioni colme di frustrazione verso, non tanto l’argomento del giorno, quanto l’insieme di cose dette intorno all’argomento del giorno (“altre opinioni sull’ultimo film di Nanni Moretti ne abbiamo?”). La frustrazione che prende il soggetto che si confronta con l’Altro – e quindi con se stesso – in quanto autore discorsi non riconosce la differenza tra gli oggetti del dibattere, è suscitata dal solo fatto che se ne parli. Un’antica critica ai vecchi mass-media voleva che i telegiornali appiattissero la gerarchia tra gli eventi, ponendo tutte le notizie sullo stesso piano. Il social network ha posto sullo stesso piano il prendere posizione circa qualsiasi evento di modo che averne una sull’abbattimento di un’orsa o sulla risoluzione di un conflitto mondiale è ugualmente stucchevole e insopportabile. Ecco perché vogliamo disertare.

Bifo ha ragione a dire che alla base c’è un senso di impotenza circa le possibilità di trasformare la società, ma manca di riconoscere che la diserzione è una strategia retorica che si inserisce come meccanismo psicologico compensativo all’interno della percepita vacuità del prendere una posizione, una delle due, qualunque essa sia. Così, anche quando il soggetto ha in effetti un’opinione su una questione urgente e bruciante (No all’invio di armi all’Ucraina), questa ci viene presentata come un sottrarsi a una dicotomia in cui non si crede.

Torniamo ora a Virno per riannodare i fili di questa storia e vedere se e dove si incrociano. Quando nell’autunno del 1989 parlava di diserzione, chiamata anche fuga o esodo, Virno ne sottolineava il carattere attivo, strategico e propositivo contro quelle letture che lo legano alla passività.

È stupefacente l’accusa di passività, con cui sono stati bollati i comportamenti di diserzione. L’esodo, spaziale e metaforico che sia, richiede semmai il massimo dell’intraprendenza. […] L’ambizione è grande: spiazzare l’avversario, truccare le mappe di cui si serve, far sì che la sua iniziativa morda l’aria anziché la carne viva. L’esodo non è un gesto negativo. Fuggendo, si è obbligati a costruire diverse relazioni sociali e nuove forme di vita: ci vuole molto gusto per il presente e molta creatività.

Come emerge dalla lettura di altri interventi, qui Virno fotografa e loda un processo storico a lui contemporaneo, lo spostamento del conflitto dalla fabbrica alla metropoli. Stiamo parlando della grande stagione degli “spazi liberati”, temporaneamente o indefinitivamente autonomi, comunemente noti come centri sociali. Nelle loro ambizioni – e talvolta nella realtà – i centri sociali incarnano le declinazioni più positive della diserzione metaforica, che troviamo sia in Virno sia in Bifo: sono infatti contemporaneamente luoghi di costruzione di un altrove e punti da cui preparare il contrattacco. In quanto luoghi di cultura, socialità, consumo responsabile, servizi autogestiti (tutela legale, mutuo aiuto, assistenza sanitaria), i centri sociali fondano qui ed ora una società altra ai margini di quella esistente. Allo stesso tempo fungono da punti di organizzazione politica dove preparare assalti frontali su piccola e larga scala. Fu l’assalto su scala maggiore, simbolicamente planetaria, a concludere la prima stagione dei centri sociali con una grande sconfitta anch’essa immediatamente entrata nel mito: il G8 di Genova del 2001.

Il social network ha posto sullo stesso piano il prendere posizione circa qualsiasi evento. Ecco perché vogliamo disertare.

Sono passati più di vent’anni da allora e dobbiamo porci la domanda se sia emersa una nuova forma di politicizzazione, diversa sia dal partito novecentesco, sia dal conflitto di fabbrica autonomo, sia dai centri sociali. A costo di tuonare una bestemmia in chiesa, vi dirò che se questa forma esiste è l’attivismo virtuale. Senza dare alcun giudizio di valore, dire se sia cosa buona, cattiva, da migliorare o da rifiutare, bisogna riconoscere che la politicizzazione di un paio di generazioni è passata attraverso le agorà digitali. L’accesso generalizzato a media bottom-up dal reach potenzialmente infinito ha fornito soluzioni facili a due funzioni cardine della politica antagonista.

In primo luogo alla propaganda che oggi è molecolarizzata nel frastuono di opinioni di cui abbiamo detto sopra, ma anche centralizzata e centralizzabile in soggettività che si fanno tanto grandi da sfidare media tradizionali, siano esse influencer individuali, magazine o collettivi politici. In misura minore ma non trascurabile, anche il problema dell’organizzazione ha ricevuto nuove risposte dalla connessione di tutti gli esseri umani attraverso gli schermi; caso scuola qui è il Movimento Cinque Stelle. L’emersione di questa nuova forma di politicizzazione non ha scalzato le precedenti, come d’altronde i centri sociali non hanno cancellato partiti o sindacati. Inoltre, riconoscerne l’esistenza non implica accettarla o approvarla, proprio come c’è stato chi ha rifiutato la forma centro sociale -allora ed oggi- sostenendo la centralità ineludibile della lotta sui luoghi del lavoro.

Riannodando i fili del ragionamento, ci troviamo di fronte a una forma del discorso pubblico -e quindi anche politico- completamente inedita. Ogni essere umano è diventato un media outlet, tutti i giorni vede se stesso e gli altri discutere di tutto al punto che il fatto stesso di discutere gli è venuto a nausea. Gli eventi sono stati coperti dalle opinioni e le opinioni ci hanno stomacato. Per citare un vecchio film che raccontava la generazione precedente, Fight Club di David Fincher,: “Siamo i figli di mezzo della storia, non abbiamo né uno scopo né un posto. Non abbiamo la grande guerra né la grande depressione. La nostra grande guerra è quella spirituale, la nostra grande depressione è la nostra vita.”

In questo panorama psicosociale, la metafora della diserzione è più forte che mai, avvertita come urgenza da tantissimi abitanti del network, ma non allude più alla costruzione di un altrove quanto a una fuga dal discorso e/o a una retorica che permetta di abitarlo fingendo di non farlo. Disinteresse o dissimulazione, così si traduce diserzione nel mondo massmediatico orizzontale. Se le cose stanno così, penso che erigere la diserzione metaforica ad ideale sia un errore. Abbracciando il relativismo che Bifo stesso caldeggia nel testo, propongo di essere relativisti anche verso la diserzione medesima. Le questioni non sono tutte uguali, e il network, come un tempo faceva la tv, ci spinge a dimenticarlo. Non è la stessa cosa non discutere, ragionare, schierarsi sul discorso di Chiara Ferragni al festival di Sanremo e non farlo rispetto a una guerra dalle ripercussioni mondiali. Si può e forse si deve disertare la “polemica del giorno”, rifiutarsi di nutrire la macchina con le nostre energie psichiche e fisiche; ma occorre anche sapere quando non farlo. A costo di sembrare, all’interno dell’allegoria, un soldatino polarizzato di due schieramenti in conflitto, esistono ancora questioni che ci interpellano, umanamente e politicamente. Riconoscerle è il compito di un “disertore” che sa quando combattere e non si racconta come abitante di un altrove che purtroppo non c’è.


* Nato a Roma nel 1989. Suoi scritti sono apparsi su Not, Prismo, Pixarthinking, VICE, L’Indiscreto e altri. È autore del saggio "La guerra dei meme" (Effequ, 2017).

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