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lafionda

Emergenzialismo, fase suprema del tecno-capitalismo

di Salvatore Bianco

democracy“Solo se ciò che c’è si lascia pensare come trasformabile, allora ciò che c’è non è tutto”
T.W. Adorno, Dialettica negativa

Tra gli esiti più rilevanti della interminabile pandemia c’è sicuramente quello di aver normalizzato nelle società occidentali lo stato di emergenza, interiorizzato dai più come abitudine e senso comune.

E’ infatti accaduto che una condizione per definizione temporanea quale per l’appunto lo stato di emergenza, in ragione di un evento improvviso da fronteggiare in un tempo delimitato, per effetto della continua reiterazione giustificata dal persistere dell’urgenza in gioco, ha prodotto via via un governo dell’emergenza. Nella sua orbita, la certezza del diritto ha lasciato il posto ad una congerie di provvedimenti di urgenza e misure amministrative, con forza di legge, in continua fluttuazione. Si è andata componendo via via un’alterazione strutturale dell’ordinamento in senso discrezionale ed amministrativo, con un definitivo sbilanciamento a favore dell’esecutivo e di poteri estranei all’architettura istituzionale, con la figura sempre più ricorrente del Commissario straordinario, a scapito del legislativo e dunque in ultima istanza della sovranità democratica quale suo fondamento[1].

Ora, la tesi che si intende argomentare è che l’emergenzialismo nel frattempo riconfermatosi con la guerra in Ucraina, lungi dall’essere una traiettoria accidentale, sia la perversa contromisura, in ambito politico, posta in essere da un tardo capitalismo sempre più contraddittorio.

Tale, per l’appunto, da richiedere uno specifico regime di governo incentrato sull’emergenza permanente o «permacrisi» – secondo l’eloquente espressione adoperata di recente dalla Lagard –, che gioco forza è in rotta di collisione crescente non tanto con lo Stato, da cui anzi trae via via risorse per ripianare le bolle speculative e quei dispositivi di controllo e sorveglianza indispensabili in questa fase involutiva, ma col principio di uguaglianza, quanto meno politica, alla base della forma democratica di governo. Un paradigma socioeconomico, quello neoliberista, che già da tempo, giova ricordarlo, non riusciva più a garantire nell’ Occidente forme di benessere diffuso. Nella sua configurazione finanziarizzata, indagata con rigore da Luciano Gallino nel saggio Finanzcapitalismo (2011), ha prodotto una pletora crescente di lavoratori poveri, di precari e soprattutto un esercito di giovani inoccupati in una cornice di devastazione ambientale.

La democrazia a cui qui si allude non è ovviamente solo quella procedurale delle pratiche elettive, ma poggia sul principio sostanziale dell’autogoverno da realizzare in forme sempre più avanzate sia pure per il tramite di istituzioni rappresentative: in base a quel principio i cittadini reputano legittime e obbediscono solo a quelle leggi che provengono da loro stessi. Per destituire e scardinare un simile impianto, fra l’altro sedimentato ormai nella psiche collettiva delle società in virtù di consolidate pratiche partecipative, l’infrastruttura dell’emergenzialismo dovrebbe riuscire a fare leva su di un principio altrettanto se non più pregnante. Ebbene, l’emergenzialismo sanitario, che abbiamo conosciuto, e quello bellico che stiamo drammaticamente attraversando, come quello energetico o climatico che già incombono, ruotano tutti intorno ad una medesima estrema posta in gioco: la vita stessa e la sua salvaguardia, senza ulteriori determinazioni. Certo, l’Occidente tutto aveva già conosciuto nel suo recente passato delle crisi spaventose, quale la minaccia terroristica e la crisi finanziaria. Ma con la pandemia fa irruzione in esplicito un metodo di governo compiutamente emergenziale: la posta in gioco diventa la salute intesa come salvaguardia della nuda vita astrattamente intesa.

In effetti, la sicurezza e la salvaguardia della pura sopravvivenza è un po’ il marchio di fabbrica della politica moderna, a partire da uno dei suoi fondatori, T. Hobbes. Nell’Europa dilaniata dalle guerre civili di religione, lo Stato è individuato dal filosofo inglese come il nuovo possibile centro di ordine in luogo della respublica christiana ormai lacerata al proprio interno, perché il suo Dio si esprime in troppe lingue differenti. Il Leviatano è sul piano teorico quel soggetto politico irresistibile in grado di assicurare la salvezza molto terrena dei corpi, elevati a bene sommo. Si trasferiscono così interi impianti categoriali pensati per il trascendente, come l’anima, su beni ben più terreni e contingenti con la medesima pretesa di assolutezza. Quella sicurezza così perseguita, mediante un costrutto umano artificiale, consente al singolo individuo di poter «godere dei frutti della sua industriosità», che tradotto vuol dire libertà economica di intraprendere ed accumulare. Si costituisce così sia pure in forma ancora embrionale un nesso tra la salvaguardia della vita materiale e la correlata libertà economica, con il politico in veste di incubatore di quelle dinamiche di accrescimento che saranno tipiche di un capitalismo maturo.

Nella lunga durata è accaduto – come si accennava all’inizio – che i pericoli, le imboscate ed i conflitti non sono cessati, piuttosto transitati dall’ambito religioso a quello interstatuale, con le varie guerre di potenza, e poi in misura crescente a quello economico. Sullo scorcio del secolo scorso, poi, sulla scorta della crisi e la disfatta definitiva dell’URSS, il modo capitalistico della produzione si è esteso nello spazio ed intensificato nel tempo, ponendosi di fatto come centro alternativo agli Stati, sia pure in un rapporto dialettico con gli interessi strategici di quelli più forti. Ma il suo meccanismo astratto di accumulazione solo quantitativa, di «valorizzazione del valore senza limite» (Marx), non ha consentito di produrre in simultanea un ordine corrispondente a quella centralità acquisita sul campo, tutt’altro. Fattore non secondario di devastazione sociale e ambientale è stata poi l’antropologia che ne è al fondo: l’uomo è un essere razionale calcolante il proprio utile in lotta permanente – come tra mastini! – con gli altri uomini in un mondo di scarsità.

Oggi ci si ritrova al paradosso in apparenza inestricabile di una potenza tecno-economica senza precedenti in grado di permeare di sé il mondo intero che però anziché produrre stabilità produce, su scala planetaria, squilibri naturali e sociali crescenti, senza che la politica nel frattempo debilitata da quelle stesse “leggi ferree” del mercato, sia in grado di porvi un sostanziale rimedio. K. Polanyi, che aveva fatto in tempo a registrare il primo catastrofico tentativo di globalizzazione intrapreso dell’Occidente europeo alla fine ‘800, tramite il colonialismo e l’imperialismo, nel suo saggio La Grande Trasformazione, così si esprimeva: «La nostra tesi è che l’idea di un mercato autoregolato implicasse una grossa utopia. Un’istituzione del genere non poteva esistere per un qualunque periodo di tempo senza annullare la sostanza della società […] qualunque misura [la società] avesse preso essa ostacolava l’autoregolazione del mercato»[2].

In una sorta di singolare ricorsività storica, pare riproporsi sia pure su di un piano terribilmente accresciuto la strutturale dicotomia della modernità senza apparenti vie di uscita. Quella vita biologica che la politica moderna aveva elevato a bene supremo da proteggere[3] appare ora sempre più minacciata dell’altro pilastro della modernità, l’utile, che nella sua forma sistemica capitalistica devasta l’ambiente e disumanizza la società. Non pare vi sia mediazione possibile tra questi due costrutti, vita ed utile, che l’Occidente ha dapprima forgiato e poi reso apparentemente inconciliabili; la stessa tecnica nel suo essere tecnologia quasi integralmente sussunta alle logiche del profitto gioca oramai da tempo un ruolo di complice nell’asservire l’uomo alle logiche neoliberiste anziché emanciparlo.

Ora, una umanità sofferente e, con l’attuale scenario di guerra, sotto minaccia nucleare, sarebbe da organizzare, prendendo di mira gli squilibri tra gli esseri umani e tra l’uomo e l’ambiente, ma soprattutto i detentori dell’utile responsabili di tutto questo, in una operazione in stile hobbesiano ma in chiave anticapitalista. Viceversa, l’emergenzialismo imperante intende utilizzare la salute come estrema risorsa per una nuova base di legittimazione politica in favore di una ristretta oligarchia politico-finanziaria, promettendo sulla carta sicurezza ma producendo nell’eterno ritorno dell’uguale meccanismo economico solo maggiore insicurezza, in una hegeliana spirale di «cattivo infinito»: di sempre più disordine che reclama ordine, senza mai concretamente poterlo soddisfare.

In effetti, dal lato del blocco oligarchico dominante e della relativa accumulazione capitalista, la crisi permanente risulta ben più idonea ad assecondare i processi di ristrutturazione che il sistema richiede in questa fase crepuscolare. Per dirla con Milton Friedman, fondatore della Scuola neoliberista di Chicago e sperimentatore nel Cile di Pinochet della sua variante eversiva ed emergenzialista: «Soltanto una crisi – reale o percepita – produce un vero cambiamento. Quando quella crisi si verifica, le azioni intraprese dipendono dalle idee che circolano […] fintantoché il politicamente impossibile diventa politicamente inevitabile»[4]. Una delle conseguenze più rilevanti, sul piano antropologico, del governo dell’emergenza è quello di consegnarci ad una tirannia del presente senza apparente possibilità di una via di fuga.

Sul piano strutturale è molto probabile che sotto i nostri occhi si stia svolgendo il più formidabile riposizionamento strategico dell’accumulazione capitalistica, sull’estrema frontiera della biosfera e dell’ecosistema ecologico in sofferenza, che l’ordine del discorso dominante camuffa con la green economy, incaricandosi di richiedere sacrifici crescenti ai ceti subalterni, financo di quello che resta del principio democratico per un bene superiore. Al riguardo, appare riduttivo definire transizione questo passaggio e non piuttosto trapasso a nuovi rapporti di potere che pretendono riassetti politici e sociali in chiave sempre più verticale ed autoritaria. Non deve dunque sorprendere più di tanto che in alcune cancellerie, figure provenienti direttamente dal mondo della finanza (Macron, Monti ecc.) siano considerate le più idonee a gestire questa fase di passaggio all’ombra degli imperativi categorici neoliberali. Figure che, magari, sono chiamate a riattivare all’ombra dell’emergenza quei nuclei più antichi di sovranità statuale per spegnere con la violenza spiccia ogni forma di dissenso o ribellione che dovesse nel frattempo coagularsi dal basso. Sullo sfondo la politica nella sua totalità sbiadisce e si è ridotta a tecno-politica. Pertanto non solo non agisce da potere frenante rispetto all’informe economico, ma si è messa a coltivare per procura quelle stesse paure su cui si fonda in ultima istanza ogni logica emergenziale, in nome di quel dogma che nega alla radice ogni squilibrio interno ed esterno alla riproduzione capitalistica. Il tecnocrate di turno esercita pertanto un potere che non è più volto a promuovere l’autonomia dei cittadini, come da patto costituzionale, piuttosto assicurarne la compatibilità e la funzionalità rispetto ad un ordine precostituito inemendabile, considerato fisso e immutabile come un sistema planetario.

Una ristrutturazione del sistema capitalistico occidentale in chiave emergenzialista, fra l’altro dichiarata in esplicito in un recente e illuminante libro, Covid-19. The Great Reset (2020), da quel K. Schwab fondatore del Forum di Davos e maestro di cerimonie degli incontri annuali del gotha della finanza e della politica mondiale. La sua tesi è che l’emergenza pandemica va considerata «una rara e stretta finestra di opportunità» da volgere a favore dell’oligarchia finanziaria dominante. Il suo libro si apre con una domanda ed una risposta che più esplicite non potrebbero essere: «Molti di noi stanno riflettendo su quando le cose torneranno alla normalità. La risposta in breve è la seguente: mai». La nuova normalità, dirà nelle pagine centrali, si sostanzia per il fatto che le cose reali diventano cose solo digitali. In futuro le persone non andranno più al cinema ma guarderanno una serie da casa, non avranno più bisogno di andare al ristorante perché potranno ricevere tutto tranquillamente a domicilio. Il libro si conclude con l’elogio della resilienza quale criterio aureo di condotta: «Come tutte le buone pratiche, la resilienza comincia a casa con noi, cosicché possiamo verosimilmente assumere che nell’era post-pandemica saremo collettivamente più consapevoli dell’importanza della nostra propria resilienza fisica e mentale»[5]. Una qualità, la resilienza, che è tipica del mondo inorganico di subire un urto senza snaturarsi, traslata così all’umano in nome di una logica dell’adeguamento. Il resiliente è colui che muta se stesso per adeguarsi alle cose (mercati, agenzie di rating, Covid, guerra, crisi climatica ecc.) anziché comprenderle per poi trasformarle ed adattarle a sé e «ai desideri di migliori libertà» di tutti e di ciascuno.

In effetti, da vent’anni circa a questa parte la nozione ha subito una vera e propria torsione semantica, divenendo l’imperativo categorico invocato dai governanti in Occidente per predicare a moltitudini, già di loro passivizzate, spirito di sopportazione e capacità adattiva. Attraverso la resilienza, propagandata a reti unificate, si intende veicolare l’idea che non un singolo evento tragico, come può essere una perdita dolorosa o un male incurabile, ma che la realtà storica nella sua totalità esige una postura dell’adeguamento permanente. L’uso dilagante del concetto è la riprova di due processi in corso altrettanto perniciosi. Il primo riguarda l’apparecchiarsi di uno spazio sociale e politico sempre meno desiderabile che richiede perlopiù sopportazione e che per giunta, e siamo alla seconda evidenza, risulta sempre più impersonale e automatizzato. Il mondo storico che abitiamo finisce così per apparire fuori dalla portata trasformativa delle soggettività – e qui le tecnologie elettroniche con l’accelerazione spinta hanno giocano, in negativo, un ruolo decisivo. Alla ideologia della resilienza corrisponde dunque una ontologia dell’intrasformabilità del reale a cui bisogna semplicemente adeguarsi.

Resta da abbozzare una possibile risposta alla domanda sul che fare? Non prima però di aver ribadito che per paradossale che possa sembrare proprio le attuali convulsioni del capitalismo, nella sua «agonia raggelata», con il massimo di controllo e sorveglianza dispiegati, sono le meno propizie per uno spirito del tempo rivoluzionario. La cifra del presente sono le «preoccupazioni» reali e indotte, per dirla ancora con Benjamin, che certo non spingono al cambiamento piuttosto ad una ricerca compulsiva di stabilità senza avere la pur minima possibilità di poterla acciuffare.

E ancora, applicando il circolo del presupposto-posto hegeliano, si potrebbe argomentare quanto segue. Mentre in alto la coscienza degli interessi in gioco è massima[6], tanto da riuscire a propagandare il posto storico dei mercati finanziari come un presupposto quasi da glorificare come divinità, in basso della piramide sociale avviene esattamente il contrario. Si riscontra un presupposto di frustrazioni, rabbia e disconoscimento sociale senza che venga posto, ovvero organizzato e reso consapevole di sé da alcun soggetto collettivo degno di questo nome. La fenomenologia del dissenso finisce così per essere incanalata in quella medesima logica individualistica da cui pure vorrebbe emanciparsi: non si è capaci al momento di uno sguardo di insieme e mediato, ma sempre e solo frammentario ed immediato. Orwell ci ricorda nel suo capolavoro distopico, 1984, che lo scontento non può avere sbocchi se non si incardina in «una visione generale dei fatti»[7]. Siamo così esattamente agli antipodi della lezione di Gramsci condensata nella sua formula universalmente nota: «Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza»[8].

Premesso tutto ciò, la prima mossa da fare sul piano ideale è riguadagnare da subito una visione d’insieme e di parte, dalla parte della sofferenza del popolo degli abissi (London), provando ad individuare nel paradigma socioeconomico nella sua attuale configurazione emergenzialista la principale contraddizione su cui riposano ben determinati e feroci rapporti di forza: nell’allocazione e distribuzione iniqua delle risorse, dei poteri e dei saperi. Urge poi il recupero della categoria chiave del conflitto e riattivarlo da subito nelle forme realisticamente possibili. Questo consentirebbe di riavviare la lotta per il riconoscimento con quel poco di consapevolezza che un capillare lavoro culturale e critico riuscirà ad instillare.

Certo, il paradigma socioeconomico neoliberista dei “quaranta ingloriosi” non si supera nello spazio di un mattino, il cambiamento ci avverte sempre Hegel «non è un colpo di pistola», anche perché tutto il potere materiale e mediatico è concentrato da una parte sola. Da questa spirale si esce con una lunga marcia nel deserto, sottraendo poco alla volta ambiti più ampi della riproduzione sociale alle grinfie del mercato. Non è realistico, come detto, pensare e realizzare una fuoriuscita totale e istantanea dall’attuale modello; più concreto è ripristinare un progressivo sistema di economia mista, mettendo in sicurezza quei beni collettivi come il lavoro, l’ambiente, la sanità e l’istruzione, i quali se lasciati in balia dei meccanismi della competizione generano mostri, come avvenuto in Italia con lo svuotamento dall’interno, per effetto di processi di privatizzazioni del SSN. Per riportare un solo dato significativo: si è passati dai 500 mila posti letto ospedalieri del 1981 ai circa 250 mila del 2017. Sul piano internazionale, la vicenda dei vaccini gestita dalle grandi multinazionali del farmaco in competizione selvaggia è emblematica al riguardo. Quando su questioni in linea di principio non mercificabili, come la salute delle persone, si innestano logiche del profitto, non si può mai conoscere dove finisce la effettiva tutela del benessere delle comunità umane e dove comincia quello dei bilanci plurimiliardari delle aziende. Fra l’altro ampiamente finanziate dalla mano pubblica, come nel caso della ricerca sui vaccini, nella più spudorata delle logiche di privatizzazione degli utili e socializzazione del debito.

Un’ultima conclusiva annotazione, con il regime di governo emergenzialista e, da ultimo, con il suo inevitabile esito bellicista, il sistema si sta giocando una partita rischiosa per la propria sopravvivenza, al limite del temerario. Quando si apre all’economia di guerra, come con la decisione di destinare parte del PNRR alle armi, da apprendisti stregoni si evoca la categoria della morte con tutte le domande di senso che essa incorpora, ben più destabilizzanti e rischiose per la tenuta del regime neoliberista. La partita anche per quest’ultimo strappo è più che mai aperta, perché si sentono riaffiorare nel frastuono comunicativo parole antiche come pace, cooperazione, ambiente e soprattutto lavoro. Si potrà addirittura vincerla la partita, imponendo un nuovo compromesso sociale, se si proverà, con l’ausilio di una soggettività collettiva pronta, a corrispondere a quelle istanze caotiche che provengono da quel basso, che vive o vorrebbe vivere con l’autonoma dignità del proprio lavoro, conferendo ad esse un senso ed una direzione di marcia, smettendo finalmente di affidarsi, da ciechi, alla guida di pazzi[9].


Note
[1] Su questo punto si è soffermato di recente G. Agamben in occasione del suo intervento al convegno degli studenti veneziani l’11novembre 2021 (Ca’ Sagredo)
[2] K. Polanyi, La Grande Trasformazione, Einaudi, 1974, pp. 5-6
[3] Sulla centralità della categoria della vita nella modernità politica si sofferma C. Galli nel suo pregevole saggio introduttivo a T. Hobbes, Leviatano, Rizzoli, 2011
[4] M. Friedman, Capitalismo e libertà, IBL Libri, 2010
[5] K. Schwab, T. Malleret, Covid-19: The Great Reset, 2020, p. 82
[6] E fa capo ad una medesima matrice di dominio di un gruppo ristretto di plutocrati. Quelli che Marx nel III libro de Il Capitale aveva fatto in tempo ad identificare in «lupi di borsa, bancocrati e rentiers»
[7] G. Orwell, 1984, Milano, 1989, p. 76
[8] L’Ordine Nuovo, I, maggio 1919
[9] Shakespeare, Re Lear, Atto IV

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