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28 maggio 2023: le conclusioni all’Assemblea di costituzione del Centro Studi Nazionale “Domenico Losurdo”

di Fosco Giannini

IMMAGINE PER INTERNI PER PRIMO PEZZO LOSURDO.jfif Innanzitutto un saluto ed un ringraziamento agli oltre 50 compagni/e, docenti, intellettuali, quadri operai e dirigenti del movimento comunista, operaio e sindacale, sui 62 che sinora hanno aderito al nascente Centro Studi Nazionale che oggi – domenica 28 maggio 2023 – sono presenti a quest’assemblea on-line di costituzione del Centro Studi.

Sintetizzando in una sorta di formula, potremmo asserire che l’obiettivo strategico del Centro Studi che oggi prende forma è quello di contribuire a riprogettare e riconsegnare un pensiero forte, marxista, comunista, rivoluzionario, al movimento comunista e antimperialista italiano.

Un obiettivo che non potrà che incardinarsi, essenzialmente, su due pilastri analitici, su due questioni centrali:

-primo, l’odierna, inequivocabile pulsione alla guerra, e persino alla guerra mondiale, del fronte imperialista guidato dagli Usa e dalla Nato e, conseguentemente, la questione dell’abbandono, da tanta parte della “sinistra” italiana, dell’analisi e della prassi dell’antimperialismo e dunque la necessità di ricostruire un senso comune di massa antimperialista come necessaria avanguardia per un movimento unitario e di massa contro la guerra;

– secondo, la ricostruzione di un pensiero e di una prassi della rivoluzione in Occidente.

Di conseguenza, vi sono due problematiche da mettere a fuoco: l’attuale quadro internazionale e i suoi “movimenti” carsici e di superficie che lo caratterizzano e la lotta contro il neopositivismo e il neoidealismo di ritorno che oggi gravano, in Italia, su tanta parte della “sinistra”, a volte anche su parti non secondarie di quella comunista.

Per ciò che riguarda il primo punto, il quadro internazionale, potremmo, per comodità analitica, dividere l’ultimo e recente periodo storico in tre fasi – la prima è quella che inizia il 26 dicembre del 1991, con l’ammainarsi della gloriosa bandiera sovietica dalle cupole del Cremlino. L’Unione Sovietica, con la drammatica responsabilità di Gorbaciov, si autodissolve e immediatamente l’imperialismo, tramite il suo cantore Fukujama, “ratifica” la “fine della storia”. Il mondo appare alle forze imperialiste e capitaliste uno sterminato mercato da conquistare, con le buone o con le cattive. Si liberano gli spiriti animali dell’imperialismo che vuol credere davvero nella propria follia idealistica di “fine della storia”. Una sorta di “superstizione” antistorica e antiscientifica che tuttavia produce un lungo e terrificante ciclo di guerre imperialiste: contro la Jugoslavia (che sebbene inizi nell’agosto del 1990, è già un prodotto del combinato disposto tra crisi “gorbacioviana” dell’URSS e conseguente scatenamento imperialista), Afghanistan, Iraq, Libia, Siria, Yemen, guerre alle quali si aggiunge – tra tentativi di golpe e golpe riusciti- la nuova stagione golpista nordamericana in America Latina (Cuba, Venezuela, Brasile, Bolivia, Nicaragua).

-Seconda fase: Fukujama non fa in tempo a decretare la fine della storia e la morte del socialismo che l’intera America Latina è attraversata da una potente pulsione antimperialista: non solo Cuba resiste, ma il Venezuela di Chávez annuncia la costruzione del socialismo, Daniel Ortega rilancia il potere sandinista in Nicaragua, Lula vince in Brasile, il MAS (Movimento per il Socialismo) di Evo Morales apre una grande stagione di trasformazioni sociali in Bolivia e altri Paesi dell’America Latina si liberano dal giogo statunitense e iniziano a costruire un fronte unitario antimperialista. Nel continente africano, il Sud Africa imperniato sul grande Partito Comunista, SACP, non solo rafforza la propria rivoluzione anti apartheid ma inizia a segnare positivamente di sé l’intera Africa australe e diversi altri Paesi africani iniziano a scrollarsi di dosso le mosche americane e a girare il capo verso un mondo diverso e più solidale. L’Asia e l’Eurasia sono segnate dal più grande sviluppo economico della storia dell’umanità, quello cinese, dallo sviluppo vietnamita, dalla grande forza dei due partiti comunisti indiani, dalla vittoria socialista nel Laos e nel Nepal, dalla forza del grande partito comunista che lotta all’interno di uno dei più classici imperialismi, quello giapponese, e dalla politica di Putin che chiude le porte al tentativo, che Eltsin aveva iniziato ad agevolare, di penetrazione imperialista in Russia, per sgretolare la Russia e trasformarla in un unico e subordinato mercato americano ed occidentale.

Questa è la seconda fase nella quale, attorno al cardine cinese, si materializza un immenso fronte antimperialista mondiale che produce l’esperienza dei BRICS e la Nuova Banca di Shangai, alternativa al Fondo Monetario Internazionale. In questa seconda fase i rapporti di forza tra fronte imperialista e fronte antimperialista mutano a favore del secondo, la Cina emerge quale nuova potenza mondiale in grado di porsi come partner oggettivo di tanti Paesi in via di decolonizzazione e il nuovo fronte antimperialista spunta le unghie all’imperialismo.

-La terza fase è quella che viviamo, caratterizzata dallo stupore dell’imperialismo nel constatare quanto irrisorio fosse il suo sogno di fine della storia, dall’improvvisa paura di passare dalla “vittoria eterna” alla fine della propria egemonia mondiale, di veder svanire quel mondo unipolare vissuto come base materiale del proprio dominio, una serie di profonde frustrazioni che si rovesciano in una feroce e rinnovata spinta bellica e golpista sul piano planetario.

Una terza fase segnata da un rabbioso ritorno imperialista alla guerra totale, disseminata tra i continenti e consapevole premessa persino di una Terza guerra mondiale. È all’interno di questo nuovo atteggiamento iper bellicista degli Usa e della Nato che vanno collocati sia il golpe nazifascista del 2014 a Kiev e il progetto di trasformare l’Ucraina in una sterminata base NATO dotata di testate nucleari puntate contro Mosca, che il summit del G7 del giugno 2021 in Cornovaglia, in cui Biden fa genuflettere e ordina a tutti gli alleati – compresa l’Ue e compresa la Merkel- di firmare il sanguinario Documento di Carbis Bay, ove prende corpo il progetto di costruzione di un vasto fronte militare imperialista volto ad attaccare militarmente la Cina e la Russia. Un documento, questo di Carbis Bay, che gronda sangue e che, se davvero vi fosse una Terza guerra mondiale, ne sarebbe il documento ufficiale.

La guerra imperialista è dunque all’ordine del giorno e, nonostante ciò, il movimento marxista e comunista italiano non riesce a mettere in campo, a promuovere, nessuna lotta di massa, nessuna mobilitazione contro la guerra degna di questo nome, né tantomeno ad unirsi, unire comunisti e marxisti, per questa lotta.

È anche a partire da ciò che possiamo asserire di essere, in Italia, di fronte ad una crisi profonda del marxismo. Ma il marxismo è in crisi in Italia – è bene subito specificarlo per non essere irretiti nelle maglie di quel mainstream generale, italiano e occidentale, tendente a “ratificare” la fine del marxismo e del comunismo nel mondo – mentre è in grande sviluppo, politico e teorico, in aree sempre più vaste del mondo e solo sotto la pressione della cultura dominante, che trova una sponda in uno storico e vasto provincialismo italiano, si può negare tale evidenza.

Oggi possiamo, con totale onestà intellettuale e lontani da ogni sterile propaganda, affermare che le forze internazionali che si rifanno al marxismo, all’antimperialismo e al comunismo governano, o assieme ad altre forze governano, circa un quinto dell’intera umanità, dalla Repubblica Popolare Cinese al Sud Africa e altre regioni dell’Africa, passando per il Vietnam, il Nepal, il Laos, sino a vaste aree dell’America Latina. Un arco governativo rivoluzionario mondiale al quale si aggiungono forze considerevoli, di massa, di natura marxista, comunista e antimperialista che dall’opposizione influenzano positivamente, orientando centinaia di milioni di proletari, Paesi immensi come la Russia, l’India, il Giappone e altri Paesi dell’Africa e, seppur in misura minore – in virtù della crisi del marxismo europeo prodotta anche dall’eurocomunismo, alla quale si sottraggono comunque importanti partiti comunisti come il PC Portoghese e l’Akel di Cipro – dell’Unione europea.

Un quadro reale e totalmente diverso e “rovesciato”, rispetto al quadro mainstream, che ci spinge a riflettere e ad asserire quanto segue: questo contesto internazionale, segnato da una grande avanzata del fronte marxista, comunista, antimperialista, rivoluzionario, appare oggi – per il proletariato mondiale e per le forze rivoluzionarie mondiali e rispetto alla falsa pietra tombale che la cultura dominante occidentale vorrebbe posare sul movimento operaio complessivo occidentale, italiano – persino più favorevole dello stesso quadro delineatosi nel 1917, dopo la Rivoluzione d’Ottobre, quando la stessa Rivoluzione, pur suscitando immensi entusiasmi nel proletariato mondiale, non aveva ancora consolidato se stessa, mentre il vastissimo e attivissimo fronte marxista, antimperialista, comunista attuale ha già piantato bene i piedi sulla terra, conquistato aree intercontinentali di popoli e Stati, cambiando i rapporti di forza internazionali, a sfavore dell’imperialismo, tra fronte imperialista e antimperialista. Spuntando le unghie all’imperialismo.

Un contesto internazionale che sarebbe oltremodo favorevole alla ripresa, anche nei Paesi ad alto sviluppo capitalistico, anche in Europa e in Italia, del processo di trasformazione sociale e anticapitalista. Un contesto oggettivo favorevole al quale, tuttavia, non si unisce una condizione soggettiva rivoluzionaria favorevole. E ciò in virtù della crisi profonda del marxismo in diverse aree dell’Occidente e, specificatamente, in Italia.

Una crisi del marxismo in Occidente e nel nostro Paese sovraordinata dal ritorno di un’egemonia dogmaticamente neopositivista e dunque produttrice di un neo moderatismo subordinato che contrasta visibilmente con il coraggio rivoluzionario, ad esempio, sul piano prettamente filosofico, teorico e politico, di quell’antidogmatismo e di quella rivitalizzazione del marxismo che segnano di sé la rivoluzione economico-politica della Repubblica Popolare Cinese e del Partito Comunista Cinese che, attraverso il rilancio storico e su basi immense di una NEP leninista segnata dai caratteri cinesi, non solo ha risolto il problema, conquistandola, dell’accumulazione originaria mancante, ma ha lanciato e sostenuto il più grande sviluppo economico della storia dell’umanità offrendosi, a partire da ciò, come cardine del nuovo fronte antimperialista mondiale, catalizzatore e sponda dei popoli e degli Stati del mondo volti a liberarsi dal domino statunitense.

Naturalmente, per un intero mondo che cambia, e cambiato per tanta parte dalle forze d’ispirazione marxista, in campo non vi è solo il Partito Comunista Cinese ad agire attraverso un rinnovamento antidogmatico e anti determinista del marxismo. Il Partito Comunista del Sud Africa, il Partito Comunista del Vietnam, i due grandi Partiti Comunisti Indiani, Cuba, il Venezuela, l’intero Socialismo latino-americano del XXI Secolo rivivificano il marxismo attraverso sia le loro originali vie nazionali che attraverso innovazioni – il tipo di sviluppo economico, la democrazia popolare diffusa e rivoluzionaria – che battono in breccia il neopositivismo e il neo moderatismo di tanta parte della sinistra, a volte anche comunista, occidentale e italiana.

Crisi del marxismo in Italia: sarebbe surreale, idealistico, antimarxista porre la questione in sé, come se tale crisi fosse una crisi del mondo accademico, intellettuale e teorico. Marx, Engels: il loro pensiero rivoluzionario prende corpo, si alimenta, si rilancia solo attraverso la realizzazione concreta di quella loro filosofia. Centrale, nel marxismo, è il rapporto dialettico tra la storia nel suo farsi e lo sviluppo teorico. La crisi del marxismo italiano è frutto di un idealismo sempre in fieri nel mondo culturale italiano ma che ha trovato nuova vitalità e nefasto ruolo attraverso la crisi politica del marxismo, attraverso l’involuzione ideologica profonda del contenitore politico più grande del marxismo: il PCI.

A partire da ciò, il carattere già difficilmente estirpabile del pensiero idealista italiano, dell’attualismo gentiliano, si è riorganizzato in un corpo, via via sempre più potente e strutturato. Appunto, il grande corpo, in “mutazione genetica”, del PCI.

Per estirpare dalla cultura italiana, dalla coscienza operaia italiana il male oscuro dell’idealismo sarebbe occorsa un’offensiva, di lungo corso, ideologica, culturale, politica condotta dal materialismo dialettico, dal marxismo non dogmatizzato, da un marxismo anti determinista, che invece ha cessato troppo presto la propria battaglia, la propria vitalità poiché, già nella prima parte degli anni ’70, il PCI andava mano a mano abbandonando tale battaglia per imboccare la strada, sul piano prettamente filosofico, di un positivismo di maniera attraverso il quale, di nuovo, come negli anni della Seconda Internazionale e del PSI di Turati, tornava la fondamentale osservanza del perimetro politico entro cui agire e il conseguente divieto di oltrepassare quel limite politico auto imposto, giungendo così ad una sorta di superfetazione dello “stato di cose presenti” quale cavallo di Troia per l’abbandono dell’azione soggettiva, la rimozione del senso ultimo del leninismo, di Lukács, di Gramsci, della filosofia della scienza di Ludovico Geymonat e di Silvano Tagliagambe, la cui adesione al Centro Studi a cui stiamo lavorando ci onora.

Come in modo straordinario ci onora il poter chiamare il nostro Centro Studi “Domenico Losurdo”, che nella sua fondamentale opera “Il marxismo Occidentale- Come nacque, come morì. Come può rinascere”, casa editrice Laterza, 2017, scriveva, a pagina 159: “La rottura del marxismo occidentale con la rivoluzione anticoloniale è anche il rifiuto di farsi carico dei problemi in cui questa si imbatte con la conquista del potere. Anche a tale proposito chiaro è il contrasto tra marxismo occidentale e orientale. Assuefatto al ruolo di opposizione e di critica in varia misura influenzato dal messianesimo, il primo guarda con sospetto o riprovazione al potere che il secondo è chiamato dalla vittoria della rivoluzione a gestire. È il potere in quanto tale a essere oggetto della requisitoria del giovane Bloch”. Il giovane Bloch che infatti scriverà che il potere è male in sé, indipendentemente dalla natura del potere, rivoluzionario o borghese, anticipando così un’intera schiera di intellettuali, filosofi, dirigenti politici del marxismo occidentale, volti a spaccare il capello della critica in sedici, rispetto alle esperienze dell’Unione Sovietica, della Cina popolare, dei poteri costruiti dalle vittorie anticolonialiste, critiche che finivano spesso nella liquidazione di quelle stesse esperienze, senza mai, peraltro, sviluppare autocritiche in relazione all’abbandono, di fatto, dei progetti rivoluzionari del marxismo occidentale nel proprio campo d’azione.

Il 24 dicembre del 1917, su “L’Avanti”, Antonio Gramsci pubblicava un articolo che avrebbe rappresentato un vero e proprio spartiacque nella storia del socialismo e del comunismo italiano, e non solo.

L’articolo trattava della Rivoluzione d’Ottobre e il titolo era “Una rivoluzione contro il Capitale”. Il Capitale con la C grande, il Capitale di Marx, il suo libro, e il senso ultimo dell’articolo era il seguente: una lettura, un’interpretazione distorta, non dialettica, essenzialmente positivista del pensiero di Marx ha portato ad una degenerazione dell’analisi (mai propriamente elaborata da Marx) per cui al socialismo ci si sarebbe arrivati solo attraverso e dopo il pieno sviluppo della forze produttive capitalistiche, che da sole (ecco il positivismo svuotato dall’azione soggettiva), nella lettura deterministica, avrebbero prodotto le condizioni per l’inverarsi del socialismo. Un’impostazione politico-filosofica quale abbandono di ogni pensiero e pratica della rivoluzione, un’impostazione sbaragliata e resa risibile da Lenin, dalla rivoluzione d’Ottobre, dalla rivoluzione cinese, vietnamita, cubana, venezuelana, nicaraguense…

Il recupero, da parte di Gramsci, dell’azione soggettiva umana e della “classe” nel farsi storico avrebbe segnato di sé la prima, lunga fase storica del PCI. Ma quando questa spinta ideologica, teorica, politica leninista-gramsciana tende ad esaurirsi (anni ’70?), il PCI inizia a recuperare il positivismo e il determinismo della Seconda Internazionale, tende a rimuovere non solo Gramsci ma l’essenza filosofica stessa del Lenin del “Materialismo ed Empiriocriticismo”, tende ad una sorta di drammatica, per il movimento comunista e rivoluzionario italiano, oggettivazione dell’“immodificabilità” dello stato presente delle cose.

Esempi tipici del neo positivismo del PCI sono stati il pensiero e la prassi di uno dei più grandi leader del Partito: Giorgio Amendola. Nel connubio apparentemente inestricabile di filosovietismo e “socialdemocrazia” di Amendola vi è racchiuso molto del “mistero” del neo positivismo del Partito Comunista Italiano. In verità il filosovietismo amendoliano (che dignitosamente resisteva di fronte al sempre più profondo smarcarsi del PCI dall’Unione Sovietica e persino dall’Ottobre), attribuendo in modo totalmente determinista all’URSS il compito di allargare continuamente il campo socialista a livello mondiale, affidando alla stessa URSS il compito, destinale, della rivoluzione mondiale, poteva permettere al PCI di attestarsi in una posizione essenzialmente socialdemocratica, tanto il socialismo era garantito dall’URSS e dal campo socialista. Nulla vi è di più positivista di questa posizione amendoliana (che avrebbe segnato di sé tanta parte del PCI per poi degenerare in politiche anti amendoliane – quelle “occhettiane” – essenzialmente radical e liberal), nulla contribuisce, più di questa posizione, a rimuovere l’azione soggettiva nella storia che Lenin e Gramsci avevano riconquistato per i movimenti operai nazionali e per il proletariato mondiale.

La riassunzione oggettiva del positivismo, tra l’altro, spesso si affiancava – dialettica tra le cose – ad un piegarsi ad un dogmatismo tanto pigro quanto opportunista sino a che la libertà rivoluzionaria del pensiero marxista, di cui Ludovico Geymonat era stato uno dei più grandi esponenti, veniva rimossa.

Occorrerebbe, da questo punto di vista, rivalutare e rilanciare tanta parte dell’opera di Geymonat, ora pressoché inesistente nella coscienza dei militanti marxisti italiani. Di quel Geymonat che ad esempio scrive, sul volume numero 9 della propria “Storia del pensiero filosofico e scientifico”, edizioni Garzanti, nel coraggioso capitolo “I rapporti tra scienza e filosofia in URSS” e in relazione al famoso caso “Lysenko” (l’agronomo sovietico che tentò di trasformare il proprio, discutibile, progetto di rivitalizzazione dell’agricoltura russa in una totale concezione del mondo pseudo marxista, a partire da stravaganti assunti quali quello di piantare i semi molti vicini tra loro, violando così la legge naturale e affermando che “le piante della stessa classe non sarebbe mai state in conflitto tra loro”) scrive Geymonat che “La linea su cui ci si era attestati nel 1939 (in URSS, n.d.r.) subì un sostanziale arretramento ed il materialismo dialettico venne scopertamente utilizzato come semplice strumento di ratifica e giustificazione ideologica di un verdetto che era già stato pronunciato in altra sede…” (pag. 441) e, a pagina 443, che la filosofia di Marx, di Engels e di Lenin fu costretta ad assumere facce diverse secondo l’opportunità del momento e che “la pretesa di farne il parametro di riferimento ultimo, alla luce del quale valutare la correttezza delle ipotesi scientifiche, costituiva una patente deformazione del suo significato, una grave violazione dei principi che ne avevano occasionato la nascita e accompagnato lo sviluppo”.

Non si mette qui in discussione la grandezza di una formazione politica, il PCI, senza la quale non vi sarebbe stata la democrazia in Italia, senza la quale il fascismo, nella sua forma postfascista, avrebbe ancora avviluppato l’Italia, senza la quale non vi sarebbero state le grandi conquiste per il movimento operaio italiano né la costruzione di un senso comune di massa avanzato, progressista, di classe.

Qui, vogliamo dire che il consumarsi della spinta rivoluzionaria antipositivista leninista-gramsciana porta pian piano, ma inesorabilmente, il PCI ad arretrare il proprio baricentro ideologico ricollocandolo sul terreno del dogmatismo, del positivismo, del moderatismo dell’antico socialismo italiano anteriore a Gramsci e al Partito Comunista d’Italia.

Il neopositivismo del PCI pian piano degenera nell’accettazione della pseudo realtà fenomenologica come ultimo orizzonte strategico, in quella visione hegeliana per cui “il reale è razionale”; nella “grata accettazione della realtà” della filosofia greca antica e persino- “sul tardi”, verso la fine, attraverso l’avvenuto dominio politico della piccola borghesia intellettuale sul PCI- nella, per molti versi famigerata, “gelassenheit”, la contemplazione del mondo che si fa arrendevolezza.

Ma dove trova le proprie basi materiali questa involuzione di tipo dogmatico e determinista che segna di sé il PCI dagli anni ’70 in poi, attraverso una spirale sempre più degenerata che sbocca nella Bolognina e poi nel XX° Congresso di scioglimento del PCI a Rimini, il 31 gennaio del 1991?

Possiamo qui evidenziare solo alcune tappe di un lungo percorso:

– attraverso la rottura col movimento comunista mondiale;

– attraverso una critica “da destra” (la condivisione del progetto “gorbacioviano” volto sia al sostanziale superamento dell’antimperialismo che allo smantellamento del partito comunista dell’Unione Sovietica quale forza guida del socialismo) e non “da sinistra”, come sarebbe stato necessario, (rilancio del PCUS come partito d’avanguardia, superamento della stagnazione e rilancio dell’economia sovietica anche attraverso un nuovo e proficuo rapporto tra democrazia popolare – i Soviet da ricostruire – e il potere comunista centrale);

– attraverso il progressivo abbandono del leninismo e del pensiero e la prassi di Gramsci, abbandono che si realizza anche tramite la totale rimozione della forma-partito comunista leninista-gramsciana costruita essenzialmente nei luoghi di lavoro e nello scontro diretto capitale-lavoro, recuperando invece, e appieno, l’unica istanza organizzativa conosciuta dalla Seconda Internazionale: quella della sezione territoriale che, privata dell’apporto politico e ideologico dell’organizzazione nei luoghi di lavoro, diviene il luogo di elezione della mediazione politica interclassista e di promozione dei quadri – sia a livello di direzione politica che sul piano istituzionale – non operai e non proletari;

– attraverso la piena assunzione politica e ideologica dell’eurocomunismo, una formulazione apparentemente innocua (tant’è che ancora molti militanti comunisti odierni credono che l’eurocomunismo semplicemente sia, sia stato, l’azione dei comunisti in Europa), ma che in verità rompe, eleggendo di nuovo la classe operaia europea e la sinistra europea ad avanguardie internazionali, con la visione mondiale di Lenin del processo rivoluzionario, rompe con la concezione leninista dell’anello debole della catena, con l’analisi leninista della “classe operaia aristocratica”, rompe con l’azione di spostamento sulle spalle dell’immenso mondo extra occidentale del processo rivoluzionario, recuperando appieno, l’eurocomunismo, il dogma positivista del processo rivoluzionario come “inevitabile” portato dei punti alti dello sviluppo capitalista;

– attraverso la scelta dell’ombrello della NATO come condizione migliore per la costruzione del socialismo;

– attraverso la mitizzazione dello Stato borghese e delle istituzioni borghesi come uniche vie per la costruzione del socialismo, dell’illusione di un socialismo “approvato” dallo Stato borghese;

– attraverso la scelta del compromesso storico come sbocco finale del grande processo di crescita – politica, elettorale e sociale – del PCI, in alternativa allo sbocco finale dell’accumulazione di forze verso la trasformazione sociale e la transizione al socialismo.

Una degenerazione del marxismo che, a partire dalla pulsione suicidaria del PCI e dalla negazione della propria, gloriosa, storia, si riverbererà su tutte le formazioni politiche comuniste post-PCI.

Si riverbererà sul Partito della Rifondazione Comunista, che entrerà ben presto in un trend iper movimentista alla Eduard Bernstein per il quale “il movimento è tutto e il fine è niente” e per il quale, spentosi l’ardore movimentista, lo sbocco naturale è il revisionismo marxista, il deliquio moderato e accomodante;

– si riverbererà sul partito comunista nato dalla scissione dal PRC, il PdCI, che farà dell’istituzionalismo totale, a scapito della lotta di classe, lo strumento principe per l’organizzazione del consenso elettorale e politico;

– si riverbererà sul partito comunista nato dalla scissione del PdCI, il PC, che sceglierà infine anch’esso, attraverso lo snaturamento totale della propria natura politica iniziale e la propria, sostanziale e ambigua trasformazione in altro da sé, la strada del più cieco elettoralismo quale strada maestra del proprio essere e della propria “riproduzione politica”;

– si riverbererà nel partito nato direttamente dallo scioglimento del PdCI, l’attuale PCI, che pienamente investito dalla crisi marxista italiana, scivola sempre più in una sorta di imbarazzato opportunismo filosofico, teorico e politico che lo paralizza letteralmente nell’opera di ricerca politica e teorica aperta, costringendolo persino a rimasticare un neo berlinguerismo acritico e di maniera e di tipo prettamente sentimentale ma, consapevolmente quanto idealisticamente, volto alla conquista di consenso elettorale attraverso la “nostalgia” dell’uomo Berlinguer e della sua storia personale tanto specchiata quanto ideologicamente e politicamente ambigua.

Da notare che, attraverso questa lunga trafila di scissioni comuniste che iniziano, per non finire più, dalla sostanziale scissione di Rifondazione Comunista dal PDS, emerge un dato che assume il carattere di una coazione a ripetere: ogni partito comunista che si costituisce in Italia dopo l’autodissoluzione del PCI storico, nasce da una “gemmazione” dal partito comunista precedente e mai attraverso un progetto ideologico, politico e teorico autonomo. Di modo che ogni, piccolo, partito comunista che viene alla luce si porta dietro, a volte peggiorandoli, i difetti e i “pesi” ideologici della casa madre, nell’impossibilità, in questa muta malsana, di mettere a fuoco un proprio, autonomo profilo politico-teorico costruito nella ricerca e nella lotta antimperialista e anticapitalista e all’altezza dei tempi e dell’odierno scontro di classe.

È su questa lunga, quarantennale, “stagnazione filosofica”, culturale, politica che il marxismo italiano attuale trova le radici profonde della propria, alquanto grave, crisi.

Ed è a partire da tali constatazioni, da tale lettura dello stato delle cose, che il Centro Studi Nazionale che vogliamo chiamare “Domenco Losurdo” – poiché è nel pensiero profondo e vasto di questo di nostro grande filosofo che possiamo trovare un potente aiuto per riattualizzare e rilanciare il marxismo italiano – vorrà procedere, al fine di mettere a fuoco quei grandi temi volti alla trasformazione sociale e alla transizione al socialismo che la lunga crisi del marxismo italiano ha reso rugginosi.

Il Centro Studi darà un ruolo centrale ai Gruppi di Lavoro tematici: questioni Internazionali e relazioni Internazionali; il primato della lotta contro la guerra imperialista, per l’uscita dalla Nato e dall’Ue; l’attualità del marxismo, la sua involuzione italiana in senso di nuovo idealista e la necessità che esso si rinvigorisca in un bagno di realtà, attraverso l’analisi compiuta della natura dell’attuale scontro di classe; la degenerazione antidemocratica dello Stato borghese e la diffusa illegalità come produzione della stessa degenerazione dello Stato borghese; le fondamentali questioni dell’Economia e dell’Economia Politica; la centralità del lavoro, del conflitto capitale-lavoro e le questioni sindacali; l’esigenza politico-teorica (altra lezione di Losurdo) di intrecciare la lotta per i diritti sociali con quella per i diritti civili, prendendo le massime distanze da quelle posizioni “comuniste” e volgarmente neo machiste e persino neo razziste che, constatando la rimozione (reale) da parte della sinistra radical del conflitto di classe, tentano di rimettere al centro (a parole) il conflitto capitale-lavoro demonizzando i diritti civili, in un rovesciamento politico-filosofico contrario e speculare a quello della sinistra radical e che ottiene come unico obiettivo quello di impoverire ancor più il già macilento marxismo italiano.

I Gruppi di Lavoro Tematici del Centro Studi saranno l’architrave del lavoro complessivo del Centro Studi: a tali Gruppi sarà dato il compito di produrre elaborati, i più alti possibile, sul piano della ricerca marxista, affinché poi questi elaborati, dall’organizzazione del Centro Studi, vengano popolarizzati, portati alla discussione, al confronto con “la classe”, con gli intellettuali e con le giovani generazioni, divenendo temi di Convegni e di iniziative pubbliche, nelle città e nelle università, nelle fabbriche e nelle scuole, giungendo ad essere materia per la Formazione e per le Scuole Quadri che il Centro Studi intende aprire al nord, al centro e al sud del Paese.

Il Centro Studi sta conquistando a sé, in quest’ottica generale, di giorno in giorno nuove e prestigiose adesioni, tra le tante quella del filosofo Silvano Tagliagambe, erede intellettuale in Italia di Ludovico Geymonat e della sua filosofia della scienza; di Carlo Formenti, sociologo e saggista volto al rilancio antidogmatico del pensiero e della prassi del marxismo; di Mariella Cao, leader storica delle grandi lotte contro le Basi nucleari USA e NATO in Sardegna, del professor Giancarlo Costabile, docente di pedagogia dell’antimafia all’università della Calabria; del professor Federico Martino, giurista, docente all’università di Messina e particolarmente incline a lavorare sul tema della “rivoluzione in Occidente”; di Erdmuthe Brielmayer, la vedova di Domenico Losurdo e traduttrice in tedesco di tante opere di “Mimmo”, di Domenico Gallo, presidente emerito di sezione della Corte di Cassazione e già senatore della Repubblica, di Nunzia Augeri, saggista, storica della Resistenza, traduttrice in italiano, tra l’altro, delle opere di Samir Amin e dell’opera “Oltre il capitale”, del filosofo ungherese István Mészáros, di Evgheni Utchin, già docente di Matematica ed Economia all’università “Lomonosov” di Mosca, giornalista e politologo; collaboratore di Literaturnaja Gazeta, Rossijskaja Gazeta e, in Italia, de “Il Fatto Quotidiano” e tanti e tante altre i cui nomi prestigiosi troverete nella lunga lista di adesioni al Centro Studi.

Una lunga lista nella quale campeggiano anche i nomi di diversi leader delle lotte operaie nelle grandi fabbriche italiane e i nomi di dirigenti del movimento operaio e sindacale italiano. Poiché – e su questo il Centro Studi lavorerà – solo il connubio tra intellettuali e quadri operai, tra l’intelligenza delle accademie e l’intelligenza delle fabbriche potrà farci cogliere l’obiettivo del rilancio del marxismo italiano, per il quale obiettivo il Centro Studi “Domenico Losurdo” è nato e vuole impegnarsi.

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