Certamente i palestinesi non sono responsabili dello sterminio degli ebrei e, pertanto, non può essere invocato contro di loro. D’altra parte, stiamo assistendo ogni giorno al massacro dei palestinesi, ridotti ormai a dei cadaveri viventi, i cui figli malnutriti se non moriranno non si riprenderanno mai. Eppure, si insiste nel negare la parola genocidio, nonostante le esplicite dichiarazioni dei leader israeliani che intendono fare di Gaza tabula rasa. Per un paradosso storico gli stessi poteri che non mossero un dito per salvare gli ebrei dai campi di sterminio, cui sfuggirono pochi fortunati, stanno ora collaborando con Israele nel massacro dei palestinesi.
Molto rumore e scandalo suscitarono, vari anni fa, le dichiarazioni rilasciate in differenti occasioni dall’allora presidente dell’Iran, Mahmud Ahmadinejad, in particolare quando, invitato a tenere una conferenza alla Columbia University di New York nel 2007, affermò che a suo parere si dovrebbe ancora indagare sull’olocausto degli ebrei avvenuto durante la Seconda Guerra mondiale. Traggo questa informazione da un articolo di Shlomo Shamir pubblicato da Haretz il 25 settembre 2007. Naturalmente, questa sua affermazione suscitò molte proteste negative tra i presenti e il presidente dell’università, Lee Bollinger, intervenne definendo il presidente un “dittatore meschino e crudele”. A quella considerazione Ahmadinejad avrebbe aggiunto, che lo Stato sionista (avrebbe sempre usato questa espressione) ha sempre utilizzato le sofferenze subite per giustificare le sofferenze inflitte ai palestinesi, chiedendosi perché questi ultimi debbono pagare il prezzo di un crimine che non hanno commesso né potevano commettere?
Mi rendo conto che si tratta di un argomento molto delicato e complesso e che certo nessuno può negare l’olocausto che, tuttavia, come sappiamo, non riguardò solo gli ebrei, ma anche altri gruppi etnici (rom, slavi etc.), invalidi, dissidenti politici, etc. D’altra parte, scorrendo anche la stampa dell’epoca, non è facile stabilire cosa intendesse dire effettivamente Mahmoud Ahmadinejad in tutte quelle occasioni in cui fu invitato a parlare in Occidente.
In molti hanno notato che “Ferragosto in Alaska” era un titolo che si adattava più a un film con Christian De Sica e Massimo Boldi che a un evento storico. C’è inoltre un diffuso scetticismo sulla possibilità che Trump riesca a mantenere i canali di trattativa eventualmente aperti con la Russia sui dossier comuni, compresi l’Artico e il controllo nucleare. Pare che lo stesso Putin non creda alla possibilità degli USA di mantenere accordi, cioè di esprimere una continuità istituzionale. Nella conferenza stampa finale Putin ha accettato di compiacere l’ego di Trump avallando il suo mantra, secondo il quale se ci fosse stato lui alla presidenza al posto di Biden, la guerra in Ucraina non sarebbe mai scoppiata. Putin non è il grande statista che molti hanno vagheggiato, ma è comunque un vero professionista della politica e della diplomazia, perciò da parte sua appare strana una deroga così smaccata dal codice di comportamento istituzionale, in base al quale occorrerebbe evitare di esprimere giudizi e fare confronti sui capi di Stato degli altri paesi. Secondo il luogo comune, la politica russa sarebbe molto legata a certi formalismi giuridici, invece Putin stavolta li ha tranquillamente ignorati. Certe sbracate ce le si poteva aspettare da un lobbista e dilettante della politica come Mario Draghi, il quale nel 2021 non si limitò a elogiare il presunto europeismo di Biden, ma si lasciò andare a critiche sul suo predecessore Trump.
A fondamento dei rapporti istituzionali dovrebbe esserci la funzione, che prevale sulle persone che la esercitano di volta in volta. Questo filo di continuità nella funzione, al di là e al di sopra della caducità delle persone, sarebbe appunto lo Stato.
Nonostante le affermazioni dell’amministrazione Trump sul successo dell’incontro di lunedì con Zelensky e la delegazione europea dei papponi, le prospettive di un negoziato di successo per porre fine alla guerra in Ucraina sono pari a zero. Trump continua a credere erroneamente di dover semplicemente riunire Putin e Zelensky, che poi troveranno un accordo. Trump si basa sulla falsa convinzione che la guerra in Ucraina sia stata causata in parte da uno scontro personale tra Putin e Zelensky. Putin è stato molto chiaro sul fatto che incontrerà Zelensky solo una volta concordati i dettagli della resa ucraina. Trump ritiene inoltre che si tratti solo di una disputa territoriale e che lo scambio di territori sia fondamentale per raggiungere un accordo di pace. Anche in questo caso, Trump dimostra una profonda ignoranza riguardo allo status giuridico delle repubbliche di Zaporizhia e Kherson secondo la Costituzione russa. Putin non può concedere nulla di quel territorio all’Ucraina, così come Trump non può restituire l’Alaska alla Russia.
Ma c’è una buona notizia: nonostante Trump ignori le ragioni per cui la Russia ha avviato l’Operazione Militare Speciale (SMO) nel febbraio 2022, è sincero nel voler ristabilire il dialogo e le normali relazioni diplomatiche con la Russia… almeno questo è ciò che credono i russi. Durante il mandato di Biden, le comunicazioni con la Russia si sono interrotte nel gennaio 2022. Ora hanno qualcuno con cui parlare… in realtà diverse persone, tra cui Trump, Rubio, Ratcliffe e Witkoff.
L’incontro tra Trump e Zelensky e quello successivo nel quale al presidente ucraino si sono uniti i leader europei, che si sono precipitati a Washington per evitare che il presidente ucraino cedesse alle richieste dell’ospite e per far vedere che contano ancora qualcosa (in realtà, di per sé contano nulla) è andato bene, nel senso che segna un punto di partenza per un accordo tra Russia e Ucraina.
Lo dice l’imbarazzo successivo degli ospiti della Casa Bianca, lo dicono i media mainstream che a stento trattengono la rabbia per l’ingerenza indebita dell’inquilino della Casa Bianca, determinato a rompere un gioco sanguinario che dura da oltre tre anni e che ha garantito un lucro crescente a tanti.
Su quanto accaduto a Washington l’analisi più convincente arriva da Strana. Secondo il media ucraino, in Alaska Trump e Putin avevano raggiunto degli accordi di massima su tre punti. Anzitutto che fosse abbandonata l’idea del cessate il fuoco come avvio necessitato dei negoziati per negoziare, invece, subito un’intesa globale e duratura. Inoltre, che Kiev ricevesse garanzie di sicurezza e che i russi mantengano il controllo su parte del territorio ucraino.
Quando Trump aveva riferito agli europei e a Zelensky l’esito dell’incontro con Putin, continua Strana, la loro reazione “sui primi due punti è stata nettamente negativa. Mentre sul terzo […] hanno proposto di stanziare truppe europee in Ucraina, cosa che Mosca aveva già respinto come del tutto inaccettabile”.
Il libro, curato da Massimo Roccaforte, Il canzoniere del proletariato. Le canzoni di Lotta Continua, i testi e le musiche (Interno4, Rimini 2024), ha richiesto più di cinque anni di ricerca da quando è stato pensato e poi pubblicato. Le parole e le musiche suonate e cantate dal Canzoniere del Proletariato e dal gruppo del Canzoniere pisano prima, tornano alla luce nella loro versione originale grazie a un lavoro di gruppo che ha coinvolto tra gli altri, oltre al curatore, Luigi Manconi, Pino Masi, Piero Nissim, Antonio Giordano, Giuseppe Barbera, Piero Lanfranco, Alessandro Portelli ed Emiliano Sisto dell'archivio La Lunga Rabbia. Insieme alle 41 canzoni, raccolte e rimasterizzate in due CD, il libro contiene la riproduzione delle grafiche dei dischi originali, i testi delle canzoni, alcuni scritti critici e alcune strisce di fumetti di Roberto Zamarin dedicate al suo protagonista Gasparazzo. Particolarmente interessanti i contributi utili a ricostruire il clima di quel tempo agitato, come il saggio Canti della lotta dura, curato da Piero Nissim, il reperto del Canzoniere del Proletariato di Pino Masi, l’articolo di Alessandro Portelli estratto dal libro La chitarra e il potere, che collocano criticamente il contributo delle canzoni di protesta nella storia culturale italiana.
Cantautori proletari
Il testo è dedicato alla memoria di Alfredo Bandelli, un operaio che faceva il cantautore e firmava le sue canzoni con la dicitura “Parole e musica del proletariato” e a Sergio Martin, uno dei promotori dei Circoli Ottobre, l’associazione culturale promossa da Lotta Continua per l’organizzazione di concerti, spettacoli teatrali e cinematografici, con una propria etichetta discografica, uno dei primi esempi di autoproduzione e autogestione musicale.
La stragrande maggioranza delle nazioni europee, stati membri di UE e NATO, in prima fila nell’esortare il continente al riarmo per essere pronti a combattere i russi che entro pochi anni di certo invaderanno l’Europa (fino a Lisbona come diceva qualche illustre opinionista italiano), non dispongono di forze da combattimento numericamente credibili e non sarebbero in grado, in caso di guerra aperta, neppure di presidiare i propri confini, figuriamoci di difenderli.
Basta prendere le dichiarazioni roboanti dei diversi premier, ministri e in qualche caso di capi di stato maggiore o alti ufficiali (soprattutto in Nord Europa) e confrontarli con i dispositivi militari che queste nazioni “bellicose” sono in grado di mettere in campo oggi, cioè tre anni mezzo dopo l’inizio della guerra in Ucraina che, a dire di molti, vede i soldati di Kiev combattere anche per noi.
In molti casi, la consistenza degli strumenti militari di diverse nazioni europee si rivela un bluff, ancor più clamoroso se lo si affianca alla veemenza con cui esaltano il rischio di guerra con la Russia e la necessità di un massiccio riarmo, sollecitando e pressando politicamente le grandi nazioni europee che dispongono di forze armate quanto meno credibili nei numeri e nelle capacità.
Avvertenze
I dati citati in questo articolo provengono dal Military Balance 2025 dell’International Institute fior Strategic Studies. Nelle valutazioni non è stato tenuto conto delle riserve mobilitabili nei diversi paesi in caso di guerra.
Non si tratta di una dimenticanza ma della considerazione che i tempi di mobilitazione, addestramento e inserimento in prima linea dei riservisti richiedono nella miglior delle ipotesi molte settimane.
È presto per dire cosa porteranno i prossimi sviluppi; ma vi è ragione di considerare questo vertice storico, sullo sfondo del “cambio di paradigma” internazionale che l’ascesa del Sud globale sta portando con sé.
Non c’è dubbio che il vertice di ferragosto tra i due presidenti, quello russo, Vladimir Putin, e quello statunitense, Donald Trump, passerà alla storia, ma forse non per le ragioni che diversi analisti e opinionisti hanno segnalato in recenti, articolati e interessanti, commenti. Per farsene un’idea, al di là delle forme del cerimoniale e del protocollo, pur interessanti (il piccolo applauso di Trump all’arrivo di Putin allo scalo, gli onori militari, il clima positivo dell’incontro, il passaggio del presidente russo sull’auto presidenziale statunitense, il primo intervento in conferenza stampa affidato all’ospite, Putin, anziché, come generalmente usa, al padrone di casa, Trump), è la sostanza di quanto detto in conferenza stampa a segnare carattere e misura degli sviluppi portati dal vertice. Con una premessa, a tal proposito: il carattere e la misura degli sviluppi delineano un quadro generale dei temi su cui si è registrato un consenso bilaterale di massima, un clima generale di ripresa delle relazioni bilaterali tra le due maggiori potenze nucleari del pianeta, non certo una piattaforma definita, dal momento che dettagli, circa i singoli temi e le singole questioni affrontate nell’incontro a due, non sono stati forniti.
Il vertice è iniziato, com’è noto, alle 11,30 ora di Anchorage (21,30 in Italia) il 15 agosto, ed è durato quasi tre ore nel formato a porte chiuse cosiddetto “tre e tre”: per la parte russa, il Ministro degli Esteri Sergei Lavrov e il consigliere presidenziale Yuri Ushakov (oltre al presidente Putin); per la parte statunitense, Steven Witkoff e il Segretario di Stato Marco Rubio (oltre al presidente Trump).
L’esito più probabile sarà un temporaneo disgelo nelle relazioni tra Stati Uniti e Russia, sebbene la più ampia lotta geopolitica continuerà. E i veri perdenti saranno l’Ucraina e l’Europa. Gli ucraini continueranno a morire in una guerra che non possono vincere, mentre gli europei continueranno a pagarne il conto. Alla fine, anche loro saranno costretti ad accettare un accordo alle condizioni russe, ma solo dopo ulteriori sofferenze. Anche in quel caso, l’Europa rimarrà intrappolata in una relazione ostile e militarizzata con la Russia, con il potenziale per un rinnovato conflitto in qualsiasi momento. Nella migliore delle ipotesi, il vertice in Alaska e le sue conseguenze segnalano un temporaneo allentamento del confronto in corso tra l’Occidente e l’emergente ordine multipolare. Nella peggiore, garantiranno che Europa e Ucraina continueranno a pagare il prezzo di una guerra che gli Stati Uniti hanno già scelto di lasciarsi alle spalle.
* * * *
Sebbene l’incontro di questa settimana alla Casa Bianca tra Donald Trump, Volodymyr Zelensky e un gruppo di leader europei non abbia prodotto risultati tangibili, ha comunque segnato un passo importante verso la pace in Ucraina. Per la prima volta, il leader ucraino e i suoi omologhi in Europa hanno concordato di discutere della guerra sulla base della realtà sul campo, piuttosto che su illusioni. Fino a pochi mesi fa, l’adesione di Kiev alla NATO era considerata non negoziabile dalla diplomazia europea e dalla NATO stessa. Ora, non solo questa prospettiva sembra essere stata definitivamente accantonata, ma per la prima volta la discussione si è spostata dall'”integrità territoriale” dell’Ucraina a potenziali “concessioni territoriali”.
Nell’articolo per l’Antidiplomatico “Una Latinoamerica a fisarmonica”, passando rapidamente in rassegna il subcontinente tra resistenze e arretramenti, ho provato a spiegare la tragica involuzione di uno dei protagonisti del riscatto latinoamericano, la Bolivia di Evo Morales. L’esito, in questi giorni, del primo turno delle elezioni presidenziali e parlamentari decreta la fine di una delle esperienze più riuscite e trainanti per il resto della regione e del Sud Globale. Di questo pesantissimo arretramento di una nazione che si era proclamata binazionale, aveva assicurato l’alfabetizzazione, il ricupero delle risorse predate, l’istruzione, l’equità sociale, è complicato specificare le varie responsabilità. Resta quella più in vista, e ahinoi innegabile, dell’indio cocalero Evo Morales.
Lo incontrai, venuto in Bolivia per raccontare la vittoriosa “Guerra del agua”, con cui una battaglia di popolo sottrasse l’elemento ai monopolisti USA di Bechtel, alla vigilia del suo primo trionfo elettorale- Un risultato favorito dal nuovo vento che la rivoluzione bolivariana di Ugo Chavez aveva fatto spirare per l’America Latina e che avrebbe rafforzato o favorito l’avvento di leadership progressiste come quelle dei Kirchner in Argentina, di Rafael Correa in Ecuador, Manuel Zelaya in Honduras, Daniel Ortega in Nicaragua, Lopez Obrador in Messico.
Per tre lustri la Bolivia percorse la via dell’emancipazione, della sovranità, dell’antimperialismo internazionalista, anche se, nella seconda decade del secolo, il vigore e la determinazione del passo s’erano andati affievolendo, frenati da divergenze interne alle organizzazioni sociali e da un crescente peso della burocrazia.
Arretrare facendo finta di avanzare. La più antica delle tecniche retoriche straborda da tutte le dichiarazioni dei “guerrafondai con la carne degli altri”, dopo una serie di schiaffi presi davanti alle telecamere e dietro le quinte.
Il maxi-vertice di Washington – da una parte Trump e gli Usa, dall’altra Zelenskij per l’Ucraina e ben sette nanerottoli per “l’Europa” – si è svolto in più atti. Alcuni importanti, altri decisamente di contorno.
Il vertice vero è stato quello con il solo Zelenskij, accolto con una mappa della situazione sul terreno a oggi, bene in vista a ricordare che di lì si parte, se si vuol discutere di pace. E non per “fare un favore a Putin”, ma perché nessuno sano di mente può ancora credere che si possa tornare alla mappa del 2013 – come da tre anni e mezzo ripetono la junta ucraina e i “partner europei” – senza scatenare una guerra nucleare.
Il secondo punto fermo, prima ancora di cominciare, è stato che l’Ucraina non entrerà nella Nato. E quindi che di schierare truppe e missili occidentali da quelle parti non se ne parla neanche.
Il terzo ostacolo è stato eliminato prima ancora di essere nominato: nessun “cessate il fuoco” è indispensabile (era la prima delle proposte avanzate dagli europei e da Kiev), secondo Trump, perché “ho fermato fin qui sei guerre senza alcun cessate il fuoco prima”.
“Per ogni vittima del 7 ottobre, 50 palestinesi dovevano morire. Non importa se si trattava di bambini. Non per vendetta, ma per lanciare un messaggio alle generazioni future: non c’è niente che potete fare. Hanno bisogno di una Nakba di tanto in tanto, per sentirne il prezzo” della ribellione. Così il generale Aharon Haliva, che il 7 ottobre guidava l’intelligence militare e si è dimesso dopo quel disastro, in un’intervista a un media israeliano.
“È proprio Haliva – commenta Gideon Levy su Haaretz – che è in un certo senso un eroe del centro-sinistra, a delineare il ritratto di un generale genocida. Si dissocia da Bezalel Smotrich, deride Itamar Ben-Gvir e attacca Netanyahu senza riserve, da generale illuminato e progressista qual è. Ma pensa e parla esattamente come loro”.
“In definitiva, sono tutti sostenitori del genocidio. La differenza sta solo tra chi lo ammette e chi lo nega. Nel campo degli illuminati dediti all’auto-adulazione a cui appartiene, Haliva si è rivelato uno dei pochi ad ammettere: abbiamo bisogno di un genocidio ogni pochi anni; assassinare il popolo palestinese è legittimo, persino essenziale”.
“È così che parla un generale ‘moderato’ dell’IDF. Non è come altri [graduati] estremisti” che in questi anni sono balzati agli onori della cronaca per gli orrori disseminati a Gaza.
Haliva, infatti, è “un bravo ragazzo di Haifa e del quartiere residenziale di Tzahala a Tel Aviv”.
Messaggio chiarissimo di Trump all’UE, ai volenterosi e a Zelensky: “Non vi mettete di traverso per impedire il processo avviato”. Più chiaro di così non poteva essere. Se questa dichiarazione l’avesse fatta Putin avrebbe sortito effetti diversi. Scorrendo le notizie e i commenti prendo atto che siamo in presenza di pura e semplice propaganda: i media nazionali hanno avuto l’ordine di far passare l’idea che l’incontro è stato un fallimento. Far passare quest’idea serve alle oligarchie, alle tecnocrazie e ai governi che sono ancora in gioco, solo così si capisce la dichiarazione congiunta dei capi di governo riportata sul sito web dell’Unione Europea, che ha come unico scopo quello di negare l’evidenza dei fatti. È fin troppo chiaro che una fase è terminata e che il nuovo corso, pur essendo ancora in embrione, non vuole essere abortito. L’Unione Europea dopo aver perso, non una ma ben due occasioni storiche, adesso rincorre l’emergenza, cercando di bloccare il processo avviato ad Anchorage da Trump e Putin. Lo fa attraverso opinionisti e giornalisti che definiscono i due dittatori, autocrati, psicopatici e altro ancora. Leggendo queste definizioni mi vengono in mente personaggi che hanno fatto la Storia, oggi celebrati, che molto probabilmente, ai loro tempi sono stati appellati più o meno allo stesso modo. Ne cito alcuni: Cesare, Ottaviano Augusto, Costantino, Federico II di Svevia, Federico II di Prussia, Elisabetta I Tudor, Isabella di Castiglia, Napoleone Bonaparte, l’elenco è lungo.
Tante chiacchiere (molte in libertà), grandi proclami ma poco pragmatismo e soprattutto pochi sviluppi concreti sembrano essere emersi dagli incontri di Washington tra i leader europei, Volodymyr Zelensky e Donald Trump.
Nei colloqui il presidente USA non ha lesinato elogi ai suoi interlocutori, da Zelensky a Rutte, von der Leyen, Starmer, Macron, Meloni, Merz e al presidente finlandese Stubb, ma se le parole spese sono state pure troppe, di contenuti se ne sono visti e sentiti davvero pochi.
Trump ha detto che ama gli ucraini (ma anche i russi) ed è stato molto ospitale con tutti i leader intervenuti, ha fatto persino un siparietto comico con Zelensky che per la prima volta è stato visto con addosso una giacca ma, per capire se si sono fatti passi avanti bisogna porsi domande molto concrete. E soprattutto cercare (a fatica) eventuali risposte.
In realtà una serie di incontri faccia a faccia con alcune sessioni di gruppo in cui a quanto pare Trump ha spiegato almeno due concetti chiave messi a punto in Alaska con Vladimir Putin, due passaggi fondamentali per arrivare alla pace ma che il leader ucraino e quelli europei si sono mostrati riluttanti ad accettare.
Nessuna tregua
Il primo è l’accettazione delle condizioni poste da Putin e sottoscritte da Trump che non ci sarà nessuna tregua o cessate il fuoco su cui imbastire lunghe trattative di pace mentre le truppe ucraine si riorganizzano dopo due anni di sconfitte consecutive.
Dopo gli accordi di Minsk per la pace in Donbass (“portati avanti per guadagnare tempo e permettere all’Ucraina di armarsi” come ammisero nel 2022 l’ex cancelliere Angela Merkel e l’ex presidente francese Francois Hollande), i russi non si fidano più degli europei e vogliono un accordo di pace che chiuda il conflitto “rimuovendone le cause profonde”.
“Dobbiamo avere una prospettiva europea perché da soli non andiamo da nessuna parte”. “Non si può tornare indietro ai vecchi Stati-nazione”. Tali argomenti – o meglio slogan – hanno insopportabilmente infarcito il dibattito, trovando il pigro consenso dei più stanchi luoghi comuni semicolti.
La questione, legata al dibattito sulla Ue e sull’euro, è diventata uno slogan da mulinare sulla testa degli avversari più che un assunto da valutare razionalmente e criticamente.
Oggi si può forse ragionare più serenamente, dato che nessun partito che abbia un minimo di potere nemmeno ventila la possibilità di scrollarsi di dosso il carrozzone eurounitario di fronte a cui ogni declinazione possibile di establishment (progressisti, liberali, conservatori, identitari…) si è genuflesso come di fronte ad un idolo. Anzi: si può provare a ragionare tout court, dato che la polemica e l’astio hanno tolto il terreno per una riflessione meditata, che pur sarebbe necessaria in una fase di riassestamento degli equilibri geopolitici; situazione opportuna per eventuale ridefinizione della politica estera del paese, purché si abbia qualche idea.
Se non li convinci spaventali
Il punto di partenza non può che consistere nella modestia dell’argomento per cui “l’Italia è troppo piccola per fare da sola”; si tratta semplicemente di una pedata nei denti contro chiunque mettesse in questione l’aderenza dell’Italia alla Ue.
Naturalmente vi erano argomenti diversi pro-Ue. Una linea di argomentazioni “alte” era piuttosto elitista: l’integrazione europea sarebbe il vertice di un processo secolare di crescente avvicinamento dei popoli europei, un destino storico volto alla fratellanza e basato su una base di cultura condivisa. Argomentazione da progressismo colto e professorale, poco adatto alle orecchie di ceti in sofferenza sociale che piuttosto che l’europeismo ideale tastano con mano l’austerità reale.
I peggiori di tutti…
Il vento d’Alaska fa male all’Europa guerrafondaia. Fa male alla sua stampa, ai suoi governi, ai suoi partiti. Ma fa ancora più male agli eurosinistrati.
Tutti i giornaloni del Vecchio continente hanno raccontato la favola di “un vertice fallito”, di un “Trump sottoposto a Putin”, di una “intesa tra autocrati”, che però non avrebbe “prodotto nulla” visto che “non c’è la tregua”. Ma come! Non avevano forse detto, proprio loro, che le scelte spettavano al suonatore di piano di base a Kiev? Bene, di cosa si lamentano adesso?
Proprio insieme a lui, alcuni caporioni europei oggi andranno a Washington a implorare il loro principale: che la guerra continui a tutti i costi! Ecco l’Europa reale chiamata Ue, quella che dicevano esser venuta al mondo per porre fine alle guerre…
* * * *
Da vent’anni non leggiamo più il Manifesto, superfluo spiegare il perché. Ma oggi abbiamo deciso di fare un’eccezione, certi di trovare in quelle pagine l’allineamento con i giornaloni di cui sopra. La conferma, cioè, di una deriva senza fine. Da questo punto di vista la spesa una tantum di 2 euri è stata ampiamente compensata dalla lettura delle prime quattro pagine.
Cercare un ordine nel caos, di solito, è un’impresa per premi Nobel… E se dovessimo prendere per egualmente buone tutte le “voci” o le dichiarazioni in chiaro dei vari protagonisti, il secondo vertice “per la pace” – quello di oggi a Washington, dopo l’Alaska e prima di un eventuale “trilaterale” che comprenda gli ucraini – andrebbe descritto come “un racconto narrato da un idiota, pieno di rumore e furia, che non significa nulla”.
Partiamo dal poco che sembra sicuro. I vertici di oggi saranno almeno due: il primo sarà – salvo sorprese – quello tra Trump e Zelenskij. Subito dopo saranno ammessi al briefing anche i nanerottoli europei (i leader di Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, più von der Leyen come presidente della Commissione, il finlandese Stubb come presidente di turno, il pupazzo Rutte come segretario della Nato).
Abbastanza chiara anche l’intenzione Usa di tener distinte le posizione di Kiev e degli europei, per il banale fatto che se l’Ucraina si dovesse mostrare disponibile a un certo tipo di compromesso allora le obiezioni UE conterebbero meno di zero.
Altrettanto chiara la speranza europea, opposta, di impedire che il già periclitante “percorso di pace” faccia passi avanti verso una soluzione diversa dal sogno di una “sconfitta russa”. Ci si interroga sullo stato di salute mentale di questa armata brancaleone che non riesce neanche a vedere la realtà sul campo, ma persiste nel vaniloquio del wishful thinking.
NON SI UCCIDONO COSI’ ANCHE GLI ANIMALI?
Correggo subito un errore. Nel video riferendomi a una recente trasmissione RAI ho sbagliato il titolo: è “Evviva”, non “Vivere”. Scusate.
Nel video, ci si muove, costernati e incazzati, tra una serie di fatti raccapriccianti, capitati tutti uno addosso all’altro e strettamente imparentati, poi coronati dalle fastose celebrazioni di alcuni gatekeeper fatti “padri della patria”.
Raccapricciante 1
Gli psicopatici onanisti suicidi europei, assetati di sangue da far versare a tutti noi per far tracimare i forzieri dei loro mandanti armaioli, si accontentavano di far fuori Putin, ma ora si illudono di poter far fuori anche Trump. Che se lo merita, ma non per i motivi per i quali è odiato da questi imbecilli. L’idea di pace, che il sangue di ucraini non possa continuare a farsi alluvione e quello dei russi non continuare a irrorare la loro terra in nome di libertà e giustizia, con ciò seccando le loro economie capitaliste stupide e malate e bloccando l’ultima Thule della riproduzione dell’accumulazione, li manda fuori di testa. Gli prospetta la fine e si dibattono nelle spire di fetori di morte. Sanno che è la loro.
I casi sono due: o gli inviati ad Anchorage Rosalba Castelletti e Paolo Mastrolilli per La Repubblica non hanno capito nulla, oppure hanno confezionato una versione fake propagandistica per la percezione stereotipata che hanno dell’opinione pubblica. Infatti il titolo del loro pezzo già si commenta da solo: Fallisce il vertice Putin-Trump.
In pratica hanno visto un altro film… eppure non sono stati in una multisala, ma l’unico proiettore da cui poter vedere l’unico schermo che passava il convento ha fatto vedere l’incontro con tutti gli onori e riconoscimenti tra gli esponenti di due grandi potenze. Un riconoscimento alla Russia conquistato sul campo della guerra e delle relazioni internazionali, delle alleanze che ha ratificato ciò che è di fatto oggettivamente reale: essere potenza globale nell scacchiere internazionale.
Ovviamente questa narrazione oggi dominante nel 90% del pianeta, non poteva non essere riconosciuta dall’amministrazione USA che cerca di sganciarsi dal bellicismo esasperato di una UE-NATO sempre più alle corde e svenata da una guerra e da sanzioni che sono più un rastrello nei denti dopo averlo volutamente pestato. Al declino dell’impero americano la Casa Bianca non ci sta e tenta un comprensibile per un paese imperialista riposizionamento geopolitico. Questa è la sostanza, che ha il sapore tutt’altro che quello di un fallimento.
e. Le Commissioni su tariffe e conflitti (RKK): non solo arbitrato
Le Commissioni su tariffe e conflitti… già, perché esistevano anche quelle: le RKK non erano, nonostante la funzione arbitrale di entrambe si presti ad analogie, l’equivalente dei nostri Collegi di conciliazione e arbitrato.
Anche qui, potremmo fregarcene altamente e andare avanti, che di strada da qui alla fine del periodo considerato da questa ricerca, ovvero la fine stessa dell’URSS, ce n’è ancora da fare, ma sorge sempre la stessa domanda… che senso ha, in un lavoro sui sindacati di anni, aggiornato al 2025, fatto fuori dall’orario di lavoro e da tutti gli altri impegni quotidiani, prendersi in giro ancora una volta, far finta di niente per l’ennesima volta, sempre per l’ennesima volta farsi bastare formulette e stereotipi vecchi, nella migliore delle ipotesi, di oltre mezzo secolo? Tanto valeva non affrontarlo nemmeno, se è già “tutto scritto”. Davàj, quindi, come dicono da Kaliningrad a Vladivostok: esaminiamo anche le RKK.
L’unica analogia delle RKK con i nostri Collegi è la comune vocazione all’arbitrato, ovvero alla risoluzione di contenziosi senza il ricorso al giudizio di un tribunale: per il resto, tutto cambia.
Partiamo dal nome: Rascenočno-konfliktnaja komissija. Rascenit’ (laddove la “c” è una z aspirata) viene da cena (medesima accortezza, traslitterabile come “tsena”) e vuol dire “stabilire il prezzo”, che nel caso del giovane Paese dei Soviet era ancora legato alle tariffe salariali del cottimo, più che a un salario fisso; konflikt, invece si presenta da solo. Una komissija chiamata, pertanto, a svolgere compiti ben più ampi dei licenziamenti “non per giusta causa”. Komissija figlia della NEP, figlia di quel momento storico in cui i bolscevichi capirono che, per riprendersi dalle macerie della guerra d’invasione, della guerra civile e del comunismo di guerra, la loro breve esperienza di autogestione operaia e le loro ancora scarse conoscenze in materia non sarebbero bastate, così come il semplice mettere qualche “tecnico” a guinzaglio stretto a eseguire i loro ordini: non sarebbero bastate a garantire il ripristino di quella maledetta ruota che, fino a prima della Rivoluzione, aveva macinato terra, sangue e produzione e riproduzione merce dispensando, ogni tanto, qualche briciola alla “plebe sempre all’opra china” che la faceva girare.
Sganciarono la bomba nel 45 per far terminare la guerra mondiale
Nessuno aveva mai visto niente di così terribile, prima
il mondo guardava con gli occhi spalancati per vedere come sarebbe andata a finire
Gli uomini del potere eludevano l’argomento
era un momento da ricordare, non dimenticheremo mai
Stavano giocando alla roulette russa con Hiroshima e Nagasaki
(Jim Page – Hiroshima Nagasaki Russian Roulette, 1974-77)
Sono ancora una volta delle parole, in parte esplicite e in parte giustificatorie, quelle da cui partire per una riflessione sul presente e sul passato di un modo di produzione e della sua espressione politico-militare. Ciò di cui qui si parla prende infatti avvio dalla affermazione fatta da Donald Trump, dopo il bombardamento dei siti nucleari iraniani, secondo il quale: «I raid sull’Iran, come Hiroshima e Nagasaki, hanno chiuso la guerra». Secondo tale narrazione, infatti, i bombardamenti delle due città giapponesi avvenuti rispettivamente il 6 e il 9 agosto 1945 avrebbero costituito l’ultima ratio per risparmiare la vita di un numero di soldati americani che andato crescendo nel tempo da 500 000 a un milione. Ma nel corso di questo articolo si vedrà se è stato davvero così. Per adesso, quel che si può dire è che il riferimento ha suscitato l’indignazione degli “hibakusha”, i sopravvissuti giapponesi alle bombe, poiché:
Guardati con le lenti del diritto contemporaneo, gli attacchi di Hiroshima e Nagasaki si configurano come crimini di guerra plateali, e verosimilmente come due immensi attacchi terroristici. Usarli come esempio di una soluzione rapida e pulita, come Trump ha fatto, non è solo una falsificazione storica ma un ritorno inquietante alla lettura di quegli eventi che una parte di occidente si era fabbricata subito per giustificarli, e che nel tempo abbiamo superato. [Ma] il paragone ignominioso di Trump ha tuttavia almeno un merito: ci ricorda, se ce ne fosse bisogno, che a ottant’anni da Hiroshima siamo ancora immersi nell’era atomica, che non ne intravediamo la fine, perché forse fine non ci sarà. Di tutte le aberrazioni che l’umanità ha prodotto, la bomba atomica resta ancora la peggiore. E non è affatto, come ci siamo a lungo convinti e come si auguravano i fisici pentiti di Los Alamos, la miglior garanzia di pace possibile»1.
I commenti provenienti da ambienti europei che fanno capo alla cosiddetta “coalizione dei volenterosi” – quelli che vogliono continuare la guerra alla Russia a ogni costo – e dal codazzo di giornalisti e commentatori che sono da loro stipendiati, per farsi coraggio parlano di “fallimento” del vertice tenuto in Alaska perché non sarebbe stato raggiunto il presunto obiettivo del vertice, quello di imporre alla Russia una tregua senza condizioni.
In realtà il vertice Putin-Trump ha riguardato obiettivi ben più importanti e globali di quelli auspicati dai “volenterosi” e dal loro pupillo Zelensky.
Il vertice si è interessato delle condizioni fondamentali per una pace duratura in Ucraina, e non di una semplice tregua che sarebbe solo servita a cercare di riarmare e rilanciare le azioni dell’esercito ucraino, in chiara difficoltà e a corto di uomini per l’esplodere della renitenza alla leva e le fughe continue all’estero di giovani, e meno giovani, per non essere arruolati.
Il vertice, più in generale, ha riguardato le condizioni necessarie per ottenere una situazione di reciproca sicurezza a livello mondiale. Il presidente Trump, rinunciando agli atteggiamenti da bullo che lo avevano portato a minacciare gravissime sanzioni contro la Russia se non avesse accettato una tregua immediata e incondizionata (un “bluff” in cui gli esperti dirigenti russi non sono minimamente caduti), ha alla fine saggiamente accettato l’agenda proposta dai Russi che consisteva nell’affrontare problemi ben più vasti e significativi di una semplice tregua, che riguardano l’avvenire del dialogo tra USA e Federazione russa.
La difesa compatta del genocidio israeliano a Gaza e delle operazioni militari dell’entità sionista e terrorista da parte delle “cancellerie” di tutti i paesi dell’impero americano viene spesso letta come la manifestazione evidente di una sudditanza nei confronti di Israele. Questa idea degli ebrei che dominano il mondo sembra però la semplice riproposizione della vecchia teoria della “cospirazione giudaica” e non spiega efficacemente il reciproco e dialettico interesse che nutrono Israele (assieme a larga parte della comunità ebraica internazionale) e i gruppi dominanti del blocco imperialista a guida USA.
Certo, all’interno di questo blocco, Israele non è un semplice stato-vassallo come lo sono l’Italia o la Lituania o (ancora per poco) l’Ucraina. Israele è un paese che ha un grande peso politico che si mostra platealmente nelle standing ovation che il Congresso americano, senza alcuna forma di pudore, tributa a un criminale genocida le cui azioni non hanno nulla da invidiare a quelle di Adolf Hitler.
Dopo la Seconda guerra mondiale (e per diversi aspetti anche in precedenza, visto che la dichiarazione di Balfour avviene durante la Prima guerra mondiale) gli ebrei stipulano un patto con le potenze imperialiste e colonialiste vincenti (gli USA e soprattutto la Gran Bretagna, a cui era stato assegnato il protettorato della Palestina dopo il crollo dell’Impero Ottomano alla fine della Grande guerra):
L’ex generale David Petraeus, ex comandante in Iraq e Afghanistan ed ex Direttore della CIA, in questo articolo per The National Interest, rende abbastanza chiaro perché l’amministrazione americana stia cercando di far finire la guerra in Ucraina. La dimensione strategica generale dello scontro è il ruolo di “laboratorio” per la Cina. Come mostra l’autorevole osservatore la Cina è il principale “facilitatore economico e industriale” della Russia, ma anche il fornitore di sistemi militari dei quali valuta in questo modo l’efficacia in una guerra ad alta intensità contro tattiche e materiali Nato. In tal modo può acquisire, senza perdere un uomo o un mezzo (anzi, vendendoli), cruciali informazioni e, in tal modo, con le sue parole “perfezionare i concetti che utilizzerà per guidare lo sviluppo delle proprie armi, l’addestramento militare e le strutture organizzative”. A parere dello scrittore ormai Pechino “funge da spina dorsale logistica del complesso militare-industriale russo”. Microelettronica, macchine utensili ed esplosivi per i proiettili, Con il supporto cinese i russi si apprestano a produrre entro l’anno in corso l’incredibile cifra di due milioni di droni di attacco avanzati a FPV (controllo immersivo in prima persona). Il punto è che queste forniture messe alla prova delle capacità avanzate di difesa, fisica ed elettronica, fornite dall’occidente all’Ucraina, consentiranno di produrre nuove generazioni di armi.Petraeus aggiunge che tutte le informazioni convergono in un sistema centralizzato di gestione che è in grado di “rispondere molto più rapidamente della burocrazia degli appalti dell’era industriale degli Stati Uniti”.
Conversando con Giovanni Piva, mi sono reso conto della necessità di chiarire alcune cose in merito all’effetto espansivo del deficit pubblico e a come questo effetto (non) vari in funzione di come viene “finanziato”.
Deficit pubblico significa che lo Stato spende più di quanto preleva con le tasse. Quindi immette moneta nell’economia. Questo è (dovrebbe essere ?) chiaro a chiunque.
Tuttavia, se contestualmente lo Stato emette titoli per “finanziare il deficit”, la moneta immessa viene ritirata e quindi l’effetto espansivo sparisce. Giusto ?
NO.
Lo Stato quando spende, spende MONETA. Quella entra nell’economia.
E se lo Stato spende per stipendi pubblici o per investimenti, IMMEDIATAMENTE genera PIL. La moneta passa di mano (arrivando al dipendente pubblico o al fornitore delle opere pubbliche) che si ritrovano con un incremento del loro risparmio finanziario.
Se viene loro offerta una forma di impiego sotto forma di titoli di Stato, sono di solito interessati ad utilizzarla. Ma l’effetto espansivo sul PIL SI E’ COMUNQUE GIA’ VERIFICATO.
NON è affatto vero che “l’effetto espansivo svanisce perché la moneta precedentemente emessa viene ritirata”.
USA 2018, mentre la cosiddetta “dottrina Trump” s’imponeva, dentro e fuori casa, all’attenzione dei tanti, nelle stesse terre del melting pot vedeva la luce un ennesimo romanzo che, qualora ve ne fosse stato bisogno, andava ad aggiungersi al Sancta Sanctorum del già nutrito filone distopico di ordine femminista di successo. L’opera letteraria in questione, porta per titolo Vox, prodotto d’esordio di Cristina Dalcher edito da Nord.
Con una scrittura priva di orpelli semantici, l’uso di un linguaggio diretto, asciutto, a tratti forse troppo e a discapito di una maggiore profondità e articolazione di pensiero, l’autrice centra comunque il bersaglio toccando la sensibilità di superficie del lettore medio che, da subito, diviene empatico complice dei bisogni, degli intimi desideri, dei sussulti d’odio, di libidine e soprattutto, delle ragioni di ribellione e tradimento della protagonista, Jeane. Non potrebbe essere altrimenti. Di fatto, il gran numero di elementi (ammiccamenti?) tipici di un prodotto letterario che soddisfi precisi comparti socioculturali, precise sensibilità (che siano quelli di una sinistra radical chic o alla comunità LGBTQIA+ e altri), ci sono tutti. Troviamo, infatti, l’amica politicizzata, attivista rampante, e la ricercatrice geniale, rigorosamente entrambe lesbiche; il conciliatore, dialogante col potere che, a sorpresa, rivela un salvifico sprazzo d’eroismo e via così.
Lo scenario di futuro immaginato dall’autrice, che in vero non osa discostarsi da soluzioni già battute ben più sapientemente da altri è quello di un regime totalitario bianco giunto a sovvertire l’ordine costituito e cambiare, ovviamente in peggio, le sorti delle donne.
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