Gaza, il genocidio suicidiario di Israele
di Luigi Alfieri
L’introduzione di Alfieri a "Il Male estremo". E un post scriptum sulla genealogia del genocidio dei palestinesi. Il genocidio è “democratico”. Non solo la maggioranza decide chi deve essere ucciso senza limiti, ma decide cos’è questo “chi”
Gli ebrei sono dei pervertiti, subdoli, avidi, usurai. Chi odia i “negri” ha già deciso che puzzano e violentano le donne. Così come chi odia gli “zingari” sa con certezza assoluta che gli “zingari” sono sporchi, rubano e rapiscono i bambini. Non si prende una differenza e la si perseguita, si crea una differenza per poterla perseguitare. Perché? Per proiettare fuori la paura. Per sentirsi sicuri dentro solidi e indiscutibili confini. Per sentirsi forti ed eroici trionfatori sul male. Per compiacersi di essere buoni e giusti. Per stringersi meglio insieme in una presunta “identità”. Per godersi una facile vittoria che fa sentire tanto, tanto potenti. Se di fronte a questo cerchiamo di opporci virtuosamente difendendo la libertà di religione degli ebrei, la dignità umana dei “negri” o le tradizioni culturali degli “zingari” abbiamo già sbagliato tutto. Abbiamo già dato ragione ai persecutori nel punto essenziale: ci sono ebrei, e negri, e zingari, e sono altri, diversi da noi, diversamente umani. E come si fa, a questo punto, a impedire che il “diversamente umani” significhi “non abbastanza umani”? Naturalmente questa è una semplificazione. Ci sono tante cose, troppe cose dentro la realtà del genocidio per poter pensare di costruirci sopra una teoria che spieghi tutto. Non si può costruire nessun discorso che possa pretendere di decifrare sino in fondo anche una minima parte dell’infinita complessità di ciò che è umano. Anche il male, nell’uomo, è infinitamente complicato (…). A partire, dice Alfieri, dal diritto di vita e di morte.
Ius vitae ac necis.
Da tempi remoti, questa è la definizione più netta e sintetica del potere supremo, di quel potere che dagli inizi dell’età moderna chiamiamo sovrano. Sovrano è la persona, o meglio l’istituzione (è un’istituzione anche quando è una persona) che può legittimamente decidere sulla vita e sulla morte di ciascuno. Dare la morte, dunque, è la più alta prerogativa sovrana. La decisione di morte va accettata con reverente e persino grato timore, come massima espressione della più alta concepibile grandezza umana. Nessuno, tranne Dio, è al di sopra di colui che ha il diritto di uccidere.
Il legame tra potere supremo e violenza estrema, dunque, è antico, radicato e accettato. Non per questo è meno misterioso. Il mistero, ovviamente, sta tutto nella paradossalità, in questo caso, del consenso. Se accetto di sottomettermi al sovrano, accetto implicitamente che mi uccida. S’intende che spero e prevedo che non lo farà. Cercherò di comportarmi in modo da non dargli motivo di farlo. Chi ha il potere di uccidere, però, ha anche il potere di decidere perché, e può essere qualunque perché in quel momento gli convenga o gli piaccia. Quindi in realtà non ho vere garanzie. Quel che il sovrano mi farà dipende da lui, non da me. Di punto in bianco, quel che prima andava bene al sovrano può non andargli più bene. Può essere la mia religione, può essere il mio stile di vita, può essere il mio comportamento sessuale, possono essere le barzellette che racconto, possono essere i libri che leggo, possono essere i cibi che mangio. Può essere qualsiasi cosa. Per quanto mi sforzi di obbedire, potrei non essere abbastanza rapido e incappare in qualche divieto prima di aver avuto il tempo di chinare di nuovo la testa. Allora, perché obbedisco?
Perché obbedisco?
Come è ben noto, questo supremo mistero del potere, che è poi il mistero dell’obbedienza, viene decifrato, proprio agli albori del concetto moderno di sovranità, da Thomas Hobbes. Questi indica due fondamentali motivi per l’obbedienza, uno sostanziale e uno formale.
Quello sostanziale è che la mia sottomissione al potere che ha il diritto di uccidermi (e lo ha perché io glielo do) mi protegge dal rischio ben più grave di essere ucciso da chiunque altro. O può uccidermi il sovrano, oppure può uccidermi chiunque. Finché il sovrano non ha deciso di uccidermi, impedisce a chiunque altro di farlo. La mia vita è del sovrano; se non fosse del sovrano sarebbe di tutti (propriamente mia non è mai, perché da solo non sono in grado di proteggerla, quindi è il sovrano che me la dà). È conveniente dover avere paura di uno soltanto anziché dover avere paura di chiunque.
Il motivo formale per l’obbedienza è appunto che il sovrano è istituzione, quindi agisce secondo regole e procedure. Regole e procedure possono avere qualsiasi contenuto, quindi in questo senso sono arbitrarie. Però debbono essere regole e procedure. Vanno annunciate, comunicate, sono pubbliche, sono note. Danno spazio e tempo per conformarsi, per adattarsi a una normalità cangiante e in fondo capricciosa, ma basata, appunto, su norme. Il sovrano può uccidermi per qualsiasi motivo, ma me lo deve dire prima. Mi deve lasciare il tempo per togliergli il motivo, per convertirmi, per ravvedermi, per darmi una regolata. Oppure per scappare, se non posso o non voglio cambiare ciò che sono.
Quindi, tutto sommato, il sovrano mi protegge. Mi dà più vita di quanto non mi dia morte. L’eventualità che mi salvi la vita, magari senza che io neppure me ne accorga, per esempio perché l’ordine pubblico è ben mantenuto e le strade sono sicure, è complessivamente più probabile di quella che mi faccia morire. Beninteso, per salvare la mia vita è pressoché certo che il sovrano ucciderà o lascerà morire qualcun altro, ma di questo, come Hobbes vede con la più gelida lucidità, io non posso lamentarmi: avviene perché io lo voglio.
Il sovrano è addomesticabile, dentro la comunità politica
Questo all’interno della comunità politica. All’esterno è diverso. All’esterno il sovrano non ha sudditi, incontra solo altri sovrani. Non c’è un super-sovrano, il rapporto tra sovrani è anarchico, non ha legge. Ci possono essere accordi, ma si rispettano finché si vuole o conviene, non c’è costrizione quindi non c’è garanzia. Il solo fattore d’ordine sta nel disordine, la sola possibilità di costringere a stare nei limiti è la minaccia della guerra. E se la guerra scoppia, si apre un tempo di uccidibilità illimitata. È vero, ci sono consuetudini su come condurre la guerra, ci sono trattati che dovrebbero porre limiti e condizioni. Ma si rispettano se si vuole e finché si vuole. Se non si rispettano, non si va incontro a nient’altro se non la guerra, che c’era già. I trasgressori non possono essere puniti, al massimo possono essere sconfitti, se si scontrano con un avversario più forte. Ma possono anche vincere loro, nel qual caso la trasgressione non sarà più tale. Non ci sono leggi, non ci sono garanzie, non ci sono giudici, non ci sono neppure (nel senso che se ci sono non sono cogenti) regole e procedure.
All’interno, il diritto sovrano di dare la morte è fondato e perciò condizionato e perciò limitato dal consenso. All’esterno non ha bisogno di fondarsi, non incontra condizionamenti efficaci e può essere limitato solo dal diritto uguale e contrario di un altro sovrano, sostenuto da forza adeguata. Se manca forza adeguata, non c’è limite se non il naturale attrito che prima o poi spegne ogni agire umano.
La violenza, reale o potenziale, è la sostanza del potere sovrano, ma normalmente si tiene entro limiti tollerabili. Può persino nascondersi, anche per lunghi periodi, non essere quasi percepita. Quando emerge, difficilmente lo fa in maniera esplosiva e devastante. A tante cose si può consentire, persino alla propria morte, ma occorre che la cosa conservi una parvenza di senso, di ragionevolezza, che sia rapportabile a un orizzonte di valori. Non si può consentire a una morte, propria o altrui, senza ragione e senza senso e la morte di troppi difficilmente potrebbe trovare ragione e senso. Nessuna forza o violenza può sussistere se sparisce l’obbedienza, e può bastare un attimo a farla sparire.
Questo all’interno. All’esterno solo la forza limita la forza, ma non c’è forza che prima o poi non incontri una forza superiore. Per quanto si uccida, non si ucciderà mai abbastanza da travolgere ogni resistenza e assoggettare ogni possibile nemico. Il sovrano è una belva, un mostro, ci insegna Hobbes. Ma è addomesticabile, anzi a ben guardare nasce già addomesticato. Non azzannerà più di tanto, all’interno, e all’esterno non molto di più. Se prova ad andare oltre, prima o poi, in un modo o nell’altro, sarà ucciso a sua volta.
Dall’ uccidibilità allo sterminio
Ma esiste l’eventualità che il mostro esca dalla gabbia, che spezzi la catena. E lo faccia tra le grida di giubilo di molti, di moltissimi, di quasi tutti. Tranne i pochi che grideranno invece di terrore, o forse di gridare non avranno neanche il tempo. Occorre, in fondo, abbastanza poco. Occorre un’alterazione del meccanismo del consenso che, in talune circostanze, può risultare abbastanza facile.
Io riconosco al sovrano lo ius vitae ac necis, ma lo faccio normalmente in maniera almeno implicitamente condizionata. Gli riconosco in linea di principio il diritto di uccidere anche me, ma con la fondata aspettativa che non lo farà e invece mi difenderà da altri. Se invece non mi difende o addirittura mi minaccia in maniera imprevedibile e arbitraria, il mio consenso viene meno e se contemporaneamente viene meno il consenso di un sufficiente numero di altri, allora è fatta, il sovrano di colpo non c’è più. Quando però la minaccia del sovrano si esercita in un modo che mi mette a priori al riparo, orientandosi verso altri che hanno caratteristiche da cui io sono esente, se il semplice fatto di obbedire o anche solo di non disobbedire o anche solo di non fare nulla e pensare ai fatti miei è di sicuro sufficiente a mettermi al riparo da una violenza che di sicuro si scaricherà per intero su altri, allora la gabbia si apre e il mostro si scatena. Il consenso non lo condiziona più, lo lascia libero. O addirittura lo incita, lo aizza. Se il sovrano vuole uccidere solo chi non è come me, questa è la garanzia assoluta che non ucciderà me. Più la sua violenza supera ogni limite, più mi rassicura, più mi dà un confortante senso di superiorità e di potenza. Non gli obbedirò solo nei limiti di una ragionevole paura: gli obbedirò gratuitamente, in uno slancio di autentica passione. Amerò il mostro di un amore infinito. Forse alla fine, senza nessuna costrizione e per dare pienezza al mio amore, gli darò anche la mia vita.
Occorre però che anche un’altra catena salti, perché il mostro sia liberato. Fuori dalla comunità politica, la forza del sovrano, come ben sappiamo, si esercita senza altro limite che una forza uguale e contraria. O una forza superiore e contraria, che prima o poi senza dubbio si incontrerà. Bene, immaginiamo che ci sia un esterno in cui una simile forza proprio non esiste. Un esterno di assoluta e definitiva inermità. Viene meno allora la possibilità stessa del limite, la violenza può essere totale. La logica della guerra si basa sul principio della legittima uccidibilità del nemico, ma prevede la reciprocità. Immaginiamo che la reciprocità salti, che ci sia un nemico che non abbia nessuna forza e per conseguenza nessun diritto, che non abbia alleati o protettori, che non abbia neppure la possibilità di levare una voce di denuncia o un appello alla pietà. Allora la logica della guerra si spinge all’estremo, la legittima uccidibilità si fa assoluta e si giunge, con pochissimo attrito, allo sterminio. Thomas Hobbes si trasforma in Carl Schmitt, il Leviatano scatenato sventola la bandiera con la svastica.
Quando uccidere diventa un dovere identitario
Ho descritto, come ben si comprende, quello che a me pare essere il meccanismo essenziale del genocidio. Ovviamente occorrerebbero molte precisazioni, ovviamente ci sono moltissimi vuoti. Ma nella sostanza, almeno mi pare, funziona così. In fondo è un meccanismo semplice. Per questo lo ritroviamo tante volte nella storia, fin da quando possiamo parlare di storia.
Però dovremmo capire che il nome è sbagliato. È ben noto che il termine è stato coniato da un preciso autore, Raphael Lemkin, in un anno preciso, il 1944, partendo dallo studio che Lemkin aveva dedicato allo sterminio degli armeni e applicando il modello a quanto si cominciava a sapere su ciò che stava accadendo in quel momento nei territori europei occupati dall’Asse; sappiamo che poi l’Onu ha cercato di dare al termine una precisa definizione normativa. Lemkin è un personaggio eroico e merita tutto il nostro rispetto. Però è caduto in una trappola, ha cercato di resistere al mostro accettando di giocare con le sue carte. Prendendo per buona, così, l’autolegittimazione del mostro. L’Onu non ha fatto altro che normare l’equivoco. Si tratta di stranieri, di esterni, di estranei. Di «atti commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso», come dice l’Onu. Bene, non è vero, non si tratta di questo.
Gli ebrei non erano e non sono un “gruppo nazionale”. Gli ebrei tedeschi erano e sono tedeschi, gli ebrei greci erano e sono greci e così via. Non erano e non sono neanche un “gruppo etnico”: che cosa mai sarebbe un “gruppo etnico”? Esistono in natura gruppi etnici o etnie che dir si voglia? Non sarà, questo termine, solo un surrogato moderno di “tribù”, quindi un modo educato di dire “barbaro” o “selvaggio”? E “gruppo razziale”? Che gli ebrei siano razza a sé è precisamente il presupposto fondamentale dell’antisemitismo nazista, senza il quale lo sterminio sarebbe stato impensabile. Certamente gli ebrei sono un gruppo religioso, questo sì, ma ai nazisti non importava assolutamente nulla della loro religione, gran parte delle loro vittime non erano ebrei credenti e nessun ebreo poteva salvarsi semplicemente cambiando religione, non avrebbe fatto nessuna differenza. Se gli armeni potrebbero essere invece considerati “gruppo nazionale” e anche “gruppo religioso” (probabilmente non “gruppo etnico”, certamente non “gruppo razziale”), lo erano ben prima dello sterminio e la cosa non aveva mai dato problemi. La vera questione non stava in ciò che erano ma in ciò che non erano, non erano turchi in un momento in cui l’essere turco aveva cambiato completamente di significato, un momento in cui, siccome neanche i turchi erano turchi in quel senso, potevano diventarlo soltanto sterminando la “non turchità”, per non dover riconoscere che la “turchità” non esisteva…
Il punto non è che qualcuno è qualcosa che alla maggioranza non piace. La maggioranza dei “normali” non si dà nessuna pena di conoscere le vittime che ha scelto. Non cerca per perseguitarle un motivo in ciò che esse veramente sono. La persecuzione nazista non è stata una critica un po’ esagerata agli usi e costumi degli ebrei, alla loro mentalità (ammesso che ce ne sia una), alla loro religione o alla loro genetica. Né si è trattato di un fraintendimento o di un equivoco che una miglior conoscenza avrebbe evitato. Né ci si può opporre allo sterminio dicendo che è bello e buono che idee diverse, costumi diversi, diverse religioni convivano in pace. Né, soprattutto, si può dire che dobbiamo rispettare l’altrui identità razziale: se diciamo che l’umanità è divisa in razze abbiamo già dato ragione ai razzisti nel punto fondamentale. Il problema è completamente diverso. La persecuzione non è un errore cognitivo né un atto di intolleranza. È la costruzione di un nemico. Di un nemico inerme, che non potrà mai vincere. Su cui si possono proiettare le proprie paure senza che si debba propriamente avere paura di lui. Nei cui confronti il diritto di uccidere è indiscutibile e illimitato, tanto da diventare anzi, da diritto, dovere. Dovere identitario. Come puoi essere un buon “ariano”, se non perseguiti ebrei? Come puoi appartenere alla maggioranza dei buoni e giusti se non rivolgi tutto il tuo odio su coloro che la maggioranza ha deciso non essere né buoni né giusti?
Il genocidio è “democratico”
La maggioranza decide. Il genocidio è “democratico”. Non soltanto la maggioranza decide chi deve essere esposto a un’uccidibilità senza limiti, decide prima di tutto cos’è questo “chi”. E su questo cos’è fonda l’unico perché di cui ha bisogno. Gli antisemiti non fanno il minimo sforzo di capire gli ebrei, sia pure solo per odiarli meglio. Lo sanno già cosa sono gli ebrei, lo hanno deciso. In definitiva, gli “ebrei” li hanno fatti loro. Dunque gli ebrei hanno il naso adunco, sono dei pervertiti con tutti i vizi possibili, sono subdoli, sono avidi, sono usurai, sono dei degenerati. È impossibile convincere un antisemita che gli ebrei non sono davvero così: i “suoi” ebrei sono nati dalla sua mente, e nella sua mente sono davvero così. Così come chi odia i “negri” non andrà certo a studiare la storia delle civiltà africane. Ha già deciso lui che chi ha la pelle un po’ più scura della sua è un “negro”, che puzza, violenta le donne ed è un bestione scimmiesco. Così come chi odia gli “zingari” sa con certezza assoluta che gli “zingari” sono sporchi, rubano e rapiscono i bambini. Se di fronte a questo cerchiamo di opporci virtuosamente difendendo la libertà di religione degli ebrei, la dignità umana dei “negri” o le tradizioni culturali degli “zingari” abbiamo già sbagliato tutto. Abbiamo già dato ragione ai persecutori nel punto essenziale: ci sono ebrei, e negri, e zingari, e sono altri, diversi da noi, diversamente umani. E come si fa, a questo punto, a impedire che il “diversamente umani” significhi “non abbastanza umani”? Il punto vero, su cui bisogna attestarsi, è che non esistono “gli ebrei”, e neanche “i negri”, e neanche “gli zingari” (e neanche “gli omosessuali”, e neanche “le donne”, e neanche…). Aveva ragione Einstein quando, compilando non so quale modulo, alla voce “razza” scrisse “umana”.
Il meccanismo essenziale: proiettare fuori la paura
E va bene, usiamo pure la parola “genocidio”. Non facciamone una questione di parole. L’importante è capire che i persecutori non se la prendono con un ghenos, qualunque cosa ciò significhi, se significa qualcosa. Se la prendono con una differenza, per il solo motivo che è una differenza. Invece di “genocidio” dovremmo dire “diaforicidio” o qualcosa di simile. Ma non nel senso che si prende una differenza e la si perseguita, invece nel senso che si crea una differenza per poterla perseguitare. Perché? Per proiettare fuori la paura. Per sentirsi sicuri dentro solidi e indiscutibili confini. Per sentirsi forti ed eroici trionfatori sul male. Per compiacersi di essere buoni e giusti. Per stringersi meglio insieme in una presunta “identità”. Per godersi una facile vittoria che fa sentire tanto, tanto potenti. O, molto semplicemente, per essere non-diversi, quindi normali.
Naturalmente questa è una semplificazione. Non prendiamola troppo sul serio. Ci sono tante cose, troppe cose dentro la realtà del genocidio per poter pensare di costruirci sopra una teoria che spieghi tutto. Non si può costruire nessun discorso che possa pretendere di decifrare sino in fondo anche una minima parte dell’infinita complessità di ciò che è umano. Anche il male, nell’uomo, è infinitamente complicato. C’è spazio per tante spiegazioni, ed è giusto, soprattutto, lasciare un ampio spazio per l’inspiegabile. C’è un mistero infinito nell’umano, riconosciamolo. Il mistero insito nel male estremo, esattamente come quello insito nel bene, continuerà per sempre a sfidarci.
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Post scriptum
Questo scrivevo quattro anni fa, introducendo un volume collettivo sui genocidi del Novecento (e non solo): Il male estremo. Fenomenologia del genocidio (Aracne, Roma 2021). Un volume che, e non lo dico per me, avrebbe meritato più diffusione. Nel frattempo, non ho avuto modo di cambiare idea. Debbo però ora constatare che la parola “genocidio” è oggetto di inediti pudori. “Massacro”, “uccisioni di massa”, forse al limite persino “sterminio” si può dire, ma “genocidio” è parola divisiva, è sospetta di antisemitismo (addirittura! Ma non era la più ferma e definitiva parola di condanna contro l’antisemitismo?), i morti sono tanti ma non ancora abbastanza (quando saranno “giusti” per usare questa parola?), Israele è l’aggredito e non l’aggressore, e se proprio proprio si vuole criticare il comportamento di Israele bisogna doverosamente premettere che Hamas è un’organizzazione di cattivissimi terroristi che va cancellata dalla faccia della terra. Non c’è bisogno di dire di cosa stiamo parlando, no?
Tutto ciò si basa su due pregiudizi impliciti (ma non sempre solo impliciti, in verità): 1) Si può lecitamente parlare di genocidio solo se gli ebrei sono vittime, essendo stati vittime sono innocenti per sempre, quindi se ci sono ebrei di mezzo hanno ragione loro, si può dire che esagerano un pochetto, al massimo, quando si è proprio audaci, ma nulla di più, se no si è antisemiti; 2) Israele è il bene, l’Occidente, “l’unica democrazia” in un’area di feroci dittature, può forse sbagliare occasionalmente qualcosa, ma non è mai dalla parte del torto ed è per definizione l’aggredito, anche quando aggredisce.
Vorrei qui rapidamente enunciare alcuni dati di fatto in contrario (non mi sembra che siano mie opinioni, né mi sembrano cose opinabili).
1) La parola “genocidio”, lo si è già visto sopra, è stata coniata in riferimento alle persecuzioni dei turchi contro gli armeni, sebbene a coniarla sia stato un ebreo e sebbene la Shoah fosse in quel momento in pieno corso (ma poco se ne sapeva e ancor meno se ne voleva sapere). Né dal punto di vista terminologico né dal punto di vista fattuale, dunque, la Shoah è il primo genocidio della storia, e sebbene il termine sia recente, le caratteristiche del fenomeno sono riscontrabili, purtroppo, sin dall’antichità più remota. Del resto, la Shoah risulterebbe inspiegabile e incomprensibile se non facesse parte di una categoria di comportamenti umani, e lasciarla inspiegata e incompresa sarebbe un atto di impotenza conoscitiva ed etica. Non si tratta di un fenomeno “unico”, sebbene certamente abbia caratteristiche del tutto peculiari, come peraltro ogni evento storico ha. Mi rifiuto di pormi il problema se sia stato o no il genocidio peggiore della storia: stabilire graduatorie dell’orrore relativizza l’orrore e apre persino la possibilità che certi eventi di orrore siano “migliori” di altri. Usare la parola “genocidio” in altri contesti, pur con le precisazioni e i dubbi sopra espressi, è dunque perfettamente legittimo, non è una sottovalutazione di quanto patito dagli ebrei (peraltro non solo da loro, il tritacarne nazista non era particolarmente selettivo e il destino dei Rom, ad esempio, non è stato in nulla diverso).
2) L’essere stati vittime non mette al riparo dall’eventualità di essere persecutori a propria volta. Non si è vittime per sempre, o per meglio dire la qualifica di vittima, come quella di carnefice, non è ereditaria. Nessuno penserebbe, credo, che i tedeschi di oggi siano colpevoli della Shoah, sebbene lo siano stati in molti e anzi moltissimi casi i loro padri, o piuttosto ormai i loro nonni o bisnonni. Allo stesso modo gli ebrei di oggi non sono vittime della Shoah, sebbene essa sia tragicamente presente nelle memorie familiari di molti di loro. Ogni generazione, e ogni individuo in essa, vive la sua storia, fa le proprie scelte ed ha di fronte le stesse opportunità e gli stessi rischi di bene o di male. L’ingiustizia e la violenza non sono precluse a nessuno, neanche ai discendenti di chi in passato ha subito ingiustizia o violenza. Gli ebrei non sono innocenti in quanto tali esattamente come non sono colpevoli in quanto tali. Accusare alcuni ebrei (non certamente “gli ebrei”!) di genocidio non viola una sorta di status metafisico di innocenza a priori: si tratta di valutare se eventi storici specifici abbiano caratteristiche tali da giustificare l’uso (con tutte le riserve sopra proposte) di una simile categoria, indipendentemente dall’appartenenza etnica o etnico-religiosa dei colpevoli come delle vittime.
3) Anche le categorie di aggredito o aggressore non sono degli a priori fuori dalla storia, ed è molto difficile ripercorrendo la storia ritrovare senza equivoci un primo evento fondativo in cui l’essere aggressore o l’essere aggredito si presentino in una sorta di stato puro, di “perfezione”. Certo, il 7 ottobre 2023 Hamas ha aggredito Israele: non prendo in considerazione le teorie complottistiche per le quali l’aggressione sarebbe stata orchestrata dagli israeliani stessi. C’è una storia a monte, però: Gaza era già una sorta di campo di concentramento a cielo aperto (con l’indifferenza o la complicità degli stati arabi e dell’Egitto sopra tutti, questo va doverosamente detto), gli accordi di Oslo erano già ampiamente vanificati, la presenza aggressiva di “coloni” (di fatto milizie armate di partito protette dall’esercito) in Cisgiordania aveva già provocato vittime e devastazioni, ed è molto difficile che dei palestinesi, militanti di Hamas oppure no, potessero non sentirsi aggrediti del tutto legittimati ad atti di resistenza o anche di ritorsione. Se poi risaliamo più in là nel tempo, è vero che nella guerra del Kippur gli israeliani sono stati aggrediti dagli egiziani, ma questi erano stati aggrediti dagli israeliani nella Guerra dei Sei Giorni, peraltro dopo aver minacciato gli israeliani di aggressione, avendo subito in precedenza un’aggressione israeliana durante la crisi di Suez, dopo che nella guerra di indipendenza del 1948 otto eserciti arabi avevano aggredito Israele, essendo stata la dichiarazione di indipendenza di Israele considerata da tutti gli arabi come un atto di aggressione neocoloniale, provocata peraltro dal fatto che da generazioni gli ebrei d’Europa erano stati perseguitati o discriminati dovunque fino alla Shoah… Non c’è un momento primo che abbia fissato una volta per tutte la qualità di aggressore o di aggredito, o se c’è si tratta della stupida, pervicace e feroce violenza verso chi non è “come noi” da parte di noi civilissimi europei. Considerazioni che non giustificano né vogliono giustificare Hamas, per fare una superflua precisazione ad uso degli idioti.
4) Anche la categoria di democrazia non è un assoluto metastorico. Senza dubbio Israele ha avuto, e in parte più o meno grande conserva tuttora, caratteri propri delle democrazie parlamentari di impronta liberale tipicamente europee, in un contesto mediorientale in cui questo modello non ha mai attecchito (senza per questo esere del tutto assente, basti pensare alle “primavere arabe”). Ma l’avere un parlamento liberamente eletto non basta ad essere irreprensibili, né tanto meno a vantare una superiorità su chi invece non lo ha (e magari lo vorrebbe avere). Anzi, proprio l’essere democratici dovrebbe imporre un senso del limite e una responsabilità storica che le istituzioni israeliane (da non confondere mai col popolo di Israele) non sembrano nutrire. L’Israele di oggi, peraltro, malgrado la forte e fiera resistenza di gran parte del suo popolo, ha imboccato una deriva teocratica che nulla ha a che fare con libere istituzioni di impronta occidentale mentre assomiglia tantissimo ai modelli teocratici propri dell’estremismo islamista, la stessa Hamas compresa.
Con ciò, mi sembra che la possibilità di attribuire all’attuale governo israeliano (non agli israeliani e tanto meno agli ebrei) atti e intenzioni genocidiarie in linea di principio ci sia. Si tratta di valutare se i fatti la giustificano: non è, appunto, una questione di principio.
Mi rifiuto di fare la conta dei morti. Certo, siamo lontani dai sei milioni circa della Shoah: e allora? Quante migliaia di bambini debbono ancora morire per rendere meno divisiva l’espressione “genocidio”?
In base all’impostazione che ho prima proposto, quel che mi sembra decisivo è se abbiamo a che fare o no con la volontà di eliminare radicalmente una differenza. E questa c’è, è dichiarata, è addirittura un’ideologia orgogliosamente proclamata e giustificata con le Scritture e la volontà divina. Lo Stato di Israele è nato come Stato laico, caratterizzato da elementi importanti di socialismo utopico, dichiaratamente binazionale, dichiaratamente bilingue e dichiaratamente plurireligioso e interculturale. Si è trasformato nel corso degli ultimi decenni in uno Stato ebraico, che anzi non è neppure propriamente uno Stato ma la Terra Promessa, destinata da Dio al Popolo Eletto. Proprio ciò che i padri fondatori non volevano, anzi respingevano addirittura con sdegno, e che anche gli ebrei più osservanti rifiutano come blasfemo. Quindi non c’è posto per uno Stato palestinese, che occuperebbe necessariamente parte di ciò che per volontà divina è degli ebrei (non degli israeliani, degli ebrei). E non c’è posto per null’altro che possa essere un germe o un surrogato o una parvenza di Stato palestinese: neppure la parvenza è accettabile. Ma neppure è accettabile una presenza demografica palestinese che potrebbe attentare alla purezza ebraica di un’entità che ha ormai caratteristiche ben diverse da quelle di uno Stato, ma è una comunità perfetta di puri e santi che obbediscono solo (tramite i propri capi fin troppo terreni, s’intende) alla volontà dell’Eterno. E perciò, una quantità crescente di violenza e spietatezza deve essere applicata, sfuttandone tutte le occasioni possibili, per chiudere, costringere, allontanare, espropriare, intimidire, terrorizzare chi non appartiene alla comunità dei Puri.
Ma vogliamo non chiamarlo genocidio? E vogliamo non capire che è prima di tutto un autogenocidio? Un genocidio suicidiario, e di suicidio ha autorevolmente parlato Anna Foa, la cui prima vittima, forse già definitivamente e per sempre uccisa, è proprio l’idea originaria di ciò che avrebbe dovuto essere Israele, la radice stessa della sua democrazia. Del resto, non si può negare l’umanità degli altri senza rinnegare la propria, e tutti i genocidi della storia sono stati una via tortuosa verso l’autodistruzione
Ci sono giorni in cui spero davvero che si suicidino, in massa.
Guardare un cosidetto politico che va a dire a Bargouti (torturato, violentato nei suoi diritti) non vincerete e poi chissa' che altro.
Uno schifo
Ma nessuno di questi oppressori di inermi ha quel briciolo di umanita' per farla finita con la sua inutile e dannosa esistenza?
Le pubbliche relazioni sioniste che contestano i medici italiani che certificano la morte per stenti della ragazza di Gaza. Tra un raid e un'altro trovano anche la faccia tosta e la forza di fare dichiarazioni del genere. Dove sta il loro suicidio? Sono vivi, vegeti pericolosi e mortali, ma solo per gli altri, palestinesi o gente che non la pensa come loro. Se questo e' un suicidio ...
Le comunita' ebraiche che non sono sioniste dovrebbero avere il coraggio di dire che i sionisti Non sono ebrei, cacciarli dalle loro comunita'. Isolarli per primi se non vogliono essere contaminati dalle azioni di questi mostri.
Lo so che sa di generalizzazione, ma oggi ho pianto per la ragazza morta a pisa e covo una rabbia sorda e impotente per questi becchi di ferro sionisti che non hanno neanche la decenza di tacere.
Si vogliono suicidare? Si? che si impicchino e la piantino di far crepare la gente a cui da 70 anni stanno rubando le vite, la terra, il futuro