La Cina può essere il nostro modello?
di Salvatore Bravo
L’occidente, termine con cui si indica un’area geografica che si estende dagli Stati Uniti a Israele, sta mostrando in modo inequivocabile la “verità” del suo sistema. Si tratta di un’area geografica, in cui le differenze sociali e culturali sono quasi scomparse, al loro posto vige l’americanismo. Quest’ultimo si caratterizza per l’economicismo fanatico che tutto pone in vendita pur di incassare plusvalore. L’individualismo è il modello che impera e divora la storia e l’essere con la sua gerarchia valoriale. Il multi-nullismo è l’essenza dell’americanismo.
Il genocidio dei palestinesi si consuma in mondovisione e, e mentre tutto questo accade la chiacchiera domina e impera. Israele non è oggetto di sanzioni reali, anzi alla potenza che difende gli interessi occidentali in Medio Oriente si chiede “moderazione” con le tregue e la si invita a far passare gli aiuti umanitari. Estetica funebre che vorrebbe mascherare la sostanziale complicità dell’occidente. In questo clima di marcescente mostruosità divenuta banale e ordinaria porsi il problema dell’alternativa a un sistema che sembra invincibile ed eterno, ma in realtà è assediato da un mondo che muta velocemente, è fondamentale per riportare la speranza nel deserto della disperazione. Ci si avvia verso una rivoluzione anche in occidente, poiché le tecnologie e le risorse minerarie sono ormai in pieno possesso dei popoli non occidentali. I secoli del parassitismo e del saccheggio sono terminati o stanno terminando. La popolazione in occidente è in forte contrazione e invecchiamento; la cultura dei soli diritti individuali sta mostrando il suo vero volto, ovvero la famiglia si dilegua e con essa il futuro, restano solo individualità consumanti che dietro di sé non lasciano nessuna traccia. Non vi è cura dell’altro (famiglia in senso proprio ed esteso), per cui l’occidentale medio termina i suoi giorni depauperando ciò che lo umanizza. In questo contesto cercare e fondare l’alternativa è inevitabile.
I colonizzati sono coloro che difendono il modello americano. Sono gli atei devoti che per rafforzare il sistema si impegnano a sostenere riforme puramente estetiche che possano legittimarlo fortemente.
La lotta ai razzismi serve a celare l’ordinaria violenza di un modello capitalistico che si fonda sulla competizione e sul nichilismo del denaro. Il nuovo razzismo che emerge è fondato sulla distinzione vincenti (possessori di grandi patrimoni) e perdenti (posizioni socialmente irrilevanti). L’americanismo, come lo ha definito Costanzo Preve, è il servo che difende il padrone e contribuisce al suo potere:
“Americanismo non significa assolutamente sostenere sempre servilmente tutto ciò che di volta in volta decidono di fare i governi americani. Il vero americanismo, anzi, consiste nel consigliare all’imperatore cosa dovrebbe fare per essere più amato dai sudditi, più multilaterale, meno unilaterale, e in genere più portatore di un soft power. Il vero americanista consiglia di chiudere Guantanamo, di scoraggiare il Ku Klux Klan, di eleggere al comando il numero maggiore possibile di neri, donne, gay, eccetera. Il vero americanista vuole potersi riconoscere nella potenza imperiale che occupa il suo paese con basi militari e depositi di bombe atomiche a distanza di decenni dalla fine della seconda guerra mondiale (1945) e dalla dissoluzione di ogni patto militare “comunista” (1991). Il vero americanista vuole essere suddito di un impero buono, e pertanto gli spiace che l’impero a volte sia cattivo ed esageri. Massacrando l’Iraq l’impero non ha commesso un crimine, ma un errore. L’americanista utilizza due registri linguistici e assiologici diversi, il codice del crimine e il codice dell’errore. Tutti possiamo commettere errori, che diamine! Hitler, Mussolini, i giapponesi, i comunisti, Milosevic, Mugabe, la giunta militare del Myanmar, i talebani, eccetera, hanno commesso e commettono crimini. Churchill che massacra i curdi e gli indiani, Truman che getta la bomba atomica ad Hiroshima, Bush che invade l’Iraq nel 2003, commettono solo spiacevoli errori. L’americanista accusa di anti-americanismo tutti coloro che affermano che gli USA si comportano come un impero, e non dovrebbero farlo, e comportarsi invece come un normale stato-nazione, affidando il mondo ad un equilibrio fra le potenze, senza velleità messianiche imperiali. Qui l’americanista raggiunge il massimo della cialtroneria, perché accusa di anti-americanismo paradossalmente la stessa cultura americana, che afferma a chiare lettere di essere un impero, di voler essere un impero e di voler continuare ad essere un impero, e non è affatto disposta a rinunciare a questo eccezionalismo messianico. L’americanismo, pertanto, non consiste in un variabile insieme di opinioni su questo o su quell’atto specifico degli USA, ma in un presupposto di internità illimitata a questo mondo, in cui contrattare poi le modalità di adesione specifica1”.
L’americanismo occidentale è il sintomo della decadenza. Se le identità dei popoli europei sono annichilite da decenni di colonialismo linguistico, culturale ed economico non resta che l’americanismo col suo economicismo a dare la “veste al niente” che si cela dietro la cortina ideologica dei soli diritti individuali, i quali proclamano il mercato luogo e spazio delle libertà. Il mercato è molto più di un’istituzione economica è il senso perverso dell’occidente. La libertà si compra e si vende nel mercato, essa è valore di scambio, per cui la libertà è speculare alla mercificazione. In questo clima di tramonto le tensioni non possono che acuirsi. È inevitabile in una condizione soffocante cercare un modello altro oltre i confini dell’occidente che nulla sembra poter dare in tale condizione.
La Cina con i suoi successi e con la sua politica di difesa degli interessi sovrani sembra essere “il modello” a cui ispirarsi, tanto più che essa è “potenza comunista” che ormai soverchia gli Stati Uniti. Ora il problema reale è se in Cina vige il comunismo. Per poter valutare necessitiamo di un modello oggettivo, di un paradigma anche se definito in modo parziale e il paradigma ci è dato da Marx. Comunismo è partecipazione radicale dei lavoratori alla progettualità politica ed economica. La statalizzazione di banche e grandi industrie non qualifica uno stato come comunista, ciò che lo definisce è la partecipazione e l’abbattimento di ogni oligarchia. In Cina il potere è saldamente nelle mani di una nomenclatura di uomini e di donne che usano il capitalismo per fini sociali e per aumentare la ricchezza nazionale e per soddisfare i bisogni primari e ora anche il superfluo. Tutto ciò è grandioso, tanto più che ciò è avvenuto in pochi decenni, ma non è comunismo, in quanto i lavoratori restano sudditi sorvegliati della nomenclatura. Ciò che manca, come afferma Costanzo Preve è la riflessione teoretica sulla Cina, senza tale prassi del pensiero ci si limita ad ammirare i risultati, ma non si valutano i processi e i fini:
“Si afferma che in Cina è in corso una “lunga marcia verso la prosperità”. Non ne dubito. Sono d’accordo che non importa praticamente che un gatto sia rosso o nero, purché prenda i topi, ma questo saggio detto non contribuisce a chiarire la natura sociale della Cina di oggi. Si parla di diaspora cinese (Casati), di scontro sulle terre rare (Giannuli), della Cina che è oggi al centro del mondo (Ricaldone). Tutto giusto, la sola cosa che manca è una riflessione ispirata alla teoria di Marx. Ora, non dico che essa sia necessaria, anzi forse è fuorviante. Ma allora bisogna dirlo, e non dichiararsi contemporaneamente “comunisti” e ammiratori del “sorpasso” Cina-Stati Uniti. Anche Giovanni Arrighi, nel suo prezioso studio sulla successione dei cicli di accumulazione Genova-Olanda-Inghilterra-USA- Cina (Adam Smith a Pechino), dice cose molto simili, ma non si sogna neppure di parlare di modello socialista che vince contro un modello capitalistico.
Il libro suggerisce che l’elemento principale per connotare la Cina come “nazione sovrana di matrice prevalentemente socialista” sta nella preponderanza macroeconomica della proprietà statale e cooperativa su quella privata. Ma se è così, bisogna avere il coraggio di dire che Lassalle ha avuto ragione contro Marx. Niente in contrario, ma lo si dica. Se il socialismo è l’IRI scritto in ideogrammi cinesi va bene. Nella sua introduzione Losurdo parla di un suo viaggio in Cina (immagino omaggiato come insigne ospite straniero) e parla di benessere ovunque visibile. Ci credo, anche se di tanto in tanto leggiamo di rivolte contadine e operaie, ma anche i visitatori degli USA di un tempo dicevano questo2”.
L’intervento dello Stato nell’economia non garantisce il comunismo o forme di socialismo. Il dirigismo e la proprietà statale del suolo non è garanzia di socialismo o di comunismo, ma è una forma di capitalismo calmierato. La Cina sembra aver rinunciato ai fini ideali del comunismo: partecipazione politica, uguaglianza formale e materiale, sostegno all’associazionismo dei lavoratori a cui dovrebbero appartenere i mezzi di produzione, al posto di tali idealità politiche in Cina regna la crematistica. Uomini e donne vivono in una realtà in cui le disuguaglianze economiche sono sempre più evidenti e in cui il denaro ha un peso sempre più rilevante, pertanto è difficile ipotizzare che i cinesi possano nel tempo progettare forme di comunismo o socialismo più armoniche e coerenti con la definizione di comunismo marxiana. Se la natura umana è etica e razionale e dunque la pratica della solidarietà è ciò che umanizza, la Cina risponde a tale verità? La Cina inoltre è parte di uno sviluppo storico e produttivo assai differente rispetto all’Europa, pertanto le categorie cinesi e il suo modello non sono applicabili in Europa. La stabilità cinese è sicuramente un punto di forza della Cina, e dopo i decenni del maoismo, essa può raggiungere traguardi impensabili da un punto di vista produttivo e assediare l’occidente, o meglio le sue oligarchie, ma non è comunismo:
“Sunteggerò ora brevemente il mio impegnato saggio su “Eurasia”, 1/2006. La Cina proviene da un modo di produzione asiatico, e quindi non le sono applicabili le categorie socio-politiche occidentali, che invece si sono sviluppate attraverso il processo schiavismo-feudalesimo-capitalismo fino ad oggi. Ogni sovrapposizione di categorie nate per capire la Grecia, Roma, il medioevo, lo stato assolutistico moderno, l’illuminismo, eccetera, è fuorviante. Filosoficamente parlando (p. 113), l’oggetto storico tradizionale della filosofia cinese non è mai stata la verità (teorica), ma l’armonia (pratica). Platone non è quindi sovrapponibile a Confucio. L’impostazione maoista della teoria della contraddizione (l’uno si divide sempre in due) risale a una bimillenaria tradizione anti-confuciana, prevalentemente legista e taoista. Sono in questo debitore del mio amico sinologo tedesco (orientale) Ralf Moritz. Dopo la morte di Mao, che fu certamente ostile a Confucio (pensiamo alla campagna contro Confucio-Lin Piao), il ritorno a Confucio segnala la messa al primo posto della “ricerca dell’armonia” dopo gli sconvolgimenti del trentennio 1946-1976.
Personalmente, vedo questo molto di buon occhio. Non ho mai concepito il socialismo alla Sartre (rivoluzione permanente dei gruppi-in-fusione contro il pratico-inerte in preda al parossismo della finalità-progetto), ma l’ho sempre concepito alla Lukacs (stabilizzazione di una vita quotidiana non nel senso di Bakunin, ma di Aristotele e di Hegel). Quindi non ho obiezioni. Ma non vedo perché lo sviluppo capitalistico della Cina, sia pure con la benefica presenza di un controllo statale macroeconomico che i dissidenti filo-americani incoscienti vorrebbero abolire, debba essere tout court connotato come il socialismo del XXI secolo. Se lo si vuol connotare come una benefica correzione di rotta rispetto all’estremismo di tipo staliniano e/o trotzkista sono d’accordo. Ma penso che da noi, in Italia e in Occidente, non abbia più senso ricadere nello “stato-guida”, anche solo simbolico senza più Komintern e Cominform, ma sia molto più utile riprendere una discussione sensata sul socialismo, impossibile finché questa discussione ci sarà “sequestrata” dal jet-set di sinistra tipo “Manifesto”, “Liberazione” e altri giornaletti sedimentati dalla tradizione anarcoide del Sessantotto.
Ma questa è un’altra storia. La vera storia3”.
Possiamo comprendere la Cina, solo se consideriamo che essa è parte di una storia che ha il suo fondamento nella proprietà del suolo che nel modo di produzione asiatico era dell’Imperatore e ora è dello stato e ciò naturalmente è il katechon a forme di individualismo proprietario senza limiti e confini:
“Il modo di produzione asiatico, di cui Marx parla a lungo (cfr. K. Marx - F. Engels, India Cina Russia, Il Saggiatore, Milano 1960), comporta da un lato la proprietà dello stato dispotico sulla terra, e dall'altro l'autonomia produttiva reale delle collettività contadine subalterne. Nulla a che vedere, come si vede, con lo schiavismo antico greco-romano e con il feudalesimo occidentale europeo, due modelli storici che sono serviti a Marx per elaborare le due tipologie rispettive di modo di produzione schiavistico e feudale. La proprietà esclusiva dello stato dispotico sulla terra, unita con l'autonomia produttiva reale delle collettività prevalentemente contadine, configura un modello sociale, economico, politico e culturale assolutamente non-occidentale (nel bene e nel male, questa è un'altra questione da discutere a parte), che in forme diverse e specifiche può essere riscontrato in Cina, in India, presso gli Incas del Perù, eccetera. Questo modello, detto asiatico, non deve però essere confuso con due altri modelli anch'essi non occidentali, ma qualitativamente diversi, come quello antico-orientale (antico Egitto, antica Mesopotamia, antica Cine ed India delle prime civiltà fluviali ed idrauliche, eccetera) e come quello africano, basato sul ruolo produttivo e strutturale dei linguaggi delle famiglie allargate e della divisione del lavoro sociale fra sessi e generazioni che si organizzano entrambi autonomamente in senso culturale e politico. La Cina è stato il massimo modello storico di modo di produzione asiatico. E allora chi vuole parlare di Mao come semplice ammiratore di Stalin e nemico di Krusciov deve essere invitato, educatamente ma anche risolutamente, a prendersi un supplemento di studio4.
Il dato di fatto inaggirabile è il seguente: il forte dirigismo non comporta il socialismo. L’IRI non ha portato al socialismo in Italia. L’intervento dello stato in economia non è garanzia di socialismo, anzi spesso lo stato è stato ed è agli ordini delle oligarchie. Il denaro ha un potere infiltrante e corruttivo notevole. Coloro che detengono mezzi di produzione e denaro possono bucare i filtri e i limiti istituzionali.
Socialismo e comunismo non sono riducibili a successi materiali e a strategie di controllo dell’economia per implementare la produzione. Socialismo e comunismo con densità differenti hanno lo scopo di fondare e progettare uno stato-comunità conforme alla natura umana. Le critiche di Costanzo Preve hanno avuto lo scopo di chiarire con l’arte della definizione, che mai dovrebbe mancare a ogni filosofo di razza, il comunismo da ciò che potrebbe sembrare tale in modo da non cadere in errori che spesso hanno la loro causa nel vuoto politico dei nostri terribili anni. Resta un dato di fatto, la Cina ci insegna l’autonomia e la difesa degli interessi sovrani, pertanto anche noi europei, se riconquistiamo la nostra identità e indipendenza potremmo sviluppare un modello economico e sociale coerente con la nostra storia e con la tradizione comunista europea e, forse, se intraprendessimo tale difficile sentiero potremmo essere catalizzatori popolari di una nuova progettualità a nostra misura. Si resta colonizzati nella mente, se per sfuggire a uno stato colonialista (Stati Uniti), si cerca la soluzione in un altro stato. Liberarsi dalle tossine del colonialismo è percorso lungo e difficile. L’abitudine a dipendere è il male che ammorba l’Europa, e l’Italia, in particolare occupata da più di cento basi NATO e prona a imitare in ogni campo il mondo anglosassone e sempre pronta a distruggere la lingua, la cultura, la storia e il suo paesaggio per trasformarsi in una bieca copia del dominatore. Forse, in modo inconscio, tale atteggiamento diffuso cela il desiderio di nascondere l’umiliazione quotidiana rimuovendo la propria identità e identificandosi con i dominatori. Da questa trappola bisogna uscire.
Quindi se questi dati fossero veri, i cinesi non sciopererebbero praticamente mai... se questi dati fossero veri.
Ma come tu stesso affermi queste statistiche provengono da un'unica fonte, questa mitica CLB.
Peccato che basta continuare un attimo le ricerche su internet per trovare vari esempi di notizie dalle fonti più disparate (e dalle più disparate tendenze politiche), che tendono, se non definitivamente a falsificare questi dati, certamente ad indebolirli. Ecco degli esempi:
https://www.panorama.it/attualita/economia/foxconn-fabbrica-iphone-rivolta-lavoratori
https://pmli.it/foxconnapplecina.htm
https://contropiano.org/news/aggiornamenti-in-breve/esteri/2022/11/25/gli-scontri-alla-foxconn-di-zhengzhou-e-dintorni-0154710
L'ultimo articolo è interessante perchè fornisce un esempio di scontro il cui risultato (anche se non intenzionalmente ricercato) è stato un aumento, almeno temporaneo, delle retribuzioni.
La conclusione dell'articolo pare proprio riferirsi ai dati che tu riporti:
"Da ultimo, non so chi abbia usato per primo l’espressione “un caso raro/unico di resistenza in Cina”, ma è diventato subito un luogo comune sui giornali.
Fortunatamente non è così. Di vertenze e lotte se ne documentano a centinaia ogni anno, ben sapendo che riusciamo ad avere informazioni solo su una frazione di quanto accade sul terreno."
Insomma, in definitiva, apprezzo le tue argomentazioni e ti ringrazio ancora per lo scambio, ma mi permetto di dubitare delle tue conclusioni.
Un saluto e un abbraccio e... alla prossima.
Fabio
https://www.minjian-danganguan.org/s/china-unofficial/item/3768
quindi avrebbe avuto tutto l'interesse a GONFIARE i casi, ad aumentare i numeri. E non è riuscita ad andare oltre quelli riportati.
Se leggi l'articolo in inglese trovi che in trent'anni il lavoro antigovernativo di questa organizzazione è stato molto approfondito, serio e capillare. Al punto che i suoi dati sono stati riferimento costante per la saggistica sull'argomento, oltre che materiale di consultazione in loco (qui la voce nel catalogo dell'università di Napoli)
https://catalogo.share-cat.unina.it/sharecat/resource?uri=UNINA9910895537403321&v=l&dcnr=5
il 12 giugno, quando la notizia della improvvisa chiusura di tutto, sito pagine instagram eccetera di punto in bianco, ha fatto il giro del mondo, i siti antigovernativi emanazione degli USA avevano già fatto i mirror dei file raccolti in trent'anni:
https://www.minjian-danganguan.org/s/china-unofficial/item/3768
interessante, tra l'altro, il report sul 2024 con relative cartine (questo solo in cinese)
https://att.laborinfocn5.com/articles/67471
Come mai han chiuso i battenti di punto in bianco? HKG non è più zona franca. E la Cina ha deciso di fare un giro di vite.
Personalmente mi aveva colpito, da quando sono uscito dall'aeroporto di Shanghai, discretamente, ma efficacemente, me come tutti gli automobilisti, ero flessciato ed eravamo flescciati ogni cinque minuti. All'inizio pensavo fosse una multa che si era beccato il primo fornitore che ci era venuto a prendere, a me in quanto interprete e a chi mi aveva assunto per questa dieci giorni che ci ha portato da Shanghai a Pechino passando per Ningbo, Changzhou, Nanjing, Changsha, Shenzhen, Zibo e altri mirabolanti luoghi del miracolo economico cinese...
Poi lo stesso padrone cinese ci ha spiegato che era "tutto normale" e ti ci abitui a essere flessciato, ai controlli di passaporto ovunque, anche nella stazione più sperduta (e a tutti, nel caso degli autoctoni al loro hukou 户口, passaporto interno), ai riconoscimenti facciali non solo in ingresso e in uscita, ma anche random per strada con telecamere apposite.
Non so come potranno esser fatte statistiche di questo tipo da quest'anno in avanti, sinceramente. CLB era un'organizzazione di cinesi dissidenti, filoamericani, traditori, chiamiamoli come vogliamo, ma cinesi. E riusciva a recuperare capillarmente dati offrendo servizi a livello nazionale di tutela legale e non. Utilizzando il porto franco di HKG. che oggi è sempre meno porto franco, non tanto per il riciclaggio di RMB in USD e viceversa attraverso gli HKD... quello c'è sempre e le lavanderie centrifugano che è un piacere, quanto per chi cercava in questa isoletta un punto d'appoggio privilegiato per operare sul territorio della RPC stando dentro ma stando fuori al contempo.
Tra l'altro nella pagina cinese si vedono numeri anche in calo nel corso del decennio e anche dopo la parentesi pandemica:
https://media.laborinfocn6.com/u9Gepfwk3A1emKouCVfGGKrsX1TyB02uI5G-u1jIj9s=
Il che non avrà fatto sicuramente piacere al sopravvissuto a Tian An Men, alle patrie galere e alla TBC ivi contratta, nonché fondatore del CLB.
Ecco perché a logica i dati che forniscono e che sono capillari circa l'intero continente cinese appaiono realistici. Anzi, se posso calcare la mano con una serrata di padroncini, e calchiamola che non fa male...
boh... chi vivrà vedrà...
un abbraccio e grazie di questo approfondimento, passo e chiudo anch'io...
paolo selmi