Politica dei dazi, multipolarismo e rischio di crisi del dollaro: qualche riflessione
di Andrea Fumagalli
Si sa che a furia di ripetere il falso, la menzogna si invera. Media mainstream e governanti europei accettano passivamente l’idea trumpiana che i rapporti economici tra gli Usa e l’Unione Europea siano del tutto squilibrati a vantaggio dell’Europa, capace di esportare negli Usa molto più di ciò che importa. In tale contesto, i dazi vengono così legittimati e giustificati e, tutto sommato, il raggiungimento di un accordo che li posiziona al 15% non è poi tanto male. Si dimentica, tuttavia, che tale accordo rimane valido solo se accompagnato da 600 miliardi di dollari di investimenti oltreoceano e 750 miliardi in forniture energetiche americane, gnl in testa, nei prossimi tre anni. Considerando che ad oggi l’importazione in Europa di prodotti energetici dagli Usa è pari a 75 miliardi, difficilmente questa condizione potrà essere rispettata.
Ma i rapporti economici tra Usa ed Europa stanno realmente come millantato da Trump?
I dati ufficiali pubblicati dall’ufficio statistico del Consiglio d’Europa raccontano un’altra storia.
Nel 2024, per quanto riguarda la bilancia commerciale (ovvero l’export e import di merci e servizi), considerando le sole merci, si registra un surplus commerciale a favore dell’Europa di ben 198 miliardi di euro (532,3 miliardi di euro è il valore delle esportazioni dell’UE verso gli USA contro 334,8 miliardi di euro delle importazioni dagli USA). Ma se prendiamo in esame anche i servizi (soprattutto quelli intangibili), la situazione cambia radicalmente. Gli Usa infatti presentano un surplus commerciale di 148 miliardi, a fronte di un export Usa verso l’Europa pari a 334,5 miliardi e import dagli Usa in Ue di 482,5 miliardi. Ne consegue che l’Europa presenta un surplus commerciale complessivo di 50 miliardi, cioè solo il 3% dell’intero interscambio di merci e servizi tra le due aree economiche (pari a 1.684,1 miliardi).
Ma non basta. Per dare un quadro esaustivo del frapporti economici tra Usa e UE occorre considerare anche i movimenti di capitali, che comprendono l’insieme delle transazioni finanziarie e creditizie.
Secondo i dati del Fondo monetario internazionale, il saldo finanziario bilaterale Ue-Usa nel 2024 alla voce investimenti diretti esteri è pressoché in equilibrio. Nel 2022 – ultimo dato disponibile -, erano gli Usa a essere in avanzo sulle transazioni finanziarie, ovvero a rivendicare una prevalenza di attività (assets) rispetto alle passività (liabilities) dovute ai Paesi oltreoceano, con un avanzo di circa $49 miliardi.
La bilancia dei pagamenti (bilancia commerciale e movimenti dei capitali) tra Usa e UE è quindi sostanzialmente in pareggio. Di conseguenza non c’è nessuna ragione economica che può legittimare l’imposizione di dazi.
Vi sono però giustificazioni e motivazioni politiche. È noto che Trump ha ereditato dall’amministrazione Biden un’economia con un tasso di crescita positivo, ma con elevata inflazione e un forte e crescente indebitamento, sia nei conti con l’estero che in termini di debito pubblico. Un indebitamento che richiede un costante finanziamento sui mercati speculativi finanziari e sul mercato dei titoli pubblici. La politica monetaria Usa per tale motivo non ha ritenuto opportuno abbassare i tassi d’interesse, anche in previsione di una riduzione dell’inflazione (entrando in conflitto con lo stesso Trump) per mantenere quel ruolo di attrattore di capitali esteri necessari per ripagare i due debiti. La possibilità di attrarre capitali esteri (soprattutto dai paesi che vantano i più alti surplus commerciali con gli Usa, Cina e Giappone in testa) dipende dalla capacità del dollaro di mantenere la sua posizione dominante di valuta di riserva e di scambio internazionale.
In contemporanea è necessario che anche gli indici delle borse americane (Dow Jones, Nasdaq, S&P500) si mantengano su livelli elevati, senza pagare eccessivamente le conseguenze di alti tassi d’interesse.
Il primo semestre 2025 ha dato segnali contradditori che al momento non consentono ancora di valutare l’efficacia della politica di Trump nell’obiettivo di rimarcare l’egemonia unipolare Usa come principale condizione (tra le altre) per mantenere la stabilità e la solvibilità economica.
L’andamento del PIL Usa ha fatto registrare un aumento del 3% nel II trimestre dopo un calo, inatteso, dello 0,5% nel I trimestre (dovuto all’incremento dell’import dei semilavorati del 41% per fare magazzino prima dell’imposizione dei dazi). Il dato del II trimestre, tuttavia, non deve ingannare. Uno dei principali motori di questo rimbalzo è stato il contributo delle esportazioni nette (grazie anche, come vedremo, alla svalutazione del dollaro), che hanno aggiunto ben 5 punti percentuali al PIL. Tuttavia, il quadro non è completamente roseo: i consumi interni – storicamente il cuore pulsante dell’economia americana – hanno rallentato, con un aumento dell’1,4%, registrando, in due trimestri consecutivi, il ritmo più contenuto da quando è scoppiata la pandemia. Anche gli investimenti privati mostrano segni di indebolimento, mentre la domanda interna, misurata dalle vendite finali ai consumatori privati statunitensi, è cresciuta solo dell’1,2%, toccando il minimo da fine 2022. L’inflazione, infine, si è attestata al 2,5%, confermando che le pressioni inflazionistiche restano presenti, anche perché tale dato non tiene conto dell’andamento dei prezzi dei beni energetici e alimentari.
Sul piano finanziario, il movimento dei capitali tra Usa ed Europa a partire dal 2025 ha mostrato una inversione di tendenza, con lo spostamento di fondi dagli Stati Uniti verso il continente europeo (e anche verso altri paesi), con il 39% dei gestori di fondi che ha sovrappesato le azioni europee a marzo 2025 (ovvero, assegnato un peso maggiore a una determinata azione o titolo rispetto a come sarebbe rappresentato nell’indice di riferimento: indice di aspettative positive al rialzo), mentre il 23% ha sottopesato i titoli statunitensi, la percentuale più alta mai registrata da Bank of America.
Tale dinamica significa che è diminuita la fiducia negli investimenti finanziari verso gli Stati Uniti e la capacità attrattiva di Wall Street, dopo che al 30 giugno 2024 – secondo i dati del Ministero del Tesoro – il valore totale degli investimenti esteri in attività finanziarie americane aveva raggiunto il suo massimo storico con un valore pari a 30.881 miliardi di dollari con un aumento di circa il 20% rispetto al 30 giugno 2023: tale cifra consisteva per il 60% circa di azioni delle corporation americane e per il restante 40% di titoli di stato. I principali creditori risultano essere, in ordine di impegno, la Gran Bretagna, Isole Cayman, Giappone, Canada, Lussemburgo, Irlanda, Cina e Svizzera. Nel corso dell’ultimo anno, il blocco Cina + Hong Kong ha venduto titoli di stato americani per un importo pari a 30 miliardi nel mese di marzo 2025, riducendo lo stock di titoli USA a 1033 miliardi di dollari. Nonostante la flessione mensile, su base annua la Cina registra ancora un saldo netto di acquisto di titoli americani per 53 miliardi di dollari. Rispetto al picco del 2015, il saldo complessivo ha registrato una contrazione di circa un terzo, a conferma di una strategia di progressiva diversificazione degli investimenti cinesi delle riserve Usa in valuta estera. È prevedibile che tale dinamica continui anche nell’immediato futuro e possa essere accentuata dal conflitto commerciale in atto sui dazi.
Il risultato di questa inversione di tendenza ha avuto effetti non secondari sulla quotazione del dollaro, che a partire da quest’anno ha cominciato a svalutarsi per una quota più o meno del 10%. È difficile prevedere se tale svalutazione del dollaro sia solo congiunturale o nasconda qualcosa di più strutturale. La politica dei dazi di Trump nel breve periodo potrebbe favorire un incremento di entrate per le casse federali. Secondo Il New York Times, con i dazi introdotti da aprile, prima ancora che entrino in vigore dall’8 agosto quelli nuovi, Donald Trump ha incassato finora 152 miliardi di dollari, circa il doppio dei 78 miliardi di dollari entrati nelle casse federali nello stesso periodo dell’anno fiscale precedente. Solo a luglio le tariffe hanno fruttato quasi 30 miliardi di dollari. Gli analisti prevedono che nel tempo i nuovi dazi di agosto potrebbero generare entrate aggiuntive per oltre 2000 miliardi di dollari nel prossimo decennio, ovvero 200 miliardi all’anno. Un effetto positivo che rischia però di essere vanificato dal rischio di un aumento dei prezzi. Secondo il Budget Lab di Yale, un centro di ricerca politica indipendente, i prezzi aumenteranno dell’1,8% nel breve termine, con una perdita di reddito di 2.400 dollari per famiglia.
Inoltre Trump, grazie all’effetto clava della politica dei dazi, soprattutto in sede di trattativa con l’Europa, ha ottenuto notevoli vantaggi fiscali per le imprese americane. Durante la riunione del G7 in Canada che si è svolto lo scorso 16-17 giugno, si è deciso, su pressione degli Usa, di non applicare la tassa minima globale sui profitti delle multinazionali che governano le piattaforme globali sotto il controllo americano. La proposta era già di per sé minima, considerando che l’aliquota proposta era pari solo al 15% (mentre ogni lavorator* o pensionat* paga aliquote ben più alte) ma era comunque qualcosa. C’è anche chi ha parlato, sfidando il ridicolo, di “compromesso onorevole” (il ministro dell’economia e delle finanze Giancarlo Giorgetti).
Ma non basta. In sede di discussione del bilancio pluriennale europeo 2028-2034, oltre a ratificare il piano “ReArm Europe (che porta, come richiesto sempre da Trump e dalla Nato, le spese militari di ogni paese membro al 6% del Pil), la Commissione Europea ha deliberato di eliminare anche la proposta della digital tax, prelievo mirato a colpire i big della rete come Google, Meta e Amazon.
L’insieme di queste decisioni ha galvanizzato la borsa americana, a seguito dei crescenti profitti che le imprese americane si apprestano a ottenere, grazie alla complicità fiscale. La svalutazione della valuta americana e la riduzione degli investimenti esteri in Usa non ha, per il momento, avuto effetto sulle aspettative speculative in atto, se non per un breve periodo. Dopo aver toccato il massimo a fine gennaio 2025 (44.850 punti), l’indice Dow Jones mostra segni di cedimento proprio per la svalutazione della valuta Usa e le incertezze della politica economica, sino a toccare il minimo a inizio aprile (37.645 punti), per stabilizzarsi sui 40.000 punti sino a metà giugno, quando le aspettative sono ritornate positive per le corporation americane. Oggi, il Dow Jones si colloca sui 45.000 punti. Meglio ancora ha fatto lo S&P500 che a fine luglio ha superato del 4% il massimo storico di inizio febbraio 2025.
Siamo dunque in presenza di segnali ambivalenti. Ma su un punto si può concordare: nonostante gli sforzi corporativi di Trump, la capacità Usa di guidare e dominare l’economia mondiale come ai bei tempi del Washington Consensus, a cavallo del millennio, è in declino. Non solo per le difficoltà debitorie dell’economia statunitense ma soprattutto per il fatto che negli ultimi trent’anni sono nati competitors sempre più agguerriti su scala globale, in grado di operare con innovatività, efficienza e cultura economica diversa. Stiamo ovviamente parlando di Cina, India, Brasile e gli altri paesi Brics+, non a caso i paesi che maggiormente sono stati attaccati da Trump con la politica dei dazi. È interessante notare che per India e Brasile, la giustificazione dei dazi non è di natura economica ma politica. Il Brasile viene sanzionato perché Lula sta avviando il procedimento di accusa per colpo di Stato al precedente presidente Bolsonaro e l’India perché acquista petrolio e gas dalla Russia di Putin. Più sfumata la posizione con la Cina e altri paesi del Sud-Est asiatico, con l’esclusione dei più piccoli. Tale prudenza non sorprende. Le grandi imprese americane sono fortemente internazionalizzate e hanno bisogno delle produzioni asiatiche di semilavorati e delle materie prime, oggi nevralgiche per l’innovazione tecnologica nell’industria dell’elettrico, dei big data e dell’intelligenza artificiale. L’introduzione di dazi in questi settori avrebbe forti ripercussioni sui prezzi dei beni americani e sulla profittabilità delle aziende. I proclami di Trump di riterritorializzare la produzione e/o di ridefinire linee di subfornitura “friend-shoring” (cioè con paesi amici, che non gravitano nell’area Brics+) difficilmente potranno diventare realtà nel breve termine.
Ma l’egemonia politica internazionale non si gioca solo sul piano economico, ma anche logistico, militare e finanziario. A quest’ultimo riguardo, come abbiamo visto, è in atto, ma ancora in forma debole, un processo di de-dollarizzazione, seppur in presenza di una centralità delle borse americane del dettare le convenzioni speculative.
Interessante notare la prudenza della Cina (e della Russia) di non accelerare verso la creazione di una moneta internazionale alternativa al dollaro (che si dovrebbe chiamare R5), soprattutto se ancorata alle terre rare. Questo è stato uno dei punti in agenda durante il vertice Brics+ di Johannesburg del 2023.Ma tale opzione ha avuto al momento uno stop nell’incontro Brics+ 2024 a Kazan, dove si è chiesto piuttosto una riforma del FMI e nel summit recente di Rio 2025 dove i BRICS+ hanno chiesto maggior potere decisionale all’interno del FMI. In ogni caso, la realtà ci dice che l’ammontare delle transazioni commerciali tra i paesi BRICS che non si basano sul sistema Swift (dollaro) sono in forte aumento e che oggi tali transazioni rappresentano circa un quarto del commercio mondiale (24%). Se i tempi per una nuova valuta di riferimento internazionale in grado di sostituire il dollaro non sono ancora maturi, Trump può favorire tale maturazione se la politica dei dazi con l’obiettivo di ridurre il debito estero favorisce una fase recessiva e quindi una possibile svalutazione del dollaro, come sta, in parte, già avvenendo.
Sul piano logistico-tecnologico, la supremazia dei BRICS+ è oggi senza discussione, anche se è in corso un tentativo di recupero delle big tech americane. Il problema piuttosto è l’emergere di tensioni competitive all’interno di un gruppo eterogeneo come quello dei Brics soprattutto tra India e Cina.
Sul piano militare, la supremazia Usa non è soverchiante, anzi. Nel campo della tecnologia militare e dei nuovi metodi di combattimento (i droni), ad esempio, la Russia dispone di tecnologia più avanzata e la Cina è il paese che ha maggiormente aumentato la spesa militare. La richiesta di riarmo europeo a vantaggio del militare Usa cerca di sopperire a questa situazione.
In conclusione, la visione degli Usa come potenza egemone richiede oggi una qualche revisione così come l’idea che oggi esiste un unico imperialismo, quello statunitense. Esistono diversi imperialismi con metodologie e logiche diverse (basti pensare alla penetrazione commerciale della Cina in Africa e oggi in Sudamerica). È il frutto della globalizzazione neoliberista. Da questo punto di vista, aveva ragione Marx nel Discorso sul libero scambio, pronunciato all’Associazione Democratica di Bruxelles il 9 gennaio 1848 e poi pubblicato in appendice a Miseria della filosofia:
“… ai nostri giorni il sistema protezionista è conservatore, mentre il sistema del libero scambio è distruttivo. Il libero scambio dissolve le antiche nazionalità e spinge all’estremo l’antagonismo fra la borghesia e il proletariato. In una parola, il sistema della libertà di commercio affretta la rivoluzione sociale. È solo per questo esito rivoluzionario, signori, che io voto in favore del libero scambio”.