Anchorage: avviato il disgelo Usa-Russia
di Piccole Note
Ad Anchorage non si è tenuto solo un incontro tra Trump e Putin, che certo è stato il momento più simbolico, ma tra la Russia e l’America. Infatti, insieme a Putin sono sbarcati in Alaska il ministro degli Esteri Sergej Lavrov, il Ceo del fondo sovrano russo Kirill Dmitriev, il Consigliere di Putin Jurij Ušakov, il ministro della Difesa Andrei Belousov e il ministro delle finanze Anton Siluanov.
Ad accoglierli, oltre a Trump, il Segretario di Stato Marco Rubio, l’inviato di Trump Steve Witkoff, il Segretario del Commercio Howard Lutnick, il Segretario del Tesoro Scott Bessent, il Segretario della Difesa Pete Hegseth, il direttore della CIA John Ratcliffe.
Se si tiene presente questo, si comprende bene che il summit aveva un respiro ben più ampio del conflitto ucraino, tema comunque necessitato, ed era diretto più che a chiudere nell’immediato quello, cosa impossibile a meno di un miracolo, a ripristinare le relazioni tra le due potenze, collassate definitivamente dal 2022.
Abbiamo usato l’avverbio definitivamente perché i rapporti tra Mosca e Washington non si sono rotti all’inizio della guerra ucraina, ma da prima dell’invasione russa. Incrinati dal golpe di Maidan, che ha innescato la prima e seconda guerra ucraina, sono affondati a seguito di due campagne mediatico-politiche travolgenti: il russiagate e l’ucrainagate.
Scandali creati ad arte dell’establishment Usa per impedire che Trump tentasse di ricomporre le relazioni lese dalla criticità ucraina, e che hanno tagliato i ponti tra le due potenze, poi inceneriti definitivamente nel 2022.
Importante questa cronostoria per comprendere come la conflittualità Usa-Russia esuli dal conflitto in corso, che l’ha solo acuita, e che, di conseguenza, il ripristino delle relazioni tra i due Paesi, esula da esso.
Un processo giocoforza lungo e non lineare, a causa dei forti venti di contrasto, che può essere lubrificato dagli scambi commerciali, da cui l’importanza della presenza ad Anchorage dei ministri ai quali le due potenze hanno affidato tali responsabilità.
Da qui anche l’importanza del cenno di Putin, in conferenza stampa, ai vari contatti telefonici con il suo omologo americano e alle ripetute visite di Witkoff a Mosca, come anche la conclusione dell’intervento di Trump, nella quale ha annunciato che i contatti sarebbero proseguiti e che i due presidenti si sarebbero incontrati di nuovo e “presto”.
Cenno che ha dato vita a un teatrino – presumibilmente preparato – con Putin che lo ha invitato pubblicamente a Mosca e Trump a rispondere “interessante”, aggiungendo che “ci avrebbe pensato” (di una visita moscovita di Trump si parla da giorni, ma resta difficile).
Probabile che, se i due riusciranno a incontrarsi a breve, sarà anche per annunciare qualche accordo sul controllo delle testate nucleari, considerando che il New START, l’unico rimasto in vigore dei vari trattati sul tema, scadrà a inizi febbraio.
Siamo alquanto certi che la criticità sia stata affrontata ad Anchorage, dal momento che Putin, prima dell’incontro, aveva accennato alla necessità di raggiungere “accordi nel settore del controllo delle armi strategiche offensive”.
Ma siamo ancora ai primi passi di un processo complesso, che deve necessariamente ricomprendere la Cina e probabilmente anche altri Paesi dotati di testate atomiche (ad esempio Francia e Gran Bretagna).
Riuscire a ripristinare tale controllo avrebbe anche un alto significato simbolico, quello di ricacciare oltre l’orizzonte degli eventi la prospettiva di una guerra termonucleare globale, che negli ultimi anni i fautori delle guerre infinite hanno accarezzato con lucida follia, in particolare con la strategia dell’escalation controllata dispiegata in Ucraina.
Quanto al conflitto ucraino, Trump ha dichiarato di aver raggiunto degli accordi con i russi, senza specificare quali, aggiungendo che restano distanze, superabili, su due punti. Nessun annuncio di un cessate il fuoco, d’altronde non era possibile senza un accordo con l’Ucraina.
Ma se la stampa mainstream batte su questa assenza è solo per depotenziare la portata del vertice, per sancirne il fallimento e accusare Trump di aver ceduto a Putin. Un banale, quanto prevedibile, tentativo di cancellare il summit dal calendario della Storia.
Subito dopo il vertice, Trump ha iniziato il faticoso dialogo con Zelensky e i leader europei, e stranamente anche con la Nato (ormai diventata un soggetto politico e non più un organismo di Difesa: perversa distorsione), nel tentativo di avviare il processo di pace.
Sarà difficile, anche perché ormai i Paesi europei sono aggiogati al bellicoso carro neocon, da cui i probabili sabotaggi paventati anche da Putin, ma era doveroso iniziare le danze.
Le difficoltà sono acuite dal fatto che la guerra ucraina è mondiale, data la partecipazione globale. Peraltro, sono stati espliciti, in tal senso, i ripetuti riferimenti di Putin alla collaborazione tra Russia e Stati Uniti al tempo della Seconda guerra mondiale.
Resta che gli sviluppi del teatro di guerra sono ineludibili e dovrebbero aiutare i fautori della conflitto a oltranza a comprendere che è meglio una pace che può essere rivenduta come una sconfitta di Putin – al quale sarebbe stata preclusa la via di Kiev – piuttosto che una sconfitta strategica, sempre più incombente.
A margine, un momento molto significativo dell’incontro è stato quando, nel salutare il suo omologo che l’attendeva ai piedi dell’aereo, Putin si è detto lieto di vederlo “vivo”. Un cenno che evidenzia il contrasto che Trump sta affrontando nel suo tentativo, dal respiro epocale, di ri-orientare la geopolitica americana, che ha, giocoforza, una prospettiva globale.
Non è un caso che, subito dopo Anchorage, Trump abbia dichiarato che Xi gli ha “promesso che non invaderà Taiwan“. Per la pace globale serve una nuova Yalta, e quindi, anche la Cina.