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Accordi fuffa: la deindustrializzazione Usa è irreversibile

di Joseph Halevi*

impossibile reindustrializzare usaPenso che la formazione degli strati politici europei sia tale ormai che non riescono proprio a trovare, a individuare, spazi per i propri paesi. Di conseguenza sono piuttosto orientato a pensare che si allineano e basta, sapendo che ci saranno dei costi da pagare, ma di scaricarli poi sulla popolazione normale, diciamo così.

Non riesco proprio a pensare, a vedere, dei politici autonomi, capaci di dare un pensiero… L’ultimo che mi viene in mente è Kohl, per esempio, dopo non ne vedo. Forse un po’ Schroeder, però ha avuto la grossa responsabilità di accelerare la finanziarizzazione della Germania, tra l’altro, e quindi di rompere questa coerenza che c’era tra sistema bancario e sistema industriale tedesco che dava una notevole forza alla Germania.

L’Italia poi, con la fine della prima Repubblica, non ha più niente, non ha più nulla, quindi io non riesco a individuare spazi di autonomia, perché se si devono individuare degli spazi di autonomia bisogna pensare che la prima cosa che avrebbero dovuto proteggere è le risorse energetiche, è ovvio, le fonti energetiche. Non le hanno protette.

Voglio dire, è stato fatto saltare il North Stream 2 e questi non hanno nemmeno protestato. Di conseguenza, io proprio non vedo nessuno spazio in quel senso.

Però qui vorrei dire alcune cose: bisogna vedere quale è l’obiettivo statunitense. Noi siamo in una nuova fase del: “i problemi sono vostri e i dollari sono nostri”. John Connally, che fu il segretario al Tesoro del presidente Nixon nella crisi del ’71, proprio in un incontro di 10 paesi a Roma, alla fine del ’71, dopo l’abbandono della parità aurea decretata da Nixon il 15 agosto del 1971 tra dollaro e oro.

A Roma in questa riunione lui disse: “il dollaro è nostro, però i problemi – sottinteso del dollaro – sono i vostri”. Così disse all’Europa, al Giappone … agli europei e ai giapponesi, sostanzialmente. E noi ci ritroviamo di nuovo di fronte a questa situazione.

Quindi, cosa vogliono gli Stati Uniti? Gli Stati Uniti hanno dei problemi sostanzialmente insormontabili per il momento, nel senso che loro non possono reindustrializzare. Non possono perché hanno perso il know how. Questo è molto importante da capire.

Un’industria, le grandi società americane, ecc, si gestiscono le loro filiere produttive, va bene? Si organizzano liberamente. La General Motors, o qualunque altra… sono sostanzialmente come degli Stati nello Stato e organizzano le loro filiere produttive, dove la produzione è sempre più esternalizzata e loro diventano sostanzialmente dei centri direzionali e dei centri di distribuzione.

Questo è il meccanismo. Un po’ meno nell’auto, ma anche lì c’è questo meccanismo, perché come mai – per esempio – il Messico e il Canada sono diventati dei grandi esportatori verso gli Stati Uniti? Mica è il risultato di una grande politica economica del Messico, e neanche il risultato di una politica economica del Canada…

Sono state decisioni da parte delle industrie soprattutto automobilistiche americane quelle di spostarsi sia in Messico sia in Canada. Va bene?

In Messico valeva il principio del costo del lavoro bassissimo, il salario bassissimo: in Canada vale il principio dei “costi socializzati”, perché il Canada ha un sistema sanitario nazionale, cosa che l’America non ha. Mentre nei contratti di lavoro, in America, ci devono mettere sia le pensioni, perché sono pagate dalla società, sia l’assistenza medica, idem. In Canada questo non c’è.

Quindi quello che hanno fatto i canadesi è predisporre, soprattutto nell’Ontario, le condizioni affinché le multinazionali americane possano spostarsi da Detroit… E poi è a due passi, sostanzialmente, devono attraversare lo stretto, e spostarsi nell’Ontario.

Nel Messico è stato proprio il costo del lavoro. Anche lì è stato predisposto l’ambiente ottimale. I messicani hanno fatto investimenti infrastrutturali, con autostrade, raccordi, e via dicendo che collegano direttamente con gli Stati Uniti, come Tijuana, Ciudad Juárez, ecc.

Il sistema americano non riesce a ribaltare la situazione, perché ormai è strutturalmente così, perché le stesse società americane hanno perso la focalizzazione sulla produzione. E’ semplice la cosa. Il problema viene affrontato dicendo: “dateci indietro i soldi che voi guadagnate esportando verso gli Stati Uniti”. Questa è la politica dei dazi di Trump.

La cosa che mi ha colpito, in parte, è che in questi accordi non viene specificata la capacità produttiva. Se c’è un accordo, per esempio, che l’Europa deve comprare 250 miliardi di dollari per tre anni, 750, di prodotti energetici, domanda: “dove è la capacità produttiva statunitense di fornire questi prodotti energetici?” Non è tantissima, non è detto che ci riescano, se non aumentando i prezzi su una quantità più bassa, però ai prezzi attuali non è detto che loro riescano a fornire questa capacità energetica.

E la stessa cosa vale per l’acquisto di armamenti. Mi sembra 600 miliardi, una cosa di questo tipo. Ma se lo steso Rutte ha detto, alcuni mesi fa, che la Russia produce in tre mesi ciò che la Nato, dalla costa del Pacifico americana fino alla Polonia, fino alla Turchia, fino ad Ankara ha detto, ciò che la Nato produce in un anno…

E alcuni tentativi, soprattutto per ciò che riguarda alcuni settori per loro importanti per il rifornimento di munizioni all’Ucraina – cioè artiglieria, proiettili per l’artiglieria pesante – non sono riusciti a far aumentare la produzione. Avviene per lo stesso motivo: la struttura produttiva non è più sotto il controllo, è completamente sfilacciata.

Ora persone come Draghi – in teoria gente come Prodi non dovrebbe essere come Draghi, dovrebbe sapere cosa è la produzione; in fondo lui era a capo dell’Iri, viene da una esperienza di economia produttiva concreta – questi altri non ne hanno alcune idea. Loro hanno degli schemi di competizione, di concorrenza, di prezzi, ma non hanno alcune idea di che cosa è la produzione. Veramente non hanno un’idea strutturale, ingegneristica, della produzione.

Quest’ultima è scomparsa [nell’Occidente euro-atlantico, ndr]. Questo è un prodotto culturale della finanziarizzazione, dove si ragiona su tutto in termini di rendimenti finanziari, si ragiona in termini di Pil. Si può ragionare anche in termini di Pil, però si deve saper rapportare il Pil alle varie composizioni del Pil.

Negli anni ’60, anche negli anni ’70, si capiva che se il Pil cresceva del 5 per cento – e in Italia allora cresceva del 5 per cento – questo aumento si riscontrava nella produzione effettiva: le automobili, lambrette, televisori, lavatrici. Quindi c’era un certo rapporto…

Ma adesso non c’è nessun rapporto, anche perché il Pil include le attività finanziarie, cui viene imputato un rendimento, e di conseguenza il Pil è completamente snaturato rispetto a quello che è dal punto di vista reale.

Quindi questi 600 miliardi di roba militare che devono comprare, non è detto che gli americani a fornirla. Perché non hanno le capacità produttive corrispondenti, visto che tutti dovrebbero adesso comprare dall’America. Anche il Giappone deve comprare e le capacità produttive non ci stanno, quindi o aumentano i prezzi o devono fare dei grossi investimenti. Ed i grossi investimenti non li vogliono fare.

Ma la stessa cosa vale anche nell’aviazione civile. Trump ha detto che c’è la prospettiva per la Boeing di vendere tanti aeroplani. Loro già sanno che devono produrre 5 mila aerei, che sono gli aerei “di rimpiazzo”, in sostituzione di quelli usati sia internamente che a livello internazionale. E sanno di avere un grosso problema già con questi primi 5 mila aerei: non sanno se riescono a soddisfare questa domanda.

Si consideri che la Cina, nei prossimi 10 anni, creerà una domanda di 9mila velivoli commerciali. Novemila. Infatti loro si sono messi a produrre il C119, il loro aereo di medio raggio. Anche i Russi svilupperanno il Sukhoi 100 e altro, ancora però non hanno in programma grandi produzioni; alcune decine l’anno, non di più. Questo quindi apre spazio per altre attività, ad altre produzioni. Quindi c’è un problema di dimensioni della capacità produttiva.

Secondo me molti di questi accordi sono fuffa, a dirla tutta. Il significato però è la dipendenza politica. L’accordo col Giappone è veramente emblematico, perché a Tokyo viene specificato che gli investimenti che i giapponesi dovrebbero effettuare negli Stati Uniti verranno realizzati a discrezione degli Stati Uniti. Saranno gli Stati Uniti, sarà il governo americano, in accordo con le corporation americane, a decidere come verranno utilizzati, dove verranno investiti quasi 600 miliardi.

Ecco, di questo si tratta. Questo significa che tutti questi paesi si legano ancora di più agli Stati Uniti.

Prendiamo per esempio contrario la Cina. Cosa sta facendo da un po’ di anni a questa parte? Quando i buoni del tesoro americani in possesso della Cina arrivano a scadenza, molti di questi non vengono rinnovati. Cioè, la Cina riceve i soldi, riceve i dollari, che riversa in genere sulla piazza di Hong Kong, perché il dollaro di Hong Kong è legata al dollaro americano, e con questi i dollari loro poi finanziano varie attività. Possono comprare dall’Africa, investire in America Latina o varie altre attività con questi dollari. Li usano anche come attività collaterali.

Insomma, non necessariamente li ritrasformano in acquisti di buoni del tesoro od obbligazioni americane. Lo fanno in maniera molto accorta, perché loro non vogliono un crollo del valore dei buoni americani, non vogliono un aumento del saggio di interesse, non vogliono una crisi finanziaria in America. E non la vogliono perché loro esportano, ecc.

Questa facoltà di gestire in maniera autonoma i dollari, un po’ come succedeva con l’eurodollaro (non so se qualcuno si ricorda dell’eurodollaro prima della crisi del ’71, quando Nixon abolì la convertibilità con l’oro), gli Stati Uniti non la permettono più. La Cina può, per la sua forza, ma per Giappone e per l’Europa non è permessa.

E tra l’altro: come funziona l’Europa? L’Europa mi sembra abbia il 17 per cento della liquidità in dollari. Non sono tantissimi, e quindi come ottiene i dollari? Attraverso lo swap, lo scambio dollari-euro che viene fatto dalla Federal Reserve. È la Federal Reserve che fornisce dollari all’Europa. Se viene ancora di più prosciugata di dollari l’Europa si troverà in difficoltà, in situazione ancora più dipendente rispetto alle operazioni della Federal Reserve. Questa è la realtà.

Quindi è una situazione lose, non è una situazione win-win. E’ una situazione lose, anche se lo è anche per gli Stati Uniti. Gli Usa non si re-industrializzano, questi soldi andranno nei circuiti finanziari, non nelle attività industriali. Questo è il mio giudizio.

 

La politica dei dazi di Trump

Certo, adesso i dazi costeranno 15 per cento di più le merci europee verso gli Stati Uniti, e saranno gli importatori americani a dover pagare. Quindi è una tassa sugli importatori americani, e questo ridurrà la domanda. Se vorrà controbattere, ovvero impedire la riduzione della domanda, dovranno essere abbassati i costi del 15 per cento in qualche modo, no?

Un modo per farlo sono ulteriori delocalizzazioni, magari in Algeria o in Marocco, oppure un nuovo schiacciamento dei salari. Probabilmente sarà una mistura, un miscuglio delle due cose.

Ma non ci sono più tanti posti dove de localizzare. C’è la Serbia, l’ex Jugoslavia, forse c’è ancora la Turchia, probabilmente c’è lì la possibilità di delocalizzare ancora. Lì stanno sorgendo due nuove zone di delocalizzazione, una in particolare che è stata visitata da Meloni da poco, e hanno tutto un programma di sviluppo.

Secondo Guido Salerno Aletta, che secondo me è uno dei migliori analisti che ci siano in Europa, che scrive su Milano Finanza, il governo algerino sta ricopiando letteralmente le leggi italiane dello sviluppo degli anni ’50-’60, stanno facendo un copia-e-incolla per avere una riproduzione dell’Italia: settore statale, parastatale ecc. Quella può essere un’altra zona di delocalizzazione, perché loro puntano moltissimo sullo sviluppo dell’industria automobilistica.

Un’altra è il Marocco, però ha una capacità dimensionale secondo me inferiore.

Quindi sicuramente ci saranno pressioni al ribasso sui salari, grazie a questa politica.

Però voglio dire una cosa. L’Europa si trova in questa situazione non per colpa degli Stati Uniti. Eccetto un periodo che va dal 1948 al 1959, quando vigeva l’Unione Europea dei pagamenti”, che permetteva lo sviluppo e la gestione degli squilibri commerciali. Questa idea dell’Unione Europea dei pagamenti era una iniziativa americana, soprattutto di due economisti in accordo con i paesi europei, che poi significava di fatto Germania e Francia – Robert Triffin e Charles Kindleberger – i quali non a caso hanno scritto gran parte delle loro cose su una rivista italiana della Banca Nazionale del Lavoro (Quarterly Review) e su Moneta e Credito, la sorella in lingua italiana della Banca Nazionale.

In quel periodo dell’unione dei pagamenti europei, il vincolo della bilancia commerciale veniva gestito istituzionalmente, cioè un paese che si trovava in surplus – subito, dal ’51 in poi, si trovò in surplus la Germania, soprattutto con il resto dell’Europa, mentre con gli Stati Uniti aveva un deficit, ma produceva tutti i beni capitali, tutti gli input, tutti i beni intermedi necessari.

Questo è un fatto naturale, non bisogna arrabbiarsi con i tedeschi per questo, questo è il risultato della loro grande industrializzazione bismarckiana. Era un fatto e nessun regime successivo lo ha ridotto; sono rimasti su quel sentiero di grande sviluppo dei beni strumentali.

I paesi che si trovavano in deficit avevano una serie di facilitazioni per poter affrontare questo deficit, tra i quali il fatto che il surplus tedesco veniva riciclato non finanziariamente, veniva riciclato realmente, cioè con acquisti effettivi e reali sui mercati dei paesi che erano in deficit.

L’Unione Europea dei pagamenti aveva uno spazio più grande del Mec, era molto più grande, andava fino alla Scandinavia, abbracciava un numero di paesi molto più ampio e cominciò prima del Mec. Questa era una condizione.

Dopo di che l’Europa è diventata un paese di conflittualità, di competitività interna, dove cioè ci si facevano le scarpe vicendevolmente.

Questo, negli anni ’60, si esprimeva nel fatto che ogni volta che un paese europeo andava in deficit della bilancia commerciale, effettuava immediatamente una politica conservatrice. Lo fece l’Italia nella famosa fase della congiuntura ’62-’63, lo fece la Francia più o meno nello stesso periodo.

L’orientamento era pro ciclico. Il problema delle bilance dei pagamenti a livello intraeuropeo non veniva per niente affrontato, veniva lasciato alla politica stop and go, come si diceva allora; è un termine inglese, ma gli inglesi l’adottarono molto senza grande successo, tra l’altro.

Alla fine, di fase in fase, quello che è venuto fuori col consolidarsi di politiche conservatrici dal punto di vista dello sviluppo della domanda europea e di non avere una visione – con la formazione dell’Unione Europea – di consolidamento a livello continentale, il risultato è stato che lo sbocco extraeuropeo è diventato più importante, quindi il vero luogo di sviluppo della domanda effettiva è quello esterno all’Europa, cioè gli Stati Uniti.

Perché con l’Asia hanno un deficit, con i paesi produttori di materie prime generalmente hanno un deficit… Non tanto la Germania, ma gli altri sì, perché poi alla fine significa che se la Germania non ha un deficit e gli altri ce l’hanno, come paesi produttori di materie prime questo significa che il problema tedesco del surplus si acuisce all’interno dell’Europa.

L’Europa ha finito per funzionare per dei paesi che accumulavano dei surplus, che erano Germania, Olanda, Svizzera (deve esser considerata come parte dell’Europa perché è completamente integrata all’economia tedesca), e paesi scandinavi, che avevano dei grossi surplus. Escludo la Norvegia, perché la Norvegia ha un surplus naturale dovuto al petrolio. Gli altri avevano come sbocchi attivi solo i mercati esterni all’Europa.

Questa non è colpa degli Stati Uniti… questa avviene per colpa del sistema istituzionale europeo, per come si è andato configurando nelle varie fasi. Dalla fase della Cee, dove i paesi si facevano la concorrenza attraverso la prociclità della dinamica della bilancia dei pagamenti, poi con la fase del sistema monetario europeo, lo Sme.

Lo Sme, che li ha vincolati tutti ma non ha risolto nessuno dei problemi eccetto la concessione alla Germania di un grande spazio per il surplus. Lo Sme finì per via dell’unificazione tedesca, per le spese tedesche, ma poco prima di finire – nell’89-’90 – la Germania aveva raggiunto uno dei più alti livelli nel surplus estero nei confronti del Pil dalla fine della guerra. Adesso li ha superati…

E questo surplus estero era prevalentemente generato in Europa e in America, in parte, ma meno, molto meno di adesso. Quindi il problema dell’Europa è europeo, è stato creato, prodotto, in Europa.

Diversa è la situazione in Giappone, se poi posso dire. Il Giappone è stato obbligato ad esportare perché, finita la guerra nel ’45, messo knock out con la bomba atomica, ecc. ecc. loro volevano riprendersi. E con chi volevano riprendersi, soprattutto dopo il ’49? Volevano riprendersi con la Cina. Erano perfettamente disponibili a stabilire dei rapporti commerciali con la Cina e Mao Tse Tung era perfettamente disponibile a stabilire dei rapporti commerciali con il Giappone.

Perché una cosa è un rapporto di tipo imperialista – tu vai, conquisti, prendi quel che vuoi ecc – un’altra cosa è se vuoi invece stabilire dei rapporti a livello commerciale. E alla Cina questo faceva molto comodo, perché il Giappone comunque, in termini di produzione industriale, anche se molto colpito dalla guerra, allora era molto più avanti.

Gli americani hanno messo un blocco su questo, hanno messo un veto assoluto. Con la guerra di Corea – che ha aiutato moltissimo il Giappone perché è diventato un retrovia industriale degli Stati Uniti – si sono posti il problema: cosa succederà dopo, potremo mantenere il Giappone sempre, sarà un pozzo senza fondo dove convogliare gli aiuti, oppure dobbiamo trovare degli sbocchi per il Giappone?

E loro si misero di buona lena – gli americani, dico – a creare le condizioni di sbocco per il Giappone, soprattutto nelle trattative per farlo entrare nel Gatt, che allora – nel 1955 – era quello che oggi è l’organizzazione mondiale del commercio.

Loro fecero una serie di accordi tripartiti con un enorme numero di paesi, tra cui la Francia, l’Inghilterra e vari altri paesi avanzati, affinché accettassero, senza reciprocità, esportazioni giapponesi ricevendo come contropartita una maggiore apertura sui mercati americani. La Francia accettava più prodotti giapponesi, per dire, e l’America gli dava più spazio sui propri mercati.

Il Giappone ha dovuto correre sulle esportazioni, perché non aveva altri spazi, non aveva più un hinterland di prossimità, non aveva più niente e le due guerre quella di Corea prima e guerra del Vietnam dopo – gli hanno creato quell’hinterland, l’hinterland asiatico, ma che non era ancora sufficiente, non è stato mai veramente sufficiente.

Questo ha creato una situazione per cui il Giappone si trovava sempre di fronte il problema di essere la variabile di aggiustamento per della politica dei cambi e la politica monetaria americana, per cui quando l’America era in difficoltà la prima cosa che accadeva era che partiva un cazzottone verso il Giappone.

Quindi, nel ’71, rivalutazione gigantesca dello Yen… Però loro sono tosti e hanno affrontato la nuova difficoltà in una maniera estremamente intelligente. Hanno abbandonato le produzioni a basso costo – quelle tessili, per esempio – e si sono lanciati sulle produzioni a più alto costo proprio per affrontare la rivalutazione dello yen, perché in questo modo stabilivano condizioni oligopolistiche e quindi diventavano agenti del prezzo loro stessi. Hanno preso a produrre ed esportare automobilisti.

Se noi andiamo a vedere la dinamica delle esportazioni automobilistiche giapponesi negli anni ’70 vediamo che fanno un salto in avanti gigantesco proprio quando il prezzo del petrolio, ecc. va su. Puntano su questo tipo di produzion, sulle produzioni a più alta tecnologia, ecc.

Ma alla fine non ce l’hanno fatta. Alla fine degli anni ’80, cioè dall’85, si è ricreata questa situazione, perché hanno ricevuto un altro cazzottone che li ha stesi per sempre. Giappone e Italia sono i due paesi che non crescono più da 30 anni. Il Giappone però ha innovato, innova sempre moltissimo il Giappone.

Però qui conta la dinamica della domanda. Tu puoi innovare quanto vuoi, ma se non hai una dinamica della domanda che ti sostiene, tu innovi, fai il prodotto nuovo, ottimo, bellissimo, fantastico, però lo vendi in quantità ridotte rispetto a quanto dovresti vendere per poter sostenere la domanda. Quindi è diversa la situazione nipponica rispetto a quella europea.


*  Il testo dell’intervento fatto nel corso della trasmissione di OttolinaTv, insieme a Nadia Garbellini
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Comments

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Alfred
Friday, 22 August 2025 15:24
Grazie per questa bella intervista, per i dati e un discorso lineare e centrato
Cito
Gli Stati Uniti hanno dei problemi sostanzialmente insormontabili per il momento, nel senso che loro non possono reindustrializzare. Non possono perché hanno perso il know how. Questo è molto importante da capire.
Un’industria, le grandi società americane, ecc, si gestiscono le loro filiere produttive, va bene? Si organizzano liberamente. La General Motors, o qualunque altra… sono sostanzialmente come degli Stati nello Stato e organizzano le loro filiere produttive, dove la produzione è sempre più esternalizzata e loro diventano sostanzialmente dei centri direzionali e dei centri di distribuzione.

Lo mandero' in giro a gente a cui da anni dico che gli usa sono una industria di carta con ... infrastrutture di carta. Salvo quegli stati negli stati che sono le corporations, gli Usa (non ci sono stato e mai ci andro', ma scolto testimonianze e leggo) sono al tracollo infrastrutturale. Li avete visti i pali elettrici di legno di mia nonna che bruciavano nel loro stato gioiello? Un piccolo esempio, forse non il peggiore.
Quando sento quelli di limes blaterale di una potenza talassocratica, mi chiedo, puo' una potenza continuare a essere considerata talassocratica senza l'ombra di cantieri navali? Mi rispondono che c' e' la corea del sud e il giappone che li hanno. Vero che corea del sud e Giappone come l'europa sono una colonia strettamente controllata. Purtroppo per gli usa il destino delle colonie e' quello di liberarsi dal giogo coloniale (salvo gli europei che ignorano il loro status, loro sono alla pari e fin quando se la contano ...). Con tutti i bei dazi e le azioni spregevoli delle truppe Usa li dislocate di sicuro il Giappone non vede l'ora di cacciarli fuori, la Corea del sud immagino uguale. Quindi se corea e giappone chiudono gli arsenali (anche solo per fare dispetto al loro padrone) la potenza talassocratica continua a navigare su navi datate che cadono a pezzi? Navi che un qualsiasi yemenita mette in fuga perche' non saprebbero rimpiazzarle. Se Cina e Russia fossero cattive un terzo di quanto lo sono i cow boys vedendo il loro disastro
produttivo e infrastrutturale potrebbero buttarli giu' con poche spallate. Non lo faranno perche' non e' nei loro interessi. Confido che saranno i venezuelani ad affossare un po' di navi che gli Usa non sono in grado di riprodurre e confido che tra yemeniti, venezuelani vessati vari che si ribellano in pantofole questo padrone fintamente potente cada. Che cada in fretta.
Dimenticavo il petrolio che Halevi non sa da dove verra' prodotto... non certo shale oil, quel petrolio intendono rubarlo ai venezuelani. Elementare, se vendi una cosa che non hai e devi rispettare l'unica e' usare la forza residua, rubarla a un altro e venderla. Iniziano in Venezuela, ma le loro fabbriche sono in Messico e altri stati? Che problema c'e', si occupa il Messico (non sarebbe la prima volta) e se necessario (e' necessario) il centro e sud america. Male che vada hanno li hanno comparti produttivi di diversi tipi. Gli Usa potrebbero ridiventare industrializzati solo cosi, con un sacco di colonie e lavoratori coloniale mentre loro si dedicano ai casino' della finanza. Fossi in loro comincerei a dare un occhio sulla possibilita' di avere, navi, aerei, militari ottimi ed abbondanti, materie prime ecc. Prima della conquista, perche' non sara' una passeggiata e l'acquila di lasciarci non solo le penne, ma pure il becco.
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Alfred
Friday, 22 August 2025 15:28
Scusate il refuso acquila, orrore
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