Fai una donazione

Questo sito è autofinanziato. L'aumento dei costi ci costringe a chiedere un piccolo aiuto ai lettori. CHI NON HA O NON VUOLE USARE UNA CARTA DI CREDITO può comunque cliccare su "donate" e nella pagina successiva è presente (in alto) l'IBAN per un bonifico diretto________________________________

Amount
Print Friendly, PDF & Email

lafionda

Oltre la Ue? Bonificare il dibattito

di Matteo Bortolon

Lucio Caracciolo.jpg“Dobbiamo avere una prospettiva europea perché da soli non andiamo da nessuna parte”. “Non si può tornare indietro ai vecchi Stati-nazione”. Tali argomenti – o meglio slogan – hanno insopportabilmente infarcito il dibattito, trovando il pigro consenso dei più stanchi luoghi comuni semicolti

La questione, legata al dibattito sulla Ue e sull’euro, è diventata uno slogan da mulinare sulla testa degli avversari più che un assunto da valutare razionalmente e criticamente.

Oggi si può forse ragionare più serenamente, dato che nessun partito che abbia un minimo di potere nemmeno ventila la possibilità di scrollarsi di dosso il carrozzone eurounitario di fronte a cui ogni declinazione possibile di establishment (progressisti, liberali, conservatori, identitari…) si è genuflesso come di fronte ad un idolo. Anzi: si può provare a ragionare tout court, dato che la polemica e l’astio hanno tolto il terreno per una riflessione meditata, che pur sarebbe necessaria in una fase di riassestamento degli equilibri geopolitici; situazione opportuna per eventuale ridefinizione della politica estera del paese, purché si abbia qualche idea.

 

Se non li convinci spaventali

Il punto di partenza non può che consistere nella modestia dell’argomento per cui “l’Italia è troppo piccola per fare da sola”; si tratta semplicemente di una pedata nei denti contro chiunque mettesse in questione l’aderenza dell’Italia alla Ue.

Naturalmente vi erano argomenti diversi pro-Ue. Una linea di argomentazioni “alte” era piuttosto elitista: l’integrazione europea sarebbe il vertice di un processo secolare di crescente avvicinamento dei popoli europei, un destino storico volto alla fratellanza e basato su una base di cultura condivisa. Argomentazione da progressismo colto e professorale, poco adatto alle orecchie di ceti in sofferenza sociale che piuttosto che l’europeismo ideale tastano con mano l’austerità reale.

L’Italia-paese-troppo-piccolo possiede un’altra valenza: suscitare paura. Nella più fulgida tradizione di manipolazione delle masse quando non si riesce a convincere si spaventa: disegnando scenari apocalittici di default, bancarotta, fallimento, collasso economico, a prescindere dalla loro credibilità. Vale la pena riassumerne la valenza emotiva: l’ipotetica italexit ci avrebbe proiettato nella solitudine, nudi a vulnerabili, al di fuori del guscio protettivo dell’Unione. A pensarci bene un capolavoro di propaganda, attingendo a paure individuali e collettive, nonché a uno dei caratteri nazionali più radicati: lo scetticismo verso le classi dirigenti incapaci e ladre, se non verso lo stesso nerbo del popolo italiano, congenitamente incapace di produrre classe dirigente e capacità gestionale. Indirizzare un sentimento diffuso di disistima verso l’oligarchia a favore dell’opzione che la stessa oligarchia presenta come inevitabile e benefico. Chapeau

Ma mentre l’integrazione come destino di civilizzazione comune appare come una fede religiosa, impermeabile al ragionamento, su quest’ultimo argomento si possono invece valutare le argomentazioni, a prescindere dalla strumentalità dei soggetti che l’hanno diffuso. 

 

La “solitudine” dell’interdipendenza globale

Riprendiamo i termini precisi dell’argomento. In linea generale esso suggerisce che il nostro paese sarebbe di dimensioni troppo ridotte (“dove volete uscire con l’Italietta della lira?”) per le “sfide del nostro tempo”.

È degno di nota che nessuno si sia dato pena di definire secondo quale criterio si misurerebbe tale “piccolezza.” Estensione geografica? Popolazione? Forza militare? Pil? Altro? Prendendo qualsiasi parametro esistono numerosi Stati che sono più piccoli dell’Italia. Economicamente parlando, Canada, Nuova Zelanda, Corea del Sud e Australia lo sono sicuramente. E abbiamo preso alcuni dei più avanzati. Non è mai stato stabilito un criterio in base al quale uno Stato sia “troppo piccolo per esistere”.

Ovviamente non stiamo dicendo che le dimensioni non contano. È chiaro che la Svizzera o il Portogallo non potrebbero attaccare militarmente la Federazione Russa. Ma nemmeno Polonia, Giappone o la Germania potrebbero. Se la soglia fosse questa pochissimi sarebbero “grandi abbastanza”. Ma senza un qualsivoglia criterio è puro terrorismo.

È interessante che l’argomento implicitamente consideri le “grandi dimensioni” come un fattore in sé positivo. Non è così, e la storia è piena di esempi di imperi sovraccaricati dal loro gigantismo. Spesso la coesione e l’abilità decisionale risultano altrettanto importanti. Torna alla mente lo spot un po’ comico per cui “per dipingere una parete grande ci vuole un pennello grande”

Se il presupposto è traballante, lo sbocco dell’argomento non lo è meno, essendo grosso modo: “entriamo a far parte di uno Stato più grande”. Ma esistono alternative più credibili e realistiche: alleanze, forme di coordinamento e simili, senza pregiudicare la propria sovranità come la vulgata europeista vorrebbe.

A ben vedere questa è la normalità dei rapporti internazionali. Ma per capirla bene dobbiamo fare un passo ulteriore: essere piccoli o grandi per fare cosa esattamente? Nel passato il rischio era di subire l’invasione di un vicino più forte, che oggi consideriamo un relitto del passato. Oggi penseremmo piuttosto alla competizione per i mercati e le risorse. 

Nel mondo attuale i 193 Stati esistenti sono inviluppati in un reticolo di accordi, trattati, convenzioni, istituzioni internazionali sul piano economico, diplomatico, militare, attraversati da flussi commerciali e di capitali. Tanto che si è arrivati a pensare al superamento dello stato-nazione in sé. Abbastanza comicamente gli europeisti da un lato riecheggiano tali teorizzazioni per destituire di forza la sovranità nazionale, ma poi vogliono lo “Stato grosso” – senza darsi la pena di spiegare perché un’Europa unificata sarebbe di dimensioni appropriate mentre la Germania no. Senza contare che, per parafrasare la spiritosa frase attribuita a Mark Twain, la notizia della morte dello Stato-nazione è fortemente esagerata.

In questo panorama ognuno cerca di gestire tale interdipendenza a suon di alleanze, rapporti bilaterali e multilaterali e partecipando a vari tipi di consesso in modo da tutelare i propri interessi – o di promuovere la propria agenda, in cui può esservi anche maggior rispetto del diritto internazionale o simili.

A ben vedere è quello che fanno tutt’oggi pure gli Stati della Ue. La Francia per esempio ha un’eredità di legami con le ex colonie africane, la Spagna ha conservato aderenze nel mondo ispanofono latinoamericano, e la Germania ha sviluppato un’aggressività politica commerciale. Ognuno di essi si avvale di rapporti e alleanze extra Ue. Quale ruolo essa possa svolgere in questo quadro non è affatto scontato, e al di là di miti e sogni.

 

A cosa ci serve la Ue?

Non esiste nessuno che abbia una elementare nozione della realtà che pensi che un superstato europeo possa nascere a breve. L’”Europa reale” è molto diversa da quella ideale (unitaria, federale, ecc.), ed è su questa che si deve ragionare in termini politici. Giocare il federalismo paneuropeo come giustificativo della Ue è come invocare il Regno di Dio per legittimare la Chiesa: i suoi profili organizzativi dovrebbero essere in discussione, e infatti esistono varie chiese. Ma il pluralismo ecclesiastico è riconosciuto da tutti, salvo frange oltranziste ultrareazionarie. Tale tolleranza è sconosciuta all’europeismo reale, che accumula le fascine per mettere al rogo chi non condivida la concretizzazione storica del loro ideale: fascisti, sovranisti, nazionalisti. Ma se si segue un principio di ragionevolezza la discussione sulla Ue si deve basare sulla sua realtà effettiva, non su sogni che essa (si presume) dovrebbe incarnare.

Quindi vediamola questa realtà. La Ue è un’entità politica basata su alcune istituzioni unitarie affiancate da un coordinamento stringente degli Stati membri attraverso vari meccanismi. Tutto ciò, rispetto alla cooperazione che esisteva prima della Ue, non pare aver prodotto chissà quali travolgenti successi. Nel momento più buio, la crisi del Covid nel 2020, il livello europeo ha fatto poco e nulla. Il prodotto duraturo di tale stagione, in Next Generation Eu, si deve alla iniziativa della presidenza francese e del cancellierato tedesco. Di questo si dovrebbe discutere per capire se e quanto sarebbe il valore aggiunto ottenibile dalla “Italietta”.

Ulteriore mito da sbugiardare su questo versante: l’argomento terrorizzante per cui l’Italia al di fuori della Ue sarebbe “da sola”. Si basa sull’immagine veramente grezza dell’Unione come un guscio protettivo, o una delimitazione rigida, per cui o si è dentro o si è fuori. Ma si tratta di una descrizione imprecisa se non caricaturale. Gli Stati membri hanno una appartenenza variegata alle strutture comunitarie, l’adozione dell’euro è un elemento di integrazione specifico (20 sono dentro e 7 fuori), ma ce ne sono molti altri, per cui è meglio descriverla come una pluralità di cerchi concentrici. Un recupero di sovranità potrebbe comportare per l’Italia lo slittamento a un grado minore, finendo nella non disdicevole compagnia di Svezia e Danimarca. Il Regno Unito ha fatto la scelta più radicale, ma restano stretti legami col continente. In ogni modo la rappresentazione dell’Italietta piccola e ignuda sconsolatamente sola è pesantemente immaginaria e funzionale a suscitare paura.

Sfogliare il libro dei desideri confrontandoli con la realtà può essere un valido metodo: quali erano le aspettative di vantaggi della membership Ue? 

Un argomento ricorrente era che unificandosi i paesi europei avrebbero raggiunto un’autonomia per emanciparsi politicamente dagli Usa. Motivo adatto a orecchie progressiste e volendo, anche patriottiche. Ma non è successo; anzi il parallelo avanzare dell’allargamento NATO e Ue mostra che più l’Unione si ingrandiva più saltavano dentro i tirapiedi di Washington come i baltici. Il mandato di Von der Leyen ha fatto assumere alla Ue il profilo di un governatorato totalmente privo di dignità. Ma anche rievocando stagioni in cui la Commissione era meno sinonimo di squallore e umiliante subordinazione, nessun documento ha mai posto condizioni che mettessero in discussione l’integrazione militare euro-atlantica, tipo la limitazione di basi Usa o il divieto di collocazione di armamenti di un certo tipo sul territorio dei contraenti. Quindi l’europeismo anti statunitense è stato solo un boccone per gonzi. Oggi le cose sono palesi.

Un altro argomento favorevole all’Ue è la possibilità di pesare di più come potenza demografica ed economica nelle negoziazioni internazionali per problemi globali come il cambiamento climatico, la riforma dell’ONU, la regolazione di questioni come il commercio internazionale, la finanza e i conflitti.

Anche qui c’è una distorsione che forza una mezza verità: è chiaro che un coordinamento di 27 paesi avrebbe il peso diverso di uno solo, ma la precondizione sarebbe condividere lo stesso orientamento, mentre spesso fra i membri è un caos cacofonico o guerra fra bande. La Germania non è riuscita a esercitare un ruolo guida né è ragionevole presumere lo faccia adesso. Ovviamente un governo unico garantirebbe un orientamento condiviso ma sarebbe dura prendere una posizione che scontentasse troppi. Gli Stati membri hanno diversi posizionamenti perché riflettono i divergenti interessi del tessuto sociale, economico, produttivo. Tale diversità rifluirebbe nel Parlamento europeo, e un ipotetico Governo continentale faticherebbe a non tenerne conto.

Va posto molto esplicitamente un presupposto essenziale, che per gli europeisti è come l’aglio per i vampiri ma la cui consistenza di realtà non è aggirabile: le peculiarità nazionali esistono e non andranno da nessuna parte; una loro omologazione a livello europeo, come è avvenuto per la costruzione degli Stati nazionali nella modernità in tempi brevi è semplicemente improponibile.

Se un orientamento costruito col bilancino, con lungaggini, timoroso di scontentare qualcuno non è certo una prospettiva esaltante, in realtà sarebbe già molto ottimistico, e infatti la vicenda dell’Unione degli ultimi anni racconta una storia molto diversa: i paesi membri non hanno lo stesso peso. 

Questo elemento emerge in maniera forte nell’argomento – apparentemente di taglio più conservatore – per cui “abbiamo bisogno della Ue per essere più forti nel mondo e fare i nostri interessi”. Anche in tal caso vale il discorso fatto sopra in merito alla difficoltà di una reductio ad unum. Ma c’è di peggio.

Al centro del diritto eurounitario campeggia gloriosamente il principio di concorrenza e libero mercato (cfr. art. 119 TFUE), anche fra gli stessi Stati membri. Tale centralità logora la coesione interna e amplifica le divergenze economico-sociali. La peculiare forma organizzativa è una governance che promette la parità dei diritti, ma in realtà è in mano ai membri più forti, quelli più ricchi e potenti hanno una capacità di dirigere le istituzioni “comuni” nettamente superiore e lo usano per aumentare il proprio potere. Si deve forse ricordare l’atteggiamento della Commissione quando Germania e Francia hanno sfondato i parametri rispetto al trattamento inflitto a Grecia, Spagna, Portogallo? La diseguaglianza dei membri riproduce se stessa.

Un’unificazione tenderebbe a inglobare tali divergenze nell’architettura stessa della Unione, e gli interessi meno blasonati verrebbero ignorati brutalmente. L’irenismo di un bene comune europeo è già stato la cortina fumogena per far passare come di tutti gli interessi di alcuni, come quando le banche francesi e tedesche sono state salvate, mostrando alla periferia il volto arcigno dell’austerità. Ulteriori “cessioni di sovranità” pongono problemi ultimativi anche sul terreno della democrazia. Sarà un caso che la Germania di cedere la sua, di sovranità, non ha nessuna intenzione?

In sintesi: l’europeismo ci dice che più Stati contano più di uno solo (la scoperta dell’acqua calda) ma da un lato sottostima la precondizione di una convergenza di intenti, e ignora totalmente come il liberismo introiettato nella stessa essenza della Ue li amplifichi; dall’altro inscrive come necessità ineluttabile la prospettiva di fare fronte comune nella forma specifica dell’Unione attuale, che amplifica e incorpora le diseguaglianze. Quella che di fatto è una scelta politica viene artatamente trasformata in un destino. Pure brutto.

 

Sovranità per cosa?

Chi scrive non intende lanciare né previsioni future né proposte fortemente assertive. Molto più modesto è il compito di bonificare il dibattito dalle storture, di cui il profilo destinale e idealizzante dell’europeismo costituisce una delle più notevoli.

Poco promettenti appaiono anche le prospettive nate da un dibattito tanto polarizzato che assolutizzano la sovranità fino alla autoreferenzialità. Si tratta di realtà o molto piccole o che in partiti come la Lega non riescono a conquistarne la linea principale. E non pare sia un caso. Agire politicamente per un distacco dalla Ue senza porsi il problema del dopo appare debole, non solo sul piano concettuale ma anche come capacità di aggregare le forze: l’energia politica per sprigionarsi ha bisogno non solo di un termine oppositivo, ma anche di qualcosa di positivo da conseguire.

Inesorabilmente si torna al punto: quali sono gli obiettivi? Che vogliamo fare? Il keynesismo come traiettoria economica è stato spesso citato come prospettiva intralciata o impedita dall’assetto eurounitario, ed è senz’altro vero; ma è difficile pensare di realizzarlo senza regolare i propri rapporti con l’estero in modo congruente con tale obiettivo.

In ogni caso la necessità di una politica estera che oltrepassi i limiti di un ammuffito europeismo per riconfigurare i rapporti col resto del mondo non sono mai sembrati così urgenti come ora, nell’epoca in cui una nuova Yalta in Alaska pare il suggello di una logica planetaria multipolare pronta a relegare l’eurocentrismo a patetica suppellettile da museo.

Pin It

Add comment

Submit