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La Grecia, la sinistra e la sinistra della sinistra – Parte II

di Jacques Sapir

Riportiamo la seconda parte del lungo articolo di Jacques Sapir sulla sinistra europea e la crisi greca (qua la prima parte). L’oggetto dell’analisi questa volta è la sinistra radicale che, seppure inizi a maturare una timida comprensione della vera natura del quadro europeo, rimane incapace di schierarsi a favore del recupero della sovranità contro l’ideologia europeista e l’euro, mezzo di costruzione di quel sistema semi-coloniale che è l’Unione Europea. Per la sinistra radicale, dice Sapir, l’ora della scelta è arrivata: deve porsi in rottura con euro e europeismo, o condannarsi a perire

Sinistra europeaGli eventi che hanno condotto al Diktat imposto alla Grecia, e il Diktat in sé, costituiscono un momento cruciale per quella che è chiamata “sinistra radicale”. In un certo senso, la crisi greca sottopone la «sinistra radicale» ad una prova tanto dura quanto quella che impone alla socialdemocrazia. Se la “sinistra radicale” oggi non si trova in una crisi simile a quella della socialdemocrazia, rischia tuttavia di trovarsi faccia a faccia con una crisi di orientamento politico di prima grandezza. In effetti, l’europeismo che caratterizza la «sinistra radicale» è anch’esso condannato all’insuccesso dal Diktat imposto alla Grecia. La domanda che viene posta oggi è se la “sinistra radicale” accetterà di diventare semplicemente una forza ausiliaria della social-democrazia o se è in grado di convivere con tutte le conseguenze di un programma di rottura. Ma un tale programma di rottura non è più compatibile con l’europeismo.

 

Elementi di definizione della «sinistra radicale»

Per prima cosa chiariamo cosa intendiamo con questo termine. Sono i partiti o i movimenti politici che si sono formati a sinistra della socialdemocrazia tradizionale, e il più delle volte in reazione contro la sua politica e il suo orientamento.  La “sinistra radicale” non include i partiti che sono rimasti fedeli alla loro identità comunista (come il KKE greco o il PRC italiano), né i partiti o movimenti di estrema sinistra rimasti fedeli ad una identità marxista rivoluzionaria, più o meno contaminati da settarismi e dogmatismo (come, in Francia, la NPA o Lutte Ouvrière).

Ma include Syriza in Grecia, Podemos in Spagna, il Front de Gauche in Francia, Die Linke in Germania e SEL in Italia [2]. Tutti questi partiti hanno origini diverse, e portano con sé logiche politiche e ideologiche molto particolari. Da questo punto di vista, la sinistra radicale appare come una corrente con aspirazioni comuni ma in realtà è piuttosto eterogenea. Infatti, la cultura politica e la storia di ogni paese si riflettono nel tipo di partito o movimento. Se i partiti della sinistra radicale si sono dotati di strutture di coordinamento al livello dell’Unione Europea, non vi è tuttavia alcuna unità a livello europeo semplicemente perché la storia politica di ogni paese è specifica.

In Francia come in Germania, si sono costituiti dalle dissidenze all’interno della socialdemocrazia e del sindacato unendosi con quanto sopravviveva dei partiti comunisti (PCF in Francia e il Pds in Germania), e in alcuni casi si sono ricongiunti a forze di estrema sinistra. All’opposto, Podemos è un movimento relativamente nuovo, formatosi dagli «Indignados» che sono stati relativamente forti in Spagna. Il caso di Syriza in Grecia è intermedio, perché il partito comunista greco si era diviso in due nel periodo della dittatura dei colonnelli, con un «Partito dell’Interno» vicino alla corrente cosiddetta «eurocomunista», che ha portato alla nascita di Synapismos,  e un «Partito dell’Esterno» di stretta obbedienza moscovita. Synapismos è diventato il nocciolo di Syriza, unitosi coi movimenti di estrema sinistra così come con dissidenti della socialdemocrazia locale (PASOK), mentre il «Partito dell’Esterno» si è ricostituito come il KKE, e vive la sua esistenza settaria, ritirato su se stesso. L’Italia è un caso speciale. In effetti, il processo di dissoluzione del PCI (nonostante la scissione del PRC) ha portato alla fusione all’interno di una vasta unione elettorale, il Partito Democratico, che comprende i residui del PSI e un pezzo della Democrazia Cristiana. L’Italia è certamente il paese in cui la “sinistra radicale” è più debole e ciò ha importanti conseguenze sull’organizzazione dello spazio politico in Italia. Questa debolezza ha lasciato campo libero sia al Movimente Cinque Stelle di Beppe Grillo, che è diventato il secondo partito in Italia, sia alla Lega Nord di Salvini.

 

Eclettismo politico ed europeismo

Se l’eclettismo politico, la logica conseguenza dell’eterogeneità delle modalità di formazione e della diversità delle culture politiche nazionali, è una delle caratteristiche della «sinistra radicale» su scala europea, dobbiamo sottolineare alcuni tratti comuni quando si tratta di Unione Europea. Se questi partiti differenti si sono più o meno opposti ai vari trattati costitutivi dell’Unione Europea a partire dall’inizio degli anni ’90, tuttavia condividono ciò che si può chiamare un'”ideologia europeista”. Sono ampiamente convinti che l’Unione Europea, anche sotto il controllo della destra neoliberista, costituisca un ambito privilegiato per l’azione politica. Dalla crisi finanziaria del 2007-2009, i cui effetti si fanno ancora sentire, alcuni di questi partiti vedono nella struttura dell’Unione Europea una garanzia contro il ritorno alla situazione degli anni ’30. Va da sé che questa accettazione del quadro dell’Unione Europea ha una tonalità fortemente critica. Temi come “cambiare l’Europa” o “un’altra Europa” sono molto presenti nel vocabolario di questi partiti e movimenti. Ma questo “cambiamento” fa proprio la fallacia da un lato che l’Unione Europea sia l’Europa (e non una forma di istituzionalizzazione che copre alcuni paesi in Europa, in senso sia culturale che geografico), e dall’altro che essa si debba realizzare per la gran parte nel quadro di alcune istituzioni già esistenti, in particolare l’Euro.

La questione dell’Euro offre un concentrato delle contraddizioni della “sinistra radicale”. In un’ampia misura, non viene messo in discussione. E abbiamo appena visto le tragiche conseguenze che l’assenza di questo dibattito ha avuto sul comportamento di Syriza in questi ultimi giorni. Tsipras ha preso la decisione politica di rifiutare la requisizione della Banca Centrale della Grecia e di non mettere in circolazione gli IOUs perché pensava, e qui non si può dire che si sia sbagliato, che questo avrebbe portato all’uscita della Grecia dall’Euro. Così facendo, egli ha tuttavia messo la propria testa sul ceppo di fronte all’intransigenza dell’Eurogruppo. Soprattutto, egli non ha capito che la gestione dell’Euro non era una questione economica, con calcoli costi-benefici, bensì politica. Le opzioni rappresentate da Syriza erano politicamente inaccettabile per l’Eurogruppo. Domani, rischieremo di vedere la storia ripetersi con Podemos che pure è determinata a porre le proprie richieste per un’altra politica economica all’interno della zona euro.

Il rifiuto di mettere in discussione l’euro ha diverse origini. Ci si può vedere il residuo di un vecchio marxismo dogmatico che ritiene che, alla fine, la moneta non ha alcuna importanza. Solo le “forze produttive” contano, secondo una logica che deve più a Jean-Baptiste Say («i prodotti sono scambiati per altri prodotti, il denaro è un velo») che a Marx. Questa logica può anche essere espressa come «progresso». Certo, l’Euro, un prodotto del potere borghese, ha un sacco di difetti, ma costituisce un “progresso” che porta alla unificazione degli spazi produttivi, e una volta che le “masse popolari” avranno preso il potere, saranno in grado di utilizzare questo “strumento” spogliato delle sue vesti borghesi. In realtà, si tratta di un ritorno, probabilmente inconsapevole, a ciò che Bucharin spiegava nel 1915-1916 sull’evoluzione dei “fondi statali capitalistici” che dovevano portare al socialismo una volta cambiata la loro direzione politica [3]. Infine, alcuni riconoscono che l’euro ha un sacco di difetti, ma spiegano che una rottura della zona euro porterebbe l’Europa indietro alla situazione degli anni Trenta. Questa sembra essere la posizione di Tsipras [4]. Questo europeismo, che infetta gran parte della «sinistra radicale», rappresenta il grande rischio di diventare la sua Nemesi. Oggi si può ben vedere che nessun programma economico radicalmente diverso dal consenso sull’austerità che domina l’Europa è possibile finché si continua a seguire l’europeismo. Questa è la lezione che si deve trarre dalla capitolazione di Tsipras di fronte all’Eurogruppo [5]. Il grande storico britannico Perry Anderson scrive questo: «Tsipras ei suoi colleghi hanno ripetuto a tutti quelli a portata d’orecchio che era fuori questione abbandonare l’euro. Così facendo, hanno rinunciato ad ogni seria speranza di negoziare con la vera Europa – e non con l’Europa di cui stavano fantasticando »[6]. Questo descrive accuratamente la trappola dell’europeismo in cui Tsipras si è cacciato, e che sta attualmente minacciando di inghiottire la «sinistra radicale».

 

L’Unione Europea, un sistema semi-coloniale?

Qui si deve capire qualcosa di importante: la sovranità è stata per lungo tempo il punto cieco della “sinistra radicale”. Tuttavia, la “sinistra radicale” ha difeso il concetto di sovranità alimentare. Ma fino ad oggi non ha mai fatto il passo di schierarsi per la richiesta di sovranità politica. Le uniche correnti che lo hanno fatto, come il chevènementism in Francia, sono state isolate e rese incapaci di espandere la loro influenza sulla «sinistra radicale”, anche se l’eredità di Jean-Pierre Chevènement ora si estende oltre il solco sinistra/destra.

Tuttavia, esiste una tradizione marxista, in effetti antica, che ha indicato che le lotte per la trasformazione della società possono essere combattute solo nel quadro di uno Stato sovrano [7]. Ma questa tradizione sembra essere stata spazzata via nel grande processo di messa in discussione dell’esperimento sovietico, che si è imposto con la fine dell’Unione Sovietica nel 1991. Eppure, un’analisi del sistema sovietico inteso come capitalismo di Stato avrebbe permesso di capire parecchie cose, e in particolare le caratteristiche di un percorso alternativo nel contesto di un paese “semi-feudale e semi-coloniale”. In effetti, l’intero dibattito sulla «natura dell’URSS» è fallito [8]; nonostante tutto avrebbe potuto aumentare la comprensione delle modalità di esistenza del capitalismo e della sua diversità, ma anche di possibili alternative alle strategie economiche [9] . Si può anche pensare che una parte dei problemi che stiamo incontrando nel dibattito contemporaneo siano un effetto dell’amnesia che riguarda il sapere accumulato dagli anni Sessanta agli anni Ottanta del secolo scorso, un effetto amnesia che ha origine nell’emergere sia di una nuova generazione di militanti politici, sia di un nuovo contesto di lotta, un contesto che sembrava richiedere una nuova comprensione.

Infatti, è il concetto di Stato «semi-coloniale» che può gettare maggiormente luce sulla situazione attuale dei paesi europei. Si può considerare l’Unione Europea come un sistema coloniale, ma uno in cui non si può chiaramente identificare la «metropoli». A questo punto questo «colonialismo» o più esattamente «semi-colonialismo» non può essere del tutto ridotto alla situazione tra la fine del 19° e l’inizio del 20° secolo. Se la Germania appare come il paese che beneficia maggiormente delle strutture dell’UE, ciò non implica che l’UE è il sistema coloniale della Germania. L’Unione Europea consente la realizzazione di strutture finanziarie che assicurano il controllo e il dominio, e queste strutture non possono essere ridotte al capitalismo tedesco. Questo è più un «semi-colonialismo» che un semplice colonialismo, poiché i paesi dell’Unione Europea stanno conservando, in varie gradazioni, margini di autonomia. Alcuni di questi paesi stessi possono diventare una potenza neo-coloniale verso i paesi del “sud”, anche se la logica della loro azione è sottoposta, in fine, all’approvazione da parte del sistema neo-coloniale stesso. Il caso della Grecia è unico in quanto, sotto il giogo dei vari memorandum, il paese è passato da uno stato semi-coloniale a uno che è sempre più direttamente coloniale.

In un paese che è in procinto di essere soggetto, o è già sottoposto, ad un sistema neo-coloniale, la questione della sovranità diventa cruciale. In essa si concentra tutta la lotta per il cambiamento economico e sociale. In un certo senso, si sarebbe potuto pensare che Syriza lo avesse capito quando si è alleata con ANEL in seguito alle elezioni del 25 gennaio. Ma l’europeismo è rimasto troppo forte all’interno del partito.

 

La «sinistra radicale» e la questione della rottura

La questione fondamentale che ora è apertamente di fronte ai vari movimenti della «sinistra radicale» è quella del grado di comprensione del contesto semi-coloniale in cui sono chiamati a lottare, e quindi della centralità della lotta per il recupero della sovranità. Questo implica una rottura con l’europeismo e con la religione dell’euro. Ma non implica solo questo. Dal tenere in considerazione questa situazione deriva non solo una strategia politica, come ricostruire la sovranità e attraverso quali mediazioni, ma anche la tattica, in altre parole, quali saranno le alleanze più capaci di portare avanti questo progetto politico.

Va da sé che queste domande si concentrano prioritariamente sul rapporto con l’Euro, poiché quest’ultimo è l’istituzione che concentra in larga misura i contenuti semi-coloniali dell’UE. Da questo punto di vista, dobbiamo sottolineare che alcuni dei consiglieri di Yanis Varoufakis hanno cambiato la loro posizione sull’Euro e adesso si stanno pronunciando a favore di una sincera rottura con la moneta unica [10]. Jean-Luc Mélenchon del Parti de Gauche nel frattempo ha scritto nel suo blog: «ogni tentativo di cambiare l’Europa dall’interno è condannato all’impotenza se coloro che lo stanno portando avanti non sono pronti a trarre istantaneamente lezione dal fallimento, rompendo il contesto. In altre parole, nessun piano A ha una possibilità senza un piano B. E quando viene il tempo del piano B, la mano deve essere ferma»[11]. Se questo testo è interessante perché mostra la determinazione a mettere in pratica una politica di rottura in caso di fallimento, che è un progresso rispetto allo show televisivo del luglio 2012, presenti Mélenchon e io, in cui evocava questa famoso piano «B» solo come un mezzo per realizzare il «piano A», dimostra anche che Mélenchon non ha ancora elaborato TUTTE le lezioni del Diktat imposto alla Grecia. In realtà non c’è nessun cambiamento possibile all’interno dell’UE. La “sinistra radicale” deve avere come primo obiettivo un break-up, almeno di quelle istituzioni i cui contenuti semi-coloniali sono i più grandi, vale a dire, l’euro, e deve pensare le sue alleanze politiche per questo obiettivo. Per la sinistra radicale, l’ora della scelta è arrivata; deve porsi in rottura, o condannarsi a perire.

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Note
[1] Sapir J., « La Grèce, la gôche, la gauche (I) », nota pubblicata su RussEurope il 22 luglio 2015, http://russeurope.hypotheses.org/4138
[2] See Marlière P., « La gauche radicale en Europe : esquisse de portrait », in Jean-Numa Ducange, Philippe Marlière and Louis Weber, La gauche radicale en Europe, éditions du Croquant, Paris, collection « Enjeux et débats d’Espaces Marx », Paris, 2014.
[3] Boukharine N., L’Économie mondiale et l’impérialisme 1915. translation. Paris, Anthropos, 1977. Si veda anche, Christian Salmon, Le Rêve mathématique de Nicolaï Boukharine, Paris, Le Sycomore, 1980.
[4] Kouvelakis S., intervista con Sebastian Budgen, « Greece: The Struggle Continues » in Jacobin, 15 luglio 2015, https://www.jacobinmag.com/2015/07/tsipras-varoufakis-kouvelakis-syriza-euro-debt/
[5] Gianni A., « Il problema non è Tsipras ma questa Europa » in MicroMega, 22 luglio 2015, http://www.sinistrainrete.info/index.php?option=com_content&view/il-problema-non-e-tsipras-ma-questa-europa&catid=44:europa&Itemid=82
[6] Anderson P., « La débacle grecque », 22 luglio 2015, http://blogs.mediapart.fr/edition/les-invites-de-mediapart/article/220715/la-debacle-grecque-par-perry-anderson
[7] Si veda Georges Haupt, Michael Lowy and Claude Weill, Les Marxistes et la question nationale, 1848-1914, Editions Maspéro, Paris, 1974.
[8] Sapir J., “Le débat sur la nature de l’URSS: lecture rétrospective d’un débat qui ne fut pas sans conséquences”, in R. Motamed-Nejad, (ed.), URSS et Russie – Rupture historique et continuité économique , PUF, Paris, 1997, pp. 81-115.
[9] Sapir J., L’économie mobilisée. Essai sur les économies de type soviétique, La Découverte, Paris, January 1990; (pubblicato in Germania, in versione tradotta and arricchita nel 1992, Logik der Sowjetischen Ökonomie – Oder die Permanente Kriegswirtschaft, LIT Verlag, Munster and Hamburg
[10] Munevar D., « Why I’ve Changed My Mind About Grexit », in SocialEurope, 23 luglio 2015, http://www.socialeurope.eu/2015/07/why-ive-changed-my-mind-about-grexit/
[11] Mélenchon J-L, 23 luglio 2015, https://www.facebook.com/JLMelenchon/posts/10153499370008750

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