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resistenzealnanomondo

Prefazione a I figli della macchina

di Silvia Guerini e Costantino Ragusa – Resistenze al nanomondo

Autori vari: I figli della macchina. Biotecnologie, riproduzione artificiale ed eugenetica, Asterios editore, 2023

nvòdonv.jpegTutto deve essere continuamente messo in discussione, nel paradigma del laboratorio non possono esistere punti fermi etici, tutto deve essere fluido ed evolversi seguendo la direzione dettata da quello che gli sviluppi tecno-scientifici, sempre più ineluttabili nella loro invasione della realtà, rendono non solo pensabile, ma anche possibile. Agende transnazionali ed élite finanziarie puntano tutto verso la Grande Trasformazione cibernetica e biotecnologica.

Gli apici mortiferi delle tecno-scienze rappresentano delle soglie e delle trasformazioni che nel loro procedere rimuovono il passato e determinano il futuro in un unico universo di senso, riducendo l’etica a mere procedure di contorno.

Ingegneria genetica e tecnologie di riproduzione artificiale si sono incontrate sullo stesso progetto, in quella convergenza delle tecno-scienze che nella riprogettazione e manipolazione del DNA degli esseri viventi vedono il supremo e irrinunciabile campo di intervento per poter mettere in pratica quel vecchio sogno, per noi incubo, di selezione eugenetica. Eugenetica che non è da considerare una deriva funesta, ma il motore e la direzione di sempre delle ricerche genetiche.

Il tutto ormai si presenta chiaro e limpido, quasi vetrinizzato: nessun complotto o società segrete da smascherare all’opera in laboratori clandestini. Adesso il segreto è professionale e commerciale in nome delle più alte forme di democrazia avanzata che, sponsorizzata dai più sinceri progressisti, non si arresta più di fronte a nulla. Siamo arrivati all’anticamera di quella che sarà una società geneticamente programmata.

In un’immagine di mondo sempre più polverizzato e poltiglia, con frammenti senza riposo tormentati e sollecitati continuamente dalla rete, tutto si fa surrogato che prende piede ovunque e da nessuna parte. In queste pieghe i tecno scienziati muovono i loro definitivi passi verso il bricolage genetico dove sarebbero quasi inosservati se non avessero anche la pretesa di essere gratificati come salvatori del mondo e salvaguardati nel caso in cui il salvataggio non riuscisse.

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 sinistra

Dall'Occidente in crisi al modello cinese: la via socialista nel XXI secolo

di Giambattista Cadoppi

Paolo Botta: Cos’è lo stato. Capitalismo, socialismo e democrazia nel XXI secolo. Rogas, 2025, Prefazione di Thomas Fazi. € 19.70

shangai 1Il poliziotto del mondo potrebbe essere occidentale, ma il maestro del mondo, come è stato per millenni, risiede ancora in Oriente.

Andrew Hughes (2008)

Il saggio di Paolo Botta “Che cos’è lo stato” analizza con grande lucidità la crisi strutturale del capitalismo contemporaneo e la ridefinizione dello Stato come attore centrale nella regolazione dei processi economici, sociali e tecnologici del XXI secolo. L’autore sviluppa una prospettiva originale che intreccia critica marxiana, analisi geopolitica e riflessione sulle nuove forme di socialismo, ponendo particolare attenzione all’esperienza cinese come paradigma alternativo alla crisi occidentale.

Questo saggio si configura come un'opera di fondamentale importanza per la comprensione delle dinamiche socio - politiche contemporanee. L'autore non si limita a commentare l'attuale crisi dello Stato - nazione, ma procede a una ricognizione teorica radicale dei concetti di Potere, Politica e Stato. Il risultato è una tesi audace e ben argomentata: lo Stato non è affatto in declino, ma ha semplicemente rimodulato la sua sovranità e il suo protagonismo, spesso nascondendoli dietro le narrazioni ideologiche della globalizzazione e del neoliberismo. L'intero impianto logico, che culmina nell'analisi della strategia statale, compresa quella sulle diverse forme di socialismo, è di un rigore ammirevole e di una pertinenza ineguagliabile.

 

I. Il decostruzionismo metodologico: superamento dei falsi miti. Il fraintendimento dello Stato e il Mito antistatalista

Il punto di partenza è la critica al mito anti - statalista che ha dominato il dibattito occidentale dal Trattato di Maastricht in poi.

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effimera

Pulsazioni del comando e conflitto di riproduzione. Note a margine di un incontro di Effimera

di Massimo De Angelis

pulse trace.jpgMassimo De Angelis interviene in merito ad alcuni interventi del convegno di Effimera “Anni di guerra: menzogne, verità, scintille“, che si è svolto lo scorso 15 novembre 2025 al C.S. Cantiere a Milano (e di cui pubblicheremo a breve gli atti). Nel corso del convegno sono state poste questioni dirimenti: “che fare?” e “dove sta Gaia?”. Si tratta di tematiche cui non possiamo sottrarci. Gaia non è un’aggiunta ecologica, un capitolo separato da affiancare a quelli sulla transizione egemonica o sull’economia politica. È il piano di fondo su cui si muove l’intero campo di forze: ciò che precede e condiziona ogni forma di cooperazione, ciò che la pulsazione del comando deve continuamente aggirare, contenere, dislocare o compensare. Ma contro questa pulsazione (aggiungeremmo schizofrenica) si oppone una “contro pulsazione”: “la sfida – dice l’autore – non è scegliere tra geopolitiche alternative. È intervenire nei punti in cui il sistema pulsa: nelle crepe del comando, nelle pressioni della riproduzione sociale, nelle soglie che Gaia impone, nelle forme di comune che emergono come contro-pulsazioni operative”. 

* * * *

Il punto di vista radicale – quello che va alla radice delle cose – non inizia dai rapporti tra gli Stati, né dalle oscillazioni dei mercati globali, e nemmeno dalle strategie delle grandi potenze o degli sviluppi tecnologici. La radice, direbbe il giovane Marx, è l’umano stesso: il modo concreto in cui, cooperando in forme plurime, riproduce la propria vita e le condizioni del proprio agire.

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quadernidaltritempi

Decentrare il presente: la sfida del Longpath

di Roberto Paura

Ari Wallach: Longpath, Traduzione di Maria De Pascale, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2025
- pp. 187, € 25,00 

in rilievo letture longpath A.jpgPer un caso che non definiremmo fortuito, nel pieno dell’ultima pandemia – annus horribilis 2020 – apparve un libro destinato a influenzare il dibattito internazionale: The Good Ancestor di Roman Krznaric, poi tradotto tre anni dopo in italiano con il titolo Come essere un buon antenato. Krzanric vi sosteneva l’esigenza di assumere – o meglio tornare ad assumere – un pensiero di lungo termine come antidoto alla contrazione del tempo tipica dei nostri giorni. Pensare in termini di tempo profondo, come già invitava a fare alcuni decenni fa Alvin Toffler nel suo testo-cult Lo choc del futuro, nel quale divideva gli ultimi 50.000 anni in 80 cicli di una sessantina d’anni circa, così da darci l’idea di come da un lato i cambiamenti siano stati estremamente lenti (quanti cicli passati a vivere nelle caverne), e di come dall’altro questi cambiamenti stiano accelerando di ciclo in ciclo (cfr. Toffler, 1971). Ma soprattutto pensare in ottica transgenerazionale, come già proponeva la Grande legge degli haudenosaunee, la legge orale fondante della Confederazione degli irochesi: ogni decisione dev’essere presa tenendo conto delle conseguenze sulle sette generazioni future. L’anno in cui quel libro uscì dimostrava plasticamente le conseguenze del brevetermismo: il mondo relegato in casa a causa di un virus il cui salto di specie era stato favorito dall’erosione degli habitat naturali da parte dell’espansione antropica, e la cui diffusione esponenziale era stata resa possibile dagli incessanti spostamenti di cose e persone su scala globale per tenere in piedi l’economia di mercato fondata sul principio della crescita infinita.

Quella di Krznaric sembrò una ricetta per il mondo migliore che dovevamo edificare. In parte è stata anche seguita, più nella forma che nella sostanza: prova ne è la riforma costituzionale italiana del 2022, che ha inserito all’art. 9 la tutela dell’ambiente e della biosfera nell’interesse delle future generazioni e, solo pochi giorni fa, la legge che ha introdotto la “valutazione di impatto generazionale”, che impone un’analisi preliminare degli impatti delle nuove politiche pubbliche in particolare sulle giovani generazioni, quelle al di sotto dei 35 anni.

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La campana sta suonando per noi, e da un pezzo

di Luciano Curreri

Un sottile rumore di fondo nell’ottantesimo anniversario della pace mondiale (sic): il caso della guerra in Iraq e La scatola del signor Hulford (2015) di Giorgio Taschini

2025.11.13. CURRERI.pngI.

La guerra in Iraq del 2003-2011 non è stata, almeno nella durata e nella deriva, una seconda guerra del Golfo. La prima (1990-1991), del resto, me la ricordo bene, anche perché all’epoca, da giovane e ultima ruota del carro, scrivevo brevi per il radiogiornale di Radio Torino Popolare (1982-2009).1 Ai nostri giorni, per comodità di narrazione, tendiamo ancora a unirle, ma faremo bene a darci un taglio a questo “arrangiamento da manuale”. E non soltanto per l’11 settembre 2001 e la lunga risposta, la vendetta USA, l’invasione americana dell’Afghanistan (2001-2021) e le leggi antiterroristiche che colpiranno soprattutto un’altra etnia: un’etnia che noi abbiamo fatto fatica a pensare e a rispettare come tale, insieme alla sua identità e religione, alla sua storia e geografia, autoattribuendoci un diritto d’istruzione morale e principiando così, a inizio del nuovo secolo e millennio, a dare ancora una volta un bel bacio dell’addio a libertà civili e diritti dell’uomo, grazie pure a quella acquosa e sanguinante “ciliegina sulla torta” che è stata (e forse è) Guantánamo.2

La cito non a caso, Guantánamo, perché a tutte e tutti verranno in mente le foto e i filmini delle torture brutali e volgari, di natura anche sessuale, evocate ormai come «enhanced interrogation techniques» (in italiano tradotte come «tecniche di interrogatorio potenziato» o come «tecniche di interrogatorio rinforzate»)3 e di cui si resero responsabili uomini e donne sorridenti, “in posa”, dell’esercito americano (da Guantánamo ad Abu Ghraib, cioè allo «scandalo di Abu Ghraib»).

In effetti, una delle scoperte più clamorose e inquietanti seguite da Giorgio Taschini (1968) in La scatola del signor Hulford (2015), proprio relativamente alla guerra in Iraq del 2003-2011, è relativa alla piattaforma americana «Fucked up», che regalava porno ai militari americani in cambio di foto o video di immagini di guerra, di morti ammazzati ai check point: uno spasmodico e tristissimo scambio di carne, che è l’orrore estremo e quotidiano immaginato e raccontato, conseguenze comprese, da un romanzo che non fa sconti ma che non usa il sesso come espediente per vendere di più o vendere (e vendersi) tout court, magari seguendo quegli stilizzati canovacci in cui figura il numero giusto di scene di morte e di sesso, specie quello caratterizzato da violenza, da stupri e da scambi simbolici di natura patologica e funerea.

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infoaut2

Teoria del partito

di Phil A. Neel

mgiddàbofAbbiamo tradotto questo importante articolo di Phil A. Neel apparso su Ill Will che tratta della teoria del partito.

Ci sembra che questo testo risuoni con alcuni dei problemi teorico-pratici che, su una scala certamente differente, si sono imposti nella riflessione militante dopo le incredibili settimane di piena del movimento “Blocchiamo Tutto”. Ora che la marea si è abbassata due sentimenti si sono fatti spazio tra le realtà politiche: da un lato il ritorno ad una certa disillusione dettata dall’andamento del movimento in relazione alla fase oggettiva imposta dalla “tregua” nella Striscia di Gaza, dall’altro una tensione a capitalizzare “politicamente” questo movimento. Avevamo avvertito che la traduzione e l’esondazione di questo fenomeno sociale su altri terreni non sarebbe stata né scontata, né facile, e che avrebbe richiesto una certa presa di responsabilità collettiva da parte delle realtà politiche. In questi giorni si sono moltiplicati generici appelli a organizzarsi, appelli che condividiamo, ma ciò che non è chiaro è per quale scopo e con quale prospettiva. Per quanto ci riguarda abbiamo avanzato l’ipotesi che questo movimento sia un epifenomeno italiano dell’assemblaggio generale di un “nuovo” iper-proletariato dopo il lungo inverno neoliberale e che procedere con gli schemi organizzativi tipici della fase precedente è un lavoro inutile e dannoso. Utilizzando le parole di Phil A. Neel ci pare che ancora una volta ci si concentri sul tentativo di prendere “il comando” dei processi in corso, piuttosto che sullo sviluppo della “soggettività collettiva”, rischiando di rimanere ancora una volta con un pugno di mosche in mano. Ma non c’è da deprimersi, come sottolinea l’autore questi sono passaggi necessari e per certi versi inevitabili.

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lafionda

Turn up the… History. Riorientare il desiderio e l’azione

di Silvano Poli

organizer 1200 1200 675 675 crop 000000.jpgG. W. F. Hegel affermava che la lettura del giornale è la pregheria dell’uomo moderno. Inevitabile come il segno della croce per ogni buon cristiano, molti di noi l’altro ieri hanno aperto gli occhi e scrollato le notizie sul loro calamitico smartphone. A colonizzare il “feed” (quella che una volta era la home) c’era la vittoria di R. Mamdani a nuovo sindaco della Grande Mela. L’entusiasmo, o l’astio sono palpabili, gli appellativi arcinoti e ripetuti fino allo sfinimento: Mamdani è di colore, musulmano e pure socialista.

Il trionfo newyorkese è solo la ciliegina sulla torta di una serata che per i Dem è puro ossigeno. Nella stessa notte, infatti, il partito blu si è portato a casa i Governatori di New Jersey e di Virginia, affiancando anche la maggioranza nel Parlamento federato dello stato “Madre dei Presidenti”. Decisivi sono state anche la vittoria della “Proposition 50” per la ridefinizione dei collegi dei rappresentanti alla Camera – classica storia di Gerrymandering e opposizione al Texas rosso – fortemente voluta dal partito Dem Nazionale e osteggiata ferocemente da Trump; così come la riconferma di tre giudici nella corte federale della Pennsylvania. In breve, dopo mesi di stato comatoso, questo è forse il primo colpo di reni da parte di un partito che sembrava aver assorbito tutta l’inettitudine di Biden e l’ignavia di Harris – che con Mamdani è riuscita a non prendere ancora una volta una posizione strategicamente intelligente. È, di certo, una vittoria degli outsider, di quelle frange ostracizzate dal partito principale: dimostrazione di come il core del partito sia ancora dominato da un’avversione antipopolare che non ha nulla da invidiare ai neocons, ai tecno oligarchi e ai Trump Boyz. E, tuttavia, è indubbio che dopo mesi, se non anni di notizie pessime, una buona notizia non possa non avere l’effetto di galvanizzare l’ambiente e tutti i movimenti.

È certo che Mamdani rappresenti uno dei migliori risultati auspicabili negli USA e che l’egemonia del gigante d’oltreoceano ci porti a fare nostre le sue vicissitudini, a renderci tristi per le sconfitte dei (presunti) “compagni” a stelle e strisce ed entusiasti per le loro vittorie.

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linterferenza

Marxisti e credenti

di Salvatore Bravo

costanzo preve mr.jpgCostanzo Preve fu hegelo-marxiano, egli testimoniò lungo la sua esistenza la necessità ontologica del dialogo. Con il dialogo si attraversano le divisioni ideologiche per ritrovarsi sul fondamento, mai definitivo, della verità. Quest’ultima si rivela nella parresia, ma non è mai “morta cosa”, perché a essa ci si deve sempre riaccostare per ridefinirla e ascoltarne la presenza. L’incomunicabilità è “assenza di pensiero” che la filosofia contribuisce a sanare. Le barriere sclerotizzano la parola e la confinano nel silenzio irrazionale.

La contrapposizione fra marxisti e credenti ha favorito il “potere” che si consolida nel guerreggiare delle opposizioni, le quali contribuiscono alla disgregazione del popolo. Tale condizione ha accompagnato la Guerra fredda e, con la fine del comunismo reale, si è ulteriormente incancrenita, poiché la sconfitta storica ha inoculato nei marxisti sopravvissuti la vergogna di essere tali. Il confronto necessita di “chiarezza emotiva”, per cui la vergogna è sicuramente un limite alla parola. Colui che porta l’impronta della sconfitta e la vive come una colpa non è nelle condizioni di dialogare. Solo la pari dignità dei dialoganti consente alla parola il confronto creativo e razionale:

“Per un confronto infatti occorre essere in due, e mentre i cristiani esistono ancora e si fanno sentire, i marxisti sembrano vergognarsi di esser rimasti tali, e non sembrano neppure essere riusciti a mantenere quella rete minima di contatti e di lavoro comune da cui nascono le “rivoluzioni scientifiche” ed i mutamenti di paradigmi. In proposito l’entusiasmo e la solidarietà verso la cosiddetta “teologia della liberazione” (fenomeno essenzialmente latino-americano) sono fenomeni assai positivi, ma non possono sostituire una riflessione che si voglia realmente “interna” alle nostre difficoltà di “marxisti che non hanno mollato” nei confronti delle nuove problematiche culturali dei credenti[1]”.

La cultura marxiana ha il merito di aver liberato l’economia dai suoi processi di ipostatizzazione. Il metodo genealogico e il materialismo storico hanno liberato l’economia da una visione dogmatica. La critica alla religione mediante la ricostruzione della genesi sociale e di classe dimostra l’uso che di essa è stato fatto per eternizzare i principi economici delle classi dirigenti.

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coku

Luxemburg vs Bernstein. Le crisi economiche e il dilemma tra riforma sociale e rivoluzione

di Eugenio Donnici

rosa 1220x600.jpgCi sono dei dilemmi, che sebbene siano risolti da lungo tempo, continuano ad assillare la mente e, in generale, la vita quotidiana di coloro che sono coinvolti attivamente nelle vicende politiche e sindacali. Il muoversi lungo questa direttrice, in modo quasi funambolico, continua a produrre sterili contrapposizioni, non solo all’interno di quel che resta nella “galassia della sinistra”, ma anche tra il “sindacalismo di base” (di classe) e i sindacati “concertativi”, che contemporaneamente, influenzano e gravitano nella connessa galassia.

Le parole riforma e rivoluzione esprimono due concetti, i cui significati etimologici, nel fluire del tempo e dello spazio, oltre a mutare il corso del fiume, che è un processo che rientra nel piano semantico, hanno svilito la loro “potenza” evocativa e sono diventati indifferenti, muti, nel senso che dicono tutto e il contrario di tutto.

Quando si ricorre al termine riforma, per introdurre provvedimenti legislativi che fanno finta di cambiare il contesto in cui si agisce o addirittura peggiorano le condizioni di vita di chi deve rispettare quella norma retrograda e reazionaria, la società non ne trae nessun beneficio, anzi entra in confusione ed entrano in gioco le spinte regressive, così quando ascoltiamo spot pubblicitari come la “Rivoluzione gentile del latte”, è chiaro che siamo di fronte alla vendita di illusioni, in un determinato contesto, e che quella sostanza liquida biancastra, non produce cambiamenti significativi nella vita reale.

È pur vero che l’espressione linguistica richiamata possa esprimere una metafora, tuttavia è facilmente percepibile, anche alle sensibilità più ingenue, che si tratti di una promozione di una marca di un prodotto particolare, in luogo particolare.

Nel lontano 1899, Rosa Luxemburg, nell’esporre le sue critiche al “metodo opportunista” e alla posizione revisionista di E. Bernstein, nell’ambito della Seconda Internazionale e dei conflitti interni al partito socialdemocratico tedesco, chiede: «La socialdemocrazia può contrapporre la rivoluzione sociale, il rovesciamento dell’ordine esistente, che costituisce il suo scopo finale, alla riforma sociale?». (1)

La sua risposta è: «Certo che no!».

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doppiozero 

Dalla politica alla geopolitica: minoranze antagoniste

di Rocco Ronchi

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Le grandi manifestazioni per Gaza hanno segnato la nascita di un soggetto finalmente “politico”. Prova ne è stata non solo la reazione dell’estrema destra governativa, che ha immediatamente fiutato il nemico e ha cercato di spegnerlo nella culla agitando lo spettro della “violenza”, ma anche lo smarrimento della sinistra istituzionale che ha visto minacciata la propria comfort zone fatta di quieta inoperosità e di retorica sui valori democratici. Parlo di nascita di un soggetto politico senza qualificarlo, come d’abitudine, con l’aggettivo “nuovo”, perché proprio di questo siamo stati testimoni: del ritorno di una soggettività antagonista nel tempo della crisi epocale e definitiva della democrazia liberale. Improvvisamente e inaspettatamente, è diventato visibile un movimento di massa all’altezza dell’evento capitale che ha segnato a livello mondiale la contemporaneità, un movimento in grado di “controeffettuarlo”, come avrebbe detto il filosofo a cui non ci si può non riferire per cercare di comprendere il nostro presente (nonostante Gilles Deleuze sia morto trent’anni fa). “Controeffettuare” la fine della democrazia liberale non significa restaurarla – non si resuscitano i morti – ma provare a trasformarla, per quanto è possibile, e ben consapevoli dell’improbabilità dell’esito positivo, in un’occasione per l’affermazione della giustizia.

A fare da orizzonte alle grandi mobilitazioni è stata infatti la consapevolezza da parte del movimento dell’avvenuta trasformazione della politica quale la conoscevamo e la frequentavamo sui banchi di scuola. Mi riferisco alla politica fatta di maggioranze elettorali conquistate con la persuasione razionale, di minoranze comunque garantite, la politica intesa come arena delle opinioni in conflitto tra loro e poste su un piano almeno di formale parità, la politica, insomma, di cui hanno nostalgia i nostri intellettuali progressisti. Quella politica non c’è più. Si è dissolta come neve al sole. Al suo posto è subentrato qualcos’altro che, in mancanza di un termine migliore, prendendo a prestito un lemma oggi molto in voga, chiamo “geopolitica”.

Il prefisso “geo” aggiunto al lemma “politica” non sta infatti a significare una semplice presa d’atto della dimensione internazionale del conflitto.

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coku

Lezione di Harry Braverman a giovani Aut Op

di Leo Essen

Honoré Daumier 034.jpg1

Come conseguenza del taylorismo le attività lavorative si semplificano e si riducono a semplice dispendio di forza lavoro, di muscoli e cervello. I lavoratori, dice Braverman (Lavoro e capitale monopolistico), diventano intercambiabili. Spariscono le specializzazioni, i lavori si degradano, si appiattiscono, le mansioni si uniformano. Passare da un lavoro ad un altro diventa sempre più facile. È richiesto un periodo brevissimo (addirittura, qualche giorno o qualche settimana) di addestramento o formazione. Si tratta di una conseguenza della divisione del lavoro e della parcellizzazione. I lavoratori diventano tutti uguali, si uniformano in una classe. Nella società i lavoratori sono niente, mentre il capitale è tutto.

Che cos’è il lavoro nel capitalismo? È niente.

La forza costituente della classe lavoratrice si esprime in questa deprivazione: il lavoro è lavoro depauperato, lavoro povero, dequalificato, unskilled.

Come si arriva a questa spoliazione?

Perseguendo due obiettivi: l’efficienza e il controllo della mansione. In verità l’obiettivo è uno, l’efficienza. Il controllo della mansione è subordinato all’efficienza. Essa viene perfezionata da Taylor.

 

2

Il taylorismo spacchetta un processo in singole funzione e le standardizza. La funzione diventa ripetibile. Gli elementi della prestazione e le materie su cui si applica devono rimane costanti, così come deve rimanere costante la procedura. Lo scopo principale della misurazione è la ripetizione. Nella fabbrica di spilli il processo è diviso in modo da rendere le operazioni standardizzabili e facilmente ripetibili. L’efficienza è una conseguenza diretta della ripetibilità. Più la funzione è semplice, più diventa facile ripeterla. In ogni caso bisogna seguire degli standard.

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marxismoggi

Ripensare la pianificazione socialista

di Gabriele Repaci

49085486 1116841328488089 8195723733155971072 n.jpgIntroduzione

La crisi finanziaria globale del 2007-2008, esplosa a partire dal mercato dei mutui subprime negli Stati Uniti, non è stata il frutto del caso né il risultato di un momentaneo malfunzionamento del capitalismo.

Al contrario, essa ha rappresentato, nelle sue caratteristiche fondamentali, l’essenza stessa del modo di produzione capitalistico: la corsa sfrenata al massimo profitto, la compressione dei diritti della classe lavoratrice e i tentativi disperati di sfuggire alla crisi di sovrapproduzione attraverso la speculazione finanziaria, l’espansione del credito e la creazione artificiosa di moneta.

Quando i profitti non possono più essere sostenuti dalla produzione reale, il sistema reagisce spostando la contraddizione nel regno del denaro e del debito, gonfiando bolle speculative e alimentando un’instabilità cronica che si traduce in crisi sociali e politiche.

L’irrazionalità del capitale — la sua anarchia, la sua disumanità — emerge così in tutta la sua drammaticità, travolgendo le speranze di milioni di persone in ogni continente.

Le crisi più recenti non hanno fatto che confermare questa tendenza.

La pandemia di Covid-19 ha mostrato l’incapacità dei mercati globali di garantire la sicurezza collettiva anche di fronte a un’emergenza sanitaria, rivelando la fragilità delle catene di approvvigionamento e la dipendenza di interi settori da logiche di profitto immediato.

Il conflitto in Ucraina e la guerra in Gaza hanno evidenziato il nesso sempre più stretto tra economia e militarismo, con la produzione di armi e l’energia trasformate in strumenti di egemonia e di ricatto geopolitico.

Nel frattempo, la crisi climatica e ambientale ha reso evidente il carattere autodistruttivo di un modello fondato sull’accumulazione illimitata: incendi, alluvioni, siccità e migrazioni di massa sono i segni tangibili di un’economia che consuma le proprie condizioni di esistenza.

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Le frontiere del valore

di Michael Roberts

Merci porto 1.jpgGüney Işıkara e Patrick Mokre hanno pubblicato un libro approfondito che spiega come la teoria del valore di Marx funzioni per spiegare le tendenze e le fluttuazioni nelle moderne economie capitalistiche. Il titolo, Marx’s Theory of Value at the Frontiers – Classical Political Economics, Imperialism and Ecological Breakdown[La teoria del valore di Marx alle frontiere – Economia politica classica, imperialismo e collasso ecologico], indica al lettore che il libro tratta della legge del valore di Marx applicata a quelle che gli autori definiscono le sue “frontiere”, ovvero i mercati e il commercio, l'imperialismo e la crisi ambientale globale.

Si tratta di un progetto ambizioso, ma gli autori riescono con grande chiarezza a spiegare come il valore (creato dalla forza lavoro umana al massimo livello di astrazione) sia modificato e mediato dalla concorrenza tra capitalisti in quelli che Marx chiamava “prezzi di produzione” (dove i tassi di profitto dei singoli capitali si stabilizzano) e dai prezzi di mercato (dove i profitti in eccesso spingono i capitalisti a una concorrenza incessante).

Gli autori, ex studenti di Anwar Shaikh, adottano la sua teoria della “concorrenza reale” in contrapposizione alla tradizionale “concorrenza perfetta”. Quest'ultima si basa su una visione della produzione capitalistica fondata su armonia ed equilibrio, mentre la concorrenza reale è [caratterizzata da] una turbolenza incessante. Questa è la concorrenza reale in azione: «antagonista per natura e turbolenta nel suo funzionamento» (Shaikh). Gli autori sostengono che questa concorrenza reale sia il principio regolatore centrale del capitalismo, ma che «qualsiasi teoria della concorrenza, inclusa la concorrenza reale, deve essere supportata da una teoria del valore. Altrimenti, la fonte dei ricavi che spettano alle diverse classi sociali (tra le altre cose) rimarrà indeterminata».

Işıkara e Mokre si sono prefissati di dimostrare la connessione logica (e storica) tra il valore creato dalla forza lavoro e i prezzi di mercato.

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Contro il diritto internazionale

di Jacques Bonhomme

diritto internazionale.jpg1. Il diritto internazionale come ideologia

Il diritto, nel senso più lato della parola, e guardando alla società borghese, non è soltanto ideologia. Pašukanis, per esempio, ha mostrato, in relazione al mondo storico della borghesia, la necessaria cooperazione del diritto con le forme economiche fondamentali del contratto proprietario, dello scambio delle merci e della disumanizzazione capitalistica del lavoratore, rivestito dell’uguaglianza delle merci in quanto merce forza-lavoro, la merce più importante, quella che deve produrre il valore delle merci. Perciò il diritto, fin dagli inizi della società borghese, è stato coessenziale alla produzione di valore, ossia di plusvalore attraverso plus-lavoro. Per questo Pašukanis fa rientrare il diritto nell’economia politica, e, contemporaneamente, lo sottrae alla sfera dell’ideologia, dove era stato confinato da interpretazioni frettolose, schematiche e soprattutto riduttive del materialismo storico. Questa accorta e lungimirante comprensione del pensiero di Marx sul diritto, non è rimasta isolata e marxisti molto diversi tra loro come l’ultimo Lukács e Toni Negri, ne hanno raccolto l’eredità, il primo in modo indiretto e seguendo un proprio cammino, il secondo in modo più esplicito. Sembra quindi assodato che quanto già sapevano, seppur senza un ampio sviluppo tematico, Marx e Lenin, e cioè che il diritto e lo Stato sono fattori organizzativi interni ai rapporti di produzione capitalistici, sia divenuto nella prassi e nel pensiero dei movimenti antimperialisti del Novecento, a seconda dei casi più o meno permeati dal marxismo, un’acquisizione ben assimilata. In conclusione, il diritto eccede l’ideologia in quanto è, insieme allo Stato, nel quale confluisce e dal quale procede, uno strumento materiale del dominio di classe, sia nazionale che internazionale.

Ma il diritto è anche ideologia, è una delle forme originarie dell’ideologia borghese, è scaturito dal modello delle dichiarazioni del XVIII secolo, e perciò è ideologia in quanto contraffazione del particolare interesse di classe borghese attraverso i fini e gli ideali generali – o universali – dell’homme e del citoyen.

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coku

Baran e Sweezy e il Potere operaio

di Leo Essen

baranesweezy 1220x600.jpgChe cosa sono i costi di produzione socialmente necessari quando la differenza tra fabbricazione e vendita è cancellata? Se il limite posto dai costi è variabile, persino aleatorio, indefinibile, cosa sono i prezzi se non cartellini arbitrari; che sono l’interesse, il surplus, le valute, i cambi e le bilance commerciali?

La struttura del capitalismo monopolistico, dicono Baran e Sweezy (Il capitale monopolistico), è tale che un volume continuamente crescente di surplus non si potrebbe smaltire attraverso canali privati: in mancanza di altri sbocchi, il surplus non sarebbe prodotto affatto.

La situazione in cui una parte del surplus prodotto non trova impiego profittevole è quella del capitalismo concorrenziale. In esso un eccesso di capitali che non trova condizioni favorevoli di valorizzazione produce disoccupazione e disimpego di impianti.

Il sistema del laissez-faire – la concorrenza – produce una quantità di capitali superiore alle possibilità di valorizzazioni offerte dal mercato. Fino al 1870 questo capitale in eccesso veniva distrutto. Il mercato poteva riprendere il suo regolare funzionamento solo dopo questa distruzione.

In condizioni di laissez-faire il mercato è una struttura autonoma indipendente dal desiderio e dalla volontà dei partecipanti. La concorrenza conduce i prezzi al limite dei costi socialmente necessari alla produzione della merce. C’è un limite indipendente oltre il quale il mercato boccia le offerte. Questa struttura indipendente determina contemporaneamente l’impiego dei fattori – lavoratori, clienti, fornitori, proprietari – e la distribuzione dei prodotti.

Dopo il 1870, e in maniera decisiva dopo la Grande Depressione (1873-1896), il sistema dei prezzi rappresenta un limite per la valorizzazione. I prezzi che il mercato impone alle imprese, e sotto i quali esse non possono scendere, non sono più sostenibili. Il mercato boccia il mercato. Meglio non produrre affatto che produrre in perdita. A meno che non si trovi un metodo per ingannare il mercato e superare la concorrenza.