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Lo sfondo teologico-politico: Gaza è il rimosso che torna in superficie

di Davide Sabatino

IMG 1897.jpeg“Tutti gli schemi della politica sono anticipati dalla teologia”. Questa frase particolarmente intelligente l’ha pronunciata qualche tempo fa, udite udite, Pier Luigi Bersani in una trasmissione TV su La7. Quando si dice che anche l’orologio rotto due volte al giorno segna l’ora esatta. Infatti, come dargli torto? Anzi, c’è da stupirsi che ogni tanto nei talk show televisivi si riescano a formulare frasi “eretiche” come queste. Ovviamente il conduttore (in questo caso Floris) si è guardato bene dal cercare un approfondimento sul punto “teologico-politico” (l’unico che sarebbe stato opportuno indagare). Infatti, è facile dire che esiste una connessione fra “mondo religioso” e “mondo politico”; difficile è, invece, riconoscere quali siano gli effettivi rapporti vigenti fra questi due mondi, che solo apparentemente risultano distanti e contrapposti.

Nel libro Cristo in Politica: per un’allegra rivoluzione, pubblicato quest’anno con le Edizioni Paoline, ci siamo interrogati a fondo sulla qualità del tempo apocalittico che stiamo vivendo. In questo testo abbiamo sottolineato l’urgenza di ritrovare una chiave di lettura filosofico-politica che sia all’altezza delle sfide antropologiche attuali. D’altronde, se è vero che l’Unione Europea si trova umiliata quotidianamente dalla Russia e dagli Stati Uniti, come spesso ribadisce Alessandro Orsini nei suoi interventi pubblici; se è vero che il genocidio che si sta compiendo ormai da più di due anni in Palestina non sarà affatto un caso isolato ma, come denuncia Francesca Albanese nel suo rapporto alle Nazioni Unite, è destinato a diventare il solo e unico modo che questo Sistema criminale della guerra ha per gestire le masse; se — in ultimo — è vero, come vediamo ogni giorno, che né il diritto internazionale né l’Onu riescono ad arginare le follie disumane del governo israeliano, che non solo bombarda a suo piacimento gli altri Stati vicini, sfruttando le faglie economiche e morali interne al governo Trump, ma arriva perfino a sparare contro i civili affamati in cerca di cibo nelle zone preposte agli aiuti umanitari, come denunciato dall’inchiesta di Haaretz; se tutto questo è vero, ed è purtroppo vero, allora studiare scientificamente ed economicamente le cause di un imbarbarimento politico-antropologico così evidente può essere utile ma di sicuro non sufficiente.

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Il trattato Della tirannide di Vittorio Alfieri: un classico da riscoprire

di Eros Barone

9788979441598Sarebbe dunque mestieri a voler riacquistare durevole libertà nelle nostre tirannidi, non solamente il tiranno distruggere, ma anche i ricchissimi, quali che siano; perché costoro, col lusso non estirpabile, sempre anderan corrompendo se stessi ed altrui.

Vittorio Alfieri, Della tirannide, libro primo, capitolo decimoterzo.

Il 1777 fu un anno particolarmente fecondo nella vita intellettuale dell’Alfieri. Fu l’anno in cui, partito dalla lettura dello storico Tito Livio, giunse a ideare la tragedia Virginia e, partendo dalla lettura di Niccolò Machiavelli, ideò La congiura de’ pazzi. Da quella stagione così fervida nacque anche il trattato Della tirannide, un’opera singolare, un documento umano e politico che, proprio perché non è stato sempre posto nella sua giusta luce, attende ancora, specialmente nella nostra epoca, tanto lontana in apparenza da quella in cui fu scritto quanto in realtà così affine a essa, nuove, attente e perfino appassionate, generazioni di lettori. D’altra parte, non si può dire che l’Alfieri vi abbia esposto, se non frammentariamente e intuitivamente, idee che si possano giudicare nuove nella storia del pensiero politico. Ma nuovo è il pathos profetico che lo pervade e che ha ispirato il poeta in quell’anno, per lui memorabile, allorché sbocciò nel suo cuore una fede quasi religiosa nel valore della libertà.

 

1. La fenomenologia della tirannide: paura, viltà e libertà

L’Alfieriimposta il problema accomunando nella definizione di “tirannide” qualsiasi regime politico in cui sia possibile, per la persona o per il gruppo che detiene il potere, esercitare «una facoltà illimitata di nuocere». Egli considera perciò “tirannidi” tutte le monarchie del suo tempo, comprese quelle dei sovrani illuminati e riformatori (Maria Teresa e Giuseppe II d’Austria, Federico II di Prussia, Caterina di Russia ecc.). Così – scrive l’Alfieri nel primo capitolo del libro primo - «il nome di tiranno, poiché odiosissimo egli è oramai sovra ogni altro, non si dée dare se non a coloro (o sian essi principi, o sian pur anche cittadini) che hanno, comunque se l’abbiano, una facoltà illimitata di nuocere; e ancorché costoro non ne abusassero, sì fattamente assurdo e contro a natura è per se stesso lo incarico loro, che con nessuno odioso ed infame nome si possono mai rendere abborrevoli abbastanza.

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sinistra

Diritto penale, carcere e marxismo. Ventuno tesi provvisorie 

di Carlo Di Mascio

IMG 20230423 WA0010 1 2 4.jpgLa prigione è «naturale», come è «naturale» nella nostra società l’uso del tempo per misurare gli scambi.
M. Foucault, Sorvegliare e punire

 

Tesi 1. Il diritto, diceva Evgeni Pasukanis, è il risultato specifico dello sviluppo capitalistico, vale a dire di un determinato modo di produzione sociale che non avrebbe mai raggiunto una precisa costituzione universale in mancanza di idonei assetti coercitivi-organizzativi che solo la società borghese è stata in grado di promuovere e stabilizzare, sicché, di riflesso, la teoria marxista del diritto non dovrebbe cercare di costruire un nuovo tipo di diritto (proletario), peraltro in contrasto con il postulato classico marxiano di estinzione del diritto e dello Stato, bensì mostrarne la sua natura deperibile, attesa la contraddizione insanabile fra diritto come forma del valore di scambio e il comando esercitato dalla classe al potere ogni volta dominante (sia esso Stato borghese che Stato proletario).

 

Tesi 2. Se l’aspetto essenziale della società borghese è dato dalla separazione degli interessi generali da quelli privati, a tal punto che i primi tendono a contrapporsi ai secondi, ma assumendo «però involontariamente in questa contrapposizione la forma di interessi privati, cioè la forma del diritto»1, se ne ricava che l’organizzazione giuridica del capitale non si pone mai come diretta espressione di rapporti tra soggetti portatori di un interesse privato autonomo, bensì come il permanente tentativo di istituzionalizzare i medesimi attraverso adeguati dispositivi disciplinari e di controllo in grado di far passare l'interesse di una classe al potere come difesa e garanzia, considerate d’interesse generale, degli interessi privati di tutti.

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coku

Il sistema dei prezzi è in delirio. I quaderni di Giovanni Mazzetti

di Leo Essen

mare 1220x600.jpgIl lavoro diventa libero. Ma cosa significa “libero”? Significa che il lavoratore non è più inserito in un sistema di signoria e servitù che gli assegna un posto e gli dice chi è. È un individuo singolare, un lavoratore che ha in sé l’inizio e il termine di ciò che è. Proprio in quanto è insieme origine e fine, egli è libero. Ogni limite è abbattuto, ogni legame è sciolto. Offrirsi come lavoratore non dipende più da alcun vincolo esterno: non dipende dalla famiglia, dal ceto, dal sesso, né da un ordine di casta o di classe.

È, come afferma Hegel (Lineamenti § 5), l’infinità priva di termini dell’assoluta astrazione, della pura universalità. Siamo al Primo Momento, al livello dell’io astratto, certo solo di se stesso: assoluta possibilità di astrarre da ogni determinazione – negatività astratta.

Sono libero: posso fare il lavoro che voglio. Nessuno può dirmi cosa fare — né mio padre, né il mio padrone, né il comandante del terreno o della casa che abito, né il reggente della corporazione a cui appartengo, né le condizioni della mia nascita, né la mia casta o il mio ceto. Non sono legato a nulla, dunque posso tutto.

Io valgo, dice il lavoratore. Ma quanto valgo? Ecco che si passa dall’indeterminatezza indifferenziata della libertà e della sovranità che si auto-determina, alla differenziazione e alla dipendenza dall’altro e all’etero-determinazione.

Quando il lavoratore si offre sul mercato incontra l’altro, allora si media con l’altro. Nella mediazione con l’altro, o con gli altri, il lavoratore vale tanto quanto un carpentiere, un idraulico, un imbianchino, un boscaiolo, un falegname, eccetera. Non è più un lavoratore che trova in se stesso la fonte del proprio valore, ma è un lavoratore in rapporto ad altri lavoratori.

Grazie a questo porre se stesso come un determinato (Lineamenti § 6) il lavoratore entra nella storia, si connette al mondo che produce e si offre come questo lavoratore determinato, con queste e queste altre capacità, si pone come un oggetto d’uso determinato che sta di fronte ad altri oggetti d’uso, si pone nella generalità.

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tempofertile

La collina e la pianura. Posizioni egemoniche e pretese imperiali

di Alessandro Visalli

image007.jpgSiamo nei pressi di quegli ispidi passi di montagna nei quali i sentieri si biforcano. Da una parte il largo sentiero battuto dell’Occidente prosegue il suo lungo restringersi. Dall’altra un rivolo si amplia, al contempo facendosi via via più liscio e comodo. Il vecchio sentiero, da qualche tempo si fa per molti più ripido, pietroso, denso di rischi, il nuovo è cresciuto sotto molti profili all’ombra, ma nel tempo si è fatto via via più largo e forte. I due sentieri sembrano divaricarsi.

Ad aprile, in “Considerazioni intermedie su tempi complessi[1], proponevo di saggiare prudentemente i bordi di quel consolidato e rassicurante schema mentale per il quale siamo solo in una perturbazione, se mai ciclica, del cammino indefettibile e (perché tale) provvidenziale dell’umano universale. Un umano che, alla fine liberato dai vincoli ascrittivi delle tradizioni, e ovunque secolarizzato[2], vedrà in ogni luogo e tempo l’affermazione dei diritti “universali” (con essi della democrazia, forma perfetta della loro espressione). Il cammino indefettibile risulterebbe in questa visione più forte di ogni eccezione temporanea alla finale “occidentalizzazione” del mondo. Chi vede questi tempi confusi sotto questa lente tradizionale non può che vederli come un incomprensibile incidente, un’aberrazione (ed è quel che il buon cittadino cerca di fare, dichiarando sistematicamente come “pazzi” coloro che deviano). Ciò che scuote il buon cittadino è la nascita e il rafforzamento dei Brics[3], la crescita lungo la catena del valore della Cina[4], e, facendo leva sulle modifiche delle basi produttive per effetto dell’introduzione di nuovi ecosistemi tecnologici, dietro di lei di altri[5], i movimenti politici non liberali nei santuari occidentali[6], l’indisponente rifiuto della Russia a riconoscersi sconfitta nella guerra in Ucraina, o dell’Iran a conformarsi all’invito di scegliere meglio i suoi governanti durante lo scontro con Usa e Israele nella “guerra dei 12 giorni[7].

Stazionando nei bordi di questo rassicurante schema mentale, di questa cosmologia e fede trascendente, sorge il sospetto che le anomalie abbiano un segreto. E che sia semplice: l’egemonia tecnica, economica e politica dell’Occidente non era il segno della designazione divina, come vorrebbero le due principali teocrazie mondiali (i due governi più trascendenti del mondo[8]), quella americana e quella israeliana, ma un fatto meramente e pienamente storico. Come tale provvisorio.

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perunsocialismodelXXI

Utopie letali 2

di Carlo Formenti

datascienceQuasi dodici anni fa (ottobre 2013) usciva, per i tipi di Jaka Book, Utopie letali, un saggio in cui analizzavo gli svarioni teorici, le derive ideologiche e i miti che stavano sprofondando le sinistre radicali nella più totale incapacità di analizzare, e ancor meno di contrastare, le strategie di ricostruzione egemonica del progetto neoliberale che, dopo la crisi del 2008 che ne aveva evidenziato contraddizioni e debolezze, era impegnato a restaurare il consenso delle larghe masse occidentali, in parte tentate dalle insorgenze populiste. In quelle pagine accusavo, nell’ordine, le teorie postoperaiste che rimpiazzano la lotta di classe con fantasmatiche “moltitudini”; l’idiosincrasia dei movimenti libertari nei confronti di qualsiasi forma di organizzazione e potere politico (stato e partito eletti a simboli del male assoluto); la fascinazione delle tecnologie digitali gabellate per strumenti di democratizzazione economica, politica e sociale; l’eurocentrismo incapace di prendere atto dello spostamento dell’asse antimperialista verso l’Est e il Sud del mondo; il dirottamento dell’impegno politico e sociale verso obiettivi rivendicativi di carattere particolaristico (libertà civili e individuali versus interessi e libertà collettive).

Da allora l’offensiva capitalista si è incattivita, assumendo i connotati di un liberal fascismo di nuovo conio (confuso, ahimè, con il liberalismo e il fascismo “classici”, e quindi affrontato con i vecchi arnesi del frontismo). Abbiamo assistito a una reazione rabbiosa di fronte all’impossibilità di restaurare il sogno di una pax atlantica e di un nuovo secolo americano, accarezzato dopo il crollo dell’Unione Sovietica; una reazione che ha sfruttato la pandemia del Covid19 per imporre un ferreo disciplinamento ideologico, politico e sociale; che ha avuto ragione con relativa facilità dei populismi di sinistra (Syriza, Podemos, Sanders, Corbyn, M5S, di Mélenchon diremo più avanti), mentre ha integrato quelli di destra (Trump in testa) nel proprio progetto; che ha identificato nella Terza guerra mondiale (di cui abbiamo visto i prodromi in Ucraina, in Siria, nel genocidio di Gaza e nella guerra che Israele e Stati Uniti hanno scatenato contro l’Iran) la soluzione finale alla crisi secolare iniziata negli anni Settanta del Novecento.

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ilcomunista

Una lettura marxista della dottrina sociale della Chiesa

Ascanio Bernardeschi intervista Roberto Fineschi

osibnl.pngL’intervista a uno dei maggiori filosofi marxisti viventi sul suo recente lavoro Da Pio IX a Leone XIV. Prospettive marxiste sulla dottrina sociale della Chiesa, per aprire una riflessione critica sull’evoluzione del pensiero e del “magistero” cattolico.

L’elezione del nuovo papa ha innescato la gara fra i commentatori per qualificare questo nuovo pontificato. Riteniamo che saranno i fatti a poter dare un giudizio informato, anche se le premesse non ci paiono promettenti a partire proprio dalla decisione di assumere del nome di Leone come richiamo all’autore della Rerum Novarum. Se, infatti, questa scelta viene da molti, forse dai più, vista come un’attenzione alla questione sociale che con quell’enciclica la Chiesa affrontava per la prima volta, non deve sfuggirci, invece, il carattere antisocialista di quel documento che vedeva come un elemento di natura la proprietà privata dei mezzi di produzione e, di conseguenza, contro natura le aspirazioni socialistiche e si poneva l’obiettivo di arginare il montante movimento delle classi lavoratrici proponendo palliativi alla terribile condizione dei lavoratori.

Vorremmo parlarne con Roberto Fineschi, fra i maggiori filosofi marxisti viventi, il quale recentemente ha pubblicato un libro che definisce come “rimaneggiamento di articoli recenti e passati” ma che, in realtà, affronta abbastanza sistematicamente il tema dell’evoluzione della dottrina cattolica attraverso i vari papi, da Pio IX in poi, con una intera parte opportunamente dedicata al solo papa Ratzinger. In un’altra, la prima, affronta il tema della dottrina sociale della Chiesa.

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carmilla

Lefebvre e il doppio sfondamento di Marx e Nietzsche contro Hegel

di Fabio Ciabatti

Henri Lefebvre, Hegel Marx Nietzsche o il regno delle ombre, DeriveApprodi, Bologna 2025, pp. 208, € 20,00

hegel marx nietzsche 1.jpgMarx e Nietzsche uniti nella lotta contro Hegel? Dai, non esageriamo. Piuttosto i primi due possono marciare divisi per colpire uniti il terzo, almeno secondo quanto scrive Henri Lefebvre in Hegel Marx Nietzsche o il regno delle ombre. Questo libro, pubblicato nel 1975 e per la prima volta tradotto in Italia dopo cinquant’anni, nasce dall’idea del suo autore di un “doppio sfondamento: attraverso la politica e la critica della politica per superarla in quanto tale, attraverso la poesia, l’eros, il simbolo e l’immaginario”. Uno sfondamento nei confronti dello stato di cose presenti condensato nella filosofia dello Stato di Hegel. Siamo negli anni Settanta del secolo scorso e la riscoperta di Nietzsche da parte del pensiero radicale di sinistra fa parte, potremmo dire, di un certo spirito del tempo. Basti ricordare autori come Deleuze, Guattari o Foucault. L’approccio di Lefebvre ha però una sua originalità: rileva punti di contatto e profondi discordanze tra Marx e Nietzsche senza tentare alcun tipo di sintesi. Si limita a invocare un pensiero che sappia farsi multidimensionale.

Secondo Lefebvre, Hegel pone al centro della sua riflessione la rivoluzione, quella francese, e annuncia la sua definitiva cristallizzazione nello stato nazionale. Stato costituzionale e certamente non reazionario, ma, al tempo stesso, più borghese che democratico. Nello Stato, vera incarnazione dell’Idea, si perfeziona la fusione tra sapere e potere. Anche le sue capacità repressive e belliche rivelano un fondamento razionale e per questo legittimo. Questa fusione può avvenire perché la classe media porta la cultura alla coscienza dello Stato. È infatti la questa classe, luogo di elezione della cultura, che costituisce la sua base sociale in quanto bacino di reclutamento della burocrazia. L’unione di sapere e potere consente allo Stato di preservarsi come totalità coerente pur contenendo momenti contraddittori. Gli consente di inglobare e subordinare la società civile, di cementare il corpo sociale che senza di esso cadrebbe a pezzi. Lo Stato, dunque, si afferma come un automatismo perfetto, come modello di un sistema che si autoregola. Con lo Stato il tempo finisce e il suo risultato si diffonde e si attualizza nello spazio.

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ilcomunista

Il lavoro secondo Andrea Zhok

di Alessandra Ciattini

jmvaipssutgLe riflessioni sul concetto di lavoro di Andrea Zhok, docente di Filosofia morale all’Università Statale di Milano, meritano di essere prese in considerazione. Se nei decenni passati la concezione di lavoro come impegno, contributo alla vita collettiva aveva ancora un qualche spazio, oggi è stata cancellata dall’idea che esso deve essere divertimento, puro mezzo per soddisfare le nostre esigenze personali, sia primarie che secondarie. Questo cambiamento è stato generato da una serie di trasformazioni strutturali e non solo dall’imporsi di un punto di vista differente.

* * * *

Mi sono imbattuta per caso in un video proposto dalla casa editrice Ibex, “che produce libri per chi scala il futuro” e che mira al “Rinascimento italiano”. Nel suo sito, che ha 27.100 iscritti, si può leggere anche: “Non trattiamo un unico argomento, perché l’arte di domare gli eventi futuri non è fatta di tecnicismi settoriali, ma di intraprendenza strategica, e quindi olistica”. Così, spaziano “dal marketing alla filosofia, dall’imprenditoria alla propaganda passando per la politica”; un interessante percorso che desta molta curiosità, soprattutto in chi vuole capire per quale parte gli autori di queste frasi si schierano nel confuso scenario politico contemporaneo.

Il catalogo è interessante: ci sono Freud, Machiavelli, Le Bon, ma anche scritti di grandi imprenditori come Henry Ford, omaggiato da Hitler della Gran Croce del Supremo Ordine dell’Aquila Tedesca, Andrew Carnegie, cui dobbiamo, per esempio, Il vangelo della ricchezza, che fa pensare alla teologia della prosperità nata contro la teologia della liberazione in America Latina nel contraddittorio mondo pentecostale.

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tempofertile

Circa la tecnica: per una fenomenologia politica della relazione

di Alessandro Visalli

spartiacque.jpgQuattro tesi

Partirò con una tesi, enunciata in modo secco: l’essere umano non ha fondamento: si costituisce nella relazione. Ma la possibilità della relazione, in senso autentico ovvero non determinato interamente da istinti naturali, è pienamente sociale sin dalla sua radice. E’ questo il senso in cui “non ha fondamento”. La specie umana condivide, certamente, alcune caratteristiche abilitanti rese disponibili dalla sua conformazione biologica e genetica di base, - postura, il dimorfismo sessuale, encefalizzazione, lunga infanzia, cure parentali collettive, capacità vocale e grammaticale -, ma tutto ciò predispone e non limita. L’uomo ha una struttura istintuale molto meno stringente delle altre specie superiori (inclusi gli altri primati) l’uomo deve sempre farsi. Sia socialmente sia individualmente. E questo farsi si determina, con il decisivo contributo del linguaggio, nel lungo processo storico di apprendimento socio-culturale e dialogo sul quale non è questo il luogo per dilungarsi.

Per Marx l’uomo è “essere generico”, gattungswesen, e ha potenzialità universali, nel senso che è capace di scambiare con la natura, lavorando, socializzando e riconoscendosi nei frutti del proprio lavoro. Ad esempio, nella sezione sull’alienazione dei Manoscritti economico-filosofici[1], viene articolato un concetto dell’umano come intrinsecamente sociale e libero che si oggettiva nel mondo. Questo concetto, appena abbozzato nei manoscritti marxiani, è ripreso e sviluppato da Lukacs in Ontologia dell’essere sociale[2], quando inquadra la genericità come criterio ontologico determinante nel processo evolutivo della umanità (e fonte della sua universalità). Genericità, si noti, intesa non come astrazione logica, o del pensiero, quanto come farsi materiale nello scambio ‘organico’ con la natura. Un farsi mosso dalle posizioni teleologiche del lavoro (che si formano nella mente prima che nella materia), per poi oggettivarsi socialmente. Per Lukacs le potenzialità causali, rinvianti a concatenazioni di sistemi (che chiama complessi di complessi della realtà[3]), sono sempre attivate e concretate dal lavoro.

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Neoliberalismo autoritario

di Sandro Chignola

Seminario Euronomade, Padova, 9 maggio 2025

epaselect britain street artIl ruolo operativo del diritto è sempre stato centrale nell’ordine del discorso neoliberale. Come spesso mi accade, la prenderò alla lontana, prima di arrivare alle più recenti fasi della sua riconfigurazione. Mi propongo di passare attraverso quattro punti di snodo particolarmente rilevanti dello sviluppo della giuridificazione neoliberale. Il primo è la crisi di Weimar e in particolare, per i fini che ci proponiamo in questa occasione, la discussione che si produce tra Schmitt, Rustow e Heller. Il secondo riguarda la metà degli anni ’70, il rapporto sulla crisi della democrazia presentato alla Trilaterale redatto da Crozier, Huntington e Watanuki che dà luogo alla riorganizzazione del potere dello Stato in governance multilivello e all’avvio del programma controegemonico neoliberale su scala globale. Quanto al terzo punto di snodo, farò riferimento ai processi di costituzionalizzazione dell’austerity e ai progetti di stabilizzazione autoritaria indotti dalla crisi di accumulazione prodottasi tra il crollo dei mutui subprime del 2008 e la pandemia del 2020. Il quarto punto delle mie considerazioni concernerà infine l’impianto dei regimi di guerra e quello che qualcuno ha chiamato il divenire-fascista del neoliberalismo contemporaneo.

Una prima precisazione va però premessa a questa mia ultima affermazione. Come qualcun altro ha detto, il fascismo non va considerato un archetipo. Ciò che permetterebbe di nominare una sorta di modello permanente sotto il quale rubricare tutte le manifestazioni dell’autoritarismo, del sessismo, del razzismo e del colonialismo della storia. Il fascismo va piuttosto considerato, sin dalla sua prima apparizione, un prototipo: un progetto il cui sviluppo si rinnova continuamente investendosi in formule, prassi e dispositivi eterogenei e inediti, rispetto ai quali vanno fatte differenze e dei quali va rilevata la singolarità. È necessario comprendere con precisione su quale terreno muoversi e quale nemico affrontare.

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consecutiorerum

Ossigeno e plusvalore, cellula e merce

La logica della scoperta nella critica dell’economia politica

di Sebastiano Taccola

Ossigeno per la vita .jpgLa scoperta dell’ossigeno: un “caso paradigmatico”

L’epistemologia del secondo dopoguerra si è concentrata sulla logica e la struttura delle rivoluzioni scientifiche da diverse prospettive. Che si parli di rottura, rivoluzione, mutamento di paradigma ecc., un punto ha ac­comunato simili orientamenti teorici: scoprire la genesi e le modalità di produzione e sviluppo di ciò che, di volta in volta, nella storia del sapere umano, ha acquistato lo statuto di “scienza” o di “scientifico”. Sullo sfondo vi era la necessità di rompere con un certo storicismo, che considerava la storia della scienza (così come la storia in generale) quale raccolta di fatti e aneddoti, omogenei da un punto di vista qualitativo, da inanellare lungo uno stesso filo conduttore1 2.

All’interno di un simile orizzonte teorico, La struttura delle rivoluzioni scientifiche di Thomas Kuhn può essere considerata come un’opera partico­larmente rappresentativa (uno di quei classici che fanno epoca e che non smettono mai di stimolare la riflessione critica sul proprio presente)3. In questo saggio del 1962, Kuhn esprime tesi ben definite e, verrebbe da dire, radicali:

a) la scienza procede sempre per rotture rivoluzionarie;

b) si ha una rottura rivoluzionaria quando avviene il passaggio da un paradigma scientifico ad un altro;

c) il paradigma è un modello epistemologico accettato dalla comunità scientifica.

Muovendo da queste premesse - che rompono con la cronologia stori­cistica in quanto considerano lo svolgimento storico del sapere scientifico a partire dalla discontinuità dei paradigmi, invece che dalla continuità di un concetto di scienza tanto generico quanto posto arbitrariamente - Kuhn mette in evidenza il mutamento prospettico generato dalla sua teoria dei paradigmi nell’elaborazione di un modello storiografico in grado di rico­struire l’evoluzione e i mutamenti del sapere scientifico.

Secondo Kuhn, all’interno di un determinato paradigma si dà un sapere cumulativo della scienza. Il paradigma definisce i limiti, che perimetrano la ricerca scientifica.

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sollevazione2

Il mito della classe operaia

di Moreno Pasquinelli

PHOTO 2025 05 15 18 23 16.jpgTra i tanti critici che abbiamo alle calcagna ci sono coloro i quali, pur allattatisi al nostro seno e scopiazzando qua e la quanto andiamo sostenendo da anni, ci accusano di aver dimenticato la centralità del “fattore di classe”. Cosa questi critici intendano per “fattore di classe” non è affatto chiaro, dal momento che non sono in grado di dare rigore logico alle loro critiche. Tuttavia è evidente come essi ci stiano lanciando la scomunica: saremmo eretici perché il nostro discorso rivaluta, oltre al primato del Politico sul sociale, i concetti di popolo e nazione “a spese” di quelli di classe operaia e internazionalismo. L’accusa di eresia (una variante tutto sommato garbata dell’accusa di “rossobrunismo”) implica ci sia una “ortodossia”, ma non chiedete loro, tra i disparati marxismi, quale sia il loro. Non lo sanno, e quel che è peggio, non gli interessa saperlo. Agli arruffoni basta e avanza aggrapparsi a certa vulgata. Comunque sia, ove essi, invece di procedere per frasi fatte, accettassero un serrato confronto teorico, qui siamo ed a loro dedichiamo queste riflessioni.

* * * *

No al pressapochismo teorico

Com’è che Marx è considerato un gigante rivoluzionario nonostante non abbia guidato né un movimento di rivolta né tantomeno alcuna rivoluzione sociale? Polemista implacabile bisticciò con la maggior parte dei socialisti del tempo. Morì in esilio e nel massimo isolamento. AI suoi funerali c’erano poco più di dieci persone.

Egli fu rivoluzionario a causa delle sue idee e della grandezza della sua visione teorica. In altri tempi questa precisazione sarebbe stata pleonastica — Lenin: “senza teoria rivoluzionaria non c’è azione rivoluzionaria”. Non è così oggi, dove tutti sono stati infettati dall’analfabetismo funzionale, dal pressapochismo teorico.

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tempofertile

Alcune questioni circa la Cina, confronto tra universalismi. Parte terza

di Alessandro Visalli

WhatsApp Image 2025 04 27 at 16.29.41.jpegScopo del testo e articolazione

Questo articolo è diviso in tre parti, di cui il presente rappresenta la terza. Si tratta di una riflessione che attraversa e mette a confronto due diverse forme di universalismo, riassumibili (pur con le commistioni storiche che si sono date nel tempo) in “Occidentale” e “Orientale”. Prestando la dovuta attenzione al carattere politico e ricostruttivo di queste due etichette affrontare questo nodo richiede valutazioni sulla filosofia della storia, le diverse ontologie sottostanti e antropologie filosofiche, la teoria politica e culturale, la geopolitica e i diversi pensieri critici che nel tempo sono stati prodotti intorno ai due centri tematici, quello marxista e quello decoloniale. Naturalmente sullo sfondo di tutto ciò è da considerare il conflitto ibrido in corso tra i due principali egemoni dei due campi, gli Stati Uniti e la Cina.

L’articolo è stato redatto in vista di un dibattito dal titolo “Pianeta Cina. Appunti per il futuro”, organizzato da L’interferenza, che si terrà a Roma, sabato 17 maggio, a Largo dello Scoutismo 1, e vedrà la presenza in mattinata di Fabrizio Marchi, Vladimiro Giacché, Alessandro Volpi, e nel pomeriggio di Giacomo Rotoli, Carlo Formenti, Andrea Catone e mio.

Nella Prima Parte abbiamo letto nella battaglia di Xi per il “Grande ringiovanimento” della nazione cinese lo sforzo di promuovere nel paese una “modernizzazione selettiva”, nel contesto di un crescente confronto ideologico, culturale, economico e di potenza con l’Occidente e la sua nazione-leader, gli Stati Uniti d’America. Scontro che prende la forma di “guerra ibrida” senza risparmio, che ha come posta la forma che il mondo prenderà in questo secolo.

Si tratta di agire per la conquista del cuore della modernità operando una “decolonizzazione dell’immaginario” che lavori entro quel particolare orizzonte universalista con modalità cinesi rappresentato dalla formula della “Comunità umana dal futuro condiviso”. Dunque, verso l’esterno, per proporre una nuova logica post-coloniale alle relazioni internazionali intorno a progetti strategico-epocali come i Brics e le “vie della seta”. D’altra parte, verso l’interno, per sconfiggere le correnti “liberali” nel Partito e nella società, e, a tal fine, dare una prospettiva diversa della modernizzazione che contrasti il ‘soft power’ Occidentale. Un potere che passa attraverso le sue merci glamour, le immagini e gli stili di vita connessi.

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carmilla

György Lukács, Emilio Quadrelli e Lenin: tre eretici dell’ortodossia marxista

di Sandro Moiso 

György Lukács, Lenin, con un saggio introduttivo di Emilio Quadrelli e una lezione di Mario Tronti, DeriveApprodi, Bologna 2025, pp. 190, 18 euro

Lukacs Quadrelli Lenin cover.jpgLa recente ripubblicazione da parte di DeriveApprodi del testo su Lenin di György Lukács (1885-1971), accompagnato da una corposa introduzione di Emilio Quadrelli (1956-2024) oltre che da un’appendice contenente una lezione di Mario Tronti, permette, tra le tante altre cose, di riflettere approfonditamente sui temi dell’eresia e dell’ortodossia nell’ambito della teoria marxista.

In questo contesto, secondo chi qui scrive, si possono rivelare di grande acume le riflessioni di Lukács e Quadrelli sul significato rivestito dall’imperialismo all’interno del pensiero di Lenin, all’epoca fenomeno, appena definito nelle sue linee essenziali dal testo del liberale inglese John A. Hobson del 1902 (Imperialism), che aveva contribuito a dare vita a una “prima globalizzazione” del mercato e dell’economia mondiale grazie anche a comunicazioni più rapide ed efficienti e all’integrazione dei paesi non industrializzati nell’orbita dei processi industriali, come fornitori di materie prime. Motivo per cui continenti interi e vaste regioni del globo furono stravolte per adattare l’ambiente e la popolazione all’estrazione di metalli o altre materie prime oppure per avviare monoculture estese (cotone, caffè, tè, caucciù, cacao) destinate a rifornire le industrie di trasformazione e i mercati europei, ma servendo anche come mercati in cui riversare il surplus di merci e manufatti prodotti dalle fabbriche europee.

Anche se l’espansione imperiale inglese risaliva a ben prima, preceduta da quella coloniale portoghese, spagnola e olandese, sarebbe stato il Congresso di Berlino, svoltosi tra il 15 novembre del 1884 ed il 26 febbraio del 1885, a rendere visibili gli appetiti espansionistici dei governi ed degli imperi europei con la spartizione (con carte geografiche, righelli, squadre e squadrette “nautiche” alla mano) del continente africano. Una sorta di grande nulla o di carta geografica bianca e “muta” cui solo la volontà degli imperialismi europei avrebbe “potuto” dare un volto e un senso compiuto, secondo le logiche di quello che all’epoca veniva indicato come white man burden ovvero il compito dell’uomo bianco di civilizzare il resto del mondo.