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La campana sta suonando per noi, e da un pezzo

di Luciano Curreri

Un sottile rumore di fondo nell’ottantesimo anniversario della pace mondiale (sic): il caso della guerra in Iraq e La scatola del signor Hulford (2015) di Giorgio Taschini

2025.11.13. CURRERI.pngI.

La guerra in Iraq del 2003-2011 non è stata, almeno nella durata e nella deriva, una seconda guerra del Golfo. La prima (1990-1991), del resto, me la ricordo bene, anche perché all’epoca, da giovane e ultima ruota del carro, scrivevo brevi per il radiogiornale di Radio Torino Popolare (1982-2009).1 Ai nostri giorni, per comodità di narrazione, tendiamo ancora a unirle, ma faremo bene a darci un taglio a questo “arrangiamento da manuale”. E non soltanto per l’11 settembre 2001 e la lunga risposta, la vendetta USA, l’invasione americana dell’Afghanistan (2001-2021) e le leggi antiterroristiche che colpiranno soprattutto un’altra etnia: un’etnia che noi abbiamo fatto fatica a pensare e a rispettare come tale, insieme alla sua identità e religione, alla sua storia e geografia, autoattribuendoci un diritto d’istruzione morale e principiando così, a inizio del nuovo secolo e millennio, a dare ancora una volta un bel bacio dell’addio a libertà civili e diritti dell’uomo, grazie pure a quella acquosa e sanguinante “ciliegina sulla torta” che è stata (e forse è) Guantánamo.2

La cito non a caso, Guantánamo, perché a tutte e tutti verranno in mente le foto e i filmini delle torture brutali e volgari, di natura anche sessuale, evocate ormai come «enhanced interrogation techniques» (in italiano tradotte come «tecniche di interrogatorio potenziato» o come «tecniche di interrogatorio rinforzate»)3 e di cui si resero responsabili uomini e donne sorridenti, “in posa”, dell’esercito americano (da Guantánamo ad Abu Ghraib, cioè allo «scandalo di Abu Ghraib»).

In effetti, una delle scoperte più clamorose e inquietanti seguite da Giorgio Taschini (1968) in La scatola del signor Hulford (2015), proprio relativamente alla guerra in Iraq del 2003-2011, è relativa alla piattaforma americana «Fucked up», che regalava porno ai militari americani in cambio di foto o video di immagini di guerra, di morti ammazzati ai check point: uno spasmodico e tristissimo scambio di carne, che è l’orrore estremo e quotidiano immaginato e raccontato, conseguenze comprese, da un romanzo che non fa sconti ma che non usa il sesso come espediente per vendere di più o vendere (e vendersi) tout court, magari seguendo quegli stilizzati canovacci in cui figura il numero giusto di scene di morte e di sesso, specie quello caratterizzato da violenza, da stupri e da scambi simbolici di natura patologica e funerea.

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infoaut2

Teoria del partito

di Phil A. Neel

mgiddàbofAbbiamo tradotto questo importante articolo di Phil A. Neel apparso su Ill Will che tratta della teoria del partito.

Ci sembra che questo testo risuoni con alcuni dei problemi teorico-pratici che, su una scala certamente differente, si sono imposti nella riflessione militante dopo le incredibili settimane di piena del movimento “Blocchiamo Tutto”. Ora che la marea si è abbassata due sentimenti si sono fatti spazio tra le realtà politiche: da un lato il ritorno ad una certa disillusione dettata dall’andamento del movimento in relazione alla fase oggettiva imposta dalla “tregua” nella Striscia di Gaza, dall’altro una tensione a capitalizzare “politicamente” questo movimento. Avevamo avvertito che la traduzione e l’esondazione di questo fenomeno sociale su altri terreni non sarebbe stata né scontata, né facile, e che avrebbe richiesto una certa presa di responsabilità collettiva da parte delle realtà politiche. In questi giorni si sono moltiplicati generici appelli a organizzarsi, appelli che condividiamo, ma ciò che non è chiaro è per quale scopo e con quale prospettiva. Per quanto ci riguarda abbiamo avanzato l’ipotesi che questo movimento sia un epifenomeno italiano dell’assemblaggio generale di un “nuovo” iper-proletariato dopo il lungo inverno neoliberale e che procedere con gli schemi organizzativi tipici della fase precedente è un lavoro inutile e dannoso. Utilizzando le parole di Phil A. Neel ci pare che ancora una volta ci si concentri sul tentativo di prendere “il comando” dei processi in corso, piuttosto che sullo sviluppo della “soggettività collettiva”, rischiando di rimanere ancora una volta con un pugno di mosche in mano. Ma non c’è da deprimersi, come sottolinea l’autore questi sono passaggi necessari e per certi versi inevitabili.

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lafionda

Turn up the… History. Riorientare il desiderio e l’azione

di Silvano Poli

organizer 1200 1200 675 675 crop 000000.jpgG. W. F. Hegel affermava che la lettura del giornale è la pregheria dell’uomo moderno. Inevitabile come il segno della croce per ogni buon cristiano, molti di noi l’altro ieri hanno aperto gli occhi e scrollato le notizie sul loro calamitico smartphone. A colonizzare il “feed” (quella che una volta era la home) c’era la vittoria di R. Mamdani a nuovo sindaco della Grande Mela. L’entusiasmo, o l’astio sono palpabili, gli appellativi arcinoti e ripetuti fino allo sfinimento: Mamdani è di colore, musulmano e pure socialista.

Il trionfo newyorkese è solo la ciliegina sulla torta di una serata che per i Dem è puro ossigeno. Nella stessa notte, infatti, il partito blu si è portato a casa i Governatori di New Jersey e di Virginia, affiancando anche la maggioranza nel Parlamento federato dello stato “Madre dei Presidenti”. Decisivi sono state anche la vittoria della “Proposition 50” per la ridefinizione dei collegi dei rappresentanti alla Camera – classica storia di Gerrymandering e opposizione al Texas rosso – fortemente voluta dal partito Dem Nazionale e osteggiata ferocemente da Trump; così come la riconferma di tre giudici nella corte federale della Pennsylvania. In breve, dopo mesi di stato comatoso, questo è forse il primo colpo di reni da parte di un partito che sembrava aver assorbito tutta l’inettitudine di Biden e l’ignavia di Harris – che con Mamdani è riuscita a non prendere ancora una volta una posizione strategicamente intelligente. È, di certo, una vittoria degli outsider, di quelle frange ostracizzate dal partito principale: dimostrazione di come il core del partito sia ancora dominato da un’avversione antipopolare che non ha nulla da invidiare ai neocons, ai tecno oligarchi e ai Trump Boyz. E, tuttavia, è indubbio che dopo mesi, se non anni di notizie pessime, una buona notizia non possa non avere l’effetto di galvanizzare l’ambiente e tutti i movimenti.

È certo che Mamdani rappresenti uno dei migliori risultati auspicabili negli USA e che l’egemonia del gigante d’oltreoceano ci porti a fare nostre le sue vicissitudini, a renderci tristi per le sconfitte dei (presunti) “compagni” a stelle e strisce ed entusiasti per le loro vittorie.

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linterferenza

Marxisti e credenti

di Salvatore Bravo

costanzo preve mr.jpgCostanzo Preve fu hegelo-marxiano, egli testimoniò lungo la sua esistenza la necessità ontologica del dialogo. Con il dialogo si attraversano le divisioni ideologiche per ritrovarsi sul fondamento, mai definitivo, della verità. Quest’ultima si rivela nella parresia, ma non è mai “morta cosa”, perché a essa ci si deve sempre riaccostare per ridefinirla e ascoltarne la presenza. L’incomunicabilità è “assenza di pensiero” che la filosofia contribuisce a sanare. Le barriere sclerotizzano la parola e la confinano nel silenzio irrazionale.

La contrapposizione fra marxisti e credenti ha favorito il “potere” che si consolida nel guerreggiare delle opposizioni, le quali contribuiscono alla disgregazione del popolo. Tale condizione ha accompagnato la Guerra fredda e, con la fine del comunismo reale, si è ulteriormente incancrenita, poiché la sconfitta storica ha inoculato nei marxisti sopravvissuti la vergogna di essere tali. Il confronto necessita di “chiarezza emotiva”, per cui la vergogna è sicuramente un limite alla parola. Colui che porta l’impronta della sconfitta e la vive come una colpa non è nelle condizioni di dialogare. Solo la pari dignità dei dialoganti consente alla parola il confronto creativo e razionale:

“Per un confronto infatti occorre essere in due, e mentre i cristiani esistono ancora e si fanno sentire, i marxisti sembrano vergognarsi di esser rimasti tali, e non sembrano neppure essere riusciti a mantenere quella rete minima di contatti e di lavoro comune da cui nascono le “rivoluzioni scientifiche” ed i mutamenti di paradigmi. In proposito l’entusiasmo e la solidarietà verso la cosiddetta “teologia della liberazione” (fenomeno essenzialmente latino-americano) sono fenomeni assai positivi, ma non possono sostituire una riflessione che si voglia realmente “interna” alle nostre difficoltà di “marxisti che non hanno mollato” nei confronti delle nuove problematiche culturali dei credenti[1]”.

La cultura marxiana ha il merito di aver liberato l’economia dai suoi processi di ipostatizzazione. Il metodo genealogico e il materialismo storico hanno liberato l’economia da una visione dogmatica. La critica alla religione mediante la ricostruzione della genesi sociale e di classe dimostra l’uso che di essa è stato fatto per eternizzare i principi economici delle classi dirigenti.

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coku

Luxemburg vs Bernstein. Le crisi economiche e il dilemma tra riforma sociale e rivoluzione

di Eugenio Donnici

rosa 1220x600.jpgCi sono dei dilemmi, che sebbene siano risolti da lungo tempo, continuano ad assillare la mente e, in generale, la vita quotidiana di coloro che sono coinvolti attivamente nelle vicende politiche e sindacali. Il muoversi lungo questa direttrice, in modo quasi funambolico, continua a produrre sterili contrapposizioni, non solo all’interno di quel che resta nella “galassia della sinistra”, ma anche tra il “sindacalismo di base” (di classe) e i sindacati “concertativi”, che contemporaneamente, influenzano e gravitano nella connessa galassia.

Le parole riforma e rivoluzione esprimono due concetti, i cui significati etimologici, nel fluire del tempo e dello spazio, oltre a mutare il corso del fiume, che è un processo che rientra nel piano semantico, hanno svilito la loro “potenza” evocativa e sono diventati indifferenti, muti, nel senso che dicono tutto e il contrario di tutto.

Quando si ricorre al termine riforma, per introdurre provvedimenti legislativi che fanno finta di cambiare il contesto in cui si agisce o addirittura peggiorano le condizioni di vita di chi deve rispettare quella norma retrograda e reazionaria, la società non ne trae nessun beneficio, anzi entra in confusione ed entrano in gioco le spinte regressive, così quando ascoltiamo spot pubblicitari come la “Rivoluzione gentile del latte”, è chiaro che siamo di fronte alla vendita di illusioni, in un determinato contesto, e che quella sostanza liquida biancastra, non produce cambiamenti significativi nella vita reale.

È pur vero che l’espressione linguistica richiamata possa esprimere una metafora, tuttavia è facilmente percepibile, anche alle sensibilità più ingenue, che si tratti di una promozione di una marca di un prodotto particolare, in luogo particolare.

Nel lontano 1899, Rosa Luxemburg, nell’esporre le sue critiche al “metodo opportunista” e alla posizione revisionista di E. Bernstein, nell’ambito della Seconda Internazionale e dei conflitti interni al partito socialdemocratico tedesco, chiede: «La socialdemocrazia può contrapporre la rivoluzione sociale, il rovesciamento dell’ordine esistente, che costituisce il suo scopo finale, alla riforma sociale?». (1)

La sua risposta è: «Certo che no!».

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doppiozero 

Dalla politica alla geopolitica: minoranze antagoniste

di Rocco Ronchi

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Le grandi manifestazioni per Gaza hanno segnato la nascita di un soggetto finalmente “politico”. Prova ne è stata non solo la reazione dell’estrema destra governativa, che ha immediatamente fiutato il nemico e ha cercato di spegnerlo nella culla agitando lo spettro della “violenza”, ma anche lo smarrimento della sinistra istituzionale che ha visto minacciata la propria comfort zone fatta di quieta inoperosità e di retorica sui valori democratici. Parlo di nascita di un soggetto politico senza qualificarlo, come d’abitudine, con l’aggettivo “nuovo”, perché proprio di questo siamo stati testimoni: del ritorno di una soggettività antagonista nel tempo della crisi epocale e definitiva della democrazia liberale. Improvvisamente e inaspettatamente, è diventato visibile un movimento di massa all’altezza dell’evento capitale che ha segnato a livello mondiale la contemporaneità, un movimento in grado di “controeffettuarlo”, come avrebbe detto il filosofo a cui non ci si può non riferire per cercare di comprendere il nostro presente (nonostante Gilles Deleuze sia morto trent’anni fa). “Controeffettuare” la fine della democrazia liberale non significa restaurarla – non si resuscitano i morti – ma provare a trasformarla, per quanto è possibile, e ben consapevoli dell’improbabilità dell’esito positivo, in un’occasione per l’affermazione della giustizia.

A fare da orizzonte alle grandi mobilitazioni è stata infatti la consapevolezza da parte del movimento dell’avvenuta trasformazione della politica quale la conoscevamo e la frequentavamo sui banchi di scuola. Mi riferisco alla politica fatta di maggioranze elettorali conquistate con la persuasione razionale, di minoranze comunque garantite, la politica intesa come arena delle opinioni in conflitto tra loro e poste su un piano almeno di formale parità, la politica, insomma, di cui hanno nostalgia i nostri intellettuali progressisti. Quella politica non c’è più. Si è dissolta come neve al sole. Al suo posto è subentrato qualcos’altro che, in mancanza di un termine migliore, prendendo a prestito un lemma oggi molto in voga, chiamo “geopolitica”.

Il prefisso “geo” aggiunto al lemma “politica” non sta infatti a significare una semplice presa d’atto della dimensione internazionale del conflitto.

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coku

Lezione di Harry Braverman a giovani Aut Op

di Leo Essen

Honoré Daumier 034.jpg1

Come conseguenza del taylorismo le attività lavorative si semplificano e si riducono a semplice dispendio di forza lavoro, di muscoli e cervello. I lavoratori, dice Braverman (Lavoro e capitale monopolistico), diventano intercambiabili. Spariscono le specializzazioni, i lavori si degradano, si appiattiscono, le mansioni si uniformano. Passare da un lavoro ad un altro diventa sempre più facile. È richiesto un periodo brevissimo (addirittura, qualche giorno o qualche settimana) di addestramento o formazione. Si tratta di una conseguenza della divisione del lavoro e della parcellizzazione. I lavoratori diventano tutti uguali, si uniformano in una classe. Nella società i lavoratori sono niente, mentre il capitale è tutto.

Che cos’è il lavoro nel capitalismo? È niente.

La forza costituente della classe lavoratrice si esprime in questa deprivazione: il lavoro è lavoro depauperato, lavoro povero, dequalificato, unskilled.

Come si arriva a questa spoliazione?

Perseguendo due obiettivi: l’efficienza e il controllo della mansione. In verità l’obiettivo è uno, l’efficienza. Il controllo della mansione è subordinato all’efficienza. Essa viene perfezionata da Taylor.

 

2

Il taylorismo spacchetta un processo in singole funzione e le standardizza. La funzione diventa ripetibile. Gli elementi della prestazione e le materie su cui si applica devono rimane costanti, così come deve rimanere costante la procedura. Lo scopo principale della misurazione è la ripetizione. Nella fabbrica di spilli il processo è diviso in modo da rendere le operazioni standardizzabili e facilmente ripetibili. L’efficienza è una conseguenza diretta della ripetibilità. Più la funzione è semplice, più diventa facile ripeterla. In ogni caso bisogna seguire degli standard.

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marxismoggi

Ripensare la pianificazione socialista

di Gabriele Repaci

49085486 1116841328488089 8195723733155971072 n.jpgIntroduzione

La crisi finanziaria globale del 2007-2008, esplosa a partire dal mercato dei mutui subprime negli Stati Uniti, non è stata il frutto del caso né il risultato di un momentaneo malfunzionamento del capitalismo.

Al contrario, essa ha rappresentato, nelle sue caratteristiche fondamentali, l’essenza stessa del modo di produzione capitalistico: la corsa sfrenata al massimo profitto, la compressione dei diritti della classe lavoratrice e i tentativi disperati di sfuggire alla crisi di sovrapproduzione attraverso la speculazione finanziaria, l’espansione del credito e la creazione artificiosa di moneta.

Quando i profitti non possono più essere sostenuti dalla produzione reale, il sistema reagisce spostando la contraddizione nel regno del denaro e del debito, gonfiando bolle speculative e alimentando un’instabilità cronica che si traduce in crisi sociali e politiche.

L’irrazionalità del capitale — la sua anarchia, la sua disumanità — emerge così in tutta la sua drammaticità, travolgendo le speranze di milioni di persone in ogni continente.

Le crisi più recenti non hanno fatto che confermare questa tendenza.

La pandemia di Covid-19 ha mostrato l’incapacità dei mercati globali di garantire la sicurezza collettiva anche di fronte a un’emergenza sanitaria, rivelando la fragilità delle catene di approvvigionamento e la dipendenza di interi settori da logiche di profitto immediato.

Il conflitto in Ucraina e la guerra in Gaza hanno evidenziato il nesso sempre più stretto tra economia e militarismo, con la produzione di armi e l’energia trasformate in strumenti di egemonia e di ricatto geopolitico.

Nel frattempo, la crisi climatica e ambientale ha reso evidente il carattere autodistruttivo di un modello fondato sull’accumulazione illimitata: incendi, alluvioni, siccità e migrazioni di massa sono i segni tangibili di un’economia che consuma le proprie condizioni di esistenza.

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Le frontiere del valore

di Michael Roberts

Merci porto 1.jpgGüney Işıkara e Patrick Mokre hanno pubblicato un libro approfondito che spiega come la teoria del valore di Marx funzioni per spiegare le tendenze e le fluttuazioni nelle moderne economie capitalistiche. Il titolo, Marx’s Theory of Value at the Frontiers – Classical Political Economics, Imperialism and Ecological Breakdown[La teoria del valore di Marx alle frontiere – Economia politica classica, imperialismo e collasso ecologico], indica al lettore che il libro tratta della legge del valore di Marx applicata a quelle che gli autori definiscono le sue “frontiere”, ovvero i mercati e il commercio, l'imperialismo e la crisi ambientale globale.

Si tratta di un progetto ambizioso, ma gli autori riescono con grande chiarezza a spiegare come il valore (creato dalla forza lavoro umana al massimo livello di astrazione) sia modificato e mediato dalla concorrenza tra capitalisti in quelli che Marx chiamava “prezzi di produzione” (dove i tassi di profitto dei singoli capitali si stabilizzano) e dai prezzi di mercato (dove i profitti in eccesso spingono i capitalisti a una concorrenza incessante).

Gli autori, ex studenti di Anwar Shaikh, adottano la sua teoria della “concorrenza reale” in contrapposizione alla tradizionale “concorrenza perfetta”. Quest'ultima si basa su una visione della produzione capitalistica fondata su armonia ed equilibrio, mentre la concorrenza reale è [caratterizzata da] una turbolenza incessante. Questa è la concorrenza reale in azione: «antagonista per natura e turbolenta nel suo funzionamento» (Shaikh). Gli autori sostengono che questa concorrenza reale sia il principio regolatore centrale del capitalismo, ma che «qualsiasi teoria della concorrenza, inclusa la concorrenza reale, deve essere supportata da una teoria del valore. Altrimenti, la fonte dei ricavi che spettano alle diverse classi sociali (tra le altre cose) rimarrà indeterminata».

Işıkara e Mokre si sono prefissati di dimostrare la connessione logica (e storica) tra il valore creato dalla forza lavoro e i prezzi di mercato.

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Contro il diritto internazionale

di Jacques Bonhomme

diritto internazionale.jpg1. Il diritto internazionale come ideologia

Il diritto, nel senso più lato della parola, e guardando alla società borghese, non è soltanto ideologia. Pašukanis, per esempio, ha mostrato, in relazione al mondo storico della borghesia, la necessaria cooperazione del diritto con le forme economiche fondamentali del contratto proprietario, dello scambio delle merci e della disumanizzazione capitalistica del lavoratore, rivestito dell’uguaglianza delle merci in quanto merce forza-lavoro, la merce più importante, quella che deve produrre il valore delle merci. Perciò il diritto, fin dagli inizi della società borghese, è stato coessenziale alla produzione di valore, ossia di plusvalore attraverso plus-lavoro. Per questo Pašukanis fa rientrare il diritto nell’economia politica, e, contemporaneamente, lo sottrae alla sfera dell’ideologia, dove era stato confinato da interpretazioni frettolose, schematiche e soprattutto riduttive del materialismo storico. Questa accorta e lungimirante comprensione del pensiero di Marx sul diritto, non è rimasta isolata e marxisti molto diversi tra loro come l’ultimo Lukács e Toni Negri, ne hanno raccolto l’eredità, il primo in modo indiretto e seguendo un proprio cammino, il secondo in modo più esplicito. Sembra quindi assodato che quanto già sapevano, seppur senza un ampio sviluppo tematico, Marx e Lenin, e cioè che il diritto e lo Stato sono fattori organizzativi interni ai rapporti di produzione capitalistici, sia divenuto nella prassi e nel pensiero dei movimenti antimperialisti del Novecento, a seconda dei casi più o meno permeati dal marxismo, un’acquisizione ben assimilata. In conclusione, il diritto eccede l’ideologia in quanto è, insieme allo Stato, nel quale confluisce e dal quale procede, uno strumento materiale del dominio di classe, sia nazionale che internazionale.

Ma il diritto è anche ideologia, è una delle forme originarie dell’ideologia borghese, è scaturito dal modello delle dichiarazioni del XVIII secolo, e perciò è ideologia in quanto contraffazione del particolare interesse di classe borghese attraverso i fini e gli ideali generali – o universali – dell’homme e del citoyen.

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coku

Baran e Sweezy e il Potere operaio

di Leo Essen

baranesweezy 1220x600.jpgChe cosa sono i costi di produzione socialmente necessari quando la differenza tra fabbricazione e vendita è cancellata? Se il limite posto dai costi è variabile, persino aleatorio, indefinibile, cosa sono i prezzi se non cartellini arbitrari; che sono l’interesse, il surplus, le valute, i cambi e le bilance commerciali?

La struttura del capitalismo monopolistico, dicono Baran e Sweezy (Il capitale monopolistico), è tale che un volume continuamente crescente di surplus non si potrebbe smaltire attraverso canali privati: in mancanza di altri sbocchi, il surplus non sarebbe prodotto affatto.

La situazione in cui una parte del surplus prodotto non trova impiego profittevole è quella del capitalismo concorrenziale. In esso un eccesso di capitali che non trova condizioni favorevoli di valorizzazione produce disoccupazione e disimpego di impianti.

Il sistema del laissez-faire – la concorrenza – produce una quantità di capitali superiore alle possibilità di valorizzazioni offerte dal mercato. Fino al 1870 questo capitale in eccesso veniva distrutto. Il mercato poteva riprendere il suo regolare funzionamento solo dopo questa distruzione.

In condizioni di laissez-faire il mercato è una struttura autonoma indipendente dal desiderio e dalla volontà dei partecipanti. La concorrenza conduce i prezzi al limite dei costi socialmente necessari alla produzione della merce. C’è un limite indipendente oltre il quale il mercato boccia le offerte. Questa struttura indipendente determina contemporaneamente l’impiego dei fattori – lavoratori, clienti, fornitori, proprietari – e la distribuzione dei prodotti.

Dopo il 1870, e in maniera decisiva dopo la Grande Depressione (1873-1896), il sistema dei prezzi rappresenta un limite per la valorizzazione. I prezzi che il mercato impone alle imprese, e sotto i quali esse non possono scendere, non sono più sostenibili. Il mercato boccia il mercato. Meglio non produrre affatto che produrre in perdita. A meno che non si trovi un metodo per ingannare il mercato e superare la concorrenza.

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marxdialectical

Riflessioni a partire dallo sciopero

di Roberto Fineschi

dmnvknmyfI. Problemi di costruzione di un’identità politica di classe

Nonostante i deliri dello ius sanguinis e il “patriottardismo” del ventennio in nero, la stessa nozione di “popolo italiano” è un costrutto storico in divenire e, nonostante più di centocinquantanni di esistenza istituzionale, tutt’altro che consolidato.

La frantumazione secolare, le differenze socio-economiche, culturali, istituzionali, linguistiche delle varie zone dell’attuale Italia politica hanno reso la creazione di un’entità definibile “popolo italiano” quanto mai complessa, irta di difficoltà e resa ancor più accidentata dalla peculiare composizione della lotta di classe in quel contesto.

La sempre sottolineate estraneità – o addirittura opposizione – delle masse popolari per lo più contadine al processo risorgimentale, il carattere dispotico e disumano del regime liberale prima, del fascismo poi (e il primo in verità meno popolare del secondo) hanno alimentato quello stesso sentimento di non immedesimazione, distacco, ribellione anarcoide contro le istituzioni, qualunque esse siano.

Solo la nascita dei movimenti socialisti prima e comunisti poi da una parte, lo strutturato solidarismo paternalistico cattolico dall’altra hanno contribuito a organizzare il comune sentimento di essere sulla stessa barca di una massa di diseredati mai diventati pienamente cittadini in senso “borghese”.

Il tardo e limitato sviluppo capitalistico, il carattere ultraelitistico delle classi dirigenti italiane hanno limitato il processo progressivo di borghesizzazione della società – la cittadinanza, l’identificazione progressista, e non puramente retorica, di nazione e stato – a una fascia limitata della popolazione, escludendo il “popolo”.

La natura di fondo anarcoide e disorganizzata di questo popolo, la refrattarietà a identificarsi in organizzazioni istituzionali, come si diceva, solo in parte è stata compensata dall’attività politica organizzata dei partiti di massa e ha lasciato fuori da questi processi una larga parte della popolazione che ha continuato a preferire, come aveva fatto per secoli, far buon viso a cattivo gioco, senza capacità trasformativa di largo respiro, mirando al proprio “particulare” date le circostanze esternamente date (Guicciardini teorizza e docet).

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effimera

Note sul libro di Michael Hardt “I Settanta sovversivi. La globalizzazione delle lotte”

di Andrea Fumagalli

Settanta sovversivi 1.jpegLa tesi di Michael Hardt, presentata nel libro I Settanta sovversivi. La globalizzazione delle lotte, (Derive Approdi, Bologna, pp. 310, Euro 22,00) è molto semplice ed è già esposta nel titolo:

“Gli anni Settanta sono stati un decennio sovversivo. I politici e i loro generali, i capi della polizia e gli agenti dei servizi segreti, i giornalisti, gli intellettuali conservatori vedevano “sovversivi” dappertutto” (p. 5).

Ma cosa significa “anni sovversivi”? Secondo la Treccani, l’aggettivo “sovversivo” rimanda a due significati:

“1. Che tende a sovvertire l’ordine costituito di uno stato: dottrine, teorie s.; attività s.; propaganda s., delitto contro la personalità dello stato che consiste in un’attività di propaganda per l’instaurazione violenta di una dittatura o per il sovvertimento e la distruzione dell’ordinamento sociale; 2. Per estensione, che sovverte la tradizione, che tende a rivoluzionare e a sconvolgere uno stato di cose esistente”.

La prima definizione è quella che viene tradizionalmente attribuita agli anni Settanta, quindi un’accezione tendenzialmente negativa. Ancora oggi la vulgata dei media ancora si muove in questa direzione. Basti pensare che l’espressione più usata per etichettare quel periodo è “anni di piombo”, un’espressione che, peraltro, tradisce la sua vera origine[1].

Hardt, invece, fa un’operazione di verità storica a 50 anni da quel decennio e afferma che la definizione corretta che deve essere usata è la seconda e riporta in esergo del capitolo introduttivo la seguente affermazione, contenuta in un documento scritto da alcuni militanti dell’Autonomia in attesa del processo al carcere di Rebibbia, Roma, 1983:

“Che non abbiamo avuto nulla a che fare con il terrorismo, è ovvio. Che siamo stati “sovversivi” è altrettanto ovvio. Tra queste due verità si trova la posta in palio del nostro processo”.

A tal fine, per meglio chiarire la questione della “sovversione”, è necessario partire dalla critica ad alcuni luoghi comuni.

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doppiozero

Roberto Esposito nelle tenebre del fascismo

di Rocco Ronchi

978880626945HIG.jpegLa necessità di una riflessione filosofica sul fascismo si impone quando il fascismo diventa una minaccia reale. Per quanto indiscutibili siano tutte le differenze tra la situazione presente e quella vissuta negli anni venti e trenta del secolo scorso, la parola “fascismo” affiora inevitabilmente alla mente quando si vuole inquadrare il fenomeno populista-sovranista. E, con essa, il suo opposto, “antifascismo”, anche questo un termine abusato, gravato da una retorica che ne compromette sul nascere l’efficacia, e, tuttavia, anch’esso, inevadibile, quasi necessario. In attesa di nuovi e più precisi concetti scontiamo, insomma, la limitatezza del nostro vocabolario. Dobbiamo prendere a prestito vecchi termini per eventi nuovi, ma se questo è possibile è perché tra il vecchio e il nuovo vi è, di fatto, una continuità reale che è proprio quanto oggi ci inquieta e ci interpella.

Per queste ragioni il saggio di Roberto Esposito, Il Fascismo e noi (Einaudi, 2025), è un libro importante fin dal suo titolo programmatico: non chiede, infatti, soltanto che cosa sia stato il fascismo storico, ma chiede di “noi” rispetto ad esso, chiede “chi” siamo “noi” che lo abbiamo stigmatizzato come un orrore, ma che, oggi come allora, di fronte a un orrore solo somigliante (perché la via dell’”analogia”, secondo Esposito, è impercorribile) proviamo la stessa sensazione di impotenza, come se fossimo alle prese con una macchina che funziona in modo implacabile, una macchina cieca al senso e votata soltanto alla sua operatività illimitata. Gaza non è un campo di sterminio nazista ma gli somiglia, i militari dell’Idf non sono le SS ma gli somigliano, gli autocrati che impazzano ovunque non sono i duci fascisti ma gli somigliano e “noi” non siamo i nostri padri o nonni, i quali, nel migliore dei casi, hanno assistito come testimoni sgomenti all’avvento dell’orrore, ma gli somigliamo. E la somiglianza diventa quasi una relazione di identità se si considera il desiderio irrefrenabile di sottomissione e di vendetta (sui più deboli) che attraversa quel “popolo” sulla cui incondizionata sovranità tutti i populismi scommettono.

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machina

Guardare il genocidio e non vederlo

di Maurizio Guerri

0e99dc 32e6580b71154a30bf37960f5459e95amv2Le immagini della distruzione di Gaza sono la cifra del nostro tempo, ma «allo stesso tempo» provengono da un passato composito e illusoriamente archiviato, l’anacronismo della guerra e dello sterminio che fa irruzione nella trama del presente e lo irretisce. Si tratta allora di comprendere qual è il culto religioso che queste immagini paralizzanti stanno tramandando e radicando, a quale funzione politica assicurano il loro magnetismo, quali sono le modalità specifiche in cui entrano in rapporto con una tendenza storica che già Walter Benjamin e poi Jean Baudrillard, in epoche differenti, hanno sorpreso a «fare della sua peggiore alienazione un godimento estetico spettacolare». Anche per ricavarne in controluce il valore delle mobilitazioni del 22 settembre e i potenziali di rottura che quella giornata ci chiede di prendere in consegna e portare a maturazione.

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La pulizia etnica in corso a Gaza costituisce una delle più grandi tragedie della storia dopo la fine della Seconda guerra mondiale e noi ne siamo testimoni. Lo sterminio deliberato della popolazione civile con armi, sistemi elettronici, sostegno politico ed economico di Stati Uniti ed Europa avviene in diretta, così come in diretta è la distruzione deliberata di strutture sanitarie e il blocco dei rifornimenti di viveri e medicinali per gli abitanti di Gaza, bambini inclusi.

Ogni mattina i mezzi di informazione enunciano la cifra degli assassinati palestinesi che sono colpiti dai cecchini mentre cercano di avere un po’ d’acqua o un po’ di farina. Sarebbe stato difficile immaginare di poter vedere un’altra volta il tirassegno su civili inermi, dopo aver letto sui libri di storia i crimini di Amon Göth, che si divertiva a colpire col fucile di precisione prigionieri a caso del campo di Płaszów, prendendo la mira dal balcone della sua villa.