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doppiozero 

Dalla politica alla geopolitica: minoranze antagoniste

di Rocco Ronchi

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Le grandi manifestazioni per Gaza hanno segnato la nascita di un soggetto finalmente “politico”. Prova ne è stata non solo la reazione dell’estrema destra governativa, che ha immediatamente fiutato il nemico e ha cercato di spegnerlo nella culla agitando lo spettro della “violenza”, ma anche lo smarrimento della sinistra istituzionale che ha visto minacciata la propria comfort zone fatta di quieta inoperosità e di retorica sui valori democratici. Parlo di nascita di un soggetto politico senza qualificarlo, come d’abitudine, con l’aggettivo “nuovo”, perché proprio di questo siamo stati testimoni: del ritorno di una soggettività antagonista nel tempo della crisi epocale e definitiva della democrazia liberale. Improvvisamente e inaspettatamente, è diventato visibile un movimento di massa all’altezza dell’evento capitale che ha segnato a livello mondiale la contemporaneità, un movimento in grado di “controeffettuarlo”, come avrebbe detto il filosofo a cui non ci si può non riferire per cercare di comprendere il nostro presente (nonostante Gilles Deleuze sia morto trent’anni fa). “Controeffettuare” la fine della democrazia liberale non significa restaurarla – non si resuscitano i morti – ma provare a trasformarla, per quanto è possibile, e ben consapevoli dell’improbabilità dell’esito positivo, in un’occasione per l’affermazione della giustizia.

A fare da orizzonte alle grandi mobilitazioni è stata infatti la consapevolezza da parte del movimento dell’avvenuta trasformazione della politica quale la conoscevamo e la frequentavamo sui banchi di scuola. Mi riferisco alla politica fatta di maggioranze elettorali conquistate con la persuasione razionale, di minoranze comunque garantite, la politica intesa come arena delle opinioni in conflitto tra loro e poste su un piano almeno di formale parità, la politica, insomma, di cui hanno nostalgia i nostri intellettuali progressisti. Quella politica non c’è più. Si è dissolta come neve al sole. Al suo posto è subentrato qualcos’altro che, in mancanza di un termine migliore, prendendo a prestito un lemma oggi molto in voga, chiamo “geopolitica”.

Il prefisso “geo” aggiunto al lemma “politica” non sta infatti a significare una semplice presa d’atto della dimensione internazionale del conflitto.

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coku

Lezione di Harry Braverman a giovani Aut Op

di Leo Essen

Honoré Daumier 034.jpg1

Come conseguenza del taylorismo le attività lavorative si semplificano e si riducono a semplice dispendio di forza lavoro, di muscoli e cervello. I lavoratori, dice Braverman (Lavoro e capitale monopolistico), diventano intercambiabili. Spariscono le specializzazioni, i lavori si degradano, si appiattiscono, le mansioni si uniformano. Passare da un lavoro ad un altro diventa sempre più facile. È richiesto un periodo brevissimo (addirittura, qualche giorno o qualche settimana) di addestramento o formazione. Si tratta di una conseguenza della divisione del lavoro e della parcellizzazione. I lavoratori diventano tutti uguali, si uniformano in una classe. Nella società i lavoratori sono niente, mentre il capitale è tutto.

Che cos’è il lavoro nel capitalismo? È niente.

La forza costituente della classe lavoratrice si esprime in questa deprivazione: il lavoro è lavoro depauperato, lavoro povero, dequalificato, unskilled.

Come si arriva a questa spoliazione?

Perseguendo due obiettivi: l’efficienza e il controllo della mansione. In verità l’obiettivo è uno, l’efficienza. Il controllo della mansione è subordinato all’efficienza. Essa viene perfezionata da Taylor.

 

2

Il taylorismo spacchetta un processo in singole funzione e le standardizza. La funzione diventa ripetibile. Gli elementi della prestazione e le materie su cui si applica devono rimane costanti, così come deve rimanere costante la procedura. Lo scopo principale della misurazione è la ripetizione. Nella fabbrica di spilli il processo è diviso in modo da rendere le operazioni standardizzabili e facilmente ripetibili. L’efficienza è una conseguenza diretta della ripetibilità. Più la funzione è semplice, più diventa facile ripeterla. In ogni caso bisogna seguire degli standard.

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marxismoggi

Ripensare la pianificazione socialista

di Gabriele Repaci

49085486 1116841328488089 8195723733155971072 n.jpgIntroduzione

La crisi finanziaria globale del 2007-2008, esplosa a partire dal mercato dei mutui subprime negli Stati Uniti, non è stata il frutto del caso né il risultato di un momentaneo malfunzionamento del capitalismo.

Al contrario, essa ha rappresentato, nelle sue caratteristiche fondamentali, l’essenza stessa del modo di produzione capitalistico: la corsa sfrenata al massimo profitto, la compressione dei diritti della classe lavoratrice e i tentativi disperati di sfuggire alla crisi di sovrapproduzione attraverso la speculazione finanziaria, l’espansione del credito e la creazione artificiosa di moneta.

Quando i profitti non possono più essere sostenuti dalla produzione reale, il sistema reagisce spostando la contraddizione nel regno del denaro e del debito, gonfiando bolle speculative e alimentando un’instabilità cronica che si traduce in crisi sociali e politiche.

L’irrazionalità del capitale — la sua anarchia, la sua disumanità — emerge così in tutta la sua drammaticità, travolgendo le speranze di milioni di persone in ogni continente.

Le crisi più recenti non hanno fatto che confermare questa tendenza.

La pandemia di Covid-19 ha mostrato l’incapacità dei mercati globali di garantire la sicurezza collettiva anche di fronte a un’emergenza sanitaria, rivelando la fragilità delle catene di approvvigionamento e la dipendenza di interi settori da logiche di profitto immediato.

Il conflitto in Ucraina e la guerra in Gaza hanno evidenziato il nesso sempre più stretto tra economia e militarismo, con la produzione di armi e l’energia trasformate in strumenti di egemonia e di ricatto geopolitico.

Nel frattempo, la crisi climatica e ambientale ha reso evidente il carattere autodistruttivo di un modello fondato sull’accumulazione illimitata: incendi, alluvioni, siccità e migrazioni di massa sono i segni tangibili di un’economia che consuma le proprie condizioni di esistenza.

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antropocenejpg

Le frontiere del valore

di Michael Roberts

Merci porto 1.jpgGüney Işıkara e Patrick Mokre hanno pubblicato un libro approfondito che spiega come la teoria del valore di Marx funzioni per spiegare le tendenze e le fluttuazioni nelle moderne economie capitalistiche. Il titolo, Marx’s Theory of Value at the Frontiers – Classical Political Economics, Imperialism and Ecological Breakdown[La teoria del valore di Marx alle frontiere – Economia politica classica, imperialismo e collasso ecologico], indica al lettore che il libro tratta della legge del valore di Marx applicata a quelle che gli autori definiscono le sue “frontiere”, ovvero i mercati e il commercio, l'imperialismo e la crisi ambientale globale.

Si tratta di un progetto ambizioso, ma gli autori riescono con grande chiarezza a spiegare come il valore (creato dalla forza lavoro umana al massimo livello di astrazione) sia modificato e mediato dalla concorrenza tra capitalisti in quelli che Marx chiamava “prezzi di produzione” (dove i tassi di profitto dei singoli capitali si stabilizzano) e dai prezzi di mercato (dove i profitti in eccesso spingono i capitalisti a una concorrenza incessante).

Gli autori, ex studenti di Anwar Shaikh, adottano la sua teoria della “concorrenza reale” in contrapposizione alla tradizionale “concorrenza perfetta”. Quest'ultima si basa su una visione della produzione capitalistica fondata su armonia ed equilibrio, mentre la concorrenza reale è [caratterizzata da] una turbolenza incessante. Questa è la concorrenza reale in azione: «antagonista per natura e turbolenta nel suo funzionamento» (Shaikh). Gli autori sostengono che questa concorrenza reale sia il principio regolatore centrale del capitalismo, ma che «qualsiasi teoria della concorrenza, inclusa la concorrenza reale, deve essere supportata da una teoria del valore. Altrimenti, la fonte dei ricavi che spettano alle diverse classi sociali (tra le altre cose) rimarrà indeterminata».

Işıkara e Mokre si sono prefissati di dimostrare la connessione logica (e storica) tra il valore creato dalla forza lavoro e i prezzi di mercato.

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Contro il diritto internazionale

di Jacques Bonhomme

diritto internazionale.jpg1. Il diritto internazionale come ideologia

Il diritto, nel senso più lato della parola, e guardando alla società borghese, non è soltanto ideologia. Pašukanis, per esempio, ha mostrato, in relazione al mondo storico della borghesia, la necessaria cooperazione del diritto con le forme economiche fondamentali del contratto proprietario, dello scambio delle merci e della disumanizzazione capitalistica del lavoratore, rivestito dell’uguaglianza delle merci in quanto merce forza-lavoro, la merce più importante, quella che deve produrre il valore delle merci. Perciò il diritto, fin dagli inizi della società borghese, è stato coessenziale alla produzione di valore, ossia di plusvalore attraverso plus-lavoro. Per questo Pašukanis fa rientrare il diritto nell’economia politica, e, contemporaneamente, lo sottrae alla sfera dell’ideologia, dove era stato confinato da interpretazioni frettolose, schematiche e soprattutto riduttive del materialismo storico. Questa accorta e lungimirante comprensione del pensiero di Marx sul diritto, non è rimasta isolata e marxisti molto diversi tra loro come l’ultimo Lukács e Toni Negri, ne hanno raccolto l’eredità, il primo in modo indiretto e seguendo un proprio cammino, il secondo in modo più esplicito. Sembra quindi assodato che quanto già sapevano, seppur senza un ampio sviluppo tematico, Marx e Lenin, e cioè che il diritto e lo Stato sono fattori organizzativi interni ai rapporti di produzione capitalistici, sia divenuto nella prassi e nel pensiero dei movimenti antimperialisti del Novecento, a seconda dei casi più o meno permeati dal marxismo, un’acquisizione ben assimilata. In conclusione, il diritto eccede l’ideologia in quanto è, insieme allo Stato, nel quale confluisce e dal quale procede, uno strumento materiale del dominio di classe, sia nazionale che internazionale.

Ma il diritto è anche ideologia, è una delle forme originarie dell’ideologia borghese, è scaturito dal modello delle dichiarazioni del XVIII secolo, e perciò è ideologia in quanto contraffazione del particolare interesse di classe borghese attraverso i fini e gli ideali generali – o universali – dell’homme e del citoyen.

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coku

Baran e Sweezy e il Potere operaio

di Leo Essen

baranesweezy 1220x600.jpgChe cosa sono i costi di produzione socialmente necessari quando la differenza tra fabbricazione e vendita è cancellata? Se il limite posto dai costi è variabile, persino aleatorio, indefinibile, cosa sono i prezzi se non cartellini arbitrari; che sono l’interesse, il surplus, le valute, i cambi e le bilance commerciali?

La struttura del capitalismo monopolistico, dicono Baran e Sweezy (Il capitale monopolistico), è tale che un volume continuamente crescente di surplus non si potrebbe smaltire attraverso canali privati: in mancanza di altri sbocchi, il surplus non sarebbe prodotto affatto.

La situazione in cui una parte del surplus prodotto non trova impiego profittevole è quella del capitalismo concorrenziale. In esso un eccesso di capitali che non trova condizioni favorevoli di valorizzazione produce disoccupazione e disimpego di impianti.

Il sistema del laissez-faire – la concorrenza – produce una quantità di capitali superiore alle possibilità di valorizzazioni offerte dal mercato. Fino al 1870 questo capitale in eccesso veniva distrutto. Il mercato poteva riprendere il suo regolare funzionamento solo dopo questa distruzione.

In condizioni di laissez-faire il mercato è una struttura autonoma indipendente dal desiderio e dalla volontà dei partecipanti. La concorrenza conduce i prezzi al limite dei costi socialmente necessari alla produzione della merce. C’è un limite indipendente oltre il quale il mercato boccia le offerte. Questa struttura indipendente determina contemporaneamente l’impiego dei fattori – lavoratori, clienti, fornitori, proprietari – e la distribuzione dei prodotti.

Dopo il 1870, e in maniera decisiva dopo la Grande Depressione (1873-1896), il sistema dei prezzi rappresenta un limite per la valorizzazione. I prezzi che il mercato impone alle imprese, e sotto i quali esse non possono scendere, non sono più sostenibili. Il mercato boccia il mercato. Meglio non produrre affatto che produrre in perdita. A meno che non si trovi un metodo per ingannare il mercato e superare la concorrenza.

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marxdialectical

Riflessioni a partire dallo sciopero

di Roberto Fineschi

dmnvknmyfI. Problemi di costruzione di un’identità politica di classe

Nonostante i deliri dello ius sanguinis e il “patriottardismo” del ventennio in nero, la stessa nozione di “popolo italiano” è un costrutto storico in divenire e, nonostante più di centocinquantanni di esistenza istituzionale, tutt’altro che consolidato.

La frantumazione secolare, le differenze socio-economiche, culturali, istituzionali, linguistiche delle varie zone dell’attuale Italia politica hanno reso la creazione di un’entità definibile “popolo italiano” quanto mai complessa, irta di difficoltà e resa ancor più accidentata dalla peculiare composizione della lotta di classe in quel contesto.

La sempre sottolineate estraneità – o addirittura opposizione – delle masse popolari per lo più contadine al processo risorgimentale, il carattere dispotico e disumano del regime liberale prima, del fascismo poi (e il primo in verità meno popolare del secondo) hanno alimentato quello stesso sentimento di non immedesimazione, distacco, ribellione anarcoide contro le istituzioni, qualunque esse siano.

Solo la nascita dei movimenti socialisti prima e comunisti poi da una parte, lo strutturato solidarismo paternalistico cattolico dall’altra hanno contribuito a organizzare il comune sentimento di essere sulla stessa barca di una massa di diseredati mai diventati pienamente cittadini in senso “borghese”.

Il tardo e limitato sviluppo capitalistico, il carattere ultraelitistico delle classi dirigenti italiane hanno limitato il processo progressivo di borghesizzazione della società – la cittadinanza, l’identificazione progressista, e non puramente retorica, di nazione e stato – a una fascia limitata della popolazione, escludendo il “popolo”.

La natura di fondo anarcoide e disorganizzata di questo popolo, la refrattarietà a identificarsi in organizzazioni istituzionali, come si diceva, solo in parte è stata compensata dall’attività politica organizzata dei partiti di massa e ha lasciato fuori da questi processi una larga parte della popolazione che ha continuato a preferire, come aveva fatto per secoli, far buon viso a cattivo gioco, senza capacità trasformativa di largo respiro, mirando al proprio “particulare” date le circostanze esternamente date (Guicciardini teorizza e docet).

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effimera

Note sul libro di Michael Hardt “I Settanta sovversivi. La globalizzazione delle lotte”

di Andrea Fumagalli

Settanta sovversivi 1.jpegLa tesi di Michael Hardt, presentata nel libro I Settanta sovversivi. La globalizzazione delle lotte, (Derive Approdi, Bologna, pp. 310, Euro 22,00) è molto semplice ed è già esposta nel titolo:

“Gli anni Settanta sono stati un decennio sovversivo. I politici e i loro generali, i capi della polizia e gli agenti dei servizi segreti, i giornalisti, gli intellettuali conservatori vedevano “sovversivi” dappertutto” (p. 5).

Ma cosa significa “anni sovversivi”? Secondo la Treccani, l’aggettivo “sovversivo” rimanda a due significati:

“1. Che tende a sovvertire l’ordine costituito di uno stato: dottrine, teorie s.; attività s.; propaganda s., delitto contro la personalità dello stato che consiste in un’attività di propaganda per l’instaurazione violenta di una dittatura o per il sovvertimento e la distruzione dell’ordinamento sociale; 2. Per estensione, che sovverte la tradizione, che tende a rivoluzionare e a sconvolgere uno stato di cose esistente”.

La prima definizione è quella che viene tradizionalmente attribuita agli anni Settanta, quindi un’accezione tendenzialmente negativa. Ancora oggi la vulgata dei media ancora si muove in questa direzione. Basti pensare che l’espressione più usata per etichettare quel periodo è “anni di piombo”, un’espressione che, peraltro, tradisce la sua vera origine[1].

Hardt, invece, fa un’operazione di verità storica a 50 anni da quel decennio e afferma che la definizione corretta che deve essere usata è la seconda e riporta in esergo del capitolo introduttivo la seguente affermazione, contenuta in un documento scritto da alcuni militanti dell’Autonomia in attesa del processo al carcere di Rebibbia, Roma, 1983:

“Che non abbiamo avuto nulla a che fare con il terrorismo, è ovvio. Che siamo stati “sovversivi” è altrettanto ovvio. Tra queste due verità si trova la posta in palio del nostro processo”.

A tal fine, per meglio chiarire la questione della “sovversione”, è necessario partire dalla critica ad alcuni luoghi comuni.

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doppiozero

Roberto Esposito nelle tenebre del fascismo

di Rocco Ronchi

978880626945HIG.jpegLa necessità di una riflessione filosofica sul fascismo si impone quando il fascismo diventa una minaccia reale. Per quanto indiscutibili siano tutte le differenze tra la situazione presente e quella vissuta negli anni venti e trenta del secolo scorso, la parola “fascismo” affiora inevitabilmente alla mente quando si vuole inquadrare il fenomeno populista-sovranista. E, con essa, il suo opposto, “antifascismo”, anche questo un termine abusato, gravato da una retorica che ne compromette sul nascere l’efficacia, e, tuttavia, anch’esso, inevadibile, quasi necessario. In attesa di nuovi e più precisi concetti scontiamo, insomma, la limitatezza del nostro vocabolario. Dobbiamo prendere a prestito vecchi termini per eventi nuovi, ma se questo è possibile è perché tra il vecchio e il nuovo vi è, di fatto, una continuità reale che è proprio quanto oggi ci inquieta e ci interpella.

Per queste ragioni il saggio di Roberto Esposito, Il Fascismo e noi (Einaudi, 2025), è un libro importante fin dal suo titolo programmatico: non chiede, infatti, soltanto che cosa sia stato il fascismo storico, ma chiede di “noi” rispetto ad esso, chiede “chi” siamo “noi” che lo abbiamo stigmatizzato come un orrore, ma che, oggi come allora, di fronte a un orrore solo somigliante (perché la via dell’”analogia”, secondo Esposito, è impercorribile) proviamo la stessa sensazione di impotenza, come se fossimo alle prese con una macchina che funziona in modo implacabile, una macchina cieca al senso e votata soltanto alla sua operatività illimitata. Gaza non è un campo di sterminio nazista ma gli somiglia, i militari dell’Idf non sono le SS ma gli somigliano, gli autocrati che impazzano ovunque non sono i duci fascisti ma gli somigliano e “noi” non siamo i nostri padri o nonni, i quali, nel migliore dei casi, hanno assistito come testimoni sgomenti all’avvento dell’orrore, ma gli somigliamo. E la somiglianza diventa quasi una relazione di identità se si considera il desiderio irrefrenabile di sottomissione e di vendetta (sui più deboli) che attraversa quel “popolo” sulla cui incondizionata sovranità tutti i populismi scommettono.

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machina

Guardare il genocidio e non vederlo

di Maurizio Guerri

0e99dc 32e6580b71154a30bf37960f5459e95amv2Le immagini della distruzione di Gaza sono la cifra del nostro tempo, ma «allo stesso tempo» provengono da un passato composito e illusoriamente archiviato, l’anacronismo della guerra e dello sterminio che fa irruzione nella trama del presente e lo irretisce. Si tratta allora di comprendere qual è il culto religioso che queste immagini paralizzanti stanno tramandando e radicando, a quale funzione politica assicurano il loro magnetismo, quali sono le modalità specifiche in cui entrano in rapporto con una tendenza storica che già Walter Benjamin e poi Jean Baudrillard, in epoche differenti, hanno sorpreso a «fare della sua peggiore alienazione un godimento estetico spettacolare». Anche per ricavarne in controluce il valore delle mobilitazioni del 22 settembre e i potenziali di rottura che quella giornata ci chiede di prendere in consegna e portare a maturazione.

* * * *

La pulizia etnica in corso a Gaza costituisce una delle più grandi tragedie della storia dopo la fine della Seconda guerra mondiale e noi ne siamo testimoni. Lo sterminio deliberato della popolazione civile con armi, sistemi elettronici, sostegno politico ed economico di Stati Uniti ed Europa avviene in diretta, così come in diretta è la distruzione deliberata di strutture sanitarie e il blocco dei rifornimenti di viveri e medicinali per gli abitanti di Gaza, bambini inclusi.

Ogni mattina i mezzi di informazione enunciano la cifra degli assassinati palestinesi che sono colpiti dai cecchini mentre cercano di avere un po’ d’acqua o un po’ di farina. Sarebbe stato difficile immaginare di poter vedere un’altra volta il tirassegno su civili inermi, dopo aver letto sui libri di storia i crimini di Amon Göth, che si divertiva a colpire col fucile di precisione prigionieri a caso del campo di Płaszów, prendendo la mira dal balcone della sua villa.

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sinistra

La Tecno-archía - ovvero la Nave dei folli

di Lelio Demichelis

jrtiubDi Lelio Demichelis è da poco uscito un nuovo saggio di critica radicale dei sistemi tecnici e del capitalismo, della modernità industriale e della sua volontà di onnipotenza che produce nichilismo ed ecocidio - saggio che ha per titolo: Tecno-archía o la Nave dei folli. La banalità digitale del male, pubblicato da DeriveApprodi (p. 294, € 23,00). E se la critica alla modernità non è ovviamente cosa nuova, nuovo è dire che la modernità è diventata una archía, un potere archico – e quindi in conflitto ontologico e teleologico con libertà, democrazia, società e biosfera. Da cui si può/deve uscire quindi solo con un pensiero anti-archico/an-archico (ma in un senso diverso dall'anarchismo classico) e cioè demo-cratico. Ovvero non basta uscire dal capitalismo (ammesso che qualcuno lo pensi ancora...) e dai sistemi tecnici integra(n)ti e totalizzanti se a monte non si esce da ciò che li predetermina. Appunto la tecno-archía.

Per gentile concessione dell’Editore ne pubblichiamo alcuni estratti, presi dall’Introduzione e dall’ultimo capitolo dedicato alla sinistra.

* * * *

L’era della tecno-archía – e dei suoi tecno-oligarchi sembra essere iniziata il 20 gennaio 2025, ma è il nome che qui diamo alla modernità/iper-modernità come combinazione di calcolo, rivoluzione scientifica e industriale; di capitalismo e di sistema tecnico; di positivismo e pragmatismo; e poi di complesso militare-industriale-scientifico; di illibertà mascherata da libertà; di ingiustizia e disuguaglianza come scelta politica; di finzioni di democrazia e di governo reale del mondo da parte di imprenditori autocratici e del capitale; di ecocidio compulsivo; di razionalità strumentale/calcolante-industriale che ha prodotto l’eclisse della ragione (richiamando Max Horkheimer).

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collettivolegauche

Valore e connessione sociale

Gianfranco La Grassa, omaggio a un maestro

di Francesco Barbetta

gianfrancolagrassa.2jpgLa notizia della scomparsa di Gianfranco La Grassa mi ha colpito con la forza di un’onda che arriva dopo un lungo viaggio, portando con sé non solo il dolore del presente ma i sedimenti di un’intera fase della mia vita. Per me Gianfranco non è stato semplicemente un autore da studiare ma il primo intellettuale marxista di statura che abbia mai incontrato. Lo conobbi quando ero un operaio in una piccola ditta di prodotti chimici. All’epoca ero già un maoista impregnato di althusserismo e lui mi aiutò a mettere qualche punto in ordine nel mio modo di leggere Marx. Gianfranco La Grassa mi ha insegnato una cosa sopra tutte: che il pensiero critico è, prima di tutto, movimento, conflitto, capacità di mettersi in discussione. Mi ha insegnato che la fedeltà a un’idea non sta nel ripeterla dogmaticamente ma nel sottoporla costantemente al vaglio della realtà, anche a costo di doverla rivedere radicalmente. Non sono sempre stato d’accordo con le sue derive teoriche ma lo considero indubbiamente uno dei punti più alti raggiunti dal pensiero economico marxista in Italia e merita di essere ricordato in futuro.

* * * *

Gianfranco La Grassa inizia il suo saggio Il valore come connessione sociale individuando con precisione i due cardini fondamentali su cui, a suo avviso, si reggono molti attacchi al marxismo, sia in ambito economico che politico. Il primo punto è la dichiarata obsolescenza, quando non l’inesistenza, della legge del valore, spesso bollata come un retaggio metafisico del pensiero di Marx. Il secondo punto, strettamente correlato, è la riduzione delle entità economiche a un mero precipitato, un effetto secondario, di rapporti di forza sociali e politici, denunciando così una presunta carenza del marxismo: l’assenza di una vera e propria teoria politica e dello Stato.

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resistenzealnanomondo

Frammenti di pensieri, speranza e lotta

di Silvia Guerini

1416e4e9d4a737d02d2534e077dfc490.jpegViviamo in una società della novità perpetua e della continua rincorsa a standard ridefiniti di volta in volta dagli algoritmi della cosiddetta Intelligenza Artificiale che a loro volta ridefiniscono l’essere umano e lo stare al mondo. Una ridefinizione che precede il reale e che lo plasma, lo sostituisce. Il mondo del reale si deve adeguare a quello che viene considerato come vero, desiderabile, migliore.

I contesti critici a loro volta non sono immuni da determinate dinamiche e caratteristiche che dovrebbero contrastare. Viene inseguita l’ultima sensazionale notizia, scivolando sulla superficie senza mai addentrarsi nel profondo di acque scure e melmose per il timore di affrontare questioni scomode e impopolari, pena la perdita di ascolti e di incassi nelle serate. Si rincorre il teatrino del mainstream, discutendo di ciò che ci si aspetta di discutere, si creano dibattiti che rimangono ai margini, attorno a dettagli, senza porre le domande giuste rimanendo dentro confini prestabiliti. Nel mentre passano sviluppi tecno-scientifici a cui attorno c’è il deserto della critica. Critici che restringono appositamente la critica, scelte di campo che denotano solo disonestà intellettuale.

La grande marcia della distruzione prosegue e le parole non contano più, le narrazioni si pongono non solo al di là dei significati, ma anche al di là dei fatti e ciò che viene detto perde aderenza con la realtà. Tutto può diventare il contrario di tutto, venire stravolto e risignificato senza che ci sia memoria di quello che significava un attimo prima. In questo scenario perde senso stare a rincorrere l’ultima dichiarazione estraendola non solo da un contesto ben più ampio, ma da questa operazione di cancellazione e risignificazione della realtà trasformata in un processo fluido, proteiforme rimodellabile a piacimento. E il “fatto tecnico”, come insegna Bernard Charbonneau, diventa “la carne stessa del reale e del presente” e quando veniamo travolti dalle sue conseguenze altri sviluppi, applicazioni, lasciapassare bioetici e passaggi legislativi sono già oltre… Ci si scandalizza di fronte a eccessi, ma al contempo, di fatto, si sostiene ciò che è alla loro radice.

In tutto questo influencer del pensiero concorrono a sgretolare la possibilità di costruire un reale pensiero critico. Sfuma il senso e chi costruisce pensiero critico e libero fatica a far capire tutto questo.

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lafionda

Guerra e controrivoluzione: i conti con Lenin

di Mimmo Porcaro

19190501 lenin speech red square.jpg1. Dalla pace alla guerra

Viviamo in tempi tumultuosi, tempi di guerra. Qui non servono più le idee maturate durante la lunga, ipocrita e sanguinosa “pace occidentale”, l’epoca del presunto unipolarismo Usa, della vantata globalizzazione. Oggi, quando gli stati capitalistici di cui si era profetizzata l’irrilevanza si militarizzano verso l’esterno e verso l’interno, chi intende superare l’attuale organizzazione sociale non può cavarsela con una politica fatta solo dell’affermare la propria identità via social media, senza preoccuparsi di convincere chi la pensa diversamente; o fatta solo del convivere pur conflittualmente con gli attuali apparati di stato, senza mai preoccuparsi di accumulare le forze per modificarli da cima a fondo.

In tempo di guerra non si può agire e pensare come in tempo di pace. E bisogna riprendere il confronto con chi nella guerra ha agito e pensato: in particolare con Lenin, che ha colto proprio il nesso tra guerra e trasformazione sociale, tra guerra e rivoluzione. Certo, non siamo più nel 1917, e “l’epoca dell’imperialismo e della rivoluzione proletaria” si è trasformata (per tentare una definizione provvisoria), in epoca dell’imperialismo triadico[1] e della rivoluzione antiliberista. Una rivoluzione che ha per oggetto il controllo politico (fino alla pubblicizzazione) dei grandi gruppi capitalistici e della stessa circolazione mondiale dei capitali, e che può avere forme diversissime, tra cui quella socialista e lato sensu proletaria. Ma in ogni caso, sempre di imperialismo e rivoluzione si tratta: è utile quindi rileggere Lenin ben oltre la santificazione o la dannazione, superando la rimozione del suo pensiero operata per decenni sia da coloro che lo hanno ripetuto astrattamente, e quindi sterilizzato, sia da coloro che lo hanno messo da parte perché era un ingombro per chi voleva eludere la questione del potere politico per meglio negoziare con esso[2].

Non si può dunque che accogliere con favore articoli come quello che Emiliano Brancaccio ha pubblicato qualche tempo fa, col titolo “Momento Lenin: tra debito, dazi e guerra”[3], nel quale si sostiene che il tempo presente mostra la validità della tesi dell’inevitabile esito bellico delle contraddizioni intercapitalistiche, tesi centrale del famoso (e inutilmente esorcizzato) saggio leniniano sull’imperialismo[4].

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sinistra

Cina e dialettica marxista

di Salvatore A. Bravo

congresso pcc.jpgLa Cina è sicuramento “il baluardo” che limita l’imperialismo a stelle e strisce. Guardare in direzione della Cina con le leggi della dialettica è necessario, poiché la dialettica marxista insegna che gli orientamenti della storia devono essere compresi e decodificati per orientare la rivoluzione e i mutamenti radicali in modo proficuo, e la Cina, a prescindere dalle opinioni personali, è la civiltà (socialista) con cui dovremo confrontarci. Non è solo una nazione immensa, quasi un continente nel continente asiatico, ma una civiltà-nazione con una identità e storia millenaria sopravvissuta al colonialismo cannibalico occidentale. Essa oggi è la civiltà che apre nuovi scenari politici, mentre l’occidente cerca di perpetuare il suo impossibile dominio:

“Il materialismo dialettico concepisce l’universo come “un movimento della materia, retto da leggi”, che si riflette nella nostra conoscenza, “prodotto superiore della natura” . Il pensiero è riflesso di questa realtà, ed è perciò anch’esso in un processo di continuo movimento e trasformazione. Al modificarsi della realtà materiale non può che corrispondere una trasformazione del pensiero. Essendo il nostro pensiero il riflesso della realtà materiale, noi possiamo arrivare alla comprensione oggettiva di questa. Il pensiero umano è espresso però da singoli individui, che non possono che avere una conoscenza relativa, limitata dal tempo e dallo spazio, oltre che dallo stato di sviluppo della società e delle sue forze produttive e scientifiche[1]”.

La dialettica ci insegna che le fasi di rottura causate dalle contraddizioni conducono a salti qualitativi, poiché nella contraddizione si afferma un innalzamento qualitativo generale della coscienza dei dominati. Tale coscienza non è assimilabile all’opinione personale, ma alla constatazione dell’inevitabilità dei processi storici in corso. Questi ultimi non sono mai “semplici segmenti” separati dalla totalità della storia, ma trovano la loro oggettiva ragion d’essere nell’immanenza olistica e trasformatrice della storia:

“Il materialismo dialettico ci insegna che le trasformazioni avvengono attraverso accumuli quantitativi e salti qualitativi. Ci insegna anche che nessun processo è “puro”, che ogni salto qualitativo non significa fare tabula rasa, e che è sulla base dell’esistente per come è, non per come si vorrebbe fosse, che viene costruito il futuro. Ciò riflette la reale evoluzione storica, che testimonia come in una data società non vi sia mai un unico modo di produzione, ma diversi, tra cui uno dominante[2]”.