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sinistra

La guerra dei Greci e la nostra

di Giovanni Di Benedetto

Recensione del libro di Andrea Cozzo "La logica della guerra nella Grecia antica", Palermo University Press, 2024, Ed. riv. e corr.

unnamed.mdkwhcmIl mondo contemporaneo rischia di precipitare inesorabilmente nel baratro della guerra planetaria. Non si contano più gli scenari geopolitici divenuti teatro di conflitti bellici: Russia e Ucraina, Yemen, Iran e Pakistan, Israele e Palestina, Siria e, in Africa, Libia, Congo, Sudan, Nigeria, Etiopia, per citare i casi più noti. In questo quadro, davvero sconfortante, la pubblicazione dell’ultimo libro di Andrea Cozzo, “La logica della guerra nella Grecia antica” (Palermo University Press, 2024, ed. rived. e corr.), risulta essere quanto mai utile e opportuna, soprattutto per chi si dedica alla professione dell’insegnamento e della trasmissione del sapere.

Il lavoro di Andrea Cozzo si propone, come suggerisce il titolo stesso, di analizzare la costruzione delle retoriche della guerra nella Grecia antica. A una prima superficiale osservazione ci si potrebbe chiedere quale dovrebbe essere il nesso tra lo studio delle guerre nel mondo antico e la riflessione sugli eventi militari dei giorni nostri. Troppo diversi i contesti storici e le forme della riproduzione socioeconomica, in particolare la forma specifica della produzione borghese. Tuttavia, occorre rimarcare che lo studio dell’autore è costruito con lo sguardo rivolto costantemente alla nostra drammatica contemporaneità che, come è a tutti noto, è segnata, come si diceva, dall’esplosione in tutto il mondo di decine di conflitti. Non si pensi dunque a un lavoro le cui riflessioni colte sarebbero confinate alla ristretta cerchia degli specialisti del mondo antico, filologi e storici della lingua greca in primis. Il tentativo del pregevole lavoro di Cozzo è di fare dialogare il mondo antico, con le sue problematiche e le sue contraddizioni, con il presente, per meglio fare luce sui problemi che oggi si pone lo storico, e con lui il lettore e, più in generale, il cittadino consapevole.

D’altra parte, scrive Cozzo, “il passato lo si legge sempre alla luce del presente, e leggerlo alla sua luce consapevolmente e in maniera trasparente e tale che il presente stesso possa guardarsi autocriticamente è meglio che farlo senza rendersene conto e senza renderne conto” (pp. 9-10).

È evidente dunque la possibilità che, da una lettura neanche tanto sottotraccia, sia possibile fare emergere l’impegno metodologico dell’autore rivolto a esplicitare i presupposti, più o meno impliciti, a partire dai quali si guarda e ci si proietta nel passato. Per dire che la storiografia è, sempre, anche espressione di come si pensa il proprio posizionamento nella storia.

Il libro prova a scandagliare le gesta epiche dei grandi protagonisti del passato per demistificare e smantellare quegli artifici retorici bellici che, ieri come oggi, legittimano il militarismo, l’ordine del discorso bellico e ogni protervia guerrafondaia. Perché, analizzandone la declinazione greca, diventa trasparente la modalità con cui governi, mezzi di comunicazione e leader politici parlano della guerra nel tempo presente. E ne parlano, spesso faziosamente, adottando un tipo di pensiero che finisce per essere funzionale alla riproduzione del discorso bellico e, in definitiva, della guerra stessa. Le pratiche discorsive, infatti, non sono mai neutre ma partecipano di un orizzonte di senso che può veicolare dispositivi retorici a favore o contro la guerra.

La prima parte del libro si intitola “Come nasce e si sviluppa una guerra?” e quasi provocatoriamente parte dal chiedersi “chi ha iniziato la guerra di Troia e tutte le altre?” Anche se il rapimento di Elena da parte di Paride rappresenta la scintilla che fa scoppiare la guerra, la catena di eventi è molto più complessa e risalire alle cause remote comporta un’operazione di selezione che, in un processo a ritroso, risulta sempre arbitraria. Le guerre, tutte le guerre, non sono mai l’effetto di un evento episodico scatenante ma il risultato di decisioni prese a tavolino per ragioni, a parere di chi scrive, di potere economico e sociale. Il punto decisivo è comunque dato dal fatto che la guerra è frutto di decisioni che maturano all’interno di contesti culturali condizionati da un’impostazione del problema bellico che pensa la soluzione in termini militari (10). Questo è vero per il mondo antico come per il mondo moderno e contemporaneo. E allora può risultare più utile, per la trasmissione nei giovani di una cultura di pace e nonviolenza, soffermarsi, per esempio, sulle concause profonde che inducono i poteri dominanti a scatenare la guerra dei Trent’anni (decisa letteralmente a tavolino presso la corte spagnola dell’impero asburgico) o la Grande Guerra (effetto dell’imperialismo dei primi del Novecento), piuttosto che stazionare stancamente sulla successione, a partire dalla defenestrazione di Praga o dall’attentato di Sarajevo, di quell’interminabile serie nella quale si affastellano senza senso episodi militari più o meno significativi.

Ma se la decisione di cominciare una guerra è sempre il risultato di una serie di concause complesse che, in ultima istanza, rimandano sempre a chi detiene il potere economico e politico, un discorso diverso si deve fare per chi è costretto a farsi carico di questa decisione assumendone tutto gli oneri e le conseguenze. La scelta bellicista si ripercuote su chi deve andare direttamente a combattere al fronte e sui corpi delle vittime, oggi per la gran parte civili, vecchi, donne e bambini innanzitutto. Lo testimonia tanto l’epica omerica quanto il racconto di Tucidide che considerano normale saccheggiare e ridurre in schiavitù donne e bambini, e lecito l’atto della pirateria e del brigantaggio. E non si devono dimenticare, inoltre, i danni di ordine culturale “che lasciano in eredità strascichi di odio che saranno, a loro volta, le fondamenta su cui si costruiranno nuove guerre” (53). Se si volesse insistere sulle considerazioni di metodo, a vantaggio dei docenti, nella trattazione della storia contemporanea il parallelo potrebbe essere fatto indugiando sulla trattazione delle condizioni dei soldati nella guerra di trincea (sangue, merda e fango, scrive Antonio Gibelli nel suo bellissimo L’officina della guerra) o sulla narrazione delle conseguenze sulla popolazione civile dei bombardamenti atomici su Hiroshima e Nagasaki.

Anche sulle dinamiche della guerra è possibile, sostiene lo studioso, rintracciare significative analogie tra quanto accade nel mondo antico e quanto accade ai giorni nostri. Si pensi alle strategie per alimentare un artificioso patriottismo o a quelle che legano le gesta violente al valore, al coraggio e alla lealtà. È forse utile soffermarsi almeno su un aspetto che assume un rilievo fondamentale: lì dove diventano egemoniche le logiche della guerra, vengono meno il pluralismo e la dialettica democratica. “In nome dell’unità contro il nemico, la dialettica interna viene soffocata mediante accuse di parteggiare per il nemico che impediscono di parlare liberamente o atti di giustizia sommaria che determinano l’eliminazione fisica di chi avanza, o si sospetta potrebbe avanzare, proposte non in consonanza con la ‘sensibilità’ dominante” (88). Qualcosa di simile afferma Rosa Luxemburg in Riforma sociale o rivoluzione? quando accompagna la denuncia del militarismo e della barbarie della violenza bellica alla critica delle politiche coercitive di ordine pubblico che mirano alla repressione degli antagonismi scaturiti dall’iniziativa e dalla mobilitazione del movimento dei lavoratori. La storia insegna, e il caso tragico di Rosa Luxemburg è da questo punto di vista esemplare, che nei paesi in guerra i dissidenti sono sempre perseguitati, isolati, incriminati e incarcerati. In questa direzione una lettura imprescindibile, da affiancare al bel libro di Cozzo, resta per gli studenti quella del libro di Enzo Forcella e Alberto Monticone intitolato Plotone di esecuzione, sui processi della prima guerra mondiale a carico di dissidenti, disertori e renitenti alla leva.

Dai meccanismi di semplificazione duale amico-nemico deriva, inevitabilmente, che a farne le spese è quella visione della realtà capace di assumere e fare propria la complessità del reale. Si pensi al racconto erodoteo delle guerre persiane nel quale ai Greci sono riservati l’amore per la libertà e il riconoscimento della primazia della legge, laddove in Oriente prevale il dispotismo, la mancanza di disciplina, l’empietà, la slealtà. Una logica semplificatrice e dicotomica che, non a caso, è riscontrabile nella rappresentazione, veicolata dai mass media, di tutte le guerre degli ultimi trent’anni, da quelle del Golfo contro Saddam Hussein a quella iniziata con l’invasione russa dell’Ucraina dal febbraio 2022.

Un’attenzione particolare è dedicata alla violenza sulle donne. Scrive Cozzo: “Nell’epica omerica, Nestore sprona i guerrieri a non tornare a casa «prima di avere giaciuto con una donna troiana» (Il. 2, 355), e Agamennone, schernendo e umiliando il nemico, non esita a dire pubblicamente al sacerdote Crise venuto a chiedergli la restituzione della figlia da lui fatta prigioniera: «non la libererò; la raggiungerà prima la vecchiaia nella nostra casa ad Argo, lontana dalla patria, mentre lavora al telaio e viene al mio letto»” (126). L’autore chiarisce come nel mondo greco non risultasse scandaloso che la donna del nemico fosse ridotta in schiavitù, alla stregua di un oggetto sessuale; “questo era il normale destino delle prigioniere che diventano schiave” (126). Inoltre fa specie constatare come “della sofferenza delle donne in quanto tali, in un mondo in cui esse sono possesso degli uomini, non ci si dà gran pensiero: il dolore pertinentizzato è, appunto, quello degli uomini a cui esse appartengono. Fa eccezione, in questo panorama, il teatro tragico, capace di mostrare il trauma delle donne che hanno visto le loro famiglie e città distrutte e il «dilemma della prigioniera» costretta a scegliere tra fedeltà alla memoria del marito e acquiescenza sessuale al nemico di cui è schiava” (129). Una tale casistica, ampia e documentata, dimostra che le drammatiche atrocità, così frequenti nelle guerre, non sono addebitabili a singoli criminali ma vanno ricondotte alla strutturale mostruosità e abiezione della guerra che finisce per configurarsi come “uno stato d’eccezione rispetto a ogni regola”(136).

L’ultima parte del libro è dedicata al ruolo dello storico. Cozzo è attento a non proporre una lettura riduzionistica del lavoro dei grandi storici dell’antichità, a partire da Erodoto, Tucidide e Senofonte. Tuttavia, da quanto scrive, appare evidente che le loro strategie narrative restano tutte dentro un orizzonte di pensiero che ruota attorno alla centralità della retorica bellicista e della cultura di guerra. Stesso discorso per Polibio e Diodoro Siculo, il cui racconto resta legato alla prospettiva del buon cittadino-soldato e, in definitiva, all’assiologia militarista. Forse, a smentire questa adesione all’orizzonte di senso bellicista, sembra profilarsi il lavoro di Dionigi di Alicarnasso secondo il quale “il racconto storico deve educare non solo a vincere le guerre ma anche a costruire la pace: è questa la maggiore novità del pensiero storiografico di Dionigi, da lui stesso segnalata già agli inizi della sua opera storiografica, quando dichiara che racconterà, a proposito delle guerre sia esterne sia civili, «da quali cause siano sorte e grazie a quali modi e discorsi si risolsero»;” (185). Anche per Plutarco, nei Precetti politici, lo scopo cui volgersi dovrebbe essere quello della ricerca della concordia e dell’amicizia reciproca per eliminare discordie e divisioni. Tuttavia, resta il fatto che tutta la storiografia, così come l’epos omerico, resta ancorata a una narrazione patriottica e militarista che finisce per diventare un vero e proprio paradigma pedagogico.

A suscitare qualche perplessità rimane soltanto Massimo di Tiro, filosofo neoplatonico del II secolo dell’era cristiana. Scrive Cozzo: “Massimo però, a rigore, sembra lasciare alla storiografia un’alternativa: non occuparsi del male di cui la realtà è impregnata, cioè prevaricazioni, guerre ingiuste, insensatezze di vario genere, e prendere a oggetto ciò che è degno di essere ricordato e imitato: non, però, per la sua grandezza bensì per il suo valore etico e la sua nobiltà (…); si tratta, piuttosto, di una politica culturale, di un invito alla consapevolezza delle implicazioni che ha una conoscenza o un’altra” (198), per capire, insomma, se quest’ultima debba indirizzare verso l’acquisizione del potere e dell’egemonia, anche attraverso l’uso della violenza, oppure debba mirare alla giustizia e alla virtù.

In conclusione, resta da rammentare il monito dell’autore: anche il ruolo del narratore delle vicende storiche ha un peso decisivo e non vale a nulla celarlo dietro una presunta astratta neutralità. Questa considerazione vale anche ai giorni nostri: giornalisti e cronisti, esperti di geopolitica e intellettuali, commentatori e storici non possono fare finta di non sapere che, con le proprie parole, possono contribuire a costruire una cultura di pace o possono soffiare sul fuoco dell’escalation bellica e guerresca. A vent’anni, si era nel febbraio del 2003, da quella manifestazione mondiale contro l’invasione dell’Iraq, svoltasi in quasi mille città e in cui oltre 100 milioni di persone scesero per le strade manifestando il proprio “No alla guerra senza se e senza ma”, l’attuale debolezza del movimento pacifista è sotto gli occhi di tutti. Allora anche il New York Times parlò dei pacifisti come della seconda potenza mondiale. Quella importante stagione di protesta collettiva e mobilitazione sembra essere stata rimossa. Nel tempo presente il fronte delle guerre si è ulteriormente allargato e nel breve periodo, all’orizzonte, non sembra si possa verificare una salutare inversione di tendenza. Occorre allora impegnarsi per ricostruire un movimento per la pace e contro la guerra capace di accumulare quella massa critica di partecipanti, attivisti e cittadini responsabili e consapevoli che sia in condizione di costringere i governi di tutto il mondo ad arrestare la pericolosissima escalation bellica di questi ultimi anni. La pedagogia nonviolenta proposta da Cozzo, contenente un invito pressante all’impegno, alla denuncia e alla lotta attiva contro la violenza e la prepotenza, che non va intesa dunque come quieta e passiva rassegnazione, va, senza dubbio, in questa direzione. In essa è inscritto, tra gli altri, il messaggio di Gandhi e di Capitini.

In guerra, nel mondo contemporaneo come nel mondo antico, le parti sono almeno tre: la terza parte è sempre costituita dall’opinione pubblica dei paesi coinvolti e dei paesi non coinvolti direttamente. Chi, dunque, apparentemente sembra situarsi fuori dal conflitto, può svolgere un ruolo importante perché nel fare pressione culturale e nel veicolare un paradigma pedagogico nonviolento può mostrare innanzitutto che le guerre le decidono i governi ma poi sono costretti a farle i subalterni, le persone più deboli, meno attrezzate e più manipolate dalla propaganda.

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