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Per Bruxelles la guerra è l'ultima possibilità e i giornali di regime vi si adeguano
di Fabrizio Poggi
La situazione internazionale, scrive la signora Alessandra Ghisleri su La Stampa del 7 ottobre «genera smarrimento, confusione e – forse più di tutto – paura», anche perché le persone sono costrette a «navigare un’informazione parziale, frenetica e spesso polarizzata». Vien da rispondere con la locuzione oraziana “de te fabula narratur”: è dei vostri giornali di regime che si parla, impegnati ad alimentare un clima di guerra, per preparare le coscienze ai “necessari” tagli a salari, pensioni, sanità e per convincere le masse che, come ha proclamato l'ex Segretario NATO, Jens Stoltenberg: «Un miliardo per la difesa dell'Ucraina è un miliardo in meno per assistenza sanitaria o istruzione. Ma, un prezzo più alto, sarebbe quello di permettere a Putin di vincere. Pertanto, dobbiamo farci carico dei costi e pagare per la pace».
E voi, giornali del bellicismo eurogovernativo, fate a gara a infuocare quella “confusione” e quella “paura”, bramosi di fare da megafono alle parole di Vladimir Zelenskij che, dite, «hanno avuto un effetto deflagrante. L’avvertimento che la guerra in Ucraina potrebbe estendersi oltre i suoi confini ha toccato le corde profonde delle paure collettive». Come no: è il vostro mestiere quotidiano, da mesi, quello di rinfocolare le “paure collettive” per alimentare la corsa al riarmo e alla militarizzazione della società. Così che non vedete l'ora di proclamare che «il 39,7% degli italiani teme che anche il nostro Paese possa diventare un potenziale obiettivo della Russia di Vladimir Putin» e per moltiplicare quei timori, non trovate niente di meglio che citare anche l'attuale segretario NATO Mark Rutte: «Siamo tutti minacciati dalla Russia, anche l’Italia». Orsù dunque, armiamoci e prepariamoci alla guerra, per difendere i «cieli e i confini della NATO» dalle fameliche orde iperboree.
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Meloni: il governo della deindustrializzazione italiana
E la sinistra esorcizza i suoi tradimenti con il genocidio di Gaza
di Luigi Tedeschi centroitalicum.com
È in corso un processo di deindustrializzazione dell’Italia che rischia di divenire un Paese condannato al sottosviluppo. Ma la politica economica del governo non incontra alcuna opposizione da parte della sinistra. Strumentalizzando la protesta popolare, la CGIL di Landini vuole autoassolversi dalle sue responsabilità inerenti la devastazione dello stato sociale messa in atto dai governi (specie di sinistra), sin dal sorgere della seconda repubblica
Se esaminiamo la politica economica del governo Meloni alla luce del processo di dismissione delle imprese strategiche in atto, i risultati si rivelano devastanti. Assistiamo infatti alla progressiva decomposizione della struttura industriale italiana, con la cessione da parte dello Stato di imprese essenziali alla salvaguardia della sovranità e dello sviluppo economico del paese, con pesanti ricadute per la crescita e l’occupazione. Appare evidente che per le esigenze di equilibrio dei conti pubblici, l’azione governativa è finalizzata a fare cassa. Il governo Meloni non ha implementato alcuna strategia di sviluppo per l’economia italiana. Vogliamo dunque proporre un elenco sommario delle più rilevanti dismissioni industriali messe in atto dal governo negli ultimi tempi.
1) Ilva. Trattasi della seconda acciaieria europea per dimensioni produttive. Il suo destino appare oscuro. Dopo l’arresto di Emilio Riva e il susseguente commissariamento statale, fu ceduta nel 2017 all’indiana Arcelor Mittal, a cui subentrò nel 2021 l’agenzia governativa Invitalia e fu rinominata “Acciaierie d’Italia S.p.a”.
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Tsunami di occupazioni nelle scuole, gli studenti continuano a bloccare tutto
di Redazione - OSA, Opposizione Studentesca d'Alternativa
Questa mattina forse Giorgia Meloni si è svegliata pensando che il “weekend lungo” – come lo ha chiamato lei – dei solidali con la lotta dei palestinesi fosse finito. Invece, sono tante le scuole che in varie città d’Italia stanno venendo occupate da studentesse e studenti. I più giovani sanno bene che non bisogna distogliere l’attenzione dal genocidio in corso in Palestina, e non permetteranno che ciò accada.
Gli studenti continuano a fare proprie le parole lanciate dai portuali di Genova del CALP e poi fatte proprie dall’intero paese durante i due scioperi generali del 22 settembre e del 3 ottobre, chiamati dall’Unione Sindacale di Base e altri sindacati conflittuali: bloccare tutto, per imporre al governo di rompere tutti gli accordi con Israele e di porre fine al terrorismo sionista che colpisce tutto il Medio Oriente.
Il governo è alle strette, sotto il peso della sua complicità e della corsa verso il baratro del riarmo e della guerra fatta propria, chi più chi meno, da tutto l’arco parlamentare. I giovani stanno tenendo attiva un’opposizione reale in un paese in cui le coscienze si sono risvegliate, saldando la propria lotta con quella dei lavoratori.
Riportiamo qui sotto il comunicato nazionale diffuso dall’OSA – Opposizione Studentesca d’Alternativa in merito allo tsunami di occupazioni in corso.
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L'era dell'effimero e le sue conseguenze
di Il Chimico Scettico
Come osservava Georg Christoph Lichtenberg, o secondo la versione più nota attribuita ad Albert Einstein, "L'educazione è ciò che rimane dopo che si è dimenticato tutto ciò che si è imparato a scuola". Non si tratta quindi di accumulo mnemonico, ma di qualcosa di più profondo e strutturale. Io me la ricordo in un'altra versione, dai tempi del liceo: la cultura è quel che rimane dopo aver scordato.
Erano tempi diversi in cui "analfabetismo funzionale", per esempio, era una locuzione inesistente. Mentre qualche volta veniva usato l'aggettivo "incolto".
Mutuando dalla Treccani:
incólto agg. [dal lat. incultus, comp. di in-2 e cultus «cólto»]. – 1. Non coltivato: luoghi, terreni i.; molti poderi più dell’ordinario rimanevano i. e abbandonati (Manzoni). Anche sostantivato (sottint. terreno): pianta che cresce negli i.; i. produttivo, quello che ha qualche possibilità di utilizzazione agricola. Di pianta, lasciata crescere senza alcuna cura: ulivi incolti. 2. Che non ha, o non ha avuto, le cure necessarie: stile i., sciatto, poco curato; più com., riferito all’acconciatura, alla cura della persona, negletto, trascurato: capelli i., barba i.; incolta si vide e si compiacque, Perché bella si vide ancor che incolta (T. Tasso). 3. Che manca di cultura, non ingentilito dall’educazione e dallo studio: uomini i., popolazione incolta. Con accezione più partic., ingegno i., vivace ma non disciplinato, che ha perciò qualcosa di selvaggio, di primitivo. ◆ Avv. incoltaménte, soprattutto con il sign. 3, in modo rozzo, che rivela scarsa cultura: parlare, scrivere incoltamente.
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Approvato il primo scheletro di una finanziaria tutta improntata alla guerra
di Stefano Porcari
Presi dall’enorme mobilitazione che ha interessato il paese in questi giorni in solidarietà con la lotta palestinese e in sostegno della rottura del blocco illegale di Gaza da parte della Global Sumud Flotilla, è passato momentaneamente sullo sfondo il dibattito sull’approvazione della prossima manovra finanziaria, che si avvicina inesorabilmente con la fine dell’anno.
Giovedì, però, il Consiglio dei Ministri ha varato il Documento programmatico di finanza pubblica (o Dpfp), che ha sostituito la vecchia Nadef. La funzione è più o meno la stessa: serve a fare il punto della situazione dei conti pubblici e delle previsioni di crescita, e a dare così una cornice definita entro cui scrivere in maniera dettagliata la legge di bilancio per l’anno a venire.
Le previsioni di crescita tendenziale del PIL sono ancora più striminzite di qualche mese fa: +0,5% quest’anno, invece di +0,6%; +0,7% nel 2026 e nel 2027; +0,8% nel 2028. Il ministero dell’Economia mette però in chiaro che “tali dati si basano su stime assai prudenziali che allo stato risentono anche del contesto geopolitico internazionale“, innanzitutto dei dazi ‘amichevoli’ di Trump.
Rimane invece inflessibile la gabbia dei vincoli europei, e dunque dell’austerità imposta da Bruxelles. La spesa primaria netta, cioè quella che esclude gli interessi sul debito e componenti cicliche, è diminuita: la solerzia del governo Meloni nel tagliare spese e servizi pubblici ha fatto sì, dalla stima dello scorso aprila che lo dava al 3,3%, ora il deficit è proiettato sul 3%.
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Lezioni dalla Palestina
di Gaetano Colonna
Le decine di migliaia di vite umane sacrificate in Palestina non sono vite perdute. Spetta però a tutti noi il compito di dare a questo olocausto un significato durevole: valido quindi non solo per il presente ma anche per l’avvenire.
È questa la responsabilità che ci impegna tutti d’ora in avanti, se non vogliamo limitarci alle comprensibili reazioni emotive di sdegno e riprovazione: se riversati solo nelle piazze, questi sentimenti corrono infatti il duplice rischio di essere utilizzati per fini di partito, o di svanire non appena nuovamente assoggettati alla quotidianità.
La prima lezione è che, nel primo quarto del primo secolo di questo terzo millennio, è caduto dagli occhi dell’umanità intera il velo di retorica steso dalle potenze che, attraverso l’imperialismo coloniale e la vittoria in due guerre mondiali, dominano dalla fine del XIX secolo il mondo contemporaneo. Parole chiave come libertà, umanitarismo, democrazia, vengono utilizzate per santificare le guerre, per mascherare il dominio attraverso la forza — economica, tecnologica, militare e mediatica, sistematicamente utilizzata dalle grandi potenze dell’Occidente a guida anglosassone.
Da questo punto di vista, Israele non ha fatto altro che dare la dimostrazione più diretta ed evidente di questa logica, applicandola laddove è stato più facile farlo: vale a dire contro un popolo schiacciato da decenni di impiego sistematico della violenza di Stato, a ogni livello e in ogni occasione, con la complicità della potenza egemone mondiale, gli Usa, nel crescente silenzio di una Europa, sottomessa a quel dominio grazie a due spaventosi conflitti mondiali.
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Joe Trump, i preveggenti “volenterosi” e l’inevitabilità del conflitto
di Norberto Fragiacomo
Non abbiamo mai dubitato dell’imprevedibilità di Donald Trump, ma speravamo che, una volta in carica, si sarebbe mostrato meno aggressivo del predecessore e che non avrebbe scatenato guerre. Si trattava non di una certezza, ma di una scommessa – e salvo ulteriori colpi di scena possiamo serenamente ammettere di averla persa.
A gennaio affermai, nel corso di una puntata de il Processo del giovedì, che nei riguardi della Russia il nuovo Presidente USA avrebbe potuto assumere tre atteggiamenti alternativi: seguire il modello Biden, cioè demonizzare l’avversario e rifornire costantemente di armi l’Ucraina senza troppi clamori (tante minacce, ma di rivendicazioni manco l’ombra); porre fine al conflitto riconoscendo le ragioni dei russi e patrocinando un compromesso realistico; terza possibilità, reagire alla (pronosticabile) fermezza di Putin con un “fallo di frustrazione” e dare il via a una definitiva escalation. Trump è stato all’altezza della sua fama, perché nel breve volgere di nove mesi è riuscito a percorrere un tratto della prima strada (conferma iniziale delle decisioni già assunte dai democratici), poi a imboccare d’impeto la seconda – fino all’incontro in Alaska – e infine a invertire repentinamente la rotta, annunciando l’invio di missili a lungo raggio e il sostegno satellitare “per colpire in profondità la Russia”.
La spiegazione (più) logica dell’ultimo voltafaccia è che, a questo punto, il tycoon consideri l’uso della forza militare l’unico mezzo idoneo a imporre alla Federazione una tregua che altrimenti giammai sarebbe accettata, poiché per il presunto “aggressore non provocato” essa equivarrebbe a una sconfitta strategica.
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La Palestina può svegliare l’Occidente?
di Stefano Stella
La questione palestinese può divenire la fiamma che risveglia le coscienze collettive occidentali?
Questa è una domanda fondamentale da porsi in una fase storica in cui la politica occidentale sembra essersi confinata in un convergere di sentimentalismi. Come riportato infatti da Zygmunt Bauman:
“Per l’individuo, lo spazio pubblico non è molto più che un maxischermo su cui le preoccupazioni private vengono proiettate e ingrandite senza per questo cessare di essere private o acquisire nuove qualità collettive; lo spazio pubblico è il luogo in cui si rende pubblica confessione di segreti e intimità privati.”
Il privatismo di matrice post-modernista tende a frammentare qualsiasi appartenenza comune, ogni forma di comunità reale e di senso di valore intersoggettivamente condiviso. Si crea quindi un “nichilismo che avanza”, un moralismo senza morale che, attraverso una retorica vittimistica ed emergenzialista, tende a sopprimere ogni forma di reale dissenso emergente. Questo abisso profondo, non bisogna farsi illusioni, è ancora estremamente egemone negli ambienti delle sinistre post-marxiste; tuttavia la questione palestinese qualche speranza la accende.
In effetti, movimentazioni di questa portata non si vedevano da decenni in Occidente e il valore umano e politico che esse rappresentano non è qualcosa che possa essere sminuito. Le manifestazioni e gli scioperi pro-Pal non sono rivoluzioni; leggerle in questo senso non può che rafforzare il potere costituito.
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Il mondo finanzia il deficit degli Stati Uniti
di Jaime Bravo - Jorge Coulon
Nell’agosto del 1971, Richard Nixon annunciò la sospensione della convertibilità del dollaro in oro. Ciò pose fine a un ciclo iniziato con gli accordi di Bretton Woods, che avevano concesso agli Stati Uniti – l’unica potenza industriale e finanziaria emersa dalla guerra con le proprie capacità intatte e in qualità di creditrice del resto del mondo – la possibilità di rendere la propria valuta la riserva di valore globale.
Ma, anche con questo potere americano, fu necessario fare concessioni riguardo alla copertura aurea e, quindi, concentrare le riserve dei paesi occidentali. Nessuno era disposto a consegnare la stampa della valuta di riserva a un singolo paese.
Con il gesto di interrompere la convertibilità – il cosiddetto Nixon Shock – il sistema di Bretton Woods, che aveva fornito stabilità al commercio internazionale dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, collassò. Il gold standard, che garantiva che ogni dollaro potesse essere scambiato per una quantità fissa di metallo prezioso, fu abbandonato. Da allora, il dollaro è stato sostenuto esclusivamente dalla “fiducia” nell’economia degli Stati Uniti e dal potere politico e militare che la sostiene.
Ma non è tutto. La coercizione per imporne l’uso portò alla nascita dei petrodollari. Lo stesso Nixon firmò un accordo con l’Arabia Saudita, in base al quale quel paese – il più grande esportatore di petrolio dell’epoca – avrebbe accettato pagamenti solo in dollari statunitensi. In cambio, gli Stati Uniti avrebbero garantito la sicurezza dell’Arabia Saudita.
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Trump, il piano zoppo per la pace e l’Europa a zero
di Barbara Spinelli
Quest’articolo è stato scritto subito dopo l’annuncio del Piano di pace, prima della reazione di Hamas e della risposta di Trump, ambedue comunicate il 3 ottobre
Non è chiaro se il piano di pace annunciato il 29 ottobre da Trump e Netanyahu (“Il più grande evento nella storia della civilizzazione”) sia oppure no un Truman Show, una realtà parallela e perversa allo stesso modo in cui fu parallela e perversa l’esultanza di Bush jr (“Mission accomplished!”) quando pretese di aver vinto in poco più d’un mese la guerra in Iraq e insediò a Bagdad il catastrofico protettorato Usa diretto da Lewis Bremer.
Tra i tanti disastri accaduti dopo quella guerra – incoraggiata da Netanyahu – c’è l’assalto di Hamas del 7 ottobre 2023: una strage cui Israele ha risposto con l’uccisione in massa di civili palestinesi a Gaza (“tutti terroristi” secondo il Presidente Herzog). Quest’uccisione è l’evento unico di questi anni: unico nella storia delle civilizzazioni, non della civilizzazione suprema menzionata da Trump.
Netanyahu si finge vincente, avendo ottenuto modifiche a proprio favore del piano, ma in cuor suo lo sa: o il genocidio continua fino a quando Hamas accetterà la resa incondizionata, oppure i suoi giorni al governo potrebbero esser contati. L’America non lo salverà se i suoi ministri terroristi (Smotrich, Ben Gvir) lo affosseranno. Per Smotrich il piano è il “tradimento di tutte le lezioni del 7 ottobre, e finirà in lacrime”.
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I pacificatori
di Manlio Dinucci
“Questo è un giorno molto importante, potenzialmente uno dei giorni più importanti nella storia della civiltà. Cose che vanno avanti da centinaia e migliaia dii anni, noi siamo molto, molto vicini a risolverle. Voglio ringraziare Bibi per essersi davvero impegnato e aver fatto un ottimo lavoro. Abbiamo lavorato bene insieme, come abbiamo fatto, entrambi, con molti altri paesi. Questo è l’unico modo per risolvere l’intera situazione. Accordo completo, tutto risolto. Si chiama pace in Medio Oriente.”
Le stime degli esperti sull’ “ottimo lavoro” di Netanyahu a Gaza
“I bambini sono estremamente vulnerabili: l’allattamento al seno è molto problematico per le madri di Gaza gravemente traumatizzate, a cui sono sostanzialmente negati acqua, cibo, riparo, igiene, latte artificiale, elettricità, servizi igienici e altri beni di prima necessità. Stimando che il 33% delle morti violente a Gaza siano quelle di bambini, il 21% di donne e il 46% di uomini e che le stesse proporzioni valgano per le morti per privazioni, si stima che a Gaza siano stati uccisi dalla violenza e dalle privazioni circa 479.000 bambini di cui 380.000 sotto i cinque anni, 63.000 donne e 138.000 uomini: in totale circa 680 mila persone.”
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Nel labirinto
di Paolo Giovannetti
Roberto Fineschi, Nel labirinto. Italo Calvino filosofo, Napoli, La scuola di Pitagora, 2025. Collana “Diotìma. Questioni di filosofia e politica”, 33.
Il titolo è, in sé, allettante. Di tante questioni calviniane si è parlato in occasione del centenario della nascita, nel 2023: ma l’aspetto in senso stretto filosofico è rimasto in ombra. Tanto più che – con ogni evidenza – nel libro non si parla di filosofia in genere, ma di rapporti con il marxismo, con la filosofia marxista. E qui, davvero, la bibliografia è sfornitissima. Anche per una ragione ulteriore: oggi si tende a guardare con sospetto il Calvino che si avventura in certe sintesi politiche, come per esempio gli era accaduto in un saggio a cui teneva molto, L’antitesi operaia, del 1964, che già ai tempi gli meritò sorrisi imbarazzati da parte di amici e – senza ironia – compagni, che non ritenevano adeguati i suoi tentativi di orientamento fra opposte tensioni ideologiche. A dirla tutta, il Calvino più esplicitamente e volontaristicamente pubblico degli anni che arrivano fino al 1963-1964 può apparire invecchiato, oggi (anche al netto di certi pezzi stalinisti scritti per “L’Unità”).
Merito di Fineschi è aver valorizzato, intanto, il Calvino del PCI, la cui cultura politica è sottoposta a un’analisi molto istruttiva anche in chiave letteraria, e italiana. In particolare, un certo storicismo “dialettico”, preoccupato di mettere a partito il succedersi temporale e ideale di tesi, antitesi e sintesi, avrebbe poco a che fare con il pensiero di Marx e Lenin, e molto invece con una certa tradizione crociana e umanistica.
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Coscienza collettiva e lotta politica: Gaza mette a nudo l'occidente
di Mjriam Abu Samra e Pasquale Liguori
Qualcosa si è rotto nel gran teatro della menzogna che per molti decenni ha coperto con crimini, ombre, giustificazioni e doppie morali il sistema politico occidentale. Per la prima volta in tempi recenti una causa - la Palestina - è deflagrata nell’immaginario collettivo globale e ha incrinato, per quanto in modo parziale e contraddittorio, l’egemonia degli organi di potere e di informazione. Questa rottura è reale e va riconosciuta: è un fatto. Ma riconoscerlo non significa attribuirgli un significato liberatorio né smettere di vederne rischi e contorni di assorbimento sistemico.
La flottiglia è stata scintilla mediatica. Le vele in mare, i lenzuoli alle finestre, gli hashtag e le piazze europee sono via via diventati simboli visibili, facili da fotografare, distribuire, applaudire. Hanno prodotto una narrazione che ha riempito un vuoto simbolico: molti si sono sentiti autorizzati a «essere dalla parte giusta». Ma il gesto visibile non è automaticamente sinonimo di rottura; spesso è il modo più efficace con cui il potere assorbe il dissenso e trasforma la collera in spettacolo gestibile.
Non arretriamo: il punto che si sostiene non è nichilistico. Va detto quello che si osserva con chiarezza teorica e con indignazione politica: una gran parte di queste manifestazioni è strutturalmente esposta al rischio di diventare valvola di sfogo per una coscienza collettiva che pretende pulirsi attraverso il rito senza sfidare i meccanismi concreti che generano la violenza. Questo non è un attacco alle persone in piazza, molte delle quali motivate da empatia genuina: è invece una critica al regime di rappresentazione che tende a trasformare la protesta in consumo simbolico, in meccanismo di alleggerimento morale per chi non intende cambiare nulla di sostanziale.
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Gaza: il punto in cui siamo
di Tomaso Montanari
«Il diritto internazionale è importante, ma fino a un certo punto» (Antonio Tajani, ministro degli esteri della Repubblica italiana, primo ottobre 2025). Qual è, questo «certo punto»?
È un punto sulla carta geografica: quello in cui la Marina militare israeliana assalta le navi disarmate e civili della Global Sumud Flotilla, che portano aiuti a una popolazione sottoposta a genocidio e sterminata con l’arma della fame. È un punto: un punto delle acque internazionali in cui i banditi si fanno polizia, e tolgono beni e libertà a naviganti incolpevoli.
Ed è il punto di una inversione: quello in cui chi viola la legge e usa la violenza è presentato come il garante dell’ordine, e chi rispetta scrupolosamente la legge e usa la nonviolenza è presentato come un eversore dell’ordine. Il punto in cui i criminali sequestrano gli onesti. E poi chiedono loro di firmare confessioni in cui affermano di aver compiuto un crimine contro il legittimo blocco navale israeliano. Confessioni estorte sotto minaccia e in detenzione illegale: lo ha fatto per secoli l’Inquisizione contro gli ebrei. Oggi lo fa Israele alle donne e agli uomini della Flotilla.
È il punto in cui, in televisione, gli opinionisti dicono che quelle sono «acque israeliane»: mentendo per la gola.
È il punto in cui Sergio Mattarella invita la Flotilla a lasciare gli aiuti a Cipro, cioè a non entrare nelle acque, internazionali o palestinesi, in cui Israele avrebbe potuto «porre a rischio l’incolumità di ogni persona». Che sarebbe come dire a cittadini di una città siciliana di non manifestare in un quartiere controllato da Cosa Nostra: perché quelli sparano. È il punto in cui Giorgia Meloni, come sempre con la bava alla bocca, si scaglia contro le vittime e si schiera con gli assassini.
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Il sovranismo (di cartapesta) è nudo
di Clara Statello
Il diritto internazionale è importante…ma fino a un certo punto. Finalmente il ministro degli Esteri Antonio Tajani lo ha detto fuori dai denti.
Il diritto internazionale vale quando serve a invocare l’articolo 4 della NATO contro Mosca, se un drone russo invade lo spazio aereo della Polonia. Non vale più se le truppe speciali israeliane assaltano in acque internazionali una nave battente bandiera italiana o spagnola. La nostra territorialità può essere impunemente violata da Israele, senza scomodare l’ombrello atlantico.
La sovranità può attendere, prima gli interessi degli Stati Uniti e di Israele, per il nostro governo che ha ritirato la scorta alle navi italiane della Global Sumud Flotilla.
Gli irresponsabili, però, sarebbero i membri dell’equipaggio che “hanno cercato l’escalation”, secondo la fata madrina dei sovranisti europei, Giorgia Meloni.
Il sovranismo di cartapesta dei post-fascisti al governo
Quella di ieri è stata una giornata nera per nostre le forze armate. Non solo per il tragico incidente aereo di Sabaudia durante un addestramento, costato la vita a due militari italiani dell’aeronautica. Ma anche perché il ministero della Difesa ha inflitto una sonora umiliazione alla nostra Marina militare.
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Il mistero dei droni degli aeroporti
di Guerre di Rete
Da giorni, settimane, si succedono notizie di avvistamenti di droni in prossimità di aeroporti o basi militari del Nord Europa, con stop dei voli per alcune ore, indagini, ricerche. I casi ora sono numerosi, ma quasi tutti caratterizzati dal fatto che alla fine i droni non sono identificati, trovati o intercettati; non si sa o non si dice da dove arrivino e perché si trovino lì; non si sa se siano casi scollegati e fortuiti, o uniti da un piano; non c’è un’evidenza netta che si tratti in tutti i casi di droni.
In pratica, ci sono i casi di avvistamento, gli aeroporti che si fermano, le indagini della polizia e di altre autorità, i media che ne parlano, ma ancora non si capisce praticamente niente.
Per quel che mi riguarda, questo è al momento l’aspetto più sconcertante di queste notizie. Se non ci avete capito molto, di sicuro non è colpa vostra. Per questo ho deciso di dedicare la parte centrale di questa newsletter a mettere in fila qualche fatto ed elemento. Non pretendo di arrivare da nessuna parte, ma magari a qualcuno sarà utile.
La cronaca
Ultima vicenda: aeroporto di Monaco di Baviera, hub della Lufthansa e snodo strategico per numerose compagnie internazionali.
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Un popolo di navigatori. Spunti di riflessione
Paolo Arigotti intervista Fulvio Grimaldi
https://www.youtube.com/watch?v=YJugVKAw37k&feature=youtu.be
Sostieni la Palestina quando combatte, o solo quando sanguina?
Quello cha succedendo nell’emisfero del capitalismo ultraprivatista, guerrafondaio, fascistizzante, agli ordini di un buzzurro incolto e psicolabile e di suoi famuli europei a lui appesi in armi per sopravvivere, viene definito un miracolo. E lo sembra, sempre a chi fa professione di spiritualismo, meglio detto spiritismo, specialisti i bigotti. Ai laici non risulta che ci siano miracoli, ma solo eventi sorprendenti, non attesi, neppure immaginati. Lo sono spesso i colpi di testa della Storia.
Come questo, che ha per simbolo la Flotilla per Gaza e per tema e spazio di manovra la Palestina, stavolta, alla faccia di ignavi, utili idioti, cacasenno, “giaguari” e loro amici, protagonista mondiale.
Da ultra-attempato testimone di ricorsi storici, mi posso permettere di dire che sembrerebbe di trovarsi a un fenomeno affine a quello sviluppatosi tra 1968 e 1977, prima che con la scaltra operazione BR finte, i padroni riuscissero a spazzare via tutto. E a tenere eventuali risvegli sotto controllo tramite le Operazioni Paura AIDS, Paura Terrorismo Islamico, Paura Pandemie, Paura Clima, Paura ri-Terrorismo non solo islamico, Paura Putin.
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Per cosa sta combattendo l’Ucraina?
di Thomas Fazi
Come si spiega la strategia apparentemente “suicida” dell’Ucraina negli ultimi tre – o meglio undici – anni? La risposta più convincente è che, dal 2014, l’Ucraina non è stata principalmente impegnata in un progetto di costruzione nazionale, né ha agito in modo coerente nel proprio interesse nazionale. Ha piuttosto funzionato come un proxy delle potenze euro-atlantiche, che hanno strumentalizzato l’Ucraina come ariete contro la Russia. In questo processo, queste stesse potenze hanno contribuito a rafforzare e potenziare le forze ultranazionaliste all’interno dell’Ucraina, assicurando che qualsiasi leader politico incline al compromesso o alla riconciliazione con Mosca avrebbe dovuto affrontare una resistenza interna insormontabile. Ne è emerso un sistema politico in cui il perseguimento degli obiettivi strategici occidentali ha avuto la precedenza sul perseguimento della stabilità e della coesione dell’Ucraina stessa, una traiettoria che si è rivelata catastrofica per il Paese e il suo popolo.
* * * *
La risposta potrebbe sembrare ovvia: sta combattendo per riconquistare i territori perduti, quelli che si sono separati nel 2014 (Donetsk e Luhansk, successivamente annessi dalla Russia), così come quelli che sono stati annessi dalla Russia nel 2022 (Kherson e Zaporizhzhia), tutti oggi in gran parte, anche se non interamente, sotto il controllo militare russo.
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Da Eltsin a Milei: i fallimenti del FMI sono i suoi successi
di comidad
La storia dei droni e jet di Putin sulla Polonia e sull’Estonia ha suscitato in molti una struggente nostalgia per i bei tempi di una volta, quando gli UFO venivano avvistati nei cieli e gli ufologi erano chiamati a illuminarci su cosa accadeva. La narrativa ufologica, pur ricca di aneddotica, alla fine però rimandava sempre al mistero, come i telefilm della serie “X Files” che, dopo tanto narrare, lasciavano quasi tutte le domande in sospeso. Di Putin invece, grazie ai nostri media, sappiamo tutto: i piani strategici, i desideri repressi, i pensieri nascosti, le intenzioni recondite e i sogni segreti; ma, soprattutto, ne conosciamo alla perfezione la cartella clinica, di cui non ci sfugge nulla. Massimo D’Alema era stato messo alla gogna a causa della sua presenza alla sfilata militare di Pechino per celebrare la vittoria sul Giappone nella seconda guerra mondiale; ma lo scaltro D’Alema ha trovato il modo di rilanciare le sue quotazioni offrendo in pasto ai media la notizia da loro più ambita, cioè succosi dettagli, da lui raccolti in prima persona, sul precario stato di salute di Putin.
L’euforia mediatica per la prospettiva di un Putin moribondo rientra comunque nel mito costruito attorno al personaggio, come se l’eccezionalità, in positivo o in negativo, appartenesse alla sua figura e non a quella del suo predecessore, Boris Eltsin, il russo più amato dal Fondo Monetario Internazionale, e quindi dai media euro-americani. Noto ai più per il suo alcolismo e per il bombardamento del parlamento russo, Eltsin ha caratterizzato la sua presidenza appunto per il rapporto speciale da lui intrattenuto con il FMI, di cui era un beniamino e da cui ha ricevuto direttive e prestiti.
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Crisi dell’egemonia Usa e vittime sacrificali per la salvezza del sistema capitalistico
di Federico Giusti
È indispensabile analizzare l’ascesa di Trump e la sua elezione non solo come fattore interno agli Usa ma intrinseco alla nuova stagione capitalistica. In caso contrario ricondurremmo le decisioni Usa sui dazi, sulla Nato, sulle guerre, sulla finanza a scelte umorali del Presidente senza riferimento alcuno agli interessi materiali che determinano obiettivi economici, politici e geo strategici ben definiti.
Secondo Maurizio Lazzarato “Trump politicizza ciò che il neoliberalismo aveva cercato di depoliticizzare: non è più l'«oggettività» del sistema di mercato, delle leggi finanziarie a comandare, ma l'azione di un «signore» che decide in modo arbitrario le quantità di ricchezza che ha diritto di prelevare dalla produzione dei suoi «servi».Così, oggi, il capitalismo non ha più bisogno, come un tempo, di affidare il potere ai fascismi storici, perché la democrazia è utilizzata a propri fini, fino a produrre e riprodurre guerra, guerra civile, genocidio. I nuovi fascismi sono marginali rispetto ai fascismi storici e, quando accedono al potere, si schierano immediatamente dalla parte del capitale e dello Stato, limitandosi a intensificare la legislazione autoritaria e repressiva e agendo sull’aspetto simbolico-culturale”.
Per cogliere il rapporto tra capitalismo e guerra gli scritti di Lenin, risalenti a oltre un secolo fa, mantengono una struggente attualità, a distanza di anni pensiamo che quanto avvenuto con la crisi del 2008 sia stato analizzato poco e compreso ancora meno.
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Le guerre che ti vendono, manipolazione e propaganda in Ucraina e altrove
di Alessandro Gatto
I media mainstream provano ossessivamente a far credere alla gente che la guerra in Palestina sia iniziata il 7 ottobre 2023. A questa panzana si contrappone un diffuso sentimento popolare che fa da argine alla disinformazione di Regime. Gli stessi media raccontano che la guerra in Ucraina sia iniziata il 24 febbraio 2022. A quest’altra panzana si contrappongono in molti meno.
Tra i primissimi a seguire e a raccontare la guerra in Ucraina – che era scoppiata otto anni prima rispetto a quando se ne accorse l’informazione mainstream occidentale – c’è Sara Reginella, una talentuosa e coraggiosa documentarista. Coraggiosa sia perché è stata più volte sul campo di battaglia con la sua cinepresa, ma anche perché non ha mai esitato ad andare contro i poteri forti e la loro propaganda.
Negli ultimi anni, la testimonianza di Reginella ha fatto da faro per molti che volevano sviluppare un pensiero critico sugli eventi. Con impeccabile metodo scientifico ha seguito e analizzato gli eventi in Ucraina e nel resto del mondo.
Lo ha fatto anche sfruttando le proprie competenze professionali (è una affermata e stimata psicologa), nonché quelle linguistiche, dato che parla russo ha modo di attingere anche ad altre fonti rispetto all’informazione omologata occidentale, avendo modo così di confrontare i diversi punti di vista.
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Il Piano Trump per Gaza è una lapide sul presente e sul futuro. Ma spetta ai palestinesi decidere
di Sergio Cararo
Appare evidente come il “piano Trump” sia arrivato anche a seguito del vertiginoso aumento della pressione internazionale e dell’isolamento di Israele dopo quasi due anni di aggressione ai palestinesi a Gaza che ormai molti configurano e denunciano come genocidio.
L’isolamento di Israele, l’escalation delle proteste popolari anche in Europa e Stati Uniti e le conseguenze nella regione del bombardamento su Doha da parte israeliana, hanno costretto Trump a cercare una via d’uscita che in qualche modo salvaguardasse Israele e la sua alleanza con gli USA.
La televisione israeliana Channel 12 riferisce che il team del presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha apportato “cambiamenti radicali” al suo Piano per Gaza, al fine di renderlo più accettabile da Israele, dopo un incontro con il ministro degli Affari Strategici Ron Dermer e il primo ministro Benyamin Netanyahu.
Ciò significa che quello che è stato dato finora in pasto ai mass media e agli interlocutori internazionali (i 21 punti diventati poi 20, ndr), è stato già rivisto per renderlo compatibile con gli interessi di Netanyahu – pressato dalla destra religiosa – e del governo israeliano.
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Vale la pena morire per Kiev?
di Gerardo Lisco
Il quesito che attraversa oggi il dibattito europeo richiama alla memoria un precedente storico ben noto. Nel 1939, alla vigilia della Seconda guerra mondiale, l’opinione pubblica si domandava se valesse la pena “morire per Danzica”, ossia affrontare un conflitto mondiale per difendere l’indipendenza della Polonia. Oggi, a oltre tre anni dall’invasione russa, la stessa domanda si ripropone con un nuovo volto: vale la pena morire per Kiev?
Il disimpegno americano e la responsabilità europea
Le recenti dichiarazioni di Donald Trump, riportate dalla stampa come un sostegno incondizionato a Zelensky, vanno lette in modo diverso. Al di là della retorica, gli Stati Uniti hanno ridotto le forniture militari, segnalando un progressivo disimpegno. Il messaggio implicito è chiaro: l’Ucraina non è più una priorità strategica per Washington, bensì un problema che l’Europa deve gestire in prima persona. In parallelo, i media occidentali hanno intensificato la narrazione di un conflitto imminente. Si moltiplicano notizie su incursioni russe nei cieli della NATO, sull’abbattimento di droni e missili in Polonia, sui timori dei Paesi baltici. Persino ex generali arrivano a indicare date precise per lo scoppio della Terza guerra mondiale. Questo crescendo mediatico sembra rispondere più all’esigenza di preparare l’opinione pubblica a un’escalation che a un’analisi realistica della situazione.
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Mainstream e guerra: il racconto che manca
di Elena Basile
Se avessi più tempo a disposizione scriverei una rubrica ogni giorno chiamata “l’anti la Repubblica e Corriere della Sera”. Credo infatti sia essenziale svolgere un lavoro costante di risposta agli editoriali che appaiono su questi giornali, plasmando ricorrentemente l’opinione pubblica moderata delle destre e del centro-sinistra, nerbo del potere attribuito alla maggioranza Ursula, e divulgando tesi non consone ai fatti documentati, resi disponibili da un’informazione corretta.
Cercherò di riepilogare i temi preferiti che, con una monotonia estrema, vengono enunciati senza contraddittorio da giornalisti e intellettuali, che dominano la scena del pensiero mainstream da decenni.
Con un’ingenuità apparente viene posta un giorno sì e un altro no la stessa domanda: come mai – si chiedono storici, accademici e giornalisti – migliaia e migliaia di persone scendono in piazza contro le aggressioni di Israele e non contro la Russia, considerata da loro alla stregua di Israele, uno Stato che viola il diritto internazionale? (editoriale di Ezio Mauro di domenica 28 ottobre).
La risposta è semplice. La gente colta e meno colta, professionisti e persone ordinarie, ha capito l’essenziale. Il paragone con Putin, colpito da un mandato di arresto della CPI esattamente come Netanyahu, è fuori luogo. La Russia ha reagito, invadendo l’Ucraina, al disegno di dominio imperialistico che la NATO ha deciso di attuare al fine di desovranizzare il perdente della guerra fredda e attuare un regime change.
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“Ora tocca all’Italia”. La strategia delle balle guerrafondaie
di Dante Barontini
Sembra abbastanza evidente che il susseguirsi di allarmi inverificabili circa la presenza di “droni russi” sui cieli d’Europa, o di “interferenze” nelle comunicazioni, sia piuttosto chiaramente una “strategia comunicativa” attribuibile per intero all’Unione Europea, proprio mentre l’America di Trump sta scaricando la guerra ucraina sul Vecchio Continente.
Mettiamo in fila solo gli episodi più clamorosi, per non farla troppo lunga.
1) Prima c’è stata la notizia che l’aereo di Ursula von der Leyen aveva perso il segnale GPS mentre volava sulla Bulgaria, dove era diretto, al punto da costringere i piloti a usare “vecchie mappe cartacee” come i turisti degli anni ‘70 e ad accumulare 1 ora di ritardo, dopo aver rischiato di mancare l’atterraggio. Nel giro di poche ore l’episodio è stato sbugiardato:
– dalla Bulgaria, paese Nato, che non ha rilevato nulla di anomalo sui propri radar;
– da alcune migliaia di esperti di aviazione, che hanno spiegato come il GPS non serva per l’atterraggio (ci sono da decenni sistemi più moderni ed efficaci, specie su un aereo “presidenziale”)
– dagli enti di controllo del volo, come FlightRadar e altri, che non hanno tracciato né cambiamenti di rotta né mancato funzionamento dei sistemi di bordo (la comunicazione tra velivolo e centrali di controllo è costante);
– dai registri dell’aeroporto, con l’aereo che aveva solo 5 minuti – e non un’ora – di ritardo.
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La matematica, il segno, la pandemia
di Il Chimico Scettico
Girando sulla websfera italiana noto che si continua a parlare della pandemia e in particolare della gestione italiana della stessa (nonché, sull'onda del delirio istituzionale americano, di vaccini mRNA etc). Inutile girarci attorno, quelli pandemici furono tempi in cui "per la pubblica salute" venne messa in scena una propaganda che, a sentire chi la praticava e la incarnava, mirava a "salvare vite". A parte i risultati finali, ben distanti da quelli attesi o sperati, a parte che si parlava di "nuda vita", a parte la negazione dei fatti a salvaguardia della propaganda, a parte misure che per violazione dei diritti costituzionali non hanno avuto pari in occidente, a parte tutto questo la pandemia ha costituito una fase nuova del simulacro della scienza, una fase in cui forse per la prima volta la matematica irrompeva con prepotenza sulla scena, rinnegando sé stessa, a supporto dell'emergenza in un regime discorsivo dove la terminologia scientifica era utilizzata principalmente per il suo valore performativo ed emotivo.
Un esempio iconico di questa trasformazione fu rappresentato dall'uso del termine "esponenziale", utilizzato non più nel suo significato matematico, ma come evocazione di un sentimento di crescita incontrollabile e minacciosa.
Consideriamo un caso di scuola: l'affermazione di un noto fisico secondo cui "la crescita è esponenziale, stanno solo aumentando i tempi di raddoppio". Dal punto di vista matematico, questa frase contiene una contraddizione interna: se il tasso di raddoppio si sta allungando, significa che la derivata seconda della funzione sta diminuendo, il che per definizione esclude una crescita esponenziale.
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Gaza o del duplice tradimento dell’Occidente
di Andrea Inglese
La preparazione è giunta a buon punto quando gli individui hanno perso il contatto con i loro simili e con la realtà che li circonda; perché, insieme con questo contatto, gli individui perdono la capacità di esperienza e di pensiero”. Così scriveva Hanna Arendt in Le origini del totalitarismo. Nei settantaquattro anni che ci separano dalla prima edizione nel 1951, le nostre democrazie hanno sì mostrato fragilità, storture, contraddizioni a volte imbarazzanti, ma in un contesto apparentemente garantito di dibattito critico e di pluralità di posizioni. Sappiamo ora, ne abbiamo le prove, che non è più così. Qualcosa di questo scollamento nei confronti sia dell’esperienza sia del pensiero sembra riemergere nel discorso pubblico, assieme a un inquietante e tenace diniego di realtà. Il fenomeno è senz’altro profondo e coinvolge varie dimensioni delle nostre società, ma esso ha avuto una sua cristallizzazione evidente nella reazione dell’Occidente “ufficiale” (mediatico e politico) nei confronti di ciò che sta accadendo tra lo stato di Israele e il popolo palestinese.
Prendiamo l’esempio di No Other Land, film di un collettivo di registi palestinesi e israeliani, uscito nel 2024. È stato premiato alla Berlinale e in altri importanti concorsi europei, ha ottenuto l’Oscar per il miglior documentario. Nonostante ciò, No Other Land ha provocato la prevedibile censura israeliana, sostenuta persino dal ministro della cultura. Nemmeno negli Stati Uniti, terra della libertà di espressione, il documentario ha trovato distributori e anche la sua proiezione puntuale ha suscitato polemiche. In Germania, sono invece gli autori stessi a venire accusati di “antisemitismo” (accusa bipartisan, formulata da un sindaco conservatore e una ministra progressista), in seguito alle dichiarazioni fatte durante la premiazione al Festival di Berlino.
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Ucraina. Il “pacco” di Trump è stato consegnato. Contiene dinamite
di Dante Barontini
Sul conflitto in Ucraina è importante seguire i giornali europei più “bideniani” e guerrafondai per capire quale sia il “clima” all’interno dei vertici della UE (più la Gran Bretagna), e quali soluzioni siano in ballo sia per la prosecuzione della guerra che per la sua eventuale conclusione.
L’evento più rilevante delle ultime settimane è stata certamente la “svolta” verbale di Trump, che si è prima detto “deluso” da Putin (come se nelle relazioni tra superpotenze i sentimenti avessero anche solo un minimo di ruolo), quindi ha dichiarato che “l’Ucraina può vincere” (tre mesi prima Zelenskij aveva ammesso che proprio non era possibile), poi ha detto “sì” all’eventuale abbattimenti di “oggetti volanti russi” sul territorio della Nato, poi ha rimproverato la stessa Ue perché continua a comprare gas e petrolio da Mosca anziché da Washington, esortando a mettere dazi al 100% sulle merci di Cina e India perché fanno la stessa cosa.
Nell’insieme queste sconclusionate affermazioni erano state accolte positivamente, dai guerrafondai nostrani. Poi anche i più entusiasti hanno cominciato a rifarsi i conti.
Tenuta sottotraccia come notizia, a Bruxelles hanno comunque dovuto registrare che gli Stati Uniti, nel frattempo, stavano smettendo di mandare armi “efficaci” – anche se pagate dalla UE – per scarsità di produzione e mutate esigenze yankee. E questo mentre l’attore di Kiev chiedeva nientepopodimeno che dei missili Tomahawk per bombardare direttamente Mosca o San Pietroburgo. A quel punto mancava solo la richiesta di testate nucleari e il sogno poteva arrivare in fondo…
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7 punti sulla Questione Palestinese
di Emanuele Maggio
1) La nascita e la genesi storica dello Stato di Israele è contraria a tutti i principi del diritto internazionale e della convivenza pacifica tra i popoli (art. 1-2 Carta Nazioni Unite, art. 49 IV Convenzione Ginevra, Dichiarazione 2007, Statuto di Roma 1998). Tuttavia, quegli stessi principi stabiliscono L’ATTUALE esistenza e legittimità dello Stato di Israele (“uti possidetis juris”). Anche se una nazione è nata da violenza coloniale illegittima, le seconde generazioni di quella nazione non ereditano alcuna colpa, e ottengono il rango di popolazione stabile che non può essere deportata. Ecco un esempio semplice per far capire che Israele NON POTEVA nascere ma che ormai NON PUÒ essere cancellato: i nativi americani non possono rivendicare il Minnesota perché lo abitavano secoli prima, scacciando la popolazione attuale, né possono dividere il Minnesota a metà, dunque -> il sionismo non poteva rivendicare lo spazio palestinese, né dividerlo a metà come accaduto nel 1948, ma neanche i palestinesi possono rivendicare quello spazio ormai rubato, perché le seconde generazioni israeliane (e americane) non ereditano il peccato coloniale. Attualmente il diritto internazionale è orientato verso la soluzione (ormai solo teorica) dei Due Popoli Due Stati, e protegge sia lo Stato di Israele, sia lo Stato di Palestina (appunto stabilendo che quest’ultimo è occupato illegalmente da Israele). Il trucco retorico di Israele è considerare la propria violenza come legittima difesa perenne in un contesto di soggetti arabi ostili (e in parte è anche vero), ma questo non può valere finché occupa territori altrui, perché l’occupante non ha mai diritto di difendersi.
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Onu, una tribuna abusata
di Fabrizio Casari
Nei giorni scorsi le Nazioni Unite sono salite alla ribalta con un’Assemblea Generale convocata per prendere parola e ipotizzare azioni a difesa del popolo palestinese, sotto l’attacco genocida israeliano e per dare uno stop a Tel Aviv nelle sue pretese coloniali di annessione della Cisgiordania. Una citazione a parte la merita lo show delirante di Trump, che tra l’imbarazzo generale ha citato guerre inventate, si è attribuito meriti inesistenti, ha sfornato miti di fantasia e minacciato cose che non può mantenere. E’ stata la rappresentazione di come la cosiddetta post verità (termine educato per non dire menzogne) sia ormai la parte consistente della narrazione del fascismo USA 3.0.
Veder passare la direzione della più grande potenza del mondo da un presidente con demenza senile ed ansie di guerra a uno con cesarismo ipertrofico e ansia di rapina, sposta le analisi politiche sotto la lente della psichiatria, dove confutare o smentire affermazioni diventa esercizio inutile al fine della comprensione del fenomenico.
Ma è il discorso di Netanyahu ad aver assunto valore simbolico. Alcuni hanno rilevato come la stessa presenza del boia israeliano in un consesso internazionale fosse uno schiaffo verso la Corte Internazionale di Giustizia (organismo della stessa ONU) che imputa il governo israeliano di condotta genocida e ne raccomanda l’invio a processo.
Ma che la giustizia internazionale non potesse prevalere sull’organismo politico era scontato, nessuna persona che faccia uso di realismo poteva dubitarne.
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