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Le conseguenze della scienza: Enrico Fermi, la bomba atomica e il ruolo dei fisici
di Carlo Rovelli
Il premio Nobel italiano fu tra le più grandi menti del Novecento, sia in campo teorico sia sperimentale, ma la politica non lo interessava. Ora che il rischio nucleare è così alto, serve un impegno civile degli studiosi
Interventi
Lo scorso 5 agosto, alla vigilia dell’ottantesimo anniversario dei bombardamenti atomici sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki, il fisico Carlo Rovelli ha inaugurato su Corriere.it la sua serie video in dieci puntate La bomba atomica. La cattiva coscienza della fisica. Riflessioni personali sul nucleare. Titolo del primo episodio, nel quale Rovelli parla dello sviluppo dell’arma nucleare, è: 1934 Enrico Fermi. Sul «Corriere della Sera» del 14 agosto è intervenuta Angela Bracco, presidente della Società italiana di Fisica, sostenendo che la figura di Fermi era stata «screditata». Rovelli ha risposto nella stessa pagina (qui l’intervento di Bracco e la risposta di Rovelli ). Il video ha continuato a suscitare dibattito e, nel testo qui sotto, il fisico torna ad approfondire alcune questioni.
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Alcune frasi su Enrico Fermi nei video dedicati al rischio nucleare che ho registrato per questo giornale, hanno dato origine a una polemica vivace. Con pieno rispetto per chi ha giudizi diversi dai miei, vorrei chiarire qui la mia opinione sulle questioni sollevate.
Ritengo che Enrico Fermi sia il più grande scienziato italiano in tempi recenti e uno dei più grandi fisici del XX secolo, in un piccolo Gotha che comprende Einstein, Dirac, e pochissimi altri. A mio giudizio, l’importanza della sua eredità scientifica è maggiore di quella che gli viene di solito attribuita, per il motivo che cerco qui di illustrare. I suoi contributi alla fisica moderna sono moltissimi. La materia ponderabile dell’universo è formata da particelle che i fisici chiamano genericamente «fermioni» in suo onore, perché per primo ne ha compreso il comportamento collettivo.
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Russia-Usa, uno storico bilaterale
di Gianmarco Pisa
È presto per dire cosa porteranno i prossimi sviluppi; ma vi è ragione di considerare questo vertice storico, sullo sfondo del “cambio di paradigma” internazionale che l’ascesa del Sud globale sta portando con sé.
Non c’è dubbio che il vertice di ferragosto tra i due presidenti, quello russo, Vladimir Putin, e quello statunitense, Donald Trump, passerà alla storia, ma forse non per le ragioni che diversi analisti e opinionisti hanno segnalato in recenti, articolati e interessanti, commenti. Per farsene un’idea, al di là delle forme del cerimoniale e del protocollo, pur interessanti (il piccolo applauso di Trump all’arrivo di Putin allo scalo, gli onori militari, il clima positivo dell’incontro, il passaggio del presidente russo sull’auto presidenziale statunitense, il primo intervento in conferenza stampa affidato all’ospite, Putin, anziché, come generalmente usa, al padrone di casa, Trump), è la sostanza di quanto detto in conferenza stampa a segnare carattere e misura degli sviluppi portati dal vertice. Con una premessa, a tal proposito: il carattere e la misura degli sviluppi delineano un quadro generale dei temi su cui si è registrato un consenso bilaterale di massima, un clima generale di ripresa delle relazioni bilaterali tra le due maggiori potenze nucleari del pianeta, non certo una piattaforma definita, dal momento che dettagli, circa i singoli temi e le singole questioni affrontate nell’incontro a due, non sono stati forniti.
Il vertice è iniziato, com’è noto, alle 11,30 ora di Anchorage (21,30 in Italia) il 15 agosto, ed è durato quasi tre ore nel formato a porte chiuse cosiddetto “tre e tre”: per la parte russa, il Ministro degli Esteri Sergei Lavrov e il consigliere presidenziale Yuri Ushakov (oltre al presidente Putin); per la parte statunitense, Steven Witkoff e il Segretario di Stato Marco Rubio (oltre al presidente Trump).
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Come è morta la democrazia occidentale
«Il vero cambiamento è un’illusione»
di Thomas Fazi
Krisis propone l’atto d’accusa di Thomas Fazi contro il disfacimento del sistema democratico in Occidente. Con una denuncia tagliente, l’analista evidenzia come censura, criminalizzazione del dissenso e manipolazione delle istituzioni siano diventati strumenti per mantenere il potere delle élite. Dalla Francia alla Romania, passando per l’Unione europea e gli Stati Uniti, secondo Fazi la democrazia sostanziale si è erosa, sostituita da un sistema che favorisce l’oligarchia. Le crisi economiche, sociali e geopolitiche hanno amplificato questa tendenza, mentre forme di repressione e manipolazione si giustificano come difesa della democrazia. Il breve periodo di democrazia sostanziale postbellica è ormai un ricordo. E il futuro si presenta cupo.
In Germania, la polizia ha recentemente perquisito le abitazioni di centinaia di cittadini accusati di aver insultato politici o di aver pubblicato online “messaggi d’odio”. In Francia, la procura ha aperto un’indagine penale contro X, la piattaforma di Elon Musk, accusandola di interferenze straniere attraverso la manipolazione degli algoritmi e la diffusione di contenuti “d’odio”. Ciò è avvenuto dopo una perquisizione della polizia nella sede del Rassemblement National, il principale partito d’opposizione francese, in seguito all’apertura di una nuova indagine sul finanziamento della campagna elettorale, solo pochi mesi dopo che Marine Le Pen, ex leader del partito, è stata condannata a cinque anni di ineleggibilità per uso improprio dei fondi UE.
Nel Regno Unito, oltre 100 persone sono state arrestate semplicemente per aver portato cartelli con la scritta «Mi oppongo al genocidio, sostengo Palestine Action», organizzazione recentemente messa al bando per terrorismo. Nel frattempo, negli Stati Uniti, l’amministrazione Trump sta attuando una vasta stretta sulla libertà di espressione, soprattutto relativamente alle critiche nei confronti di Israele.
Questi casi non sono eccezioni, ma sintomi di una deriva autoritaria più profonda e sistemica. In tutto l’Occidente, la censura è diventata prassi, il dissenso viene sempre più criminalizzato, la propaganda è sempre sfacciata e i sistemi giudiziari sono usati come armi per mettere a tacere l’opposizione. Negli ultimi mesi, questa tendenza è degenerata in attacchi diretti alle istituzioni democratiche di base: in Romania, per esempio, un’intera elezione è stata annullata perché aveva prodotto «l’esito sbagliato» e altri Paesi stanno valutando mosse analoghe.
Ufficialmente, tutto ciò viene fatto «per difendere la democrazia». In realtà, lo scopo è evidente: consentire alle classi dirigenti di mantenere il potere di fronte a un crollo storico della loro legittimità.
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Genocidio e doppi standard: una riflessione sulle parole di Liliana Segre
di Elena Basile
Il pensiero di Liliana Segre, esternato ripetutamente sulla stampa più letta, appare attualmente in minoranza. Non era così quando, dopo 10.000 morti, mi vidi accusata dall’intero arco costituzionale, nonché dallo spazio mediatico, per aver avuto l’ardire di rivolgermi alla Senatrice per condividere una riflessione sull’esistenza di una medesima mentalità — riassumibile nella disumanizzazione del nemico — che accomuna i nazisti di un tempo agli israeliani di oggi.
Mi rivolsi alla Senatrice in quanto la consideravo l’esponente più influente della comunità ebraica. L’avevo ammirata per il coraggio e l’indignazione morale espressi nella denuncia dei crimini nazisti che ella stessa aveva patito.
Sono stata così ingenua da pensare che la Senatrice avrebbe potuto, insieme al movimento di protesta contro il genocidio, levare la sua voce e condannare Israele.
L’intervista che avevo letto su la Repubblica, credo, nella quale la Senatrice — pilotata forse male dal suo intervistatore — esordiva affermando di non riuscire a dormire pensando ai bambini israeliani sterminati dall’attacco terroristico del 7 ottobre, per poi aggiungere, alla fine, che era spiacente per la morte di tutti i bambini di ogni religione e nazionalità, mi colpì sgradevolmente. Mi spinse a pubblicare un video sui social media in cui mi appellavo a Liliana Segre per fare chiarezza.
Non avendo ritrovato l’intervista, aggredita persino da coloro che reputavo amici, decisi di scusarmi. Lo feci in buona fede, pensando di essere stata vittima di un’allucinazione.
Naturalmente, le mie scuse furono interpretate malignamente e subii un linciaggio mediatico: si sostenne che mi ero scusata per paura delle querele della Segre. Così, del resto, si può leggere su Wikipedia in inglese (non quello italiano), che mi fa l’onore di uno spazio, elencando i miei incarichi diplomatici e la mia attività di scrittrice ed editorialista.
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Parlare o tacere su Gaza. Scrittori e artisti alla prova del genocidio
di Andrea Inglese
Quando quello che sta succedendo sarà abbastanza lontano nel tempo, tutti si chiederanno sbigottiti come mai si è permesso che accadesse.
Omar El Akkad
Gaza è crollata sulle norme di un diritto internazionale costruito pazientemente per scongiurare la ripetizione delle barbarie della Seconda Guerra mondiale.
Jean-Pierre Filiu
Le corporazioni di artisti, scrittori, docenti universitari: un caso di studio
Il comportamento intellettuale che le corporazioni di artisti, letterati e professori universitari, in occidente, hanno avuto in seguito al 7 ottobre di fronte allo sterminio della popolazione palestinese di Gaza costituisce e costituirà un caso di studio sociologico per le generazioni future. Nella gerarchia dell’infamante accusa di complicità al genocidio[1] dei palestinesi queste corporazioni si situano al terzo posto per grado di responsabilità. Il primo posto lo occupano solidamente la maggior parte dei governi occidentali e le istituzioni internazionali come l’Unione Europea. Qui c’è poco da studiare: la loro consapevole e volontaria inerzia è sotto gli occhi di tutti, così come le loro responsabilità morali e politiche. Al secondo posto vi è la categoria dei giornalisti e degli opinionisti (occidentali)[2]. Molti di loro collaborano attivamente o hanno collaborato almeno fino a date recenti, a rendere plausibile la propaganda del governo israeliano. Altri, una minoranza, hanno deciso abbastanza presto di farsi canale di diffusione dei giornalisti palestinesi, gli unici a cui era consentito essere testimoni, a rischio della loro vita, dei massacri e delle distruzioni di Gaza. Infine, al terzo posto, i portavoce di una sedicente “coscienza critica” o dei sedicenti valori dell’”umanità”: artisti, scrittori, studiosi. Più questi portavoce si trovavano prossimi o interni a una zona di “ufficialità”, meno, nella maggior parte dei casi, si sono espressi chiaramente e tempestivamente in pubblico.
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Da Ben Gurion a Netaniahu: il passo più lungo della gamba
Grande Israele, genocidio o suicidio?
di Fulvio Grimaldi
Dall’occupazione all’annessione
Ce n’est que un debut. Permettetemi la blasfemia di adattare una parola d’ordine che aprì un tempo di liberazione e giustizia a qualcosa che ne è l’opposto: schiavitù e crimine. Cioè Gaza. E non solo.
Ci vuole tutta l’insolenza accompagnata ad abissale ignoranza - i due binari sui quali viaggia l’intera nostra compagine governativa - del trovatello berlusconiano che un prodigio neofascista ha fatto diventare ministro egli Esteri, per esigere (!) che, prima di venire a esistenza, lo Stato palestinese (che non c’è) debba riconoscere lo Stato israeliano che c’è da ottant’anni. Con la consapevolezza di chi è convinto che non ce n’è per nessuno, Tajani sorvola sul dato granitico del riconoscimento solennemente dichiarato, nel 1993, dalla massima autorità palestinese, l’OLP di Arafat. Un leader, già ridimensionato dalla cacciata da Beirut, rannicchiato in esilio a Tunisi, che si rassegna a coronare l’ennesima turlupinatura sionista, della quale non verranno mai rispettate neanche le forme.
Questa manifestazione di competenza e arguzia diplomatica Tavjani l’ha espressa, con il tempismo che rivela la sua oculatezza diplomatica- Erano le ore in cui si materializzava la presunta elucubrazione onirica di Trump dell’oscena “Riviera di Gaza”, apparecchiata, a forza di cocktail e aragoste, per Bibi, Donald, loro consorti e altri della Fratellanza Epsteiniana, Quelli da Bibì tenuti ferreamente per i santissimi in virtù dei ricattini sexy allestiti dal pedofilo ebreo (ovviamente suicidato) su mandato del Mossad.
“Gaza riviera, dalla visione alla realtà” è la solenne dichiarazione, a fine luglio, di una determinante quota di parlamentari e ministri Knesset, riferendosi, appunto, al futuro distopico di una Gaza dove fame, bombe, veleni, cecchini anti-bambini, avranno fatto togliere il disturbo a un residuato di pezzenti umanoidi sgraditi a Jahvé. Ben Gvir: “Nessun negoziato (altro che Hamas indisponibile), occupazione e incoraggiare l’emigrazione”.
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L’allucinante documento pro-Israele dell’UCEI
di Alessio Mannino
Questo articolo tratta di un documento semplicemente allucinante, ancorché prevedibile, pubblicato dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (UCEI). Ma per una volta non è diretto solo al lettore generico, bensì innanzitutto agli appartenenti alla suddetta associazione che non si lascino accecare da una obbligata difesa d’ufficio di Israele. La domanda è: cari concittadini che fate parte dell’UCEI, siete tutti, indistintamente, concordi con quanto potete leggere nel “compendio”, come viene definito nella presentazione, denominato “Parole in conflitto” e consultabile online a questo link, di cui qui di seguito trovate un sunto certo polemico, e tuttavia legittimamente polemico, come legittimamente polemiche sono le prese di posizione dell’associazione presieduta da Noemi Di Segni? Legittime, beninteso, ma riduttive, omissive, fuorvianti e, in definitiva, offensive per l’intelligenza. E per la dignità di un popolo, quello palestinese, martoriato in misura mostruosamente sproporzionata rispetto ai 1500 israeliani morti o rapiti nell’attacco-boomerang di Hamas del 7 ottobre 2023, atto la cui doverosa condanna morale e politica non può in alcun modo giustificare una logica di pura vendetta, che rappresenta lo stadio anteriore alla civiltà del diritto non solo moderna, ma perfino antica, se pensiamo al limite posto alla ritorsione reciproca fin dai tempi della primigenia Europa, fondata su quello spirito greco che fa porre a Sofocle, a sigillo dell’Orestea, l’istituzione della giustizia da parte di Atena nel tribunale dell’Aeropago. Era il V secolo a.C. Siamo tornati indietro di 2500 anni.
Il testo dell’UCEI è uscito ai primi di luglio, e la Di Segni lo introduce come un contributo per contrastare le fake news su Israele, definite come disinformazione che mischia “realtà deformata e omissioni”, alimentando “odio anti-ebraico, anti-israeliano, la demonizzazione di Israele, la negazione della convivenza, l’elusione di quanto avviene nel quadro complesso del Medio Oriente e la legittimazione delle organizzazioni terroristiche”, cioè di Hamas.
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Il laboratorio della guerra
Tracce per un’inchiesta sull’università dentro la «fabbrica della guerra» di Modena
di Kamo
0. Un’ipotesi a premessa
Rita Cucchiara è la nuova rettrice dell’Unimore. Prima donna ad assumere questo ruolo nella storia dell’Università di Modena e Reggio, è stata eletta a giugno 2025 al ballottaggio contro Tommaso Fabbri, con un corpo accademico votante spaccato in due.
Come gruppo di inchiesta universitario, è indicativo per il nostro discorso lo spostamento dei rapporti di forza, di bilanciamento e di potere interni all’istituzione Università dal dipartimento di Economia a quello di Ingegneria. Come vedremo, questo elemento può essere già inteso come indizio della direzione e del ruolo che l’istituzione università sta assumendo, in questa fase accelerata e acuta di crisi, sul nostro territorio inteso nelle sue connotazioni produttive e sociali, nel suo rapporto con lo sviluppo capitalistico a vocazione industriale e dei soggetti da esso messi al lavoro, e in relazione alle trasformazioni del contesto politico e capitalistico non solo locale, ma regionale, nazionale ed europeo, dentro la crisi globale che si fa stato di guerra.
La figura della nuova rettrice sta lì a esprimere questa fase di cruciale trasformazione. Partiamo da qui, cominciando a tracciare qualche punto d’inchiesta sull’università come «laboratorio della guerra», da ampliare, mettere a verifica e agire in senso militante, con punto di vista di parte.
1. La nuova rettrice: Rita Cucchiara
Ordinaria di ingegneria informatica e direttrice di numerosi laboratori di ricerca sull’intelligenza artificiale, Rita Cucchiara viene descritta dai giornali come il volto delle donne nelle STEM italiane, con un curriculum accademico invidiabile.
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Keir Starmer, il tracollo
di Erica Orsini
In soli 12 mesi il primo ministro britannico è passato dal trionfo alla débâcle. Intanto, Corbyn torna alla ribalta
A un anno dalla sua elezione, il premier Starmer è travolto da una crisi senza precedenti. Mentre l’ex leader laburista Jeremy Corbyn lancia una nuova iniziativa politica che in 48 ore raccoglie oltre 400.000 adesioni, Starmer rischia di perdere il controllo del Paese e del suo stesso partito. Tra errori politici, spaccature interne e difficoltà nella gestione delle emergenze, appare sempre più isolato e distante dalle promesse di cambiamento. A complicare il quadro, la sua controversa gestione della crisi israelo-palestinese. Ritratto senza veli del primo ministro britannico, scritto dalla giornalista Erica Orsini, che ha vissuto metà della vita a Londra e ha da poco pubblicato il libro «Noi e loro».
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Il 23%: è questa, al luglio 2025, a un anno dalla sua salita al potere, la percentuale di consensi tra i britannici per il premier laburista Keir Starmer. Secondo YouGo, si tratta del peggior risultato rilevato nello stesso mese tra il luglio 2021 e il maggio 2025.
Un collasso verticale, che non si è verificato per nessuno degli altri leader politici inglesi attuali, neppure per la conservatrice Kemi Badenoch, la leader dell’opposizione che pure non è particolarmente gradita agli elettori. A metà del 2024, in piena campagna elettorale, il 51% aveva un’opinione positiva del candidato Starmer, contro il 44%, ora a pensarla così sono rimasti meno della metà.
Al giro di boa del suo primo anno al potere, nel Regno Unito non c’era un quotidiano o un’emittente televisiva che non fotografasse un primo ministro in caduta libera, travolto da un’ondata d’impopolarità clamorosa, impegnato a tenere a bada sia un’opinione pubblica fortemente delusa nelle aspettative sia un forte dissenso interno.
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Il potere di Israele
di Gaetano Colonna
La domanda, che dovrebbe sorgere spontanea, assistendo a quello che avviene nella Striscia di Gaza da molti mesi, è per quale ragione le autorità politiche dei Paesi europei non intervengano in maniera ferma nei confronti della politica di eliminazione fisica dei Palestinesi adottata con ogni evidenza dallo Stato di Israele: nonostante il fatto che quegli stessi Paesi, nelle loro ben costruite costituzioni, abbiamo scolpito nero su bianco i più alti principi umanitari
Gruppi di pressione di Israele in Europa
La risposta a questa domanda, che il cosiddetto uomo della strada si pone ogni giorno ascoltando i telegiornali, ma che assai pochi politici e giornalisti osano formulare pubblicamente, è in realtà molto semplice. Basta approfondire quanto lo Stato di Israele è riuscito a costruire in decenni di abile strategia politica anche in Europa, sviluppando le fruttuose strategie già da tempo messe in atto in Gran Bretagna prima e poi negli Stati Uniti d’America.
Ci riferiamo alla creazione di quei gruppi di pressione, che nel mondo anglosassone sono chiamati lobby, il cui scopo, apertamente dichiarato e consentito dalla legge, è di esercitare un’influenza sulle istituzioni delle democrazie parlamentari occidentali, attraverso l’indottrinamento dei cosiddetti rappresentanti del popolo.
L’efficacia dell’influenza di queste lobby, da tempo riconosciuta dalla storiografia anglosassone per quanto riguarda il mondo britannico e statunitense, è ora altrettanto ben funzionante in Europa.
Una delle principali lobby che sostengono la politica dello Stato di Israele, particolarmente attiva nell’ambito delle istituzioni dell’Unione Europea, è lo AJC Transatlantic Institute, dipendente, anche finanziariamente, dalla più autorevole fra le lobby ebraiche statunitensi, lo storico American Jewish Committee (AJC).
Il lettore non deve pensare a nulla di complottistico, in quanto il TAI è ufficialmente iscritto nel registro delle lobby di Bruxelles, e dispone di discrete disponibilità economiche che si aggirano intorno ai 700mila euro annui. Come accennato, queste risorse dovrebbero provenire dallo AJC, che ha messo a disposizione in un anno 3,5 mln di dollari per attività di questo tipo in Europa, raggiungendo complessivamente, a partire dal 2005, anno di apertura dell’ufficio di Bruxelles, i 47 mln di dollari: cifra realistica questa, tenendo presente che lo AJC dispone, oltre ad un patrimonio di 250 mln di dollari, di entrate annue per 80 mln di dollari annui, provenienti da fondi donati da esponenti del mondo ebraico americano e internazionale.
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Come smentire la propaganda israeliana in tempi di genocidio
di Paul de Rooij, unz.com
Viviamo in tempi interessanti ma difficili. È evidente che i miti stiano cadendo e che le narrazioni consolidate da tempo si dissolvano quando vengono esposte alla dura e sanguinosa realtà.
In nessun altro ambito ciò è più evidente che nei miti che hanno sostenuto Israele per molti decenni.
Israele è stato dipinto come un piccolo paese fragile ma resiliente che vive in un “quartiere difficile”. Tuttavia, ora, date le incessanti guerre di Israele, gran parte di questa mitologia viene abbandonata; non è più necessaria quando l’arroganza, l’orgoglio e il sadismo guidano l’ethos israeliano. L’immagine del piccolo Davide sta cedendo il posto a quella di una creatura vendicativa e genocida, con un pizzico di Antico Testamento…
Di seguito è riportata una discussione su alcuni dei miti che stanno crollando. I miti sono costruiti su narrazioni che a loro volta sono costruite su parole descrittive. Gran parte della discussione verte sul chiarire la natura ingannevole delle parole, che a sua volta smaschererà le false narrazioni.
Una vera canaglia
L’esercito è venerato in Israele e si fa molto per glorificare i militari; ci sono festival con cantanti, palloncini e pompon blu e bianchi in abbondanza[1]. Le ragazze ebree americane vanno in visibilio quando incontrano i soldati abbronzati e sorridenti. Naturalmente, se si glorifica l’esercito, allora tutte le unità non possono che essere “d’élite”; anche al soldato più umile viene dato il grado di sergente; e naturalmente devono essere “i più morali” del mondo. È anche noto con il suo acronimo incongruo: IDF.
Contrastate l’immagine affascinante dell’esercito israeliano con le sue azioni a Gaza, in Cisgiordania e oltre. I cecchini israeliani prendono di mira i bambini, con punti extra per le donne incinte (è persino possibile acquistare una maglietta con il logo “un colpo, due morti”).
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Il nuovo Deep State tecnologico
di Paolo Gerbaudo
Si sta formando un nuovo blocco militar-industriale-informatico, con nuove aziende come Palantir o Anduril che si sono alleate al trumpismo, e approfittano dell’economia di guerra
Negli inebrianti anni Novanta neoliberisti, il tecno-ottimismo raggiunse i suoi estremi più imbarazzanti. Intrisi del fatuo immaginario di quella che Richard Barbrook ha definito «ideologia californiana», lavoratori del settore tecnologico, imprenditori e ideologi tecno-visionari hanno identificato la tecnologia digitale con un’arma per la liberazione e l’autonomia personale. Questo strumento, proclamavano, avrebbe permesso agli individui di sconfiggere l’odiato Golia rappresentato dallo Stato, allora ampiamente individuato nei fallimentari colossi del blocco sovietico in implosione.
Per chiunque abbia una conoscenza superficiale delle origini della tecnologia digitale e della Silicon Valley, questa avrebbe dovuto essere, fin dall’inizio, una convinzione ridicola. I computer furono un prodotto degli sforzi bellici dei primi anni Quaranta, sviluppati come mezzo per decodificare messaggi militari criptati, con Alan Turing notoriamente coinvolto a Bletchley Park.
L’Eniac, o Electronic Numerical Integrator and Computer, considerato il primo computer multiuso utilizzato negli Stati uniti, fu sviluppato per compiere calcoli applicati all’artiglieria e per supportare lo sviluppo della bomba all’idrogeno. Come sosteneva notoriamente G.W. F. Hegel, la guerra è lo Stato nella sua forma più brutale: l’attività in cui la forza dello Stato viene messa alla prova contro quella di altri Stati. Le tecnologie dell’informazione sono diventate sempre più centrali in questa tipica attività statale.
Qualcuno potrebbe ancora credere al mito della Silicon Valley nata spontaneamente dagli hacker che saldavano circuiti nei loro garage. Ma la realtà è che non avrebbe mai preso vita senza il supporto infrastrutturale dell’apparato di difesa statunitense e dei suoi appalti pubblici, che garantiscono la redditività commerciale di molti prodotti e servizi che oggi diamo per scontati.
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False flag rivisitate. Srebrenica-Isis, certezze o dubbi?
di Fulvio Grimaldi
Nei giorni scorsi abbiamo dovuto subire il tornado, ricorrente intorno a ogni dannato 11 luglio, del trentennale del cosiddetto massacro, per molti genocidio, di Srebrenica in Bosnia che, secondo i celebranti, sarebbe avvenuto quel giorno dell’anno 1995, a conclusione della guerra di disfacimento della Federazione jugoslava. Per inciso, nella furia di commemorare quell’evento, arricchito costantemente di nuove macabre scoperte di salme dissotterrate e da dissotterrare negli anni a venire, anche ben trent’anni dopo, neanche il più rispettabile cronista o commentatore riesce a osservare almeno un frammento della buona regola del dubbio, visto il cui prodest, o almeno dell’attenzione a versioni altre del fatto.
Che pure ci sono. E abbondanti e autorevoli, condotte con strumenti di verifica storica e scientifica. Tale è la disponibilità, tra indolenza, complicità e assoggettamento a quanto prevale nella narrazione pubblica, irrobustita da un’alluvione di immagini e testimonianze dirette, date per inoppugnabili. Ogni voce alternativa, ogni seme di dubbio, magari della dimensione di un granello di sabbia nel potentissimo ingranaggio, ha ormai assunto il carattere della blasfemia. 8000 vittime s’è detto e 8000 restano.
E’ una cifra che fa colpo. Non per nulla sarebbero 8000 anche i curdi sterminati da Saddam ad Halabja. Altro evento contestato, perfino dagli americani. Eppure, se 8000 fanno genocidio, cosa fanno i 150.000 calcolati da Harvard e Lancet a Gaza? Per Radio Radicale, 8000 sarebbero i trucidati dal regime siriano di Assad. Qualcuno ha contato 8000 vittime del Covid a Wuhan e 8000 precise sarebbero le vittime annuali dell’influenza in Italia e figuriamoci se non erano 8000 gli ebrei italiani deportati in Germania, mentre quanti pensati che siano, per Repubblica, i minori morti per incidenti stradali in Europa se non 8000? Come erano certamente 8000, prima ancora che qualcuno arrivasse munito di pallottoliere, i morti del terremoto 2016 tra le impenetrabili montagne del Nepal.
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I valletti dell'Apocalisse
I governi occidentali e l'impunità di Israele
di Alberto Toscano
La responsabilità dei governi occidentali nel genocidio in corso a Gaza è enorme. Ciò che sta emergendo con chiarezza è il fallimento conclamato del cosiddetto «ordine internazionale liberale». Un ordine che non solo non ferma i genocidi, ma legittima e protegge la violenza sistematica di Israele, che viene per definizione considerata un atto di autodifesa. Mentre si concede carta bianca a Netanyahu, i governi dell'Occidente continuano a intrecciare proficui rapporti con il suo complesso militare-industriale.
Come ci ricorda Alberto Toscano, nel suo rapporto From Economy of Occupation to Economy of Genocide la relatrice speciale dell'Onu Francesca Albanese è esplicita: «se il genocidio non si è fermato, è anche perché è un’impresa redditizia. Rende, e rende molto».
Le lezioni della guerra in Iraq sono ancora davanti ai nostri occhi: la complicità delle élite «democratiche» occidentali producono effetti duraturi, e continueranno a farsi sentire per anni.
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Il 2 luglio, il Parlamento britannico ha votato per inserire il gruppo Palestine Action nella lista delle organizzazioni terroristiche. La decisione è arrivata dopo l’ultima azione diretta del gruppo, avvenuta il 20 giugno, quando alcuni attivisti hanno danneggiato due aerei da rifornimento in volo Voyager presso la base di Brize Norton, da cui partono regolarmente voli verso la RAF Akrotiri, la base situata a Cipro da cui sono decollati centinaia di voli di sorveglianza su Gaza. Mentre il governo britannico insiste sul fatto che le operazioni di ricognizione sono finalizzate esclusivamente alla localizzazione e al salvataggio degli ostaggi, gli attivisti sostengono che la condivisione di informazioni d’intelligence con Israele implichi la complicità del Regno Unito in crimini di guerra.
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Trump, Epstein e il Deep State
di Chris Hedges* - Scheerpost
Il rifiuto da parte dell'amministrazione Trump di rendere pubblici i documenti e i video raccolti durante le indagini sulle attività del pedofilo Jeffrey Epstein dovrebbe mettere fine all'idea assurda, abbracciata dai sostenitori di Trump e dai liberali creduloni, che Trump smantellerà il Deep State. Trump fa parte, e da tempo, della ripugnante cricca di politici – democratici e repubblicani –, miliardari e celebrità che guardano a noi, e spesso a ragazze e ragazzi minorenni, come merce da sfruttare per profitto o piacere.
L'elenco di coloro che gravitavano nell'orbita di Epstein è un vero e proprio Who's Who dei ricchi e famosi. Tra questi figurano non solo Trump, ma anche Bill Clinton, che avrebbe fatto un viaggio in Thailandia con Epstein, il principe Andrea, Bill Gates, il miliardario degli hedge fund Glenn Dubin, l'ex governatore del New Mexico Bill Richardson, l'ex segretario al Tesoro ed ex presidente dell'Università di Harvard Larry Summers, lo psicologo cognitivo e autore Stephen Pinker, Alan Dershowitz, il miliardario e amministratore delegato di Victoria's Secret Leslie Wexner, l'ex banchiere di Barclays Jes Staley, l'ex primo ministro israeliano Ehud Barak, il mago David Copperfield, l'attore Kevin Spacey, l'ex direttore della CIA Bill Burns, il magnate immobiliare Mort Zuckerman, l'ex senatore del Maine George Mitchell e il produttore hollywoodiano caduto in disgrazia Harvey Weinstein, che si divertiva nei perpetui baccanali di Epstein.
Tra questi figurano anche studi legali e avvocati di alto livello, procuratori federali e statali, investigatori privati, assistenti personali, addetti stampa, domestici e autisti. Tra questi figurano anche numerosi procacciatori e protettori, tra cui la fidanzata di Epstein e figlia di Robert Maxwell, Ghislaine Maxwell. Tra questi figurano anche i media e i politici che hanno spietatamente screditato e messo a tacere le vittime, e hanno usato la forza contro chiunque, compresi alcuni giornalisti coraggiosi, cercasse di smascherare i crimini di Epstein e la sua cerchia di complici.
Molte cose rimangono nascoste. Ma alcune cose le sappiamo.
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Alessandro Volpi: Cosa non torna nella narrazione sulla forza dell’economia statunitense
Pino Arlacchi: IA: le differenze tra la Cina socialista e l'occidente
Leo Essen: Provaci ancora, Stalin!
L'eterno "Drang nach Osten" europeo
Alessio Mannino: Contro la “comunità gentile” di Serra: not war, but social war
Sonia Savioli: Cos’è rimasto di umano?
Gianni Giovannelli: La NATO in guerra
BankTrack - PAX - Profundo: Obbligazioni di guerra a sostegno di Israele
Pino Arlacchi: Perché Netanyahu non batterà l’Iran
Alessandro Volpi: Come i dazi di Trump mettono a rischio l’Unione europea
Marco Savelli: Padroni del mondo e servitù volontaria
Lavinia Marchetti: Il volto interno del genocidio: la “mielizzazione” della ragione
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Enrico Tomaselli: Sulla situazione in Medio Oriente
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Fulvio Grimaldi: Siria, gli avvoltoi si scannano sui bocconi
Gli articoli più letti dell'ultimo anno
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Giovanna Melia: Stalin e le quattro leggi generali della dialettica
Algamica: Il necrologio di Federico Rampini
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Antonella Tennenini: Il governo della pandemia. Uno sguardo critico
Vincenzo Costa: "Io ho paura della sinistra"
Andrea Del Monaco: Landini contro le due destre descritte da Revelli
Piccole Note: Il cyberattacco in Libano e l'attacco Nato alla Russia
Giorgio Agamben: La fine del Giudaismo
Riccardo Paccosi: La sconfitta dell'Occidente di Emmanuel Todd
Andrea Zhok: La violenza nella società contemporanea
Carlo Di Mascio: Il soggetto moderno tra Kant e Sacher-Masoch
Jeffrey D. Sachs: Come Stati Uniti e Israele hanno distrutto la Siria (e lo hanno chiamato "pace")
Jeffrey D. Sachs: La geopolitica della pace. Discorso al Parlamento europeo il 19 febbraio 2025
Salvatore Bravo: "Sul compagno Stalin"
Andrea Zhok: "Amiamo la Guerra"
Alessio Mannino: Il Manifesto di Ventotene è una ca***a pazzesca
Eric Gobetti: La storia calpestata, dalle Foibe in poi
S.C.: Adulti nella stanza. Il vero volto dell’Europa
Yanis Varofakis: Il piano economico generale di Donald Trump
Andrea Zhok: "Io non so come fate a dormire..."
Fabrizio Marchi: Gaza. L’oscena ipocrisia del PD
Massimiliano Ay: Smascherare i sionisti che iniziano a sventolare le bandiere palestinesi!
E.Bertinato - F. Mazzoli: Aquiloni nella tempesta
Autori Vari: Sul compagno Stalin
Qui è possibile scaricare l'intero volume in formato PDF
A cura di Aldo Zanchetta: Speranza
Tutti i colori del rosso
Michele Castaldo: Occhi di ghiaccio
Qui la premessa e l'indice del volume
A cura di Daniela Danna: Il nuovo volto del patriarcato
Qui il volume in formato PDF
Luca Busca: La scienza negata
Alessandro Barile: Una disciplinata guerra di posizione
Salvatore Bravo: La contraddizione come problema e la filosofia in Mao Tse-tung
Daniela Danna: Covidismo
Alessandra Ciattini: Sul filo rosso del tempo
Davide Miccione: Quando abbiamo smesso di pensare
Franco Romanò, Paolo Di Marco: La dissoluzione dell'economia politica
Qui una anteprima del libro
Giorgio Monestarolo:Ucraina, Europa, mond
Moreno Biagioni: Se vuoi la pace prepara la pace
Andrea Cozzo: La logica della guerra nella Grecia antica
Qui una recensione di Giovanni Di Benedetto