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Orientarsi nel labirinto della lotta di classe

A proposito di un libro di Domenico Losurdo

Elena Maria Fabrizio

Non è stato l’Occidente a essere colpito dal mondo; è stato il mondo che è rimasto colpito - e duramente colpito - dall’Occidente
A. Toynbee, Il mondo e l’Occidente

Domenico Losurdo, La lotta di classe. Una storia politica e filosofica, Laterza, Roma-Bari 2013, pp. 387

scioperanti del settore edile Parigi Bois de Vincenne 1936L’assenza cronica di visioni globali della storia è il più grave colpo inflitto dall’umore postmoderno alla contemporaneità. Di questa assenza soffre anche certa cultura marxista, spesso retrocessa a visioni che hanno rimosso dall’orizzonte storico la portata universalistica del conflitto di classe, qualche volta ridotto a semplice stagione del più ampio processo moderno di emancipazione, qualche altra a progetto fallimentare di cui solo la tradizione liberal-riformista avrebbe saputo tesaurizzare gli aspetti propulsivi.

In questa situazione culturale e politica analizzare i processi storici attraverso la categoria della lotta di classe è un’operazione coraggiosa perché tocca questioni ideologiche e etico-politiche che dal crollo del comunismo sovietico è politicamente scorretto, se non scandaloso, evocare. La critica dell’ideologia però resiste, in uno studioso che ne è tra i più illustri e forse ortodossi rappresentanti e di cui ci sono noti i meticolosi controcanti all’edificante apologia di quella storia che l’Occidente proclama come progressiva e propria. Con questo libro, Losurdo riprende il filo di una ben nota narrazione che si vuole far passare per fallita o passé, ma che forse non si conosce ancora abbastanza. Ne scandaglia l’interna complessità e senza riduzionismi di sorta ci restituisce una visione globale della storia nella quale la lotta di classe riceve il ruolo di spinta che le spetta nel processo di emancipazione e costruzione di unità del genere umano.

Sul piano del metodo si tratta di un’operazione complessa che richiede una serie di passi: capire cosa intesero Marx e Engels per lotta di classe, attraverso un approccio filologico dell’opera omnia che tra apporti, limiti, scarti, incongruenze, possa gettare luce sul complessivo processo di maturazione che condusse alla sua definizione; mettere in relazione tale teoria con la concreta partecipazione dei due militanti rivoluzionari alle lotte politiche del loro tempo; verificare in che misura essa si riveli efficace nella comprensione della situazione storico-politica contemporanea. Ne risulta una lettura originalissima della lotta di classe, «una macrostoria essoterica», che spiazza molte vulgate, innanzi tutto quella sostenuta da noti intellettuali (tanto liberali quanto marxisti), che tende a delimitarla al solo conflitto tra borghesia capitalista e proletariato in un singolo paese, e quindi a ritenerla risolta, pacificata o morta, almeno in Occidente a partire dal secondo dopoguerra, grazie alla realizzazione dello Stato sociale, alla diffusione dell’istruzione o allo sviluppo della scienza-tecnologia (Habermas, Dahrendorf, Ferguson, Arendt). Da questa errata comprensione della lotta di classe, come vedremo, dipendono molte altre.

Il sospetto che questa visione semplificata sia non solo estranea a Marx e Engels, ma mistifichi una realtà più contraddittoria e articolata, è confermato, secondo Losurdo, da almeno tre fattori che caratterizzano la storia della seconda metà del Novecento. Il primo riguarda gli Usa dove lo Stato sociale non esiste o è minimal, e dove nonostante il boom economico degli anni ’50 si sono acutizzate le differenze economiche e sociali, si è esasperata la segregazione razziale, la borghesia ha continuato a esercitare la white supremacy, si assiste al dilagante fenomeno dei woorking poor. Il secondo riguarda le rivoluzioni anticoloniali che, contemporaneamente alla presunta pacificazione di classe, si sono verificate su scala mondiale. Il terzo chiama in causa la storia regressiva che interessa l’Europa e che vede minacciata l’acquisizione dei diritti sociali ed economici, proprio nella regione che grazie alle spinte del movimento operaio e sindacale ne ha maggiormente sostenuto la realizzazione.

Ora tutta questa storia smentisce anche le letture apologetiche e spesso ingannevoli che legano autori liberali come Toqueville, Mill, Arendt in quella visione progressista che avrebbe condotto la rivoluzione borghese alla diffusione e distribuzione della ricchezza, al livellamento universale delle differenze sociali, alla promozione dell’egualitarismo civile e politico. E le smentisce perché se la storia è un processo di apprendimento, la coscienza storica impone il riconoscimento di tutti gli antagonismi che lo alimentano. Di conseguenza liberare la lotta di classe dalla semplificazione oppositiva capitalisti-proletari aiuta a comprendere le condizioni storiche e concrete che l’hanno condotta di volta in volta a modificarsi e a maturare i diversi antagonismi; ma può aiutare a comprendere anche le contraddizioni del nostro tempo e le spinte che essa può ancora imprimere alla progressualità storica.

 

Molte forme di lotta di classe

A partire dal Manifesto del partito comunista, e via via scorrendo altre opere edite o postume, compreso il carteggio tra i due militanti amici o le testimonianze delle persone che gravitarono nella loro sfera pubblica e privata, si evince che Marx e Engels seguirono e promossero «con la stessa passione» le molteplici lotte di emancipazione del loro tempo, cercando di analizzarle alla luce di una complessa teoria, che non è esposta in modo organico e sistematico. Da questa ricca mole di fonti e di riscontri, si desume che anche le lotte di liberazione nazionale dei popoli oppressi e di liberazione delle donne, sono parte integrante delle lotte generali per l’emancipazione dellaclasse operaia. È la stessa divisione del lavoro nazionale, internazionale e familiare a imporre una tale interdipendenza. Lo sfruttamento capitalistico del lavoro che assoggetta l’operaio è infatti l’altra faccia sia dello sfruttamento di un popolo su un altro con la relativa riduzione in schiavitù, sia dell’asservimento domestico delle donne. La lotta contro la schiavitù moderna, mascherata dal salario, non può che implicare la lotta contro quella ben più grave schiavitù imposta nelle colonie; e in genere contro tutte le forme di schiavitù generate dal capitale.

La lotta di classe allora è solo il genus, la categoria generale del conflitto sociale che proviene dai rapporti capitalistici di produzione e dalla conseguente divisione del lavoro; essa investe ogni società e tutta la società nel senso, esplicitato dal Manifesto, che tutte le lotte della storia sono lotte tra classi sociali. La pluralità invocata non rinvia però alla mera successione storica, nella quale si ripeterebbe lo stesso schema polarizzante e meccanico tra classi dominanti e classi oppresse con il conseguente auspicato rovesciamento, ma significa che le lotte assumono species, cioè forme diverse e spesso contraddittorie (lotte del proletariato nelle metropoli, lotte anticoloniali o di liberazione nazionale, lotte contro la schiavitù domestica), impegnando nello scontro i soggetti sociali che auspicano l’emancipazione e quelli che al contrario intendono bloccarla. Ciò che le unisce nel genus è il tentativo di scardinare la divisione del lavoro vigente tra le nazioni, nella nazione, nella famiglia e i relativi rapporti di coercizione servili imposti dai borghesi ai proletari, da un popolo a un altro popolo, dall’uomo alla donna.

Si comprende così perché Marx e Engels rivendichino insieme alla liberazione economica del proletariato, la liberazione economica delle popolazioni oppresse e dunque perché la questione sociale in Irlanda o in Polonia, diventi ai loro occhi una questione nazionale, da rivendicare rispettivamente contro l’Inghilterra e la Russia zarista. Quando un popolo nel suo complesso è espropriato della propria ricchezza e capacità produttiva, ridotto in schiavitù e quindi assoggettato da un altro popolo che espropria e riduce in schiavitù, è lo stesso genus che si ripete nella species.

Si comprende altresì l’attenzione tutta speciale che, soprattutto Marx, dedica alla guerra di secessione americana. Ben consapevole delle contraddizioni e dell’ipocrisia ideologica che la connotava ̶ l’obiettivo dell’abolizionismo dalla schiavitù marciando insieme alla lotta tra la borghesia industriale del Nord e l’aristocrazia fondiaria del Sud, secondo uno schema che alla schiavitù classica andava e andrà sostituendo quella salariata, Marx non esitava a collocarla tra le più importanti lotte di classe del suo tempo. Perché scioglieva l’identità di lavoro produttivo e schiavitù, perché poneva le condizioni favorevoli per la liberazione di tutti i lavoratori, perché sconfiggeva la «crociata della proprietà contro il lavoro», perché liberando una razza oppressa avrebbe potuto condurre al riconoscimento americano delle nuove repubbliche.

Anche la lotta per l’emancipazione delle donne fa parte della lotta di classe ed è un’altra forma in cui essa si manifesta. A differenza di altri intellettuali che militarono per la liberazione della donna (Condorcet, Mill), Marx e Engels, ma com’è noto soprattutto quest’ultimo, individuano la genesi di tale soggezione nell’ordinamento sociale capitalistico dove all’oppressione del borghese sull’operaio coincide quella del maschio padrone sulla donna ridotta in condizione di servitù materiale, psicologica e politica. Una spiegazione molto vicina a quella della famosa Wollstonecraft e più concreta di quella che rinvia al pregiudizio sociale, all’abitudine, agli stereotipi più o meno diffusi.

 

Non solo un paradigma economicistico

È ben nota la portata universalistica di cui, secondo Marx e Engels, si nutrono le lotte di classe, per la tendenza a trascendere gli interessi degli sfruttati che la promuovono e a porsi obiettivi che possono essere universalmente condivisi: la liberazione dall’alienazione interessa anche il capitalista, l’eliminazione della povertà interessa tutto l’ordine sociale, mentre la fine delle guerre coloniali, liberando i popoli oppressi, libera anche gli oppressori dallo stato d’assedio a cui sono sempre sottoposti tanto da quei popoli, quanto dai nemici interni che essi creano attraverso vessazioni e sfruttamento. Questa tensione al trascendimento rende rozza e volgare ogni riduzione della lotta di classe al solo paradigma economicistico e redistributivo, una vulgata diffusa dalla tradizione liberale, che si rinnova nella seconda metà del ‘900 (Fraser), ma è figlia della precedente che riduce la lotta di classe al solo conflitto tra borghesia e proletariato.

Le lotte di classe sono invece lotte per la libertà che si iscrivono nel più ampio processo storico di emancipazione messo in moto dalla Rivoluzione francese; sono quindi lotte per il riconoscimento della piena dignità e umanità dovuta alla persona di cui invece operai, schiavi, popoli oppressi, donne rappresentano la negazione. Essa, secondo Losurdo, già nell’ottica di Marx e Engels va pensata come declinazione kantiana del famoso paradigma hegeliano. Nel senso che essa implica l’affermazione dell’imperativo categorico di rovesciare tutti i rapporti in cui l’uomo è oppresso e degradato e di affermare l’umanesimo reale, storicamente compiuto. Che non è l’umanesimo edificante o moralisticheggiante imputato a Marx per esempio da Althusser, che lo relega nella presunta fase retorico-teorica delle opere precedenti al più maturo conseguimento della teoria scientifica e materialistica della storia. Piuttosto Losurdo dimostra, con un’ampia citazione di testi della fase già materialistica (dal 1845 al Capitale), che la critica ai processi di deumanizzazione perpetrati dalla dinamica capitalistica è una costante morale e politica della militanza intellettuale di Marx. Non a caso solo l’intreccio di analisi scientifica e condanna morale possono spiegare l’appello alla rivoluzione e stimolare la prassi verso un rovesciamento dei rapporti iniqui. Il comune denominatore delle tre lotte di classe è quindi sia economico-politico: modificare la divisione del lavoro sul piano internazionale tra i popoli, su quello nazionale nella fabbrica, su quello familiare tra i generi; sia politico-morale: superare la deumanizzazione e conseguire il riconoscimento.

Sotto quest’aspetto, né il paradigma liberale del contratto, che presuppone una libertà solo formale e teorica che finisce per sancire forme legali di subordinazione, né quello giusnaturalistico che non si mostrava all’altezza di includere quali titolari di diritti lo schiavo, l’operaio e la donna, possono essere giudicati da Marx adeguati a comprendere le ingiustizie della società capitalistica.

Più adatto si rivela invece il paradigma del riconoscimento che proviene dalla lezione di Hegel (dalla Fenomenologia ai Lineamenti, passando per la Logica), già chiara a Marx e Engels, sebbene essi vi abbiano impresso due mutamenti dialettici. Come ci fa notare Losurdo, in Hegel il modello del riconoscimento è sviluppato secondo due linguaggi. Il linguaggio della dialettica signoria-servitù, dove la dialettica del riconoscersi implica che ciascuno è libero solo quando riconosce e rispetta l’altro quale individuo libero. Il linguaggio della logica, dove si osserva che «il giudizio negativo infinito» è una specie singolare di negazione in cui ad essere negato non è un particolare o un diritto particolare, come nel caso di un torto subito (giudizio negativo semplice), ma è una categoria generale, un diritto universale («il diritto come diritto»), il diritto a essere uomo come nel caso del delitto. Il giudizio negativo infinito può essere pronunciato tanto sullo schiavo, nella misura in cui il negativo, la sua non umanità diventa infinita, piena, perpetua, misconoscimento assoluto; quanto sul povero, che rischiando la morte per inedia non è riconosciuto come titolare di diritti e cioè come uomo.

Anche in Marx e Engels operano questi due linguaggi, quello che celebra il concetto universale di uomo e quindi l’unità del genere umano sulla base dell’eguaglianza; quello della lotta per il riconoscimento e il superamento della degradazione cui conduce l’uomo come mezzo. E tuttavia, come si diceva, con una fondamentale doppia variante dialettica. La prima riguarda il riconoscimento reciproco da parte degli schiavi e degli operai come membri di una classe sfruttata, quale precondizione della lotta per il riconoscimento; la seconda riguarda l’estensione del paradigma al rapporto tra i popoli: perché se l’individuo è libero solo quando riconosce l’altro come libero (Hegel), allora nessun popolo è libero se non riconosce l’altro popolo come libero.

 

Diversi soggetti e diverse interdipendenze

Quando l’analisi delle diverse forme di lotta e dei diversi conflitti in gioco si estende a quella delle diverse interdipendenze e quindi dei diversi soggetti implicati, la lettura storicamente determinata della lotta di classe assume la forma di un labirinto, nel quale per districarsi occorre l’impegnativa rinuncia alla semplificazione. In particolare alla lettura binaria del conflitto sociale che «spiega tutto a partire da un’unica contraddizione», quella degli oppressi contro gli oppressori (poveri contro i ricchi, proletari contro borghesi, donne contro uomini).

La lotta per l’emancipazione dei popoli per esempio coinvolge soggetti tra loro socialmente eterogenei. Da una parte le nazioni oppresse devono condurre la loro lotta con la massima unità, insieme al popolo partecipano anche i nobili; dall’altra, nella nazione che opprime (l’Inghilterra nel caso dell’Irlanda) gli operai sono chiamati ad una lotta contro la politica capitalistica della classe dominante inglese che, promuovendo la loro emancipazione, contribuisca all’emancipazione delle nazioni oppresse. Nel contempo gli operai possono partecipare alla liberazione delle donne, e gli aristocratici a quella stessa indipendenza della nazione per la quale lottano gli operai e le donne. La borghesia può assumere un ruolo riformatore in Inghilterra o addirittura rivoluzionario nella guerra civile americana. La stessa lotta può generare passaggi di campo. Quando gruppi della classe dominante, soprattutto gli intellettuali, si staccano da essa per unirsi a quella rivoluzionaria nella quale intravedono la guida del futuro; il che si ripete, spostando lo scenario più avanti, quando i nobili sostengono i bolscevichi, o i capitalisti cinesi il partito rivoluzionario di Mao, in entrambi i casi per sostenere la causa di liberazione della nazione. Sono esempi che dimostrano come la lotta di classe non si manifesti mai allo «stato puro» e come Marx e Engels ne furono ben consapevoli.

Non che il percorso verso il superamento della logica binaria sia stato lineare e compiuto. In alcuni scritti essi enfatizzano l’opposizione di classe e la crescita del movimento operaio senza sottoporre tale dato alle differenze tra paese e paese, con la conseguente semplificazione della contrapposizione tra la «contro organizzazione internazionale del lavoro» e la «cospirazione cosmopolita del capitale» rappresentati rispettivamente da un proletariato e una borghesia uniti a livello mondiale, sotto la quale vengono letti eventi di breve durata (Comune di Parigi) e viene ignorata la conflittualità tra le diverse borghesie e i diversi proletariati. Oppure quando l’imminenza di una rivoluzione planetaria viene sostenuta sull’auspicio che la lotta di liberazione dei neri in Usa avrebbe condizionato quella dei servi della gleba in Russia e degli operai in Inghilterra. Oppure ancora quando la conquista proletaria del potere in un paese avrebbe aperto la strada all’internazionalizzazione del conflitto per la liberazione dei popoli oppressi, senza cogliere il conflitto delle libertà che un tale scenario potrebbe far sorgere.

Nonostante le oscillazioni, secondo Losurdo, la consapevolezza che i conflitti di classe presenti nelle rivoluzioni moderne non coincidessero con la semplice lotta tra oppressi e oppressori fu però abbastanza chiara in Marx e Engels. La borghesia, per esempio, come classe oppressa dall’aristocrazia è detentrice di un potere economico e di un prestigio sociale che in nessun modo possono collocarla dalla parte degli sfruttati, né questa classe si esime in determinate circostanze dal lottare dalla stessa parte dell’aristocrazia. Coloro che lottano per la liberazione delle donne possono essere anche borghesi e quindi estranei alla categoria degli oppressi. Le stesse donne che soffrono della schiavitù domestica appartengono tanto alla borghesia quanto alle classi subalterne. Di conseguenza sul piano della lotta, i lazzaroni possono sostenere la monarchia contro la borghesia, determinando il fallimento della rivoluzione napoletana, ma possono sostenere la borghesia contro gli operai determinandone la sconfitta nel ’48 francese; l’operaio sfruttato può non percepire il nesso tra il proprio sfruttamento e quello dei popoli colonizzati e quindi sostenerne l’oppressione. La donna soggetta al marito, se è operaia può essere soggetta al borghese, se è irlandese può appartenere ad una nazione oppressa, ma può a sua volta alimentare il sistema patriarcale rendendosi partecipe dello sfruttamento dei figli. E infine le stesse borghesie possono entrare in lotta tra loro per l’accaparramento del mercato mondiale.

Come si vede, solo quando Marx e Engels superano l’uso della logica binaria del conflitto sociale si acutizza e si affina in loro la capacità di una più lucida comprensione della dinamica storica, dei diversi conflitti in atto, dell’eterogeneità dei protagonisti sociali e del loro calarsi in situazioni storiche concrete. E quindi si riesce per esempio a declinare l’internazionalismo operaio nel rispetto delle diverse forme di lotta, come sostegno al movimento di liberazione nazionale anche si vi partecipa la borghesia polacca o a quello della liberazione dei neri americani anche se guidato da un governo borghese. Si invita il proletariato ad appoggiare gli irlandesi o i polacchi, ma non gli slavi meridionali, la cui lotta era funzionale allo zarismo russo, a dimostrazione che non tutte le lotte nazionali sono legate alla questione sociale. Ma se si appoggiano gli irlandesi quando si tratta della loro liberazione nazionale, si critica poi aspramente gli irlandesi immigrati quando si ribellano alla coscrizione obbligatoria voluta da Lincoln a sostegno delle forze dell’Unione, a dimostrazione in questo caso, che sul piano del metodo è sempre la questione sociale a guidare il discernimento tra un movimento e l’altro, e tra una fase e l’altra dello stesso movimento.

E, infine, si riesce a registrare con amara constatazione come negli anni ’80 dell’Ottocento il proletariato tenda a imborghesirsi e a sostenere il colonialismo, secondo l’ideologia del «socialismo imperiale» promossa dalle classi dominanti dei governi che, in cambio di cessione dei diritti politici e di timide riforme sociali, ottengono dal proletariato e dai partiti socialisti appoggio e lealtà nazionale all’espansionismo coloniale.

 

La svolta epistemologica e la migrazione a Est della rivoluzione

Con l’ideologia del socialismo imperiale, che frammenta la lotta di classe cooptando il proletariato inglese nello sfruttamento coloniale e nell’appoggio ad una prassi presentata come proficua persino dai partiti socialisti (Bernstein o i laburisti inglesi), viene a cadere uno dei presupposti della teoria marxiano-engelsiana, la connessione tra rivoluzione proletaria e emancipazione dell’umanità oppressa. Anche la rottura dell’internazionalismo socialista, lungi dal consumarsi sull’alternativa tra riformismo e rivoluzione, va collegata a questa crisi, come del resto attesterà l’appoggio delle sinistre europee alla concorrenza e competitività spietata tra le nazioni che sfocerà nella Prima guerra mondiale. Siamo ad uno snodo fondamentale della storia della lotta di classe, che deve ora confrontarsi con una situazione urgente e concreta. Per cogliere questo punto di crisi occorreva deporre definitivamente le lenti della logica binaria, ereditare con più consapevole maturità il nesso individuato da Marx e Engels tra questione sociale e questione nazionale, tra quest’ultima e internazionalismo; e con altrettanta lucidità storico-politica imprimere alla lotta di classe una vera e propria «svolta epistemologica».

Solo Lenin fu all’altezza di tale compito, la sua intelligente e profetica analisi politica dell’imperialismo, testimonia che egli comprese il salto da compiere: la coscienza della classe operaia per diventare politica doveva andare oltre la consapevolezza della propria condizione di sfruttamento e concentrarsi su tutti i conflitti della totalità sociale, sull’oppressione delle minoranze nazionali, dei popoli colonizzati, degli schiavi, delle donne. La stessa dinamica della rivoluzione bolscevica dimostra che l’obiettivo di realizzare un nuovo ordine sociale non poteva essere disgiunto da quello di conseguire l’indipendenza nazionale nei confronti di ogni tipo di colonizzazione in potenza o in atto. Di qui il motivo per il quale la rivoluzione invocata dal Manifesto scoppiò in Oriente, dove quindi non fu dirimente la debolezza del capitalismo o l’assenza di una tradizione liberale, ma la piena coscienza che la rottura prodottasi in Occidente richiedesse declinare la lotta di classe in una situazione storica concreta e di collegarla all’impegno di volta in volta determinato contro una particolare forma di oppressione, contro l’espansione coloniale, l’oppressione nazionale (degli ebrei in Russia), la guerra. A partire da questa consapevolezza Lenin seppe tradurre nella concreta realtà storica il doppio mutamento dialettico operato da Marx e Engels, orientandolo in due precise dinamiche di riconoscimento.

Nel riconoscimento della dignità dei contadini, e quindi nel riscatto dalla loro condizione di miseria materiale e morale, di sfruttamento disumano ad opera di una ristretta élite aristocratica, riconoscimento che si estende anche agli operai (lotta per l’emancipazione delle classi oppresse).

Nel riconoscimento della dignità di un popolo e quindi nel suo riscatto dal giogo coloniale, cui le potenze occidentali tentarono di sottoporre nel corso della Prima guerra mondiale. È una rivendicazione che accomuna tutto il movimento anticolonialista successivo, rivolto a quelle nazioni che si arrogano il diritto di sottomettere altri popoli disconoscendo la loro civiltà, la loro autonomia politica e la loro nazionalità (lotta nazionale, anticoloniale e internazionale).

Da questa svolta segnata dall’Ottobre rivoluzionario, la lotta di classe procede, con successi e fallimenti, con una certa continuità storica che arriva sino ai nostri giorni. Troviamo infatti il nesso tra questione sociale e questione nazionale, sia la duplice lotta per il riconoscimento, anche nella Cina di Mao, quando con l’espandersi dell’invasione giapponese, cambia anche la piattaforma teorica e la strategia rivoluzionaria. La lotta rivoluzionaria contro la schiavitù dei contadini e degli operai si trasforma in lotta di liberazione nazionale contro l’impero giapponese e l’insulto che esso arreca alla dignità di un popolo; mentre il partito rivoluzionario si trasforma in partito della nazione perché ne rappresenta gli interessi, sicché anche in questo caso la lotta di liberazione nazionale viene percepita come applicazione al caso concreto della Cina, quale contributo che essa apporta alla lotta internazionale.

La duplice lotta nazionale e anticoloniale caratterizza poi l’Urss di Stalin contro il progetto colonizzatore del Terzo Reich. Se si legge questo progetto per quello che voleva essere, appunto un progetto colonialista e classista: il tentativo di fondare un impero coloniale tendente a disinnescare il conflitto sociale nella madrepatria trasformando i proletari in proprietari terrieri mediante l’occupazione a est di nuovi territori e la riduzione in schiavitù dei popoli inferiori da parte della superiore razza ariana.

Anche negli anni del dopoguerra la rivoluzione algerina, quale lotta contro la fame ma anche contro la soggezione antropologica imposta dal colonizzatore, e la rivoluzione vietnamita seguono questo doppio registro emancipativo. Si tratta ancora una volta di lotte per il riconoscimento nel senso ampio del termine che proviene da Marx e Engels, e che smentiscono ancora una volta la riduttiva lettura economicistica e redistributiva del paradigma della lotta di classe. Sono lotte che hanno avuto risonanze planetarie perché hanno innescato quel circolo virtuoso tra anticolonialismo, riscatto dei popoli e abolizione della soggezione razziale o economica all’interno dello stesso Occidente.

 

Le nuove forme impresse da Lenin alla lotta di classe

La svolta impressa da Lenin consente anche di collocare nella corretta dimensione storica le «nuove forme» con le quali il leader bolscevico intese cambiare la lotta di classe, cercando di coniugare la duplice lotta contro la diseguaglianza di classe e la diseguaglianza tra le nazioni entro un registro tanto unitario quando dialettico. Promuovere lo sviluppo delle forze produttive, «conquistare la tecnica» incorporando all’interno del comunismo il sistema produttivo capitalistico, significava lavorare per l’eliminazione della diseguaglianza internazionale, portando l’Urss ai livelli produttivi delle altre nazioni capitalistiche; e di conseguenza lavorare anche per l’eliminazione della miseria socializzata e per il raggiungimento della reale emancipazione.

Per attuare questo programma, con il quale Losurdo cerca di chiarire lo storico passaggio dal comunismo di guerra alla nuova politica economica (Nep), la lotta di classe postrivoluzionaria doveva far seguire all’espropriazione del potere borghese, e quindi all’autonomia politica, l’espropriazione economica. Se la prima era stata realizzata, anche la seconda doveva configurarsi come un’espropriazione appropriante, nel senso che invece di distruggere il capitalismo, occorreva apprendere dalla classe politicamente espropriata i mezzi e le tecniche economiche utili allo sviluppo del paese. Consapevole della sproporzione tra potere politico e potere economico che la Russia stava vivendo nella fase postrivoluzionaria, Lenin comprese che la dialettica di classe, quella che aveva visto la borghesia avvalersi della collaborazione della classe aristocratico-feudale espropriata del potere ma pur sempre funzionale all’amministrazione e consolidamento dello Stato, doveva ripetersi ora nel rapporto tra proletariato e borghesia, nel senso che solo da questa classe il proletariato poteva sperare di apprendere la gestione amministrativa e lo sviluppo economico. Quest’obiettivo di riscatto, crescita e indipendenza economica richiedeva come sappiamo il sacrificio seppur transitorio degli interessi della classe operaia. Richiedeva cioè la creazione di un margine di diseguaglianza retributiva all’interno della nazione, tra i tecnici qualificati chiamati a dare una spinta alla produzione (nepman) e il resto dei lavoratori, che accentuava il divario tra regioni avanzate e arretrate. Se poi l’apertura al mercato e ai capitali stranieri aiutava a potenziare le risorse del paese, era pur sempre sottoposta alla cruda logica del profitto. Ciononostante, agli occhi realistici della teoria della lotta di classe storicamente determinata, anche questa prassi rappresenta una nuova forma politica per proseguire la lotta di classe, e l’unica chance che la nuova classe ha di consolidare il potere proletario. La difficile fase che la rivoluzione attraversa con il passaggio alla Nep, più che attestare il fallimento del progetto rivoluzionario, come lamentarono gli oppositori interni e i critici europei (Kautscky) di Lenin, dimostra invece che il sacrificio transitorio dell’eguaglianza economica serve piuttosto a realizzarlo. Sotto questo aspetto Losurdo fa notare come il comunismo sovietico abbia sempre rimarcato, sulla scia di Marx, la propria distanza dalla populistica esaltazione della povertà, dal collettivismo della miseria come condizione di pienezza spirituale. Mentre invece la politica economica di stampo capitalistico intendeva sostituire al rozzo egualitarismo pauperista e populista, la reale emancipazione di tutti i russi. Ciò che l’opposizione non coglieva era la svolta verso un capitalismo controllato dallo Stato proletario, che tuttavia in questa nuova forma non godeva di alcun potere, come avviene nelle società capitalistiche occidentali, perché finalizzato alla socializzazione della ricchezza e alla crescita della nazione.

Quel che occorre considerare, se si vuole seguire Losurdo nel suo ragionamento, è che le politiche di incentivi materiali e di incoraggiamento dello sviluppo tecnologico-industriale, che siano quelle di Lenin o di Deng Xiaoping alla fine degli anni ‘70, confermano il nesso storico che la lotta di classe intrattiene con la diseguaglianza tra le nazioni che bisogna superare. Obiettivo che le stesse condizioni storico-oggettive impongono come primario, rispetto a quello delle inevitabili diseguaglianze economiche che la sua realizzazione comporta.

 

Rivoluzione dall’alto, cesarismo progressivo, catarsi

Le trasformazioni subite dalla lotta di classe dopo la rivoluzione d’Ottobre come è noto rappresentano per molti marxisti il fallimento o il tradimento della rivoluzione, che invece di realizzare il socialismo sostituì al capitalismo borghese il capitalismo dei proletari, alla classe sfruttatrice borghese la classe sfruttatrice proletaria, alla rivoluzione dal basso la rivoluzione dall’alto. Questa lettura, per certi versi comprensibile, tende però a ignorare che le rivoluzioni operano in circostanze storiche concrete con cui devono confrontarsi, generando sempre uno scarto tra progettualità e obiettivi conseguiti, oppure tra accelerazioni e fasi di restaurazione. D’altra parte la direzione intrapresa dalla rivoluzione imbarazza lo studioso marxista, il quale tuttavia se vuole comprenderla, secondo Losurdo, deve «liberarsi dell’interpretazione meccanicistica della teoria marxiana del rapporto tra economia e politica, tra classi sociali e apparato governativo e statale», teoria che neanche Marx e Engels avrebbero sostenuto fino in fondo. A supporto di tale tesi, valgono le riflessioni che li condussero a evidenziare la frattura che si verifica in alcune situazioni storiche tra classe sociale dominante e politica del governo, e quindi l’autonomizzazione dei ceti ideologici, politici e militari dalla base sociale che comunque sarebbero chiamati a rappresentare. Si tratta di mediare questa frattura con la lettura gramsciana del cesarismo (con la conseguente distinzione tra cesarismo progressivo e regressivo), che è per Losurdo uno dei modi in cui essa si realizza. Nella monarchia assoluta in Francia, per esempio, il potere non si identifica né con l’aristocrazia feudale in conflitto con la borghesia in ascesa, né con quest’ultima in conflitto con l’assolutismo monarchico, ma è piuttosto l’esito di un equilibrio instabile controllato dalla monarchia. Anche il periodo rivoluzionario giacobino lungi dal rappresentare la classe borghese, è l’espressione di un ceto ideologico che da una parte deve reagire alla guerra civile e a quella controrivoluzionaria, dall’altra deve andare incontro alle istanze popolari o radical-egualitarie. Il potere di Napoleone, se da una parte è sostenuto dalla borghesia che da esso riceve un ulteriore rafforzamento, dall’altra esercita su questa classe sociale un dominio a causa del quale perderà il suo sostegno. Dinamica che si ripete con Napoleone III, quando nel ’48 il rinforzo dell’apparato militare della borghesia in funzione antioperaia finisce con il ritorcersi contro la stessa borghesia.

Tutto il periodo rivoluzionario che va dal ‘48 alla Comune del ’71 evidenzia la tendenza all’autonomizzazione dei ceti dominanti dalla loro base sociale, nel senso che i ceti politici mentre rafforzano la base sociale che li sostiene, ne ostacolano il potere, pur rimanendo tra i fronti un legame che può spezzarsi in determinate situazioni topiche. Anche nel periodo rivoluzionario russo, che vive in un perpetuo stato di emergenza e di eccezione, si assiste secondo Losurdo a questa tendenza: il potere comunista si autonomizza dal proletariato «e cioè, parafrasando Marx, “la dittatura del proletariato mediante la spada” si trasforma nella “dittatura della spada sulla società civile” e sullo stesso proletariato», pur rimanendo tra i leader comunisti al potere e il proletariato, «esile e contorto», un «filo» che continua a connetterli.

In verità tale autonomizzazione avrebbe avuto luogo nella Russia sovietica attraverso una variante, più o meno la stessa da Gramsci evidenziata nel Reich di Bismarck, dove la classe aristocratica continuava a esercitare il potere dello Stato, ma in funzione delegata dalla borghesia economico-industriale, e quindi subalterna a quest’ultima. Nella lettura di Losurdo, è con questa variante che si realizza il cesarismo sovietico, e si ripete in forma diversa la situazione in cui la classe sociale proletaria (cioè i suoi leader) che controlla il potere politico e l’apparato statale, ricorre a ceti ideologici ad essa estranei (la borghesia economica) cui delegare importanti funzioni (lo sviluppo economico della nazione).

Se ora però pensiamo all’espropriazione del potere operaio che nei comitati di fabbrica era giunto a forme di eccezionale democrazia diretta e che aveva dato un decisivo impulso al successo della rivoluzione, anche la lotta di classe sovietica non sembra sottrarsi, già con Lenin, a quella dialettica dell’alienazione che si ripete ogni volta che un ceto sociale promotore del nuovo ordine, giunto al potere, tende ad escludere la compagine sociale che lo ha sostenuto e a frenare le sue spinte propulsive. Al contrario, nella lettura di Losurdo (una lettura che trova sostegno in Gramsci, Joseph Roth e Benjamin) non di alienazione si tratterebbe, ma di una delle trasformazioni che la teoria della lotta di classe deve inevitabilmente subire se vuole conservare se stessa e il suo primario obiettivo che è quello della lotta nazionale e quindi internazionale. Stando poi alla distinzione gramsciana, si potrebbe parlare almeno in questa fase di cesarismo progressivo, perché nonostante gli evidenti compromessi, esso aiuta la forza progressiva a prevalere.

Eppure in questo punto molto delicato nella direzione che la necessità storica ha impresso alla lotta di classe, sembra insinuarsi una sorta di cattivo infinito o di blocco dialettico. La questione sociale rinvia a quella nazionale, la quale è a sua volta legata a quella internazionale, e qui sembra contenuta dal momento che tale slittamento deve inevitabilmente rinviare la stessa soluzione della questione sociale ai tempi a venire. Ma ancora una volta non è così nella lettura realistica proposta da Losurdo perché se il capitalismo di Stato, invocato per lottare contro la diseguaglianza internazionale, finisce per sacrificare la lotta contro la diseguaglianza di classe, che si insinua tra proletariato che detiene il potere e la borghesia che continua a detenere il benessere, ciò conferma come avevano già indicato Marx e Engels, che potere politico e ricchezza economica non sempre coincidono, sicché tale chance si rivela l’unica che la lotta di classe può sfruttare per continuare la sua rivoluzione. Significa ancora una volta che né la lotta di classe, né il potere proletario esistono «allo stato puro». La lotta di classe nel mutare le sue forme, come aveva mostrato Gramsci, incorpora persino un momento catartico che diventa coessenziale alla formazione di una matura coscienza di classe. Il compromesso con il capitalismo borghese implica il sostegno e la condivisione da parte del proletariato, il quale, chiamato a tollerare la diseguaglianza economica che lo separa dal nepman, dimostra di aver maturato una coscienza di classe talmente coesa ed elevata da superare il risentimento nei confronti dei privilegiati e di aver compreso quel privilegio come momento di un cammino di consolidamento di un potere senza il quale non si può edificare la società socialista. Tale scenario smentisce la riduttiva e reazionaria identificazione tra risentimento invidioso e rivoluzione che troviamo soprattutto nelle fantasiose e reazionarie ricostruzioni genealogiche di Nietzsche.

Se quindi la Nep, ma poi anche le successive politiche di rilancio dell’agricoltura e dell’industria, vengono ancora lette come espressioni di restaurazione borghese, di tradimento del socialismo e della rivoluzione da parte di una nuova classe sfruttatrice, la causa va ricercata da qualche altra parte. Per esempio nell’«idealismo della prassi» o nelle visioni populistiche del futuro comunista, che qualche volta Marx e Engels, ma più spesso gli stessi leader rivoluzionari (Lenin, Trotskij, Stalin) hanno incoraggiato. E cioè quelle speranze solo teoriche e ideali che si richiamavano alla scomparsa delle classi, al dileguare del mercato, all’estinzione dello Stato, della religione, della nazione e persino alla pacificazione del conflitto tra le nazioni del campo socialista.

Nonostante tali aspettative siano smentite dalle scelte politiche e le forze in campo siano consapevoli della distanza che le separa dalla prassi socialista, esse continuano ad essere proclamate. Perché alla prova dei fatti, sostiene Losurdo, è la prassi e non la teoria a mostrare maggiore maturità e pregnanza storica, proprio laddove al contrario si tratta di salvare lo Stato sovietico, di rinforzare lo spirito nazionale, tutt’altro che superato in un’eventuale federazione mondiale dei soviet, ma edificato e rinvigorito soprattutto con Stalin. Sebbene sul piano teorico la teoria dell’estinzione dello Stato non sia messa in discussione, ma sia spesso rinviata ad un futuro a venire, la prassi ci mostra una classe rivoluzionaria rappresentata da un’«aristocrazia di statisti» che smentisce la teoria e accentua la componente nazionalista, patriottica e statalista, senza la quale la Russia rivoluzionaria non si sarebbe salvata dalla capitolazione. Non sorprende allora che sia stata proprio la questione nazionale a determinare la conflittualità e poi la dissoluzione del campo socialista (si veda la rottura dell’Urss prima con la Jugoslavia, poi con la Cina).

Della idealità di questi principi (estinzione dello Stato, dileguare del denaro e del mercato, fine dei conflitti tra gli Stati socialisti) si è reso pienamente conto solo Deng Xiaoping, e forse per questo il modello cinese resiste. Ma a tale consapevolezza non è giunta l’Urss, dove secondo Losurdo ha preso il sopravvento l’idealismo della prassi, l’idea cioè che la lotta di classe potesse rimodellare l’intera società portando al limite della sopportazione lo spirito di rinunzia e sacrificio, e che essa potesse in situazioni critiche stimolare attese di trasformazione sociale. Dove inoltre si assiste al declino di una classe dirigente che non ha saputo consolidare il processo rivoluzionario esprimendo la «forma politica duratura del suo dominio», come ha fatto la borghesia nell’800; non ha saputo coniugare pianificazione statale e incentivi economici, né uscire dallo stato d’eccezione e dell’emergenza. Insomma, parafrasando lo Hegel interprete della Rivoluzione francese, non ha saputo far seguire al Terrore che aveva conservato lo Stato, il Termidoro quale necessario passaggio alla sovranità della legge. Anche rispetto alla scoperta del mercato, a cui l’Urss è giunta troppo tardi, solo nella Cina di Xiaoping si restringe lo iato tra una teoria che ne rifiuta la logica e una prassi che ne ha bisogno per stimolare lo sviluppo. La stagione del «socialismo di mercato» rappresenta la presa d’atto che per promuovere quello sviluppo, mercato e competizione sono necessari.

 

Il crollo del comunismo e la svolta del 1989-90

Il crollo del comunismo sovietico è stato giustamente acclamato come un evento epocale, che pone fine ad un esperimento economico incapace di uscire dalla cronica precarietà e che ha bloccato il processo di emancipazione su conquiste certamente rilevanti, come un certo grado di ascesa economica e culturale del proletariato in termini di alfabetizzazione, scolarizzazione, servizi sociali, ma pur sempre in un contesto di misconoscimento di diritti civili e politici, di repressione e violenza. Questa prospettiva non può però essere l’unica dalla quale osservare un fenomeno che sul piano globale ha scatenato altri e drammatici effetti. Anche in questo caso si tratta di un processo contraddittorio che va analizzato con maggiore lucidità, senza che ciò comporti né la legittimazione dei regimi comunisti, né di converso l’acritica accettazione delle conseguenze che dalla loro frantumazione sono scaturite.

Conseguenze nelle quali emancipazione e de-emancipazione sono intrecciate. La fine della polarizzazione ha generato l’ideologico entusiasmo di un mondo pacificato dai valori universali dell’Occidente, in particolare dal successo del modello liberale e dell’economia capitalistica; ha inaugurato l’unilateralismo americano nella politica internazionale e dato nuova linfa ai progetti coloniali. La successione di alcuni eventi possono aiutare a capire: l’invasione di Panama, la prima guerra del Golfo e il successivo embargo contro l’Iraq, l’intervento Nato in Jugoslavia, la seconda guerra del Golfo. Che tra la prima e al seconda guerra del Golfo si collochi l’attacco terroristico dell’11 settembre, non smentisce la tesi che si tratti di interventi strategici finalizzati a consolidare il ruolo egemonico degli Usa nella politica mondiale attraverso il controllo delle risorse energetiche. Tale incalzante successione introduce nel diritto internazionale la crisi dell’istituzione Onu e l’affermazione della dottrina imperialista del diritto umanitario e della «sovranità dilatata» che i paesi occidentali, Usa in primis, si attribuiscono violando il principio di autodeterminazione dei popoli. Una sorta di estensione a livello planetario del famoso emendamento Platt, col quale nel 1901 gli Stati Uniti sancivano la limitazione della sovranità cubana. Si tratta di azioni che hanno duramente colpito le popolazioni locali procurando morti, fame, miseria. Solo l’embargo contro l’Iraq ha procurato un così elevato numero di morti che Losurdo non esita ad appoggiare la tesi che si tratti di «un’arma di distruzione di massa», più violenta degli effetti provocati dalla bomba atomica in Giappone.

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