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Anche la svolta democratica che ha investito i rapporti internazionali risulta più problematica di come sembra. I cosiddetti paesi satellite, dopo aver riconquistato la sovranità violata e quindi essersi liberati dall’egemonia sovietica, sono stati inseriti nella «nuova Monroe» statunitense e occidentale su scala planetaria, con la quale l’Occidente ha proclamato nuovamente il suo primato. La svolta del 1989 sotto questo aspetto ha prodotto uno scenario reazionario, e quindi drammatici processi di de-emancipazione; sebbene il ritorno al progetto occidentale colonialistaimperialista incontri importanti limiti in alcune sacche geopolitiche di resistenza, nello sviluppo economico della Cina o nella ripersa degli ultimi anni della Russia e cioè nei suoi tentativi di ristabilire il controllo sul proprio patrimonio energetico e sulle proprie risorse.

E tuttavia proprio in Russia, a voler fare un bilancio tra effetti positivi e negativi seguenti al crollo, risulta purtroppo confermato il giudizio di Hobsbawm che riteneva sicuramente maggiori i secondi. Perché al di là dell’innegabile progresso che la svolta ha comportato in termini di conquista dei diritti civili e politici, drammatica è stata invece l’appropriazione privatistica e repentina delle risorse dello Stato da parte di una borghesia selvaggia che ha provocato una tragica polarizzazione sociale, altissima mortalità, abbandono dei bambini, prostituzione minorile e più in generale privazione dei diritti economici e sociali precedentemente goduti.

Anche in Occidente si assiste negli stessi anni della svolta, oltre al mutamento del quadro internazionale, a preoccupanti fenomeni di de-emancipazione che si ripercuotono anche nei paesi usciti dal comunismo e che fanno riemergere le condizioni della lotta di classe, proprio nel momento in cui la si vuole dare per morta. Le democrazie fondate sul suffragio universale si affermano sempre di più come plutocrazie e quindi sulla discriminazione fondata sulla ricchezza, a danno della competizione elettorale e di conseguenza di quelle ampie fasce della popolazione che non riescono ad esercitare alcun controllo sulle politiche sociali. Lo Stato sociale riceve un duro attacco dal neoliberalismo e trova sostegno teorico in economisti che hanno fatto scuola (Hayek, Friedman). La condizione dei lavoratori legati al mercato e delle donne peggiora, mentre la sfera pubblica democratica è minacciata dalla manipolazione politico-economica dei mass media. Se a ciò si aggiunge il ruolo attivo che nella crisi economica hanno svolto le politiche della deregolamentazione dell’economia, della circolazione dei capitali e dell’attività speculativa delle banche, insieme a quel fenomeno di interscambio tra politica, economia e organizzazioni internazionali noto come revolving doors, ne scaturiscono scenari che in verità mettono a dura prova le capacità di resistenza di un’intera civiltà (Gallino, Finanzcapitalismo).

 

Fine della grande divergenza e il caso Cina

Rispetto al ruolo propulsivo che la lotta di classe svolge nella progressione della storia, due grandi sfide ne determinano ancora l’attualità: l’eliminazione della diseguaglianza tra le nazioni, diseguaglianza conseguente all’espansionismo colonialista e militarista occidentale, e che Pomeranz definisce «grande divergenza»; l’eliminazione della diseguaglianza tra le classi, quella che anche Noah, alla luce delle conseguenze scatenate dalla nuova crisi, definisce «grande divergenza». Volendo comparare lo status di queste lotte e le loro problematiche interdipendenze, occorre riconoscere alla Cina, protagonista di una lotta dal duplice carattere nazionale e internazionale, un ruolo di grande propulsore globale.

Con la sua ascesa economica, grazie alle riforme economiche di Deng Xiaoping, essa ha contribuito alla fine della prima grande divergenza (diseguaglianza tra le nazioni), e quindi al predominio mondiale dell’Occidente o, per usare un’espressione più nota, alla fine dell’«epoca colombiana» (Mackinder). La politica di apertura al mercato, l’appropriazione delle tecnologie avanzate, la formazione all’estero dei futuri dirigenti e tecnici hanno consentito alla Cina di mettersi al passo con la ricchezza delle grandi nazioni occidentali.

Più controverso è lo scenario della seconda grande divergenza (diseguaglianze sociali), che contro tutte le aspettative in Occidente si accentua dopo la crisi del 2008 e in Cina permane. Mentre infatti l’Occidente capitalistico vede accentuarsi la divaricazione tra ricchi e poveri ed un’ineguale distribuzione della ricchezza, anche la Cina, protagonista della fine della prima grande divergenza, continua a distribuire la ricchezza in maniera diseguale. Ma agli occhi della teoria della lotta di classe le due diseguaglianze (occidentale e cinese) non sono uguali. Mentre la prima è una diseguaglianza regressiva che ci parla di un ritorno alla povertà che sembrava superato per sempre, con la conseguente erosione dei diritti sociali ed economici acquisiti. la diseguaglianza cinese è ancora il prodotto del programma ideologico e economico che impegna il socialismo a portare avanti il progetto di liberazione dal giogo coloniale e dalla miseria a cui la Cina era stata sottoposta a partire dalle guerre dell’oppio, e quindi a risolvere la questione sociale che da tale progetto dipende. È un processo sostenuto da un impegno ideologico e politico molto simile a quello che Lenin sostenne per giustificare la Nep. Esso parte dalla consapevolezza del fallimento economico del Grande balzo in avanti dell’epoca di Mao, ed è finalizzato a restituire al popolo cinese dignità e condizioni di benessere, riconoscimento di diritti economici e sociali attraverso lo sviluppo delle forze produttive, la parziale liberalizzazione del mercato, l’intreccio di industria pubblica e privata, il controllo statale e pubblico dell’economia. Un processo che, nonostante tutte le interne contraddizioni, ha gradualmente ridotto le differenze regionali: le metropoli più interne, lontane dalle più sviluppate aree costiere, cominciano a conoscere un’importante crescita economica e anche laddove le diseguaglianze nell’accesso alla ricchezza sono ancora gravi, sono introdotti innalzamento dei salari e protezione sociale. Sotto questo aspetto Losurdo afferma senza riserve che la Cina può essere annoverata tra le regioni del mondo che cerca di realizzare quella «libertà dal bisogno» che Roosevelt considerava una delle condizioni per la costruzione di un ordine mondiale fondato sulla pace tra i popoli, mentre l’Occidente, propagandando le sue ideologie antisociali proprio in concomitanza con la crescita delle diseguaglianze e della povertà, e con lo smantellamento dello Stato sociale, dimostra al contrario spregio per la libertà dal bisogno.

Alla luce dell’interconnessione tra le due grandi divergenze anche la situazione della lotta di classe in Cina appare problematica e dagli esiti incerti. Rispetto alla prima grande divergenza essa soffre di una duplice aggressione. Dell’aggressione economica degli Usa, che attraverso il ricatto dell’embargo tecnologico premono per l’apertura al mercato dei settori dell’industria controllati dallo Stato, con il rischio di compromettere le politiche di intervento statale in quelle regioni ancora deboli del paese. Dell’aggressione ideologica con la quale, a partire dal proprio universo normativo, l’Occidente demonizza la rivoluzione cinese e i suoi leader, misconoscendo lo sforzo straordinario che con Mao la Cina ha fatto per uscire dalla miseria generalizzata e disperata causata dall’attacco colonialista, gettando le basi economiche e culturali dello sviluppo successivo.

Per quanto riguarda invece la lotta di classe interna e quindi la sua connessione con la seconda grande divergenza, sebbene non se ne possano prevedere gli esiti, alcuni aspetti secondo Losurdo possono essere chiariti. In Cina è presente un dinamico movimento operaio che sembra aver maturato una coscienza di classe consapevole che i principali suoi antagonisti sono tanto i capitalisti occidentali, quanto il ceto politico dirigente. Quest’ultimo se ha tratto dalle riforme di mercato di Deng l’occasione per arricchirsi e aumentare il proprio potere attraverso la privatizzazione di risorse pubbliche, continua tuttavia a godere di un certo prestigio per il fatto di sostenere con coerenza la causa cinese dell’emancipazione. Di conseguenza la dialettica sociale che si esprime nelle lotte contro le diseguaglianze, per l’aumento dei salari e per migliori condizioni di lavoro non sono finalizzate al rovesciamento del regime, ma a politiche di compromesso che incentivino lo sviluppo dell’economia nazionale piegandolo ai bisogni locali. In una situazione politica che continua a condizionare fortemente il potere economico della borghesia locale, sia stimolandola a reinvestire una parte considerevole dei profitti nelle imprese o in interventi di carattere sociale, sia attraverso il controllo statale del credito e della ricchezza. Per queste sue caratteristiche, con la sua crescita economica la Cina rimane per Losurdo l’unica forza in grado sia di contrastare l’essenza dell’economia capitalistica che si esprime nella concentrazione e centralizzazione del capitale, nell’esclusione della maggior parte della popolazione mondiale all’accesso alla ricchezza, sia di favorire un cambiamento epocale nella divisione internazionale del lavoro, nel processo di ridistribuzione della ricchezza e di emancipazione planetaria.

La tesi sostenuta è molto forte, ma non c’è dubbio che sulle questioni sollevate sarebbe necessario aprire un serio e non pregiudizievole dibattito pubblico, dal momento che esse possono mettere in comunicazione anche universi teorici, sociologici ed economici diversi tra loro. Le ricerche di Giovanni Arrighi sull’economia cinese (Adam Smith a Pechino), tra l’altro molto presenti nel discorso di Losurdo, possono aiutare a capire da una prospettiva teorica diversa e sicuramente non marxista, il ruolo che la Cina può svolgere nelle dinamiche globali. Com’è noto, in questo discorso si sostiene che la realtà economica cinese rispecchierebbe più le teorie economiche e sociologiche di Adam Smith che non quelle di Marx. Non dello Smith frainteso quale teorico del capitalismo, dell’autoregolamentazione del mercato e dell’espansionismo illimitato del capitalismo, della divisione del lavoro e dello Stato minimo, ma al contrario il teorico della via naturale all’economia di mercato, dello Stato forte che deve fare del mercato uno strumento di governo capace di imporre ad esso regole finalizzate a proteggere l’ordine sociale e politico. Da qui i principi che i cambiamenti economici, per esempio la liberalizzazione del commercio, devono essere sempre introdotti gradualmente, devono incontrare il consenso della popolazione senza turbare la stabilità sociale; che il governo deve limitare il potere dei capitalisti, metterli in competizione subordinando i loro interessi a quelli della nazione, in modo da rendere i profitti tollerabili.

Un aspetto interessante della complessa ricostruzione geopolitica proposta da Arrighi è quello di comprendere la crescita cinese entro la propria esperienza storica ed entro il sistema di relazioni interstatali dell’Oriente asiatico, che non possono in alcun modo essere assimilate a quello dell’Occidente europeo e Nordamericano. Quest’ultimo è caratterizzato da uno sviluppo economico estroverso che ha inizio nel commercio globale (e non nell’accumulazione agricola), per poi estendersi all’industria e all’agricoltura; quindi da una continua competizione militare, da varie ondate di espansione geografica e guerre di conquista, dall’industrializzazione delle attività belliche; dal forte rapporto che tiene uniti borghesia capitalistica e potere dello Stato ad essa subordinato perché strumentale ai suoi interessi di classe. Se è questa combinazione di capitalismo, industrialismo, militarismo e espansione territoriale a caratterizzare la forza propulsiva della globalizzazione del sistema europeo e occidentale, niente di tutto questo si trova nel sistema delle relazioni interstatali dell’Oriente asiatico, privo di conflittualità belliche, tanto al suo interno, fatta eccezione per le guerre di frontiera tra il XVII e il XVIII secolo, quanto al suo esterno dove non troviamo la costruzione di imperi in concorrenza tra loro, né di conseguenza una corsa agli armamenti simile a quella occidentale. Prima della grande divergenza che con le guerre coloniali dell’oppio ha condotto la Cina a retrocedere tra i paesi più poveri del mondo, la politica economica cinese, se ci limitiamo ai secoli XVII e XVIII (dinastia Qing), si caratterizza quindi per quella via naturale alla ricchezza teorizzata da Smith che punta sul miglioramento dell’agricoltura, sulla bonifica e distribuzione della terra, sul rafforzamento e ampliamento del mercato interno. È finalizzata a migliorare le diseguaglianze geografiche dello sviluppo, in un contesto di consolidamento delle relazioni pacifiche e di fiducia con gli stati confinanti. Con l’interruzione di questa crescita seguita alle Guerre dell’oppio, l’incorporazione nel sistema capitalistico europeo e la conseguente ibridazione con esso, l’egemonia americana sul continente asiatico e l’ascesa giapponese, la Cina diventa per circa un secolo da centro del sistema interstatale dell’Oriente asiatico membro subordinato e periferico del sistema capitalistico globale, per poi ritornare con le politiche economiche di Deng ad essere il centro dell’economia asiatica.

Le caratteristiche di questa rinascita economica sono assai peculiari. Innanzi tutto, secondo Arrighi essa è molto lontana da quel Washington Consensus intorno al quale ruotano le teorie neoliberiste di espansione e deregolamentazione del mercato e di contenimento dell’intervento statale, a cui secondo un’errata propaganda la Cina si sarebbe adeguata. Al contrario si inserisce in un processo di sviluppo fondato sulla combinazione di tradizioni locali, tradizione rivoluzionaria socialista, alleanza con i capitalisti cinesi della diaspora, in cui il ruolo dei capitali straneri è marginale e comunque successivo. È avvenuta quindi in piena autonomia dalle logiche del neoliberalismo dominante dell’ultimo trentennio, secondo principi attinti dal proprio patrimonio storico, quali stabilità sociale, crescita di posti di lavoro, riutilizzo delle risorse, investimenti esteri funzionali all'interesse del paese, protezione del consumo interno, altissimo livello di istruzione, incentivi per i cinesi che studiano all'estero a ritornare in patria, decollo di nuovi settori industriali, costruzione di infrastrutture. A ciò vanno aggiunte una divisione del lavoro per aree di specializzazione e unità produttive, e non all’interno di esse; e uno sviluppo dell’economia di mercato che più che sulle privatizzazioni fa leva sulla competizione tra imprese pubbliche, imprese di proprietà delle comunità e imprese private, ma è in ogni caso finalizzato alla formazione del mercato interno e al miglioramento dell’economia agricola e delle condizioni di vita dei lavoratori. Un ruolo fondamentale in questo progetto hanno avuto le imprese rurali di municipalità e villaggio, favorite sia dal decentramento fiscale che dal sistema di valutazione dei quadri locali di partito, incentivati quindi a sostenere al meglio la crescita economica locale. Diventate poi proprietà collettive degli abitanti del municipio o del villaggio, tali imprese si sono affermate in un combinato di distribuzione delle terre, forme di lavoro industriale, investimenti finalizzati a migliorare le condizioni dei lavoratori e della vita nelle campagne e hanno quindi favorito alcuni importanti fenomeni: l’assorbimento di manodopera nell’agricoltura che ha evitato la migrazione di massa nelle aree urbane; l’aumento della concorrenza che ha spinto le imprese urbane a migliorarsi; la riduzione della pressione fiscale sui contadini che ha consolidato la stabilità sociale. L’obbligo del reinvestimento nelle imprese di parte dei loro profitti ha inoltre contribuito non solo a migliorare le condizioni dei lavoratori ma anche quelle della produzione, della specializzazione e della creazione di posti di lavoro. In questo senso la Cina presenta uno scenario di crescita economica in cui l’accumulazione industriale avviene senza l’espropriazione della terra e la separazione dei contadini dai mezzi di produzione, e in genere secondo caratteristiche estranee al capitalismo studiato da Marx.

Va inoltre rimarcato che i successi economici cinesi, nonostante provengano dalle riforme con le quali si intendeva chiudere l’epoca fallimentare del Grande Balzo e della Rivoluzione culturale, non sarebbero comunque stati possibili senza le conquiste sociali dell’epoca di Mao (riforme sulla proprietà della terra, creazione di infrastrutture per l’agricoltura e l’istruzione, assistenza medica). Essi rimangono fortemente dipendenti dall’ideologia rivoluzionaria del partito avanguardia che nel corso della sua storia ha privilegiato i contadini come propria base sociale, ne ha quindi assorbito valori e aspirazioni, e che per governare bene deve curare gli interessi del popolo. Questi fattori spiegano il ruolo che la tutela degli interessi dei contadini riveste nel percorso di crescita dell’economia cinese che caratterizza anche le riforme successive di Hu Jintao e Wen Jiabao, perché la modernizzazione cinese abbia puntato non alla distruzione ma al miglioramento economico, culturale e sociale dei contadini. Ma se la Rivoluzione culturale ha rafforzato le radici contadine della rivoluzione cinese e reso possibile gli sviluppi successivi, è però vero che la crescita economica della Cina matura anche attraverso il ripudio della Rivoluzione culturale, sia perché essa minacciava di distruggere le conquiste rivoluzionarie, sia perché aveva messo in discussione il potere e i privilegi della classe dirigente e combattuto contro l’imborghesimento dei quadri di partito e dei funzionari di Stato. Ne consegue una dialettica tra spinte alla modernizzazione e tradizione rivoluzionaria dagli esiti incerti, ma che a fronte delle diseguaglianze o dell’insuccesso di alcune riforme ci mostra un movimento operaio cinese spontaneo e dinamico, che porta avanti lotte nelle aree urbane e rurali contro la diseguaglianza, la corruzione dei funzionari di partito, la pressione fiscale, il degrado ambientale che hanno prodotto riforme per uno sviluppo più equilibrato tra zone rurali e urbane, maggiori diritti dei lavoratori, garanzie sociali. Questa forte combattività proviene dalla tradizione rivoluzionaria che a partire da Mao ha dotato gli strati subalterni di una forte coscienza di sé.

Le caratteristiche dell’economia cinese, nonostante tutte le contraddizioni, secondo Arrighi permettono di interpretare il suo decollo come sintomo della possibile costruzione di una società del mercato globale preconizzata da Adam Smith, caratterizzata da maggiore equità e rispetto tra i popoli. La crescente influenza esercitata nei paesi dell’Estremo Oriente attesta la crisi del dominio americano, seguita alla guerra fallimentare contro il terrorismo, e la nascita di un Beijing Consensus che potrebbe far convergere le nazioni del Sud del mondo verso un modello di sviluppo sensibile ai bisogni e alle specificità locali, caratterizzato da indipendenza e autonomia politica, cooperazione interstatale, rispetto delle differenze politiche.

Il futuro di questo progetto dipenderà certo sia dalla capacità che gli Stati interessati avranno di allearsi in una nuova Bandung finalizzata a contrastare e superare la subordinazione economica e politica; sia dal successo delle politiche americane che, per contenere o marginalizzare il ribaltamento in atto della gerarchia globale della ricchezza, dovranno ricorrere a strategie di cooptazione di alcuni stati del Sud.

Alla luce di questo discorso, diventa chiaro che la posta in gioco da parte dei paesi asiatici non è la sfida per il dominio o la lotta tra capitalismi. Ma è quella di conseguire il riscatto economico attraverso un modello di sviluppo che potrebbe dare origine a rapporti tra Nord e Sud del mondo più equilibrati, pacifici e sostenibili. Perché se il capitalismo occidentale, industriale, estroverso, espansionista-militarista deve il suo successo all’esclusione della maggior parte della popolazione mondiale dalla ricchezza, chiamata piuttosto a pagarne soprattutto i costi, la sfida della Cina (e dell’India) deve partire dalla consapevolezza che il modello americano di produzione e consumo, ad alta intensità di consumi energetici, non può essere adottato a livello planetario, né tanto meno dalla sola popolazione cinese. Di conseguenza, se di converso i benefici della crescita vogliono essere estesi alla maggioranza della popolazione mondiale occorre allora che il percorso di sviluppo occidentale converga su quello asiatico e non viceversa. Occorre insomma, conclude Arrighi, che la Cina si mostri strategicamente capace di non appiattirsi eccessivamente sul modello occidentale di sviluppo e quindi di saper consolidare il proprio.

Come si vede il dinamismo cinese, a prescindere dalla lente con la quale lo si voglia comprendere, ha indubbiamente avviato una nuova fase della storia globale e un nuovo processo di possibili interrelazioni geopolitiche. Che poi esso possa essere iscritto nella dialettica della lotta di classe, come propone Losurdo, è una tesi che ha il duplice vantaggio di essere coerente con la ricostruzione complessiva di questa storia e di essere supportata dallo scontro politico, diplomatico ed economico conseguente a tutti i tentativi di bloccare tale processo.

 

La frammentazione della lotta di classe: responsabilità culturali e politiche

La lotta di classe comprende, come abbiamo visto, molteplici lotte per il riconoscimento, sicché ogni contrapposizione tra paradigma redistributivo, lotta per il riscatto economico da parte del movimento operaio, e paradigma del riconoscimento è arbitraria sul piano teorico e fallace su quello della storia. Da questo punto di vista, molti fraintendimenti o rimozioni hanno caratterizzato la visione delle lotte del XX secolo. L’illusione che il progresso tecnologico possa eliminare la povertà, che quest’ultima quindi sia il prodotto della natura e non di scelte economiche e politiche, è una posizione che con Arendt rimuove dall’analisi storica con un’unica mossa, insieme alla lotta di classe, categorie come sfruttamento e plusvalore, senza distinguere la scienza-tecnologia dall’uso capitalistico di essa. Mentre è proprio quest’ultimo a sconfessare l’ottimismo della crescita economica e a confermare la precarietà dell’operaio, l’oscillazione dei salari, l’accentuarsi della ricchezza oligarchica. L’idea poi che con l’affermazione dello Stato sociale si sarebbe realizzata la presunta pacificazione del conflitto di classe, sostenuta da Habermas, riceve secondo Losurdo una duplice smentita storica. Perché lo Stato sociale si afferma solo in Europa, e non negli Usa, mentre nel contempo a livello planetario si avviano una serie di lotte anticoloniali, che sono lotte di classe, appoggiate dagli stessi sostenitori europei dello Stato sociale. Lungi in ogni caso da introdurre una pacificazione, il Welfare è a monte il risultato della lotta di classe, mentre a valle ne ha al contrario innescato un’altra, vale a dire la reazione della borghesia capitalistica e finanziaria contro il mondo del lavoro, grazie anche alle condizioni favorevoli che si sono create dopo la svolta dell’89.

Non v’è dubbio che la riflessione habermasiana sullo Stato sociale, e più in generale sulla sovranità politica e sull’ordine internazionale, soffra in maniera sorprendente di molte lacune storiche, in particolare di un’attenzione alle dinamiche economiche colonialiste e neocolonialiste. Dunque sotto quest’aspetto Losurdo coglie nel segno. Meno convincente, però, appare la critica che egli muove alla stessa idea di pacificazione, e quindi a ciò che essa, seppur provvisoriamente, ha rappresentato in termini di compromesso tra le classi, di addomesticamento democratico e di incivilimento del capitalismo. Se consideriamo che il modello sociale europeo, pur nelle sue differenze geografiche, non ha rivali che possano eguagliarlo. Per Losurdo, infatti, quella che Habermas interpreta come pacificazione è in verità una sconfitta politica, non molto diversa da quella che Marx denunciava nell’Indirizzo inaugurale a proposito della situazione della classe operaia in Inghilterra nel 1864, nei termini di una «capitolazione nei confronti della classe dominante» e di una riconciliazione della classe operaia «con la sua nullità politica». Ma una lettura così selettiva appare contraria all’universalismo democratico-egualitario che attraverso la conquista politica dello Stato sociale riesce a dare forma e concretezza ai principi di eguaglianza sociale e solidarietà a cui si richiamano le costituzioni europee; sicché neanche l’attacco che sta subendo può inficiare il percorso storico che la prassi socialista europea ha contribuito politicamente a realizzare.

D’altra parte, Losurdo trascura l’analisi tutt’altro che conciliativa circa gli effetti prodotti dallo Stato sociale che per Habermas sono direttamente collegati alla spoliticizzazione delle masse. Innanzi tutto è chiara la consapevolezza che mentre compensa con politiche sociali gli squilibri prodotti dal mercato, lo Stato sociale non modifica la struttura e il meccanismo del sistema capitalistico (la distribuzione della proprietà dei mezzi di produzione) generatore di quelle disuguaglianze che esso è chiamato a compensare. In secondo luogo, molto chiare sono le dinamiche paternalistiche che esso innesca per attutire il conflitto sociale: il peso del lavoro alienato viene normalizzato, sia perché reso tollerabile con risarcimenti e garanzie giuridiche, sia perché scaricato su quello del consumatore; mentre il ruolo del cliente che usufruisce dei benefici dello Stato sociale viene «ipertrofizzato» a scapito del ruolo del cittadino. Lavoro alienato e spoliticizzazione vengono messi a tacere proprio grazie ai risarcimenti di consumatori e clienti. Insomma una visione non proprio idilliaca dello stato di cose.

Ora però, a partire da questa consapevolezza, il paradosso in cui persiste il rapporto tra capitalismo e diritti sociali in Europa, mutatis mutandis non sarebbe molto diverso da quello che persiste nella Cina socialista, dove al paternalismo liberale dello Stato sociale ora in crisi, si sostituisce il paternalismo oligarchico della classe dirigente al potere, che farebbe crescere le politiche sociali. Mentre in Europa lo Stato sociale non scalfisce il paradigma liberista capitalisticoindustriale che infatti resiste alle influenze sociali, a scapito dell’autonomia politica dei cittadini che se lo vedono gradualmente sottrarre; in Cina il capitalismo è fronteggiato attraverso un addomesticamento socialista che non cambia la sostanza del problema riguardo ai costi che i cittadini pagano in termini di accesso alle libertà fondamentali e di godimento dei diritti politici. In entrambi i casi, la prova storica della possibilità di controllare il capitalismo, anche un capitalismo di Stato, rimane vincolata a concreti diritti di partecipazione politica, che prima o poi dovranno essere riconosciuti anche in Cina. Tali diritti rappresentano il grimaldello per eventualmente approdare ad una democrazia più socialista o a un socialismo più democratico.

Diversa e per certi versi più pertinente è invece la critica che Losurdo muove alla separazione tra i due paradigmi, ridistributivo e riconoscitivo, alla conseguente idea che riduce la lotta di classe a lotta per il salario contro le ingiustizie socio-economiche, sicché con il crollo del comunismo le lotte per la giustizia sociale avrebbero abbandonato tale paradigma a favore di quello del riconoscimento, più adatto a rappresentare le rivendicazione dei diritti delle donne, dei neri, delle minoranze (Fraser). Qui la lettura binaria ha forse causato più danni di quelli che si proponeva di risolvere, perché ha rimosso dalle lotte per il riconoscimento le motivazioni economiche, iscrivendole entro letture eticizzanti e registri normativi liberal-democratici spesso sbilanciati sulle differenze di genere, culturali e identitarie.

La separazione del paradigma redistributivo da quello del riconoscimento non può essere certo solo un fenomeno intellettuale, bensì è il sintomo teorico di una frammentazione che la lotta di classe ha già subito sul piano storico. La lotta di classe c’è, ma i diversi soggetti e le diverse forme di lotta si trovano pressati da una frantumazione che impedisce alle varie forze, come accade in momenti epici della storia (Lenin, Mao), di coagularsi in un grande movimento emancipatore. I motivi sono molti. L’interesse delle classi dominanti a rompere i vari fronti delle lotte, e quindi a strumentalizzare la lotta in senso reazionario, può per esempio spezzare il rapporto tra condizione operaia e anticolonialismo, quando si mascherano le nuove politiche coloniali sotto la bandiera dei diritti umani che il popolo aggredito violerebbe e che occorre ripristinare in spregio della sovranità nazionale (imperialismo dei diritti umani). La divisione può avvenire anche tra movimento operaio e movimento femminile, oppure tra quest’ultimo e movimento anticolonialista.

La frammentazione più evidente della scena contemporanea è quella tra lotta anticapitalista delle metropoli e lotta delle ex colonie contro il nuovo colonialismo seguito alla svolta dell’89. Il destino toccato alla maggior parte delle ex colonie è quello di aver perso la lotta economica, dopo aver conquistato l’indipendenza politica. Quello che è accaduto ai neri americani, che dopo l’abolizione della schiavitù non riescono a consolidare l’emancipazione attraverso il possesso della terra, venendo condannati alla lunga emarginazione economica e alla subalternità sociale, o quanto è accaduto alla Repubblica di Haiti, esito di una lotta contro il sistema schiavistico che libera un intero popolo trasformandosi in lotta nazionale e poi anticoloniale, che però non fu in grado di conservare la propria autonomia economica, si ripete nei paesi che si sono liberati politicamente dal colonialismo, ma continuano a subire «l’aggressione e annessione economica» del neocolonialismo americano. La sfida ancora aperta di questi popoli è quindi quella «di conferire concretezza economica all’indipendenza politica faticosamente conquistata», oppure ancora più indietro di passare dalla fase militare a quella economica della rivoluzione. E questa è ancora una lotta di classe in cui ricompare il duplice nesso che lega la questione sociale (fine delle diseguaglianze interne) sia alla questione nazionale (lotta per l’indipendenza politica e economica) che a quella internazionale (fine delle diseguaglianze tra le nazioni). Il termine medio che accomuna queste lotte è ancora una volta la divisione internazionale del lavoro ed è ancora una volta, come da Marx, Lenin, Mao evidenziato nei momenti di maggiore consapevolezza, lotta per l’affermazione dello sviluppo delle forze produttive e per l’uscita dalla miseria, quindi lotta nazionale. La connessione che in determinate situazioni storiche esiste tra questione nazionale e lotta di classe può anche scandalizzare l’intellettuale di cultura marxista che in essa denuncia la rinuncia alla lotta contro i rapporti capitalistici di produzione (Žižek), ma si tratta anche in questo caso di letture semplicistiche che non fanno i conti con le contaminazioni concrete che le categorie della storia subiscono nel corso delle lotte politiche e sociali.

Di conseguenza, se la lotta di classe non supera la sua frammentazione e non riesce a produrre un nuovo processo storico, nonostante l’acutizzarsi delle diseguaglianze a partire dalla crisi iniziata nel 2008 e la reazione imperialistica dell’Occidente rispetto alla crescita economica dei paesi asiatici, ciò dipende anche dal debole e carente sguardo analitico sulle dinamiche storiche e sociali che accompagna i sentimenti di protesta. E qui Losurdo chiama in causa le diverse forme di populismo di sinistra, espresse con particolare enfasi da Simone Weil nella sua versione moralistica del conflitto che vede contrapposti tutti coloro che sono oppressi (ricchi, potenti) a tutti gli oppressori (poveri, impotenti). Una visione che dipende da quella lettura binaria già confutata, ma che ha la colpa di non comprendere ancora una volta il nesso tra lotta contro la borghesia capitalistica e lotta contro il colonialismo, quindi le lotte di liberazione contro l’imperialismo tedesco e quello giapponese che intanto si manifestavano ai tempi di Weil, e che oggi si manifestano contro l’imperialismo americano e occidentale.

Il populismo conosce molte varianti. Nella sua variante luddistica, si esprime nella condanna senza appello dell’industria moderna, e della scienza-tecnologia che la sostiene, senza proporne una critica dell’uso capitalistico e quindi ignorando il bisogno che un paese esige di crescere in termini di produttività e ricchezza per porre fine alle due grandi divergenze. Nella sua critica alla modernizzazione e alla ricchezza esso rischia di assumere una funzione conservatrice e strumentale che blocca la protesta delle classi subalterne inducendole all’appagamento della loro condizione di indigenza e penuria economica trasfigurate in ricchezza di spirito e felicità primordiale. Funzione conservatrice di accettazione della subalternità a cui rinvia anche la variante essenzialista del populismo, che trasfigura il passato e idealizza le vittime della lotta (popoli, operai, poveri, donne) presentandole come esempi di eccellenza morale. In tutte le sue forme il populismo è smentito dalla storia, mentre la sua diffusione ostacola la ricomposizione dell’unità della lotta di classe, distoglie dalle vere cause dello sfruttamento che vanno rintracciate nella divisione del lavoro, finisce per relegare la lotta di classe nell’anacronismo.

A partire da qui il j'accuse di Losurdo procede ad una critica serrata che ripete lo stesso adagio rivolto a tutti quegli intellettuali (Castoriadis, Hard e Negri, Žižek) che fermandosi ad una lettura binaria e quindi non marxiana del conflitto di classe, offrono letture incapaci di interpretare la storia del Novecento o di fornirne una versione troppo selettiva (Harvey). Letture che cedono il passo a categorie indistinte e indeterminate, come la lotta tra una moltitudine globalizzata che si contrapporrebbe a una borghesia altrettanto unificata a livello planetario. Letture che trascurano la globalità dei processi storici dove accanto alle lotte sociali, alle lotte di fabbrica, agli scioperi, la lotta di classe riesce a realizzare eventi di portata macrostorica come la Rivoluzione cinese che, ancora coinvolta in una lotta di liberazione internazionale, ha intrapreso un cammino di riscatto economico che non può in alcun modo essere assimilato all’assimilazione di politiche neoliberiste (Harvey). Oppure letture che enfatizzando, sotto la spinta di una sorta di foucoultismo populista, il nesso potere-dominio e la contraddizione masse-potere, finiscono per idealizzare le masse, e per ignorare il ruolo progressivo svolto in determinati momenti storici dalle lotte di liberazione nazionale e coloniale, per realizzare le quali esse hanno dovuto conquistare il potere e conservarlo anche a costo di tralasciare le altre contraddizioni sociali.

La crisi scoppiata nel 2008 è la prova storica di un conflitto di classe oggettivamente presente nella storia, ma che ancora non riesce a superare la frammentazione, sia perché quest’ultima è fortemente condizionata dalla stessa borghesia capitalistica, sia perché non ci sono partiti di sinistra in grado di proporre una visione globale delle contraddizioni e quindi di organizzare i movimenti di protesta.

Potremmo aggiungere che negli ultimi vent’anni anche quando l’orizzonte politico si sia limitato ai problemi della popolazione europea, i partiti di sinistra hanno assorbito l’ideologia neoliberista appoggiando politiche di progressivo svuotamento del Welfare, hanno giustificato tali scelte con lo spauracchio del debito pubblico causato dai costi di un livello sociale di benessere troppo oneroso per gli Stati. Con la connivenza dei mass media hanno costruito un consenso ad arte intorno a questo progetto, presentando gli effetti della crisi come sue cause: le politiche di erosione del Welfare e della precarizzazione del lavoro, quali effetti della crisi del capitalismo, vengono sponsorizzate come suo rimedio: le troppo famose politiche dell’austerità. Fin qui niente di nuovo sotto il sole dialettico della critica dell’ideologia. Ma a volerla seguire fino in fondo, la critica dell’ideologia ci mette di fronte alla realtà di un sistema economico, per dirla con Marx, personificato, se è vero che le persone sono anche il prodotto dei rapporti sociali di produzione del sistema sociale dominante. Sicché questo sistema può diventare culturalmente pervasivo proprio in quelle realtà istituzionali che dovrebbero combatterlo o resistervi (famiglia, istruzione, sanità, partiti, sfera pubblica), realtà colonizzate dal modello dell’impresa, dall’agire strumentale e dalla razionalità funzionale, secondo una logica che mina nelle fondamenta l’integrazione sociale e le fonti della solidarietà. (Cfr. Gallino, Il colpo di stato di banche e governi, La lotta di classe). Questo per dire che la frammentazione della lotta di classe, le timide reazioni di coloro che sono colpiti dagli attacchi del capitalismo e l’inedia della sinistra europea possono ricevere una spiegazione anche dalla possibilità che la colonizzazione abbia già prodotto forme di interiorizzazione del modello dominante

Succede, tuttavia, che la lotta di classe combatta anche contro la falsa coscienza. Le condizioni storico-oggettive che le impongono di assumere diverse forme e conflittualità, di diramarsi in diverse interconnessioni, di coinvolgere diversi soggetti storici, dimostra che anche nelle fasi di sconfitta essa ha saputo trasformarsi in nuovi processi di liberazione ed emancipazione.

Il movimento di Occupy Wall Street, secondo Losurdo, ha forse avviato un nuovo percorso di consapevolezza dell’intreccio tra le diverse contraddizioni generate dal capitalismo, tra capitalismo, neocolonialismo e guerra. Comincia sotto questo aspetto a diventare più chiaro che la manipolazione massmediatica condotta dall’Occidente è legata alle contraddizioni del capitalismo e alle lotte di classe che esso genera. La consapevolezza dell’intreccio delle diverse forme di lotta di classe è forse più evidente nelle metropoli dove cresce il conflitto sociale tra coloro che soffrono le conseguenze della crisi economica, in termini di impoverimento, perdita di garanzie sociali, emarginazione e coloro che migrano dai paesi più poveri del mondo in cerca di un riscatto economico e sociale. Interagiscono qui le due grandi divergenze: quella internazionale, imposta dal capitalismo, dal necolonialismo e dalle sue guerre che impedendo lo sviluppo economico, producendo diseguaglianza tra le nazioni, spinge i popoli a processi forzati di migrazione; quella nazionale che vede all’interno della popolazione crescere la polarizzazione economico-sociale. È chiaro che la possibilità di unire i fronti in una lotta comune contro le diseguaglianze generate dal capitalismo dipenderà dalla maggiore consapevolezza da parte di chi le subisce sia del nesso che esiste tra le due grandi divergenze, sia delle modalità con le quali le classi dominanti tendono a rimuoverlo.

Rispetto alle analisi che circolano sulla lotta di classe, il libro di Losurdo ha il grande merito di cogliere lo scenario di interconnessione globale nel quale essa è inserita, entro il quale i movimenti di protesta potrebbero muoversi e a partire dal quale i partiti di sinistra dovrebbero riappropriarsi dello spazio politico. È un libro che ricostruisce uno spaccato storico sul quale si fondano anche le conquiste della modernità e del suo progetto di emancipazione, e sorprende che proprio la sinistra europea vi abbia abdicato facendosi travolgere dal crollo del comunismo sovietico, senza reagire e provare a riconnettersi a quel progetto con spinte nuove, ma al contrario rendendosi complice del passaggio allo svuotamento della democrazia, della partecipazione politica e della dialettica democratica che si nutrono della conflittualità, degli antagonismi e delle lotte. Questo libro di Losurdo, allora, rappresenta l’occasione per un radicale ripensamento a cui la sinistra è chiamata se vuole ripristinare il proprio legame con la trasformazione del reale e con i soggetti sociali che in maniera consapevole, organizzata e solidale possano assecondarla.

Ma è forse anche spunto per un’ulteriore puntualizzazione. Se la storia della lotta di classe e delle rivoluzioni, se la storia nel suo complesso è un grande processo di apprendimento, allora la questione a dir poco speciosa se Marx avesse torto circa la capacità di reazione della classe antagonista è alla luce di tutto questo discorso, quanto meno mal posta e invece alquanto istruttiva. Se la decolonizzazione avvenuta nel Novecento e quindi la liberazione dei popoli colonizzati dai rispettivi popoli oppressori fosse stato il risultato del principio dell’autodeterminazione dei popoli sancito dalla Carta delle Nazioni Unite, ma in verità proclamato un secolo e mezzo prima dalla Rivoluzione francese, avremmo assistito alla ritirata pacifica delle potenze coloniali e avremmo potuto iscrivere tali eventi all’interno di un processo di apprendimento che tende gradualmente a universalizzare i diritti dell’eguali libertà di popoli e persone. Sappiamo che le cose non sono andate così, e sarebbe stato abbastanza arduo per l’Occidente liberarsi della contraddizione permanente che ha caratterizzato gran parte della sua storia più o meno progressiva -la fruizione dei diritti civili e politici ristretta alla classe di volta in volta dominante e la conseguente discriminazione fondata sul censo, la religione, il sesso, la razza -, dopo aver inaugurato il suo incontro con il diverso (a partire dalla sterminio degli indios) e averlo condizionato per più di tre secoli nella forma definita da Todorov della civiltà del massacro (dalla schiavitù dei neri alla brutalità delle colonizzazioni in tutte le sue forme note e meno note). La contemporaneità di eventi tra loro contraddittori dimostra che su molti avanzamenti il processo di apprendimento ha subito un vera e propria accelerazione grazie alle forze antagoniste. E che perciò, come sostiene Jaffe, decolonizzazione e antimperialismo sono il portato della lotta di classe, ma non sono processi conclusi. Dimostra inoltre che senza la forza antagonista del movimento operaio e socialista mondiale, l’Occidente non avrebbe potuto partorire il modello sociale europeo, l’emancipazione delle donne e dei neri e in genere una matura e piena democrazia (obiettivi di liberazione alla realizzazione dei quali le forze liberal-democratiche hanno pur sempre contribuito, ma non certo motu proprio).

E tuttavia, proprio in ragione dell’essere anche il portato del principio del riconoscimento universale, il fatto storico che la lotta di classe sia concentrata nel superamento delle due grandi divergenze, non dovrebbe impedire una seria riflessione intorno a quel principio di autodeterminazione dei popoli, che da una parte non può essere ristretto all’aspetto esterno dell’autonomia di uno Stato e al suo diritto di sottrarsi all’egemonia coloniale o semicoloniale, mentre dall’altra deve estendersi al riconoscimento interno del popolo nella sua libertà e autonomia politica (come sancito ormai da una pluralità di Carte). Eguaglianza delle nazioni ed eguaglianza dei popoli sono principi universali anche perché riflessivi, nel senso che implicano l’eguaglianza delle persone, nelle libertà e nei diritti in tutta la loro estensione. Tra le nuove forme che la lotta di classe dovrà assumere c’è la sfida a portare avanti questo progetto, sia dove la democrazia è istituzionalizzata, ma in crisi di legittimazione, sia dove essa ancora non lo è.

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Riferimenti bibliografici
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